ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Qualità ed efficienza della giurisdizione di Luca Verzelloni
Intervento al 35° congresso nazionale ANM, Roma, 15 ottobre 2022
Buongiorno a tutte e tutti, per prima cosa, vi ringrazio molto per l’invito.
I miei sono ringraziamenti particolarmente sentiti per due ragioni, tra loro collegate: da un lato, sono l’unico relatore non giurista – sono, infatti, un sociologo delle organizzazioni – e, dall’altro, questo congresso rappresenta per chi – come me – da diversi anni cerca di studiare il “vostro mondo” con un approccio empirico, un’occasione di ricerca e di apprendimento davvero preziosa, per indagare le logiche di funzionamento della Giustizia italiana.
Una volta un vostro collega, un magistrato portoghese – José Igreja Matos – che da circa un anno presiede l’Associazione mondiale dei giudici (IAJ), mi ha raccontato che, sulla base della sua lunga esperienza in convegni e corsi di formazione in giro per il mondo, vi sono tre modi efficaci per aprire una relazione: presentare dei dati statistici – dei numeri accattivanti; creare scandalo, ossia riferire qualcosa che turbi la platea; e, infine, raccontare una storia, un aneddoto, un racconto, preferibilmente vissuto in prima persona.
Ecco, se me lo permettete, io vorrei servirmi di questa terza strategia, ossia raccontarvi una breve storia vissuta personalmente. La storia risale a quasi vent’anni fa: una delle mie prime esperienze di ricerca all’interno di un Tribunale, nel luglio 2004.
Al tempo, stavo svolgendo una serie di interviste ad alcuni magistrati e cancellieri sull’organizzazione di una sezione, in vista dell’imminente entrata in vigore del Processo Civile Telematico – in quel momento nessuno sapeva che non sarebbe stata così imminente, ma questa è un'altra storia.
Nel corso di questi colloqui, un vostro collega mi rispose candidamente: “qui l’organizzazione non esiste, sta perdendo il suo tempo!… E poi a me non interessa occuparmi di queste cose; mi occupo di organizzazione solo quando mi dà dei problemi!”.
Qual era la conclusione di questo primo lavoro di ricerca “sul campo”[1]?
Citando la famosa metafora introdotta dal compianto Prof. Stefano Zan[2], questo ufficio giudiziario poteva essere paragonato a un “condominio”, al cui interno esercitavano le loro funzioni, in parallelo, tanti professionisti-monadi, senza alcuna forma di interdipendenza.
Quelli erano gli anni in cui andava di moda il concetto di “auto-organizzazione del giudice” – una sorta di contraddizione in termini per noi studiosi di organizzazione.
Erano gli anni in cui se in un convegno si parlava di organizzazione – come è successo diverse volte al sottoscritto – si veniva additati come aziendalisti o, nella peggiore delle ipotesi, come sovversivi, che rimettevano in discussione l’indipendenza del giudice, tutelata dalla Costituzione italiana.
Sono passati quasi vent’anni e fortunatamente – se me lo permettete – questi discorsi sono stati abbandonati. Nel corso del tempo, infatti, si è diffusa una nuova consapevolezza: la centralità della “questione organizzativa” per il funzionamento degli uffici giudiziari.
Si potrebbe discutere a lungo sui fattori endogeni ed esogeni che hanno favorito questa trasformazione, ma – studiandovi dall’esterno – è un fatto che la magistratura italiana abbia compiuto dei passi da gigante, specialmente in ottica comparativa, sia in termini di consapevolezza sia di diffusione, in tutto il sistema, di competenze organizzative e manageriali.
Forse a voi potrebbe sembrare scontato, ma se oggi siamo qui a parlare di qualità ed efficienza della giurisdizione, di gestione delle risorse umane e di risultati attesi è proprio perché nel corso del tempo è emersa l’idea di giurisdizione come organizzazione complessa – principio riconosciuto, fra l’altro, anche dall’art. 26-bis del D.lgs. 26/2006, che ha portato alla nascita dei corsi per aspiranti dirigenti della Scuola Superiore della Magistratura, nonché dalla normativa secondaria, ormai consolidata, in materia di organizzazione, che è stata adottata negli ultimi anni dal Consiglio Superiore della Magistratura.
Per non sottrarmi al compito che mi è stato affidato dai coordinatori della sessione, in questa mia relazione vorrei presentare una serie di considerazioni sul funzionamento e sulla governance della Giustizia italiana, che si basano sui risultati di diverse ricerche empiriche, condotte negli ultimi anni sia in Italia sia in altri paesi europei, soprattutto del Sud Europa. Queste riflessioni verranno sviluppate a partire da tre domande generali, che intendo porre – idealmente – ai partecipanti alle due successive tavole rotonde, nonché a tutti i presenti, per stimolare il dibattito:
1. È possibile conciliare qualità ed efficienza della giurisdizione?
2. Sulla base di quali criteri possiamo definire la qualità del “servizio Giustizia”?
3. L’innovazione organizzativa nella Giustizia è sempre qualcosa di auspicabile?
Visto il poco tempo a mia disposizione, le mie considerazioni saranno, inevitabilmente “per flash” e faranno riferimento, a seconda dei casi:
- al livello micro, i singoli magistrati;
- al livello meso, gli uffici giudiziari e le loro articolazioni interne;
- al livello macro, ossia il “Sistema Giustizia”, inteso nel suo insieme.
Partiamo dalla prima domanda generale: è possibile conciliare qualità ed efficienza della giurisdizione?
Ecco, io credo che, in questo preciso momento storico, soprattutto alla luce degli obiettivi del PNRR, questa sia davvero un interrogativo cruciale, che dobbiamo porci – così come ricordato ieri, nella sua relazione introduttiva, anche dal Presidente Giuseppe Santalucia.
Non ho, ovviamente, la presunzione di dare una risposta a questa domanda, ma voglio sottolineare alcune dinamiche, che si stanno manifestando sia nel nostro paese sia a livello internazionale.
Come messo in luce da una parte pioneristica della letteratura, negli ultimi vent’anni si è diffusa e progressivamente affermata una concezione di “qualità della Giustizia” orientata al risultato. Tutto ciò ha portato a un cambiamento del paradigma dominante: dal paradigma della rule of law, fondato sulle garanzie di indipendenza e sulle regole a tutela del giusto processo, al paradigma manageriale, incentrato sulle performance degli apparati giudiziari e sulla loro capacità di fornire una risposta adeguata, entro un tempo ragionevole, alla domanda di Giustizia proveniente dai cittadini[3].
È indubbio che questi processi abbiano dato un contributo fondamentale al cambiamento del modo stesso di intendere la governance della Giustizia, che ha reso la stessa sia più efficiente sia più responsabile nei confronti dei cittadini e della società[4].
Ma, al contempo – come messo in luce, tra gli altri, da un attento osservatore, come Antoine Garapon[5] – questi stessi processi stanno facendo emergere alcune dinamiche che, se non adeguatamente governate, rischiano di produrre delle distorsioni anche molto gravi, soprattutto in termini di legittimazione sociale dei magistrati e della Giustizia, nel suo insieme.
Il fatto che oggi – attenzione, non solo in Italia; queste sono dinamiche globali – i magistrati utilizzino sempre più spesso espressioni come “fare statistica”, “svuotare gli armadi” e “smaltire l’arretrato” – come fosse spazzatura – è significativo di un progressivo spostamento dell’attenzione dalla qualità alla quantità del “prodotto Giustizia”.
Se questa retorica non cambia, rischiamo di doverci chiedere – paradossalmente – se a un magistrato o a una magistrata convenga, in termini di carriera, smaltire più casi possibili o, viceversa, costruire decisioni in modo accurato, secondo scienza e coscienza. Si tratta, ovviamente, di un’aberrazione.
Come possiamo tentare di uscire da questo “cortocircuito”, soprattutto nel breve periodo, ovvero con gli attuali vuoti d’organico – in alcune realtà assolutamente patologici – e con la necessità impellente di raggiungere gli obiettivi posti dal PNRR?
Premetto che sono da sempre, fin dalla prima ora, contrario all’idea di definire dei “carichi esigibili”, validi su tutto il territorio nazionale – che mi riporta alla mente l’immagine di una penna che cade al raggiungimento di un certo numero di casi o di una sirena che suona a fine turno. Questa misura non necessariamente aumenterebbe la qualità della Giustizia e rischierebbe di produrre altre, diverse, ma non meno pericolose, aberrazioni[6].
A mio avviso, queste dinamiche possono essere limitate attraverso l’azione contestuale di tre “leve”, collegate tra loro:
- la prima leva riguarda il ruolo dei magistrati con funzioni direttive e semidirettive. Siamo tutti diversi: qualcuno è più produttivo di altri. Eppure, a mio avviso, fra i compiti del capo ufficio – ma anche del semidirettivo – dovrebbe esserci quello di comprendere le ragioni che spiegano eventuali picchi – tanto in negativo, quanto in positivo – nella produttività dei singoli magistrati. Questa attività di ricognizione di eventuali anomalie è cruciale per poter definire degli obiettivi credibili e, al contempo, valutare il raggiungimento dei risultati attesi dell’ufficio;
- la seconda leva riguarda il ruolo della comunità professionale. So che richiamo una questione conflittuale, aperta da decenni – non solo in Italia – ma siete voi, solo voi, che potete decidere sulla base di quali standard valutare la qualità di un atto decisorio di un magistrato o, più in generale, la qualità professionale dello stesso. E siete altresì voi che potete rilevare e, nel caso, sanzionare eventuali condotte deontologicamente discutibili. Molto è stato fatto, ma, a mio parere, molto resta ancora da fare;
- infine, è possibile individuare una terza leva: quella che noi studiosi delle organizzazioni, chiamiamo governo delle interdipendenze – il grado in cui le parti di una relazione organizzativa dipendono le une dalle altre per svolgere il loro compito – ossia le interazioni organizzative tra gli uffici giudiziari, ai diversi livelli di governance: Tribunali e Corti d’appello, Tribunali e Procure, Procure e Procure generali, Corti d’appello e Cassazione, ecc.
A mio avviso, per poter fare un ulteriore salto di qualità e incidere, in tal modo, su alcune sacche di inefficienza tuttora esistenti, occorre abbandonare una visione incentrata sui singoli uffici, per ragionare, invece – se mi permettere l’uso di un termine organizzativo – in “ottica di filiera”. Se ci concentriamo sul singolo ufficio, infatti, rischiamo di non riuscire a cogliere alcune dinamiche. Il punto di osservazione fa la differenza.
Per questioni di tempo, posso fare solo alcuni esempi – fra i tanti possibili:
- Procure della Repubblica ultra produttive che – senza volerlo – finiscono per inceppare e rallentare l’attività dei Tribunali;
- Tribunali che non conoscono il destino dei fascicoli che vengono impugnati in appello, né se esistano o meno dei filoni di contenzioso con un tasso di conferma molto basso o, viceversa, molto alto;
- fascicoli che rimangono fermi per diverso tempo tra un ufficio e l’altro, in una sorta di limbo, di “terra di nessuno”, con una serie di conseguenze processuali, ma soprattutto sulla vita delle persone che aspettano una risposta alla loro “domanda di Giustizia”.
In che modo questo discorso si collega a quello sulla qualità della Giustizia?
Governare le interdipendenze significa lavorare meglio, evitare perdite di tempo e diseconomie, ma significa anche, per esempio, avere una serie di informazioni per la governance del sistema, inteso nel suo complesso.
Concentrandomi sui rapporti tra Tribunali e Corti d’appello, per esempio, conoscendo nel dettaglio, in maniera sempre più accurata, il tasso di impugnazione e di eventuale riforma su singole materie, rispetto al Tribunale di provenienza del fascicolo, si potrebbe disincentivare l’avvio di procedimenti che si basano su orientamenti consolidati nel tempo.
Allo stesso tempo, il singolo giudice potrebbe fare delle scelte di case management, ovvero decidere su quali casi dedicare maggiore tempo ed energie – in quanto su questioni controverse, dove non vige un orientamento consolidato – e quali, invece, per esempio, affidare all’analisi preliminare di un addetto all’ufficio per il processo oppure di un tirocinante – qualora presente nell’ufficio.
I vantaggi di un governo responsabile delle interdipendenze potrebbero essere molteplici e, soprattutto, non richiederebbero interventi normativi oppure ordinamentali, ma delle strutture di interconnessione tra uffici giudiziari, per esempio, nell’ambito di un ipotetico staff del presidente, composto anche da addetti all’UPP con competenze statistiche e organizzative.
Seconda domanda, cui dedicherò meno tempo della precedente, anche se altrettanto importante: sulla base di quali criteri possiamo definire la qualità del “servizio Giustizia”?
A differenza di quanto avviene con riferimento all’efficienza, il dibattito su questi temi non è ancora riuscito a definire in modo chiaro sulla base di quali criteri possiamo stabilire se il “servizio Giustizia” sia erogato o meno secondo certi standard di qualità, riconoscibili e comparabili. Si parla molto di qualità e soprattutto – come detto – di quantità di atti decisori del magistrati, ma poco di qualità del servizio, così come percepita dai cittadini.
Anche in questo caso, molto è stato fatto, ma vedo ampi margini di miglioramento, anche attraverso il coinvolgimento e la responsabilizzazione di diversi attori istituzionali, sia a livello centrale sia locale: in primo luogo, l’avvocatura associata, ma anche le università, gli enti locali, la forze di polizia giudiziaria, gli altri enti pubblici, ecc.
Ma anche degli stessi cittadini, per rilevare sia il grado di fiducia sia di soddisfazione nei confronti del servizio, attraverso strumenti quali survey ripetute a cadenza regolare, indagini di customer satisfaction, focus group, interviste in profondità, ecc.[7].
A mio avviso, per comprendere le logiche di funzionamento del “Sistema Giustizia” – inteso in senso complessivo – e, di conseguenza, poter migliorare la qualità del servizio erogato ai cittadini, occorre allargare il focus oltre la “macchina statale” e le sue articolazioni.
Occorre interrogarsi sull’origine dei conflitti che, non trovando altre forme di risoluzione nella società, arrivano nelle aule di Giustizia.
Se mi permettete l’uso di una metafora, a mio avviso, dobbiamo interrogarci sulle cause di quest’onda, non aspettare che le frustrazioni delle persone si abbattano, come uno tsunami, sugli uffici giudiziari – che non saranno mai, per definizione, incapaci di arginarlo da soli.
È un cambiamento di prospettiva che, a mio avviso, occorre realizzare.
La terza e ultima domanda aperta di questa mia relazione è: l’innovazione organizzativa nella Giustizia è sempre qualcosa di auspicabile?
A dispetto dell'opinione diffusa tra i cittadini, negli ultimi vent’anni, numerosi uffici giudiziari italiani si sono trasformati in vere e proprie “arene d'innovazione”, dove sono stati progettati e implementati una pluralità di interventi “dal basso”, di diversa natura e portata[8].
Seppur in ritardo, queste dinamiche stanno cominciando a svilupparsi anche in altri paesi del Sud Europa – ma in Italia risultano oltremodo evidenti[9].
Queste innovazioni locali – spesso adottate in maniera artigianale, ma non per questo meno efficace – hanno ottenuto, in alcuni casi, dei risultati eccezionali, tanto da essere riconosciute come pratiche virtuose sia a livello nazionale sia internazionale.
In occasione di convegni ed eventi formativi con magistrati di altri paesi[10], mi è capitato spesso di raccontare quanto è stato realizzato da alcuni uffici giudiziari italiani, nel nord come nel sud del Paese. Di fronte a questi risultati, i vostri colleghi sono spesso increduli.
Eppure, negli ultimi anni, il “Sistema Giustizia” ha, di fatto, incentivato i magistrati dirigenti a ricorrere all’innovazione in modo sistematico, continuativo e, di sovente, anche distruttivo e poco sostenibile, ossia senza “fare tesoro” di quanto fatto nell’ufficio prima del loro arrivo o della loro nomina. Gli esempi potrebbero essere molti.
Negli ultimi anni, alcuni uffici giudiziari hanno innovato senza sosta, trasformando l’innovazione da eccezione a regola.
A mio avviso, queste dinamiche stanno producendo due effetti paradossali, uno interno e uno di natura sistemica:
- per quanto riguarda il versante interno, innovare costa fatica e può rallentare, almeno inizialmente, le performance organizzative: le persone, infatti, sono chiamate ad adattare le loro pratiche lavorative alle nuove procedure, ai nuovi strumenti e alle nuove relazioni organizzative. In occasione di un processo di innovazione senza fine, come dimostrano numerose ricerche empiriche, di diversa provenienza disciplinare, si può creare una situazione di forte stress, che può portare all’emergere di fenomeni di burnout e può spingere le persone a chiedere un trasferimento, anche in realtà meno stimolanti, da un punto di vista professionale[11];
- a livello sistemico, invece, il ricorso continuo all’innovazione rischia di allargare o, comunque, di cristallizzare e rendere permanenti, le differenze tra gli uffici giudiziari italiani, sia in termini di comportamento sia di prestazioni[12].
Tutto ciò rischia, infatti, di creare delle “mappe delle differenze”: uffici giudiziari innovativi – che non temono confronti con quelli di altri paesi europei – che operano a pochi km da altri che, per diverse ragioni – tra cui, in primo luogo, la disponibilità di enti e istituzioni, del territorio in cui operano, a sostenere, anche economicamente, dei progetti di miglioramento – non riescono a innovare o ad auto-innovarsi.
Rispetto alla qualità del servizio, ma anche alle performance degli uffici giudiziari, il fatto che per un cittadino o per un’impresa non sia affatto indifferente doversi difendere oppure promuovere un procedimento in un ufficio giudiziario piuttosto che in un altro, ha una serie di implicazioni di natura sociale, economica e politica. Queste dinamiche incidono, infatti, sullo sviluppo socio-economico dei diversi territori, visto che amplificano le disuguaglianze, in termini di effettiva capacità delle persone di accedere a diritti, beni e servizi pubblici.
Ecco perché, in ottica futura, credo sia necessario porci un nuovo interrogativo:
in che misura siamo disposti a tollerare delle differenze, sia in termini di prestazioni sia di comportamento, pur di incoraggiare l’emergere di alcune innovazioni virtuose?
Oppure – posta in altri termini – in che misura siamo disposti a ostacolare la nascita di innovazioni “dal basso”, potenzialmente virtuose, pur di garantire un servizio uniforme su tutto il territorio?
A mio avviso, dalla risposta – certamente non scontata – a questa domanda, passano molte delle questioni aperte in materia di innovazione e governance della Giustizia italiana.
Vi ringrazio molto per l’attenzione.
NOTE:
[1] Di recente, i risultati della ricerca sono stati pubblicati in: Verzelloni, L. (2019), Pratiche di sapere. I rituali dell’innovazione nella giustizia italiana, Soveria Mannelli, Rubbettino.
[2] Zan, S. (2003), Fascicoli e tribunali. Il processo civile in una prospettiva organizzativa, Bologna, Il Mulino.
[3] Sul tema, si rimanda a: Piana, D. (2016), Uguale per tutti? Giustizia e cittadini in Italia, Bologna, Il Mulino.
[4] Sul tema, si veda: Fabri, M. et al. (2003) (a cura di), The administration of justice in Europe: Towards the development of quality standards, Bologna, Lo Scarabeo; Frydman, B. e Jeuland, E. (2011) (a cura di), Le nouveau management de la justice et l’indépendance des juges, Paris, Dalloz; Langbroek, P. et al. (2017), Performance management of courts and judges, in F. Contini (a cura di), Handle with care: Assessing and designing methods for evaluation and development of the quality of justice, Bologna, IRSiG-CNR, pp. 297-325.
[5] Garapon, A. (2012), Lo stato minimo. Giustizia e neoliberismo, Milano, Cortina.
[6] La mia critica – non ideologica – all’idea di definire un “carico esigibile” a livello nazionale si fonda su due considerazioni, tra loro strettamente collegate. In primo luogo, per costruire un target attendibile – anche in forma di soglia oppure di range di riferimento – occorrerebbe tenere conto di una pluralità di variabili di contesto, sia interne sia esterne, che incidono direttamente sul lavoro quotidiano e, di conseguenza, sulla produttività dei singoli magistrati. Tra le prime, si devono ricordare: tasso di scopertura del personale togato, tasso di scopertura del personale amministrativo, presenza di figure di supporto (addetti, tirocinanti, magistrati onorari), condizioni e spazi di lavoro, benessere organizzativo, tasso di turnover, disponibilità di strumenti informativi e tecnologici, organizzazione interna dell’ufficio, divisione dei carichi di lavoro, ecc. Tra le seconde, invece: caratteristiche del tessuto sociale ed economico, presenza di una cultura della legalità, tasso di litigiosità, qualità delle altre pubbliche amministrazioni, politiche locali, rapporti con l’avvocatura, disponibilità della stessa a dialogare con gli uffici, ecc. Vista l’impossibilità di considerare tutti questi aspetti, l’opera mi sembra difficilmente realizzabile; a meno che non si stabiliscano delle soglie così ampie da risultare, di fatto, inutili. In secondo luogo, qualora si riuscisse a definire un parametro di riferimento a livello nazionale, questo potrebbe, paradossalmente, allargare ulteriormente le differenze territoriali. In alcune realtà il “carico esigibile” potrebbe essere raggiunto molto più facilmente che in altre: i magistrati potrebbero essere portati a rallentare i loro ritmi di lavoro o, viceversa, a rassegnarsi all’idea di non poter neppure avvicinare certi target di produttività, in attesa di chiedere il trasferimento in un'altra realtà territoriale. A mio avviso, occorrerebbe, invece, investire nella ricerca di sempre più accurati criteri di “pesatura dei fascicoli” che permettano, da un lato, di dividere più equamente il lavoro tra colleghi di uno stesso ufficio giudiziario e, dall’altro, di assumere delle scelte organizzative più consapevoli, ai diversi livelli di governance.
[7] Come avvenuto negli ultimi anni, per esempio, in Francia. Sull’esperienza francese, si veda: Vigour, C. et al. (2022), La justice en examen, Presses Universitaires de France, Paris.
[8] Per approfondimenti, si rimanda a: Verzelloni, L. (2019), Pratiche di sapere, op cit. e a Verzelloni, L. (2020), Paradossi dell’innovazione: i sistemi giustizia del Sud Europa, Roma, Carrocci Editore.
[9] Per un confronto sui processi di innovazione in altri sistemi giudiziari del Sud Europa (Portogallo, Grecia e Spagna), si veda: Verzelloni, L. (2020), Paradossi dell’innovazione, op. cit.
[10] Come in occasione del seminario internazionale "South-Western Seminar on Timeliness", organizzato dall’European Network of Councils for the Judiciary (ENCJ), Madrid, 28-30 novembre 2016.
[11] Il tasso di turnover potrebbe essere un buon indicatore per rilevare il livello di benessere organizzativo all’interno degli uffici giudiziari e, ad avviso di chi scrive, dovrebbe essere considerato anche nell’ambito del procedimento di conferma dei magistrati con funzioni direttive e semidirettive.
[12] Sul tema, si veda: Verzelloni, L. (2020), "Riformare la giustizia del lavoro fra disuguaglianze e inefficienze: il prisma del sud Europa", Stato e Mercato, 119, 2, 319-357.
Come ha recepito la Cassazione la valenza risarcitoria del rapporto di “causa-effetto” derivante dalla interpretazione dell’attuale postulato medico-legale di “danno biologico”?
di Enrico Pedoja*
È ancora valido il concetto tecnico-unitario ed onnicomprensivo di “danno biologico”, quale presupposto risarcitorio delle componenti biologiche del “danno non patrimoniale”?
Sommario: 1. Premessa - 2. Il Postulato medico legale di “danno biologico” - 3. La Questione del “parametro tecnico”- 4. L’anomalia liquidativa della inabilità temporanea in ambito Rc auto e sanitaria - 5. Conclusioni.
1. Premessa
L’immodificata configurazione medico legale del concetto di danno biologico, esaminata in relazione alle attuali necessità di una parametrazione risarcitoria onnicomprensiva, equilibrata e non automatica del danno alla persona, determina la persistenza di un sostanziale un “equivoco” interpretativo tra Medici legali e i Giudici di Cassazione, basato su una “incongrua interpretazione” tecnica: ritenere di avere, col solo barème, la possibilità di definizione completa ed automatica delle componenti biologiche del “danno non patrimoniale”, che, in osservanza ai principi espressi delle note Sentenze Gemelle delle Sezioni Unite del 2008, sono costituite dalla lesione della salute e dal correlato peggioramento delle condizioni di vita quotidiane: binomio non necessariamente automatico, anzi spesso dissonante tra quanto appare accertabile e quantificabile secondo Bareme (come invalidità permanente biologica) rispetto alla effettiva percezione di peggioramento “esistenziale” conseguente agli aspetti qualitativi della menomazione stessa
2. Il Postulato medico legale di “danno biologico”
È noto a qualsiasi specialista medico legale quale sia la definizione di “danno biologico”, così come sostanzialmente stabilita dalla Società Italiana di Medicina Legale nel 2001.
1) Il danno biologico consiste nella menomazione permanente e/o temporanea all’integrità psico-fisica della persona, comprensiva degli aspetti personali dinamico-relazionali, passibile di accertamento e di valutazione medico-legale ed indipendente da ogni riferimento alla capacita di produrre reddito.
2) La valutazione del danno biologico è espressa in termini di percentuale della menomazione all’integrità psicofisica, comprensiva della incidenza sulle attività quotidiane comuni a tutti.
3) Nel caso in cui la menomazione stessa incida in maniera apprezzabile su particolari aspetti dinamico-relazionali e personali, la valutazione è completata da indicazioni aggiuntive da esprimersi in forma esclusivamente descrittiva.
4) In caso di menomazioni plurime la percentuale del danno biologico permanente deve essere espressa in base alla valutazione della effettiva incidenza del complesso delle menomazioni stesse sull’integrità psico-fisica della persona comprensiva delle limitazioni dinamico-relazionali”.
3. La Questione del “parametro tecnico”
Presso atto di quanto finora definito dalla Medicina Legale, si deve considerare che i predetti principi costitutivi del concetto medico legale di “danno biologico”, ove finalizzati a presupposto di parametrazione risarcitoria del danno alla persona , risentono di una oggettiva “approssimazione applicativa scientifica”, quasi un “sofisma medicolegale”, che ha portato ad un paralogismo liquidativo talora foriero di possibili “sperequazioni risarcitorie”.
Per qualsiasi Specialista medico legale esperto del Settore, è noto che l’intervento tecnico dello specialista medico legale sul danno alla persona si basa esclusivamente sull’integrazione degli elementi probatori clinico strumentali ricavati in corso di indagine tecnica con parametri afferenti esclusivamente a disfunzionalità anatomiche e/o psichiche dell’essere umano (cosiddetti Baremes) così da consentire di esprimere, motivatamente, la stima del danno biologico con percentuali di invalidità permanente calcolate esclusivamente rispetto a riferimenti “convenzionali” di disfunzionalità anatomica o psichica
La variazione percentuale della invalidità permanente biologica si basa dunque su esclusivi criteri clinico – strumentali di riferimento scientifico ma in nessun caso l’eventuale incremento o decremento del parametro “invalidità” permanente biologica (la causa) determina tassativamente, una automatica e proporzionale ricaduta negativa (effetto) sugli atti della vita quotidiana.
Dissonanza che appare ancor più evidente ove si debbano considerare – ai fini risarcitori – anche le ripercussione della invalidità biologica sugli aspetti dinamico relazionali, derivandone la scarsa valenza probatoria dello stesso “postulato” medico legale di danno biologico
In sostanza il baréme esprime solo riferimenti percentualistici di disfunzionalità biologica rispetto al 100% della validità anatomo-psichica dell’essere umano.
Non a caso più correttamente in altri Paesi - come ad esempio in Francia ove si adottano baremes valutativi sostanzialmente sovrapponibili - la definizione del “danno” afferisce esclusivamente alla “incapacità funzionale biologica”, cioè la riduzione del potenziale fisico, psico-sensoriale o intellettuale risultante da un attacco all'integrità corporea di una persona.**, che è cosa differente dal concetto di ricaduta negativa sul fare quotidiano e sugli aspetti dinamico relazionali.
**Incapacitè fonctionelle Accamedi de Medcine 2022…”
Incapacité qui caractérise une fonction ou un individu devenus incapables d'accomplir la tâche assignée. L'incapacité d'une fonction organique s'évalue à partir de la capacité normale du système d'accomplir sa fonction. Les capacités se mesurent à l'aide d'une grandeur physique ou d'une valeur économique et se calculent à partir d'une fonction logarithmico normale: l'incapacité va de 0 % (capacité normale) à 100 % (incapacité totale).” , le taux d'incapacité mesure le déficit fonctionnel qui se définit comme la réduction du potentiel physique, psycho-sensoriel ou intellectuel résultant d'une atteinte à l'intégrité corporelle d'une personne.
Va altresì considerato che, con l’avvento del concetto medico legale di “danno biologico”, i convenzionali parametri di disfunzionalità’ anatomo-psichica riportati nei “Baremes” e precedentemente utilizzati per valutare il decremento del “fare reddituale” (ovvero il danno alla capacità lavorativa generica), sono stati trasferiti apoditticamente alla valutazione del potenziale decremento sul “fare areddituale” e della ricaduta sugli aspetti dinamico relazionali. Parametri rimasti sostanzialmente invariati (tranne qualche occasionale “maquillage”), nonostante fosse mutata la previsione del “danno conseguenza” risarcibile.
Ci si deve dunque chiedere:
Come è possibile connettere – in ipotesi di sistema liquidativo tabellare – la stessa “causa” (invalidità permanente biologica) a “effetti” di danno alla persona differenti tra loro (capacità lavorativa generica rispetto agli atti della vita quotidiana e sugli aspetti dinamico relazionali)..?
Come si può giustificare che una analoga quota di invalidità permanente biologica determini sempre una analoga ricaduta negativa sul “fare quotidiano” del danneggiato..?
Come si può ammettere che l’apprezzamento “quantitativo” di un danno alla persona (Invalidità permanente biologica) possa ricomprendere gli aspetti “personali e dinamico relazionali” dello stesso.
Per fare un semplice, ma concreto, esempio applicativo il Giurista dovrebbe domandarsi il motivo per cui un soggetto splenectomizzato (valutato complessivamente secondo bareme con una IP del 10%) ha la stessa ricaduta sul fare quotidiano e sui comuni aspetti dinamico relazionali rispetto ad altro danneggiato portatore di una anchilosi della caviglia, di ben altro impatto esistenziale, al quale qualsiasi barème assegna una analoga Invalidità permanente del 10%.
Sono due entità di danno alla persona totalmente differenti (sia per la ricaduta sul “fare quotidiano e dinamico relazionale”, sia sul “sentire” del danneggiato) che dimostrano l’incongruità liquidativa delle Tabelle ove correlate in via automatica alla sola sulla componente “quantitativa” di danno biologico (la I.P.).
Considerazioni che assumono particolare rilievo per i casi definibili, secondo applicazione degli stessi Barème e per prassi valutativa medico legale, quali “macro-invalidità”, ma costituiti, di fatto, dal computo complessivo di lesioni di lieve entità, con ricaduta esistenziale palesemente difforme rispetto a casi di analogo riscontro “quantitativo” ma rappresentati, tuttavia, da un’unica macro menomazione.
Si consideri ad esempio la stima di una IP nell’ordine del 15% conseguente al computo di menomazioni plurime “coesistenti” dovute agli esiti di traumatismo pluifratturativo costale semplice associato a esiti medi di un frattura para articolare di polso in arto non dominante, a esiti medi di frattura composta di alcuni metatarsi e ad esito cicatriziale estetico apprezzabile localizzato in regione corporea non coinvolgente il volto, rispetto ad analoga IP del 15% riferibile agli esisti di grave frattura articolare di ginocchio trattata con protesi. È possibile ammettere la stessa ricaduta della complessiva Invalidità permanente biologica sugli atti della vita quotidiana sugli aspetti dinamico relazionali?
La logica ed il buon senso porterebbero ad escluderlo.
Si tratta quindi di “squilibri valutativi dell’attuale postulato medico-legale di danno biologico, utilizzato ai fini di prova risarcitoria tra causa ed effetto” forieri , ove sussista un automatismo liquidativo, di evidenti sperequazioni risarcitorie, che necessitano, in contesto di un metodo di liquidazione tabellare, di opportuni ed adeguati parametri correttivi medico-legali.
Sulla base di tali considerazioni ne deriva che , ai fini di una formulazione liquidativa del danno non patrimoniale di tipo “tabellare”, che preveda quale presupposto base la sola disfunzionalità anatomo-psichica, la “prima personalizzazione” risarcitoria del danno non patrimoniale non potrà che realizzarsi con l’applicazione di un distinto parametro di ordine “qualitativo” per determinare l’effettiva ricaduta “esistenziale” della disfunzionalità accertata sul comune fare personale e sentire di qualsiasi persona portatrice di quella determinata condizione menomativa.
Componente di danno “ontologicamente” differente e svincolata dal “danno morale” che – come già affermato dalla stessa Cassazione – non ha alcuna connessione con la disfunzionalità biologica.
In altri termini una parametrazione che valuti – con criterio presuntivo medico legale – quale sostanziale ripercussione negativa, sul quotidiano fare personale e sui correlati comuni aspetti dinamico relazionali, sia in grado di determinare la menomazione su qualsiasi danneggiato: in altri termini parametri qualitativi adeguati ad inquadrare e definire la componente esistenziale del danno biologico stimabile dal medico legale in termini di “sofferenza menomazione correlata”.
Ferma restando comunque la possibilità ogni ulteriore integrazione risarcitoria extra-tabellare relativa a componenti esistenziali “peculiari” del danneggiato pur derivanti dalla stessa menomazione e ove specificatamente allegate.
4. L’anomalia liquidativa della inabilità temporanea in ambito Rc auto e sanitaria
Qualsiasi specialista medico legale è consapevole che non sussiste alcun rapporto prestabilito tra valutazione dell’entità e decorso della lesione (inabilità temporanea biologica) e valutazione dell’invalidità permanente biologica.
La comune esperienza medico legale insegna che eventi lesivi significativi, pur evolvendo in modo similare (quindi con determinazione di periodi di IT definibili tecnicamente, sia sotto il profilo cronologico che qualitativo, in modo pressoché uguale) possono stabilizzarsi con postumi superiori od inferiori al fatidico 9% di invalidità permanente, derivandone una evidente illogicità tecnica nell’applicazione di differenti parametri di liquidazione della inabilità temporanea a seconda se la lesione si stabilizza con postumi invalidanti inferiori o superiori al fatidico 9%.
Ciò comporta quindi che i parametri di liquidazione della inabilità temporanea biologica, invece di ancorarsi all’effettiva entità ed evoluzione della “lesione – malattia” vengono erroneamente rapportati, nella normativa vigente, ad un limite di variabilità disfunzionale menomativa (soglia del 9% di IP) che contrasta con l’effettivo valore probatorio e risarcitorio del “danno – conseguenza” connesso all’inabilità temporanea biologica.
Il problema, dunque, è primariamente di ordine liquidativo, stante la differente parametrazione monetaria prevista per le “lesioni di lieve entità” rispetto a quella prevista per le “lesione di non lieve entità”, ove la logica dovrebbe prevedere un parametro unico, modulabile a seconda del grado di intercorrente ricaduta della lesione e della malattia sul “sentire” e “fare personale” nonché sugli aspetti dinamico relazionali del danneggiato.
Una valutazione tecnica della “componente qualitativa” della lesione/malattia biologica consentirebbe dunque una opportuna – e soprattutto equa – modulazione del risarcimento della inabilità temporanea.
5. Conclusioni
Alla luce delle criticità interpretative del “postulato” medico legale di “danno biologico”, appare sempre più pressante ed improcrastinabile una sostanziale “revisione” dello stesso principio “tecnico” e dei parametri medicolegali ad esso correlati (la componente “quantitativa” e quella “qualitativa”) ai fini di una adeguata definizione risarcitoria del danno non patrimoniale (principi in parte già concettualmente recepiti dall’Osservatorio del Tribunale di Milano e da molte altre sedi Giudiziarie, come ad esempio per la Tabella di Liquidazione del Tribunale di Venezia), dovendosi approfondire ulteriormente la discussione tra medico legale e Giurista nella prospettiva di utilizzare parametrazioni tecniche “adeguate” ed “equilibrate” ai fini di una maggiore perequazione risarcitoria delle poste biologiche del danno non patrimoniale.
*Medico legale
“Giustizia penale e dintorni”: le riflessioni di Giovanni Fiandaca sulla crisi della giustizia italiana e la biografia intellettuale di un grande giurista
di Alessandro Centonze
Sommario: 1. La biografia accademica e il ruolo di Giovanni Fiandaca nel mondo giuridico italiano. – 2. Giustizia penale e dintorni: alle origini del rapporto tra Giovanni Fiandaca e Il Foglio. – 3. Le posizioni sugli “impostori della morale” e sulla “antimafia di facciata”: una visione lucida e originale dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata. – 4. Le riflessioni sul mondo carcerario: dalle politiche iper-punitiviste all’ergastolo ostativo. – 5. L’implosione del mondo giudiziario italiano e la crisi del sistema di autogoverno della magistratura italiana.
1. La biografia accademica e il ruolo di Giovanni Fiandaca nel mondo giuridico italiano
Non è facile parlare del professor Giovanni Fiandaca e della sua presenza nel mondo della cultura giuridica italiana; anzi parlare di questo giurista siciliano è un’operazione che si presenta, fin da subito, estremamente impegnativa.
Il docente palermitano, nella sua ormai cinquantennale esperienza, scientifica e istituzionale, ha rappresentato tante, troppe mirabili cose; tutte non facilmente comparabili con altre figure del panorama giuridico italiano contemporaneo.
Giovanni Fiandaca, innanzitutto, è un giurista siciliano formatosi alla Scuola penalistica palermitana ed è uno dei più importanti penalisti del secondo dopoguerra italiano, nel cui contesto scientifico è stato lungamente presente quale professore ordinario di diritto penale dell’Università di Palermo.
È, inoltre, un innovatore del diritto penale classico, di derivazione germanica, che, dal suo interno, fin dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso –, con il suo fondamento studio sul reato commissivo mediante omissione[1] –, ha fatto evolvere come poche altre figure accademiche nostrane, intervenendo su alcuni temi centrali della dogmatica penalistica[2], che dopo i suoi studi, hanno assunto una configurazione nuova e differente.
La sua importanza per il mondo scientifico italiano, del resto, è testimoniata dall’autorevolezza del gruppo scientifico che ha costituito durante il suo pluriennale impegno nell’Ateneo palermitano, grazie al quale tanti suoi allievi hanno conseguito il ruolo apicale della docenza universitaria, onorando e diffondendo gli insegnamenti del loro Maestro. Ai suoi insegnamenti, invero, si sono ispirati numerosi accademici italiani, non soltanto isolani, che hanno seguito le sue indicazioni dottrinarie, tributandogli il giusto riconoscimento nelle numerose opere che, direttamente o indirettamente, si ispirano ai suoi studi.
Questa autorevolezza è anche testimoniata dai numerosi incarichi istituzionali ricoperti dal professor Fiandaca nel corso degli anni, tra i quali è utile richiamare l’incarico di componente laico del Consiglio Superiore della Magistratura militare; l’incarico di componente laico del Consiglio Superiore della Magistratura; l’incarico di componente della Commissione Pisapia per la riforma del Codice Penale; l’incarico di componente del Comitato Scientifico del Consiglio Superiore della Magistratura per la formazione professionale dei magistrati; l’incarico di presidente della commissione istituita presso il Ministero della Giustizia per elaborare una proposta di interventi in tema di criminalità organizzata; l’incarico di Garante per la tutela dei diritti dei detenuti per la Regione Sicilia.
Il penalista palermitano, infine, è una figura iconica per il mondo dei giuristi italiani, essendo il coautore del manuale universitario più diffuso dell’ultimo quarantennio – il mitico “Fiandaca-Musco”[3]; mitico come poche altre opere manualistiche – su cui si sono cimentate intere generazioni di penalisti, che si sono formati su questo testo scientifico, che li ha accompagnati nel corso delle loro carriere.
2. Giustizia penale e dintorni: alle origini del rapporto tra Giovanni Fiandaca e Il Foglio
Il professor Giovanni Fiandaca, tuttavia, non è soltanto l’esponente del mondo scientifico ammirato e seguito, di cui si è parlato nel paragrafo precedente.
Infatti, in questa parte della sua vita professionale, ha affiancato all’attività scientifica tradizionale, che ha continuato a portare avanti anche dopo il suo pensionamento dall’Università di Palermo, quella di esponente di primo piano della vita culturale nostrana, prendendo parte al dibattito sulla giustizia e sul mondo giudiziario italiano con interventi lucidi e originali.
Di questa vita culturale parallela – o meglio integrativa – costituisce una testimonianza vivida il volume pubblicato dall’editore Zanichelli, intitolato “Giustizia penale e dintorni. Dieci anni di interventi sul Foglio”, che raccoglie gli interventi pubblicati sul quotidiano Il Foglio, a partire dal 2013, in cui il docente palermitano ha espresso il suo lucido punto di vista su alcuni importanti temi giudiziari, mettendo in luce aspetti poco conosciuti, ma illuminanti, del suo pensiero.
Le ragioni che hanno dato origine alla collaborazione tra Giovanni Fiandaca e Il Foglio sono ben spiegate nella premessa del volume che si commenta, in cui si evidenzia che, dopo un saggio pubblicato su una rivista scientifica[4], Emanuele Macaluso, con cui condivideva rapporti di amicizia, lo metteva in contatto con Giuliano Ferrara. Il direttore del Foglio, quindi, decideva di pubblicare per intero il suo intervento – in cui si esprimeva una posizione critica sul cosiddetto processo-trattativa, in corso di celebrazione a Palermo – utilizzando il titolo di forte impatto mediatico “Il processo sulla trattativa è una boiata pazzesca”[5].
La pubblicazione di questo intervento suscitava non poche polemiche, alcune delle quali provenienti da ambienti storicamente vicini al nostro Autore, che lo amareggiavano, ma ne rafforzavano i suoi propositi divulgativi. Per comprendere questi propositi è utile citare le parole dello stesso accademico, che così giustifica la prosecuzione della sua collaborazione con Il Foglio nonostante le iniziali polemiche: «Il fatto è che una spontanea attrazione per il Foglio io l’ho sentita in passato e continuo ad avvertirla oggi, almeno per due ragioni che riassumerei in questo modo: perché si caratterizza come un giornale di così intelligente e stimolante “scorrettezza politica”, da sollecitare una salutare messa in discussione di molti miti, dogmi, tabù, teorie, convinzioni, credenze, pregiudizi e ipocrisie diffusi nell’orizzonte troppo conformistico e chiuso del “politicamente corretto” odierno; e perché difende con convinzione e costanza un garantismo penale ai miei occhi non peloso e interessato, bensì super partes»[6].
Da qui si sviluppava il pluriennale rapporto di collaborazione tra Giovanni Fiandaca e Il Foglio, di cui i diciassette capitoli che compongono il volume che si commenta sono espressione, legati, come sono, da un filo conduttore spiegato dallo stesso accademico, in un altro passaggio della premessa del suo volume. In tale passaggio, in particolare, si afferma, che il fil rouge dei suoi interventi sul Foglio è costituito «da una netta opposizione critica alla pretesa […] di poter utilizzare legittimamente ed efficacemente il diritto ed il processo penale per scopi di amplissima portata; e il cui perseguimento […] ha prodotto e può continuare a produrre l’effetto o di sovraesporre politicamente il potere giudiziario, ponendolo in aperto conflitto o in forte tensione con altri poteri statali, oppure ancora di caricarlo di compiti che più propriamente spettano ad attori sociali o culturali operanti fuori dalla sfera politico-istituzionale […]»[7].
La posizione del docente palermitano, dunque, è chiara, ruotando attorno al ripudio della tentazione di utilizzare il diritto penale come strumento per contrastare fenomeni di degenerazione sociale, pur esistenti, rispetto ai quali le scienze criminali sono utilizzabili nei soli limiti del processo penale e delle sue regole, che devono ritenersi insuperabili e inviolabili. A questi limiti, l’accademico si ispira in tutti i suoi interventi giornalistici, nei quali la constatazione dei mali che affliggono una parte del territorio italiano non può mai essere disgiunta da un approccio garantistico, che deve porre l’individuo al centro di tali riflessioni[8].
Si tratta di un punto di vista che, in qualche modo, accomuna il nostro Autore a Leonardo Sciascia, entrambi essendo convinti che il perseguimento degli obiettivi giudiziari non può mai essere scorporato dal rispetto delle garanzie individuali e dalle finalità correlate a questi obiettivi, disattendendo le quali è incombente l’errore giudiziario, che costituisce il pericolo maggiore in cui può incorrere chiunque esercita l’attività giurisdizionale.
Non si può, in proposito, non citare il paragrafo conclusivo della raccolta di interventi in esame, dedicato a Leonardo Sciascia, intitolato “Leggere Leonardo Sciascia come antidoto agli abusi della giustizia”[9], in cui, tra l’altro, si dà conto delle ragioni dell’interesse che l’opera dell’Autore racalmutese ha assunto negli ultimi anni, di cui sono testimonianza numerose pubblicazioni, anche recenti, che riprendono i temi affrontati dall’accademico palermitano. L’Accademico, in questo modo, ricorda ai lettori del Foglio che l’opera di Leonardo Sciascia costituisce una sorta di memento contro il pericolo di un collasso morale della giurisdizione; pericolo che è tanto maggiore quanto più ci si allontana da una dimensione garantistica dello jus dicere, che trae il suo fondamento dalla ricerca della verità giudiziaria, che non deve mai passare attraverso semplificazioni procedurali, inammissibili quand’anche sorrette dai più alti intenti.
3. Le posizioni sugli “impostori della morale” e sulla “antimafia di facciata”: una visione lucida e originale dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata
Nella cornice culturale descritta nel paragrafo precedente si muovono le critiche mosse alla cosiddetta antimafia di facciata – che accomunano ulteriormente Giovanni Fiandaca a Leonardo Sciascia, al quale, come detto, è dedicato un capitolo del volume in esame[10] – che costituisce uno dei pilastri delle raffinate riflessioni dell’accademico palermitano.
A queste tematiche, in particolare, l’Autore si dedica nel capitolo intitolato “Contro gli impostori della morale”[11], che chiariscono il suo punto di vista sul legame inscindibile tra giustizia e rispetto delle garanzie individuali e, a monte, tra attività giurisdizionale ed etica del diritto, su cui il docente palermitano si era già soffermato nel capitolo di apertura della sua raccolta di interventi, intitolato “La trattativa stato-mafia”[12].
Si tratta, invero, di riflessioni che, soprattutto nei titoli a effetto utilizzati, sembrano riecheggiare il noto, memorabile, articolo di Leonardo Sciascia, intitolato “I professionisti dell’antimafia”, pubblicato sul Corriere della sera del 10 gennaio 1987[13], che non solo alimentò grandi polemiche nell’opinione pubblica dell’epoca, ma diede vita a un vero e proprio neologismo, tuttora largamente utilizzato dai commentatori dei temi giudiziari. I ragionamenti svolti, però, si muovono su un piano contiguo ma differente da quello affrontato da Sciascia, risultando orientati dalla prospettiva, legalitaria e costituzionale, che ha guidato la cinquantennale attività scientifica dell’accademico palermitano.
Quale è, in questo caso, l’idea che muove Giovanni Fiandaca?
Il senso di questi interventi giornalistici ci viene chiarito dallo stesso accademico palermitano, che si domanda «l’antimafia ha una tale specificità politica da giustificare che alcuni politici intestino alla lotta alla mafia tutto il loro impegno politico?»[14].
La risposta, anche alla luce delle considerazioni che si sono esposte nei paragrafi precedenti non può che essere negativa, essendo evidente che la strumentalizzazione della politica antimafia – non solo giudiziaria – e le affermazioni di politici che fanno della lotta alla criminalità organizzata il vessillo del loro impegno porta allo svolgimento di compiti eteronomi, determinando scambi confusi di ruoli istituzionali, che minano la credibilità delle forze politiche che propugnano questi contro-valori e inquinano l’attività giurisdizionale.
Questo approccio all’antimafia, per altro verso, esprime la scarsa capacità delle forze politiche, soprattutto meridionali, di concepire disegni di recupero sociale di ampio respiro, in assenza dei quali lo sbandieramento di ideali antimafia “di facciata” finisce per mascherare l’incapacità degli amministratori di portare avanti sfide istituzionali all’altezza dei tempi e progetti in grado di determinare un miglioramento effettivo del tessuto socio-economico. E’ evidente, allora, che nel contesto «di una politica degna di questo nome, è molto probabile che non vi sarebbe bisogno di una politica specificamente antimafia […]»[15], essendo scontato che «la legalità e la lotta contro i poteri criminali dovrebbero costituire presupposti etici, trasversalmente condivisi, di qualsivoglia impegno politico»[16].
Nello stesso versante si collocano le considerazioni effettuate dall’Autore nel capitolo intitolato “La vera origine della gogna”[17], incentrato sui rischi di una connotazione eticizzante – ma non etica – dell’azione giudiziaria, che non deve mai trasmodare in un giudizio morale sui comportamenti oggetto di vaglio giurisdizionale, atteso che il fondamento giustificativo della colpevolezza non può che essere il fatto di reato contestato all’imputato; il che comporta la necessaria separazione tra politica, etica e giurisdizione, che postula una verifica esclusivamente processuale sul disvalore del fatto, che, stricto sensu, prescinde dalla riprovevolezza del comportamento dell’agente.
Né potrebbe essere diversamente, perché, come riferisce Giovanni Fiandaca, il processo penale è uno strumento che deve essere azionato tenendo sempre presente le garanzie della persona umana, atteso che se «è vero che il processo è totalizzante perché tende sempre a giudicare anche la persona dell’autore, l’imperativo deontologico da trarne non potrebbe che essere questo: il magistrato dovrebbe […] guardarsi dalla tentazione di utilizzare il processo come strumento di censura individualizzazione e moralizzazione pubblica»[18]. Diversamente, si finisce «per incrementare oltre misura la già naturale vocazione del giudizio penale a veicolare condanne morali che coinvolgono l’intera personalità degli imputati: con un accresciuto effetto di torsione moralistica, in chiave illiberale, dell’esercizio della giurisdizione»[19].
4. Le riflessioni sul mondo carcerario: dalle politiche iper-punitiviste all’ergastolo ostativo
Il volume che si commenta è un’occasione per parlare anche di un altro aspetto del pensiero di Giovanni Fiandaca, emerso soprattutto negli ultimi anni, riguardante la sua attenzione al mondo carcerario e ai diritti dei detenuti, che è figlia della dalla prospettiva, legalitaria e costituzionale, dell’accademico.
Il docente palermitano, invero, si è sempre mostrato attento alla funzione della pena e ai profili sanzionatori del sistema penale, ma, soprattutto negli ultimi anni, in concomitanza con la sua nomina a Garante dei detenuti per la Regione Sicilia, avvenuta nel 2016, ha dedicato particolare attenzione a questi temi, che si pongono in linea con il rispetto delle garanzie costituzionali di cui la sua opera è impregnata.
Di questa attenzione sono espressione alcuni interventi pubblicati sul Foglio tra il 2019 e il 2021[20], che rivelano quale sia il senso delle riflessioni dell’Autore, interessato al cattivo stato di salute del mondo carcerario italiano, che affonda le sue radici in molteplici fattori che le ultime gestioni ministeriali hanno accentuato. La crisi del sistema penitenziario italiano, infatti, è tale da necessitare l’elaborazione di una strategia integrata di interventi, della cui necessità non sempre le istituzioni governative sembrano essere consapevoli.
La crisi del sistema penitenziario italiano è accentuata dal fatto che, secondo l’accademico palermitano, ai tradizionali fattori endemici di disfunzione organizzativa – quali l’inadeguatezza delle strutture carcerarie, l’eccessiva lentezza dei processi, l’enorme quantità di reati che inflaziona la macchina giudiziaria, le carenze di personale e di risorse – si accompagnano alcuni nodi culturali irrisolti, che traggono origine dai modelli giuridici oggi, in una certa parte, dominanti. Secondo il professor Fiandaca, infatti, questi modelli sembrano «orientare verso un tendenziale sbilanciamento in senso iper-punitivista […]»[21] le politiche penitenziarie e «andrebbero auspicabilmente riequilibrati non solo in nome dei principi del costituzionalismo garantista ma anche per fugare una fuorviante illusione: cioè l’illusione che la repressione penale possa fungere da rimedio risolutivo contro i più gravi mali sociali di turno»[22].
Questo approccio, a sua volta, è collegato alla strumentalizzazione della “questione criminale” in funzione della ricerca del consenso elettorale, che è correlata alle oscillazioni dell’opinione pubblica sui temi della risposta repressiva, essendo evidente che l’allarme-criminalità e le conseguenti scelte di politica repressiva hanno, nel corso degli ultimi decenni, condizionato il dibattito politico.
Di più, secondo l’Autore, l’aspro contrasto politico sulle politiche repressive ha impedito che le linee ispiratrici delle riforme in materia penitenziaria fossero il frutto di disegni chiari e razionali, concepiti sulla base di competenze tecniche adeguate alle questioni istituzionali da affrontare.
Queste irrisolte conflittualità, dunque, non hanno consentito di affrontare i temi centrali della crisi del mondo carcerario, costituiti dal sovraffollamento delle carceri e dal miglioramento complessivo delle condizioni di vita dei detenuti, che possono essere risolti solo rilanciando percorsi risocializzativi e aumentando la possibilità di accesso alle misure alternative alla detenzione. Non possono, in proposito, non richiamarsi le illuminanti parole dell’accademico, secondo cui «l’esigenza di migliorare e riformare il sistema penitenziario […] lungi dall’essere motivato da ingenuo buonismo, tende al contrario a un obiettivo di concreta utilità sociale nell’interesse della generalità dei cittadini»[23].
Queste considerazioni ci fanno comprendere ulteriormente le ragioni delle aspre critiche che una parte dell’opinione pubblica ha espresso nei confronti di alcune pronunce giurisdizionali, che, viceversa, andavano salutate con grande favore, come quella della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo[24].
Le critiche dell’opinione pubblica verso questa tipologia di pronunzie, infatti, è la conseguenza della svolta iper-punitivista di una parte delle forze politiche del Paese, atteso che l’azione di contrasto alla criminalità organizzata non può assurgere a valore supremo dell’attività istituzionale e non può consentire di bollare come espressione di ingenuità idealistica l’atteggiamento dei soggetti che esprimono sentimenti di perplessità verso istituti penitenziari incentrati su presunzioni assolute. Né tale rigore sanzionatorio, secondo l’accademico, vale ad attenuare il dolore patito dalle vittime dei reati di mafia, che non viene alleviato dall’applicazione di istituti connotati da eccessività repressiva come l’ergastolo ostativo, che hanno come funzione, non secondaria, quella di rassicurare la pubblica opinione.
A tutto questo si aggiunga che l’ergastolo ostativo va incontro a numerose obiezioni, difficilmente superabili, la principale delle quali è costituita dal fatto che «la indisponibilità a collaborare non è un indicatore certo e univoco di mancato ravvedimento; il mafioso può rifiutare di collaborare per il timore di esporre se stesso o propri familiari al pericolo di ritorsioni o per la indisponibilità morale a scambiare la propria libertà con quella di altri […]»[25]. Senza considerare che l’istituto dell’ergastolo ostativo, tanto sostenuto dall’area iper-punitivista del Paese viola «il diritto alla libertà morale […] proprio perché la scelta di collaborare avviene sotto la forte pressione psicologica dell’alternativa tra segregazione perpetua e possibilità di tornare liberi […]»[26].
5. L’implosione del mondo giudiziario italiano e la crisi del sistema di autogoverno della magistratura italiana
Un ultimo filo conduttore del volume che si sta commentando è costituito dalle riflessioni dedicate alla crisi del sistema giudiziario italiano, sviluppate attraverso diversi interventi, pubblicati sul Foglio tra il 2015 e il 2021, alle quali, tra l’altro, è dedicato il Capitolo IV, intitolato “Consiglio superiore della magistratura (tra nomine controverse, degenerazioni correntizie, contiguità politiche e sospetta corruzione)”.
Anche in questo caso, occorre porsi preliminarmente una domanda: qual è il punto di vista dell’Autore sulla crisi epocale che attraversa la magistratura italiana?
Per rispondere a questa domanda occorre evidenziare che, secondo Giovanni Fiandaca, la crisi della magistratura italiana e la degenerazione del sistema correntizio che l’ha provocata è determinata da una pluralità di fattori, in parte interni e in parte esterni all’ordine giudiziario, che, con il passare del tempo, hanno prodotto delle vere e proprie «“mutazioni antropologiche” dell’uomo-magistrato quale riflesso di tendenze culturali, dei costumi e di prassi che di volta in volta si avvicendano nella società esterna»[27].
Queste “mutazioni antropologiche”, alimentate da un rapporto spesso perverso tra magistratura e potere mediatico, hanno determinato una deriva professionale individualistica, che ha finito per porre al centro dell’attenzione dei magistrati italiani il successo personale, l’ambizione carrieristica e la ricerca narcisistica della visibilità esterna; caratteristiche umane, queste, che hanno portato, in alcuni casi noti alla pubblica opinione, a conseguenze parossistiche o addirittura parodistiche.
In questo, decadente, scenario, il docente palermitano si sofferma con attenzione sul rapporto perverso tra magistratura e potere mediatico, che «non dovrebbe in effetti essere rivolta soltanto alle “commistioni inammissibili” tra magistrati e politici, finalizzata […] a creare indebite o poco trasparenti alleanze trasversali di potere per influenzare la scelta del vice-presidente del Csm, condizionare le nomine dei capi degli uffici giudiziari più importanti, oppure ad esempio per promuovere intese in vista di politiche legislative gradite al potere giudiziario, stipulare accordi per lo scambio di reciproci favori […]»[28].
Le distorsioni del potere giudiziario, infatti, secondo l’accademico, riguardano anche alcune «forme di collateralismo (vecchio e nuovo) tra politica e giustizia motivate da fini comparativamente più nobili, ma che non per questo risultano innocue quanto alle possibili ricadute nocive sul funzionamento del sistema democratico […]»; ricadute che riguardano «rapporti di contiguità tra settori della magistratura e settori della politica (o tra singoli magistrati e singoli politici) che poggiano sulla condivisione di ideali, valori o ideologie di fondo che vengono poi tradotti in obiettivi comuni da realizzare per via sia politica che giudiziaria […]»[29].
Queste distorsioni del potere giudiziario, secondo l’Autore, impongono un’incisiva riforma ordinamentale, che riporti il Consiglio Superiore della Magistratura ad alcuni fondamentali principi, quale la soggezione del giudice di fronte alla legge e l’autonomia del magistrato dal potere politico, fermo restando che l’eliminazione delle cause della degenerazione correntizia comporta un percorso culturale, non semplice né breve, che orienti il magistrato verso il rispetto dei valori costituzionali. Su quest’ultimo piano, il professor Fiandaca introduce un ulteriore argomento, collegato all’accesso in magistratura, evidenziando che «bisognerebbe riaprire il discorso sui gravi limiti del concorso pubblico […] quale canale di accesso alla funzione giudiziaria, sui persistenti deficit della formazione culturale e tecnica destinata ai futuri magistrati, e – non ultimo – sulle provenienze, le competenze e le insufficienze dei soggetti responsabili delle attività formative nell’ambito della attuale Scuola della magistratura […]»[30].
([1]) Ci si riferisce a G. Fiandaca, Il reato commissivo mediante omissione, Giuffrè, Milano 1979, che l’accademico palermitano pubblicò appena trentenne; su analoghi temi di teoria generale del reato, Giovanni Fiandaca è intervenuto, anche con altri importanti interventi, tra cui G. Fiandaca, Omissione (diritto penale), voce, in Dig. disc. pen., UTET, Torino, 1994, VIII, pp. 546 ss.
([2]) Tra le tante, fondamentali, opere di Giovanni Fiandaca, senza alcuna pretesa di esaustività, ci si permette di richiamare G. Fiandaca, L’associazione di tipo mafioso nelle prime applicazioni giurisprudenziali, in Foro it.¸ 1985, V, pp. 301 ss.; Id., Il diritto penale fra legge e giudice, CEDAM, Padova, 2002; Id., Il diritto penale giurisprudenziale tra orientamenti e disorientamenti, ESI, Napoli, 2008; Id., I temi eticamente sensibili tra ragione pubblica e ragione punitiva, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, pp. 1383 ss.; Id, Sul bene giuridico. Un consuntivo critico, Giappichelli, Torino, 2014; Id., Prima lezione di diritto penale, Laterza, Roma - Bari, 2017.
([3]) Ci si riferisce, in particolare, a G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Ottava Edizione, Zanichelli, Bologna, 2022; Id., Diritto penale. Parte speciale, vol. I e II, Ottava edizione, Zanichelli, Bologna, 2022.
([4]) Il saggio in questione è G. Fiandaca, La trattativa Stato-mafia tra processo politico e processo penale, in Criminalia, 2012, pp. 67 ss.
([5]) Si veda G. Fiandaca, Il processo sulla trattativa è una boiata pazzesca, in Il Foglio, 1 giugno 2013.
([6]) Si veda G. Fiandaca, Giustizia penale e dintorni, cit., p. XI.
([7]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. XI.
([8]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. XI.
([9]) Si veda G. Fiandaca, Giustizia penale e dintorni, cit., pp. 245-249; questo intervento, originariamente, veniva pubblicato su Il Foglio, 21 novembre 2021.
([10]) Ci si riferisce, in particolare al Capitolo XVII, intitolato “Leggere Leonardo Sciascia come antidoto agli abusi della giustizia, pp. 245-249; questo intervento, originariamente, veniva pubblicato su Il Foglio, 6 novembre 2021.
([11]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., pp. 119-122; questo intervento, originariamente, veniva pubblicato su Il Foglio, 28 luglio 2015.
([13]) L’intervento di Leonardo Sciascia, com’è noto, esprimeva le inquietudini dello scrittore racalmutese, che traevano origine da un libro pubblicato da un autore inglese, Christopher Duggan, presso la Casa editrice Rubettino, intitolato La mafia durante il fascismo; tali inquietudini – che erano già presenti, in modo embrionale, in alcuni romanzi degli anni Settanta – riguardavano il pericolo che, attraverso gli strumenti del contrasto alla criminalità organizzata, potessero essere attenuate le garanzie individuali, con un percorso istituzionale che si era già concretizzato in Sicilia nei primi anni del fascismo, con l’azione repressiva condotta dal prefetto Mori.
([14]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., pp. 120-121.
([15]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. 121.
([16]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. 121.
([17]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., pp. 67-70; questo intervento, originariamente, veniva pubblicato su Il Foglio, 9 aprile 2015.
([18]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., pp. 69-70.
([19]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., pp. 69-70.
([20]) Ci si riferisce, soprattutto, agli interventi contenuti nei Capitoli X e XI, intitolati “Carceri: necessaria una svolta” e “Ergastolo ostativo”, per i quali si rinvia a G. Fiandaca, op. ult. cit., pp. 169-186.
([21]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. 175.
([22]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. 175.
([23]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. 177.
([24]) Ci si riferisce alla sentenza della Corte costituzionale 22 ottobre 2019, n. 253, con cui veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ord. pen.), condividendo le considerazioni che erano già state espresse dalla Corte EDU il 13 giugno 2019 nella vicenda nota alla pubblica opinione come caso “Viola contro Italia”.
([25]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. 184.
([26]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. 184.
([27]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., pp. 107-108.
([28]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., pp. 107-108.
Relazione XXXV Congresso ANM, Roma, 14-16 ottobre 2022
di Giuseppe Santalucia, Presidente Associazione nazionale magistrati
Saluti
Signor Presidente della Repubblica, Signor Vicepresidente della Corte costituzionale, signor Vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura; Autorità, civili e militari; gentili ospiti; care colleghe, cari colleghi; cittadine e cittadini.
A nome dell’Associazione nazionale magistrati, che ho l’onore di rappresentare, do a voi tutti il benvenuto al nostro XXXV Congresso.
Rivolgo un deferente e grato saluto al Presidente della Repubblica, che ancora una volta ci onora e ci gratifica della Sua attenzione.
La Magistratura italiana, sig. Presidente, Le è riconoscente e coglie nella Sua vicinanza lo sprone ad operare sempre meglio nell’attuazione dei valori di cui, per Costituzione, è custode e interprete.
Un grazie sentito al Sindaco di Roma e al Presidente della Regione Lazio, per le parole, tutt’altro che di prammatica, con cui hanno voluto onorare questa nostra importante assise.
A distanza di poco meno di tre anni l’Associazione dei magistrati italiani torna a riunirsi in Congresso.
Lo fa a Roma per un duplice motivo: per un atto di omaggio alla magnificenza della città e per la sua centralità, non solo geografica, che esprime tradizionalmente una forza accomunante a cui abbiamo voluto affidarci per avere una partecipazione ampia.
I temi della giustizia hanno naturalmente un posto importante nel dibattito pubblico, ma oggi, per le ragioni a cui farò cenno, conquistano un rilievo che ci induce a ricercare un’attenzione ancora più forte.
Premessa
L’ultimo appuntamento congressuale di Genova cadde a pochi mesi dallo scandalo che interessò pesantemente il Csm e l’associazionismo giudiziario per le inaccettabili interferenze e commistioni nella gestione delle nomine dei cd. capi degli uffici.
L’imbarazzante dietro le quinte di quelle attività istituzionali conquistò la scena con le inevitabili ricadute sulla reputazione dell’istituzione consiliare e sull’immagine della Magistratura, con un carico di critiche e polemiche sull’Associazione magistrati di cui ancora portiamo il peso.
Da allora, altre crisi, di ben maggiore consistenza, hanno colpito la società intera.
La pandemia, che ha messo a dura prova la capacità delle Istituzioni democratiche di coniugare le istanze di sicurezza collettiva con le libertà individuali, dando occasione per riflessioni giuridico-filosofiche di particolare complessità.
Quindi, non appena si pensava di avere attraversato il peggio della crisi, con pesantissimi risvolti di carattere economico-sociale, sul percorso della appena avviata ricostruzione è piombata la crisi bellica.
Stiamo vivendo paure e ansie dimenticate. Si resta sgomenti nel sentir parlare del ricorso all’arma nucleare, nel veder infranto il tabù dell’indicibile, nel dover accettare l’idea che la memoria dell’orrore seminato nel secolo scorso non riesca a frenare l’incoscienza che conduce ad un domani in cui sarebbe impossibile distinguere vincitori e vinti.
Tutto ciò in un contesto reso ancor più cupo dai segni sempre più tangibili della crisi climatica, del disastro ambientale che fino a qualche anno fa porzioni consistenti della nostra società esorcizzavano collocandolo in un futuro remoto e che con una urgenza che sorprende i più ci impedisce di distogliere lo sguardo e ci impone di ragionare su cosa fare oggi, coscienti che è veramente breve il tempo a disposizione per invertire la rotta ed evitare tragedie che ciclicamente si ripetono – l’ultima quella che per il nostro Paese ha funestato le Marche –.
La crisi della Magistratura, e della Associazione che ne è voce unitaria, si colloca dunque in un quadro di una drammaticità epocale.
Ricordo questo non già per ridimensionare i problemi che si sono posti a noi magistrati con gli scandali venuti alla ribalta tre anni fa; ma credo che non si possa affrontare una discussione sulla Magistratura e sulla giurisdizione senza una corretta impostazione dei termini entro cui ragionare.
Non si può trascurare che l’amministrazione della giustizia è momento essenziale della vita della società e che non può essere esaminata prescindendo dai bisogni, dalle esigenze, dalle vicende che l’intera comunità vive e attraversa.
1. Le direttrici della reazione dell’associazione magistrati alla crisi
Si scorgono in tal modo, con la premessa della stretta relazione tra giurisdizione e società, le direttrici entro cui si è mossa l’Associazione magistrati, e che possono dirsi ambedue di metodo e di merito.
La prima si sostanzia nella convinzione che i problemi, le cadute, i passi falsi della Magistratura hanno immediata rifrazione sulla vita delle persone, anche quelli che appaiono i più interni e limitati all’assetto organizzativo.
Non dico che non sia stato e non sia doveroso evidenziare la differenza tra il piano della resa del servizio, del sentenziare su torti e ragioni delle parti, e quello della gestione delle carriere dei magistrati.
Occorre impedire che nella rielaborazione mediatica dei fatti incresciosi che lo scandalo ha portato ad emersione si alimenti confusione e si ingeneri la convinzione che i guasti hanno interessato non soltanto il pur delicato settore delle nomine agli incarichi direttivi ma anche e soprattutto le attività che si consumano nelle aule di giustizia.
Non è stato così!
È però innegabile che quegli episodi di malcostume non possano essere liquidati come interna corporis nell’illusorio tentativo di circoscriverne la portata.
Il dato centrale è che, al di là del settore di attività direttamente interessato, l’amministrazione della giurisdizione e non già la giurisdizione, hanno dimostrato, e non c’è da meravigliarsi, l’insidiosa capacità di intaccare la precondizione del render giustizia, ossia la fiducia della collettività nell’Istituzione, la sua credibilità sociale.
La seconda direttrice si rinviene nell’idea che l’avvio a soluzione dei problemi e la ricerca dei rimedi devono essere animati da un unico esclusivo fine, che è quello dell’agevolare, del rendere possibile il recupero della fiducia.
Non sfugge che l’obiettivo non può che essere per buona parte nelle mani dei magistrati, di tutti i magistrati.
La fiducia è un bene prezioso di cui non si può godere pro quota, non è frazionabile, al di là di quanto i singoli possano essere stimati per il proprio lavoro individuale.
Il rendere giustizia è un fatto ben più articolato, l’impegno e la fatica di ciascuno si innesta e si intreccia con l’attività degli altri, il prodotto è sempre plurale.
Bisogna esserne all’altezza come collettivo, e quindi nessuno si può consolare chiamandosi fuori da uno sforzo comune di riconquista del terreno perduto, ritagliandosi uno spazio vitale perimetrato dal proprio ufficio, dai propri fascicoli.
E però, la Magistratura, per quanto attore principale della ricostruzione, non può aver successo senza una alleanza, se così posso dire, con tutti gli attori della scena pubblica, e se non si diffonde la convinzione che l’istituzione è un bene collettivo e non affare dei magistrati.
La speranza è che sia finalmente messa da canto la pulsione, che in questi recenti anni abbiamo visto invece ravvivata, di poter mettere in riga l’ordine giudiziario, profittando delle difficoltà e del calo di credibilità.
Su questo terreno abbiamo insistito e lo faremo ancora non per difesa di corporazione, ma perché l’impulso di far pagare il conto ai magistrati non porta al superamento della crisi della giurisdizione ma apre al progressivo indebolimento di un suo connotato ideale, l’unico capace di alimentare e mantenere nel tempo la fiducia collettiva che tutti ricerchiamo: mi riferisco all’indipendenza dei magistrati dall’esterno e all’interno dell’ordine stesso.
Non è questo un artificio per sottrarmi ad un discorso sulla responsabilità della Magistratura.
2. Rapporti con la Politica
Al tema della responsabilità il Congresso ha dedicato la prima sessione, chiamando al tavolo esponenti autorevolissimi dell’Accademia, del Foro oltre che della Magistratura stessa.
Questo perché di responsabilità si vuole discutere, liberi da chiusure e da istinti di protezione e autoprotezione per gli errori dei singoli che sono stati anche errori di molti.
Non può negarsi però che l’analisi delle patologie sia stata condotta spesso a senso unico, che ad esempio nelle molte riflessioni critiche sulle degenerazioni all’interno del Csm si siano evidenziate soltanto le responsabilità della Magistratura e che poco spazio sia stato dedicato alla comprensione delle ragioni per le quali la cd. componente laica non ha esercitato con la necessaria continuità, come il Costituente si attendeva, quella benefica opera di interdizione delle possibili distorsioni corporative della maggioranza togata.
Una volta individuato il nodo nel rapporto tra la Magistratura e il Potere, tra il governo autonomo della magistratura e la politica, è mancata un’ampia e completa disamina delle loro relazioni, che sono state osservate solo da un’angolazione, quella appunto delle colpe dei magistrati.
Il risultato è che nell’ultima legge di riforma sono state oggetto di una riconsiderazione che mostra di esser figlia di una visione quanto meno parziale e pertanto inadeguata.
Mi permetto appena di rammentare:
- la norma delle ineleggibilità alla carica di parlamentare, anche europeo, di consigliere regionale e provinciale di quanti sono componenti del Csm o lo sono stati nei due anni precedenti, ma soltanto se magistrati;
- e l’espunzione dal disegno di legge di questa riforma della disposizione che faceva divieto di nominare componenti del Csm professori o avvocati con incarichi di governo o delle giunte regionali in atto o ricoperti nei due anni precedenti.
Mi sembra un chiaro indice di come il problema della contaminazione con il mondo della politica, intesa nel senso più ristretto dei rappresentanti di interessi di parte, sia stato affrontato nella prima occasione legislativa utile senza una messa a fuoco della complessità della vicenda.
Ma le norme non definiscono e non esauriscono ogni prospettiva di cambiamento, meno che mai in questi ambiti, ove un ruolo altrettanto significativo spetta alle scelte di ampia discrezionalità.
Per questa ragione siamo fiduciosi che, al di là delle previsioni di legge, il Parlamento saprà nominare una componente laica di alta statura che, per cultura giuridica e sensibilità istituzionale, agevolerà nel Consiglio che da qui a breve si insedierà il compimento di un processo di rinnovamento che, come sempre è accaduto, non può prescindere dalla buona volontà di donne e uomini.
Dico questo perché abbiamo a cuore le sorti del Csm, presidio dell’autonomia e della indipendenza della magistratura, titolare di attribuzioni alte che non sarebbe possibile esercitare sì come la Costituzione richiede, se fosse trasformato, come taluno vorrebbe, in mero esecutore di attività vincolate.
3. I contenuti della reazione dell’associazione agli scandali recenti
L’Associazione magistrati, esplosi gli scandali, ha cercato di muoversi nel tracciato che ho appena tentato di delineare. Non è rimasta inerte e frastornata dalla rivelazione degli intrecci tra mondo associativo, intromissione della politica e istituzione consiliare.
Ha reagito nel modo ritengo più corretto e soprattutto capace di assicurare effetti durevoli.
In tal modo ha forse deluso quanti al rumore degli scandali volevano che seguisse una reazione vistosa, altrettanto spendibile mediaticamente, e quanti anche in buona fede ritengono che la compostezza della reazione equivalga a debolezza e confusione, smarrimento e mancanza di progettualità.
L’Associazione magistrati si è ancor più impegnata, sulla falsariga dell’azione svolta dai gruppi dirigenti appena precedenti, nel ritornare nel suo alveo naturale, segnato da più di un secolo di Storia e descritto dalle indicazioni statutarie.
Ha perseguito la ricerca della normalità, come epilogo di una risolta elaborazione, obiettivo tutt’altro che banale perché posto all’esito di un costruttivo percorso autocritico.
In tutta sincerità, non ho visto fare altrettanto ad altre categorie professionali che hanno conosciuto e conoscono simili cadute.
Ciò ha condotto ad accentuare la vocazione comunitaria dell’azione associativa e a riscoprirne l’essenzialità in un sistema che vuole realmente assicurare indipendenza e autonomia della Magistratura.
Vari i versanti in cui ha scelto di operare.
Centralità del discorso sull’etica
a) Un primo versante è quello ove si è sperimentata la preminenza del discorso sull’etica professionale.
In una società democratica il potere della giurisdizione, che in nome della sua irrinunciabile indipendenza si sottrae al consenso, si legittima e si fa accettare non soltanto per la qualità tecnico-professionale ma anche e soprattutto per l’osservanza di quel complesso di regole di condotta, che a ben vedere non sono che la proiezione minuta degli stessi caratteri di imparzialità, neutralità e indipendenza, anche come lontananza da ogni centro di potere, che qualificano nel dover essere costituzionale la magistratura e che connotano, lo ribadisco, la sua azione come servizio e non come espressione della supremazia di un apparato.
I precetti etici sono di due tipi:
- quelli che tracciano una linea verso il basso, che individuano il contenuto minimo in mancanza del quale il comportamento merita una sanzione;
- e quelli che tendono verso l’alto, che delineano un modello ideale di magistrato, che hanno una funzione promozionale, che rinvengono le ragioni della loro effettività non nell’essere assistiti da una sanzione irrogabile dall’Autorità disciplinare ma dalla loro accettazione ad opera dei componenti del ceto professionale che li esprime.
Se le norme di responsabilità disciplinare sono riserva assoluta del legislatore, le norme di quell’etica che ho cercato di differenziare per la sua marcata funzione promozionale sono naturalmente il risultato di un comune sentire all’interno della Magistratura stessa.
Per questo ritengo che il Legislatore del 1994 ebbe una intuizione felice nell’affidare all’Associazione, che riunisce la stragrande maggioranza dei magistrati, l’elaborazione e l’adozione del codice etico.
Essa è stata chiamata a delineare il modello ottimale di magistrato nel confronto delle diverse sensibilità di cui la magistratura italiana è ricca, che sono ragioni di una unità ancor più consapevole e quindi più forte.
Negli anni meno recenti l’attenzione al tema dell’etica professionale non è stata costante. Si poteva forse fare di più per favorire una maggiore e diffusa conoscenza del codice etico sia all’interno che all’esterno della magistratura, in modo che potesse essere riconosciuto come fondamento di un rinnovato patto dei magistrati con la società.
Da ultimo, però, grazie anche alla stagione degli scandali, si è recuperato in fretta e sono state sfruttate in pieno le sue potenzialità anzitutto per mezzo di una modifica statutaria, intervenuta proprio nell’anno – 2019 – dell’esplosione degli scandali, che ha fatto della violazione delle relative norme un illecito disciplinare endo-associativo.
Attraverso la giuridificazione delle norme etiche di promozione, trasformate in precetti disciplinari, sono state poste le premesse per una accelerazione dei processi di sedimentazione nel vissuto giudiziario di quel complesso di regole.
L’impegno per l’etica è divenuto dei fronti più importanti di attività.
Ormai mensilmente, l’organo deliberante dell’associazione discute di violazioni e di sanzioni, ovviamente prive di contenuto afflittivo e tutte attestazione di quel sentimento di disapprovazione in cui si esprime e si rinnova l’adesione collettiva al modello di magistrato che il codice tratteggia.
Nel 2021 e nell’anno in corso sono stati aperti 102 procedimenti, ne sono stati ad oggi definiti 64, 16 con l’applicazione di sanzioni, le maggior volte della censura, 27 per sopravvenuti recessi dei magistrati dall’Associazione e 21 per insussistenza del rilievo deontologico.
Insomma, stiamo facendo i conti, e seriamente, con gli errori del passato. Sono anni importanti, in cui si stanno gettando le basi per una assai più efficace prevenzione delle cadute etiche attraverso un lavoro solo in apparenza repressivo e che ha il principale fine di irrobustire le autodifese culturali.
Ed è un bene che ciò avvenga nell’ambito dell’Associazione, in cui i magistrati si confrontano paritariamente al di là dei loro diversi ruoli, in cui un presidente di sezione della Corte di cassazione si può trovare a discutere e a confrontarsi con un magistrato in tirocinio senza beneficiare di alcuna posizione sovraordinata.
Proprio ciò che portava l’insigne giurista e Ministro Vittorio Emanuele Orlando a criticare, agli inizi del secolo scorso, la nascita della nostra Associazione è il suo più grande merito: la struttura schiettamente democratica della sua configurazione, che a ben vedere è il primo freno nei confronti del pericolo, sempre presente, di allentare la tensione etica verso la dimensione del servizio.
Non poche sono le difficoltà che si incontrano nella pratica applicativa.
La più importante è diretta conseguenza della natura privatistica dell’Associazione, che ne ostacola l’azione disciplinare perché essa è condizionata all’esistenza e alla permanenza della qualità di socio del magistrato incolpato, benché il codice sia della magistratura intera e non soltanto dei magistrati iscritti.
V’è poi quella di elaborare una giurisprudenza sul senso precettivo di norme giustamente dallo spettro ampio, molto ampio, appunto perché funzionali a tratteggiare il modello particolarmente virtuoso e non a tracciare la soglia oltre la quale si possa apprezzare l’inadempimento inaccettabile ai doveri minimi del ruolo.
E nuove difficoltà emergono sperimentando la necessità di arricchire il corredo di garanzie dell’incolpato, interrogandosi su quale possa essere il miglior equilibrio tra le esigenze di riservatezza del magistrato incolpato e il bisogno che il senso della sanzione si sostanzi non in un passaggio burocratico affidato al rapporto tra il singolo e l’organo statutario deliberante, ma in una consapevole, e quindi informata, reazione della intera comunità dei magistrati.
Nella reazione plurale al danno all’immagine dell’intero Corpo si coglie l’attitudine del codice a farsi concretamente fattore di promozione culturale, di orientamento dei comportamenti della magistratura intera.
Il discorso sull’etica è di importanza strategica, oggi più che in passato, ed è essenziale che di esso non si approprino luoghi altri, perché esso conservi i tratti di un impegno doveroso ma autonomo e quindi del tutto coerente con la fisionomia costituzionale di indipendenza.
Si deve allora essere consapevoli, devono esserlo i magistrati tutti, che cadute di attenzione su questo piano sarebbero assai poco tollerabili e potrebbero aprire al pericolo di attrarre porzioni più o meno consistenti di quelle raccomandazioni che guardano verso l’alto nell’area della rilevanza disciplinare con invitabile indebolimento degli spazi di libertà.
Rapporti con la società.
b) Un secondo piano di azione è quello della cooperazione con istituzioni ed enti per l’educazione alla legalità. L’Associazione ha intensificato la sua presenza nei luoghi ove le discussioni sul valore sociale della legalità sono più feconde e costituiscono un forte investimento nel futuro.
Ha sottoscritto con il Ministro dell’istruzione un protocollo di intesa per una cooperazione all’educazione e formazione alla legalità e ai valori della giustizia, con l’obiettivo della promozione della persona e della diffusione nel mondo giovanile della consapevolezza sui diritti e sui doveri che qualificano la cittadinanza.
Ha preso parte alla stipula di un accordo quadro intitolato “Educazione e formazione alla legalità” con il Ministero della Giustizia, il Consiglio nazionale forense e il Consiglio nazionale del notariato, condividendo la premessa, riporto testualmente, della opportunità che “i cittadini italiani e in particolare i giovani ricevano, da parte di coloro che sono interpreti della corretta applicazione della legge e dei valori a essa sottesi, una testimonianza che si possa tradurre anche in una attività di formazione e di educazione”. Di qui l’impegno all’organizzazione di attività educative in materia di legalità e giustizia, alla promozione di eventi formativi, alla collaborazione con il mondo scolastico
Ha siglato un altro protocollo con la Fipe-Confcommercio, la Federazione comparativamente più rappresentativa dei Pubblici esercizi italiani, per contribuire ad una compiuta conoscenza delle conseguenze, in termini di sanzioni di varia natura, della somministrazione di sostanze alcoliche ai minori e dei rischi, specie per la loro salute, a cui vanno incontro questi ultimi.
Ha stretto un rapporto di collaborazione con Legambiente, anche qui siglando un protocollo in vista dello svolgimento di comuni attività formative ed educative nelle scuole, rivolte sia ai docenti che agli alunni, per diffondere i principi e i valori della tutela dell’ambiente e così contrastare più efficacemente la cultura della illegalità
Non è stata questa una strategia per parlar d’altro e fare altro, per distrarsi da quel che ci tocca da vicino, perché è, al contrario, uno dei modi con cui si è cercato di evitare il pericolo di chiudersi, di allontanarsi dalla società, di pensare alla magistratura e quindi di pensarsi solo come un apparato del Potere.
La premessa sta nell’idea che la gestione di un potere rilevante come è quello di decidere i conflitti, di accertare responsabilità, di comprimere in nome della legge i beni primari della persona si deve accompagnare ad un costante riconoscimento dell’essere servizio.
Partecipazione al dibattito pubblico sui temi della giustizia
c) Un terzo – ma non certo in ordine di importanza – fronte di azione è quello della partecipazione al dibattito sulle riforme. La Magistratura associata ha cercato di essere presenza attenta, la sua azione è stata costantemente orientata all’obiettivo di poter concorrere a riforme di effettivo miglioramento del servizio.
È stata anche voce critica quando alcune di esse si sono mosse in direzione contraria a quel fine o hanno mostrato indifferenza per principi che disegnano l’architettura costituzionale della giurisdizione.
Non ha ricercato, nel periodo di sua maggior debolezza, la contingente convenienza, che suggeriva atteggiamenti di silenziosa compiacenza nella speranza di stemperare l’ondata di critiche con cui si è scontrata dall’indomani dello scandalo in poi.
Avrebbe potuto abbozzare, cedere a logiche egoistiche, evitare di esporsi, non affrontare il confronto reso assai più difficile da un’immagine pubblica appannata.
Ha adempiuto il dovere di prender parola, consapevole della difficoltà di comunicazione, nel rispetto massimo del ruolo e dei poteri del legislatore.
L’offerta di un contributo di idee e di esperienza nel corso dell’attività riformatrice non è una invasione del campo riservato alla Politica, non è un attentato alla sovranità parlamentare, ma un esercizio di democrazia partecipativa che consente, a beneficio di chi deve decidere, visioni più ampie e approfondite dei problemi.
4. Le recenti riforme
Si è appena concluso un periodo intenso di innovazioni legislative.
Sono stati riformati il codice di rito penale e il codice di rito civile, mentre l’intervento riformatore forse più delicato, la modifica dell’ordinamento giudiziario, è in attesa di attuazione.
Sul piano della riscrittura dei riti molte disposizioni chiamano i magistrati a nuovi e aggiuntivi incombenti.
Non tento sul punto neanche una sommaria esemplificazione, le sessioni congressuali di domani affronteranno diffusamente il tema.
Ciò accade in un frangente in cui si richiede alla Magistratura un massimo sforzo per abbattere i tempi dei processi in percentuali considerevoli, secondo le stringenti previsioni del Piano di ripresa e resilienza, e ciò mentre il suo organico si assottiglia.
I meccanismi di reclutamento sono stati fortemente rallentati durante il periodo di esplosione pandemica e gli sforzi attuali per lo svolgimento di nuovi concorsi produrranno effetti tra qualche anno ma non potranno rimediare alla carenza di risorse umane che intanto grava sul presente.
Non dimentico che sono stati immessi negli uffici giudiziari molti giovani giuristi, che compongono l’Ufficio per il processo, e non nego che si tratti di una risorsa importante, il cui ottimale utilizzo potrà dare i suoi buoni frutti.
Temo, però, che il loro apporto non potrà rimediare alle carenze del presente e non potrà esser d’ausilio, se non in misura modesta, nel fronteggiare i nuovi compiti che le riforme recenti assegnano.
È un difetto atavico della legislazione del nostro Paese la scarsa cura per le implicazioni organizzative che le innovazioni comportano. Si è attenti alle nuove architetture processuali e si trascurano i calcoli di sostenibilità, con l’effetto di scaricare su quanti quelle riforme dovranno attuare un surplus di responsabilità.
Se non si pone attenzione alla tenuta dell’impianto organizzativo, se non si provvede a dotare il sistema delle necessarie risorse il rischio di una riforma che voglia arricchire di diritti e garanzie gli ordinamenti, in questo caso processuali, è di produrre diritti e garanzie di carta.
Non è allora la scarsa volontà degli operatori pratici ad imbrigliare le riforme e ad impedire loro di esplicare il potenziale di innovazione, imprigionandole nelle prassi refrattarie ai cambiamenti. È piuttosto la scarsa attenzione del riformatore alla realtà delle condizioni di organizzazione che deprime la capacità di incidere sulle prassi che vorrebbe cambiare.
I magistrati, ciò nonostante, faranno tutto ciò che sarà nelle loro possibilità perché le riforme possano effettivamente migliorare il servizio.
Non hanno alcun interesse a mantenere ridotti livelli di efficienza, ed è evidente che in una stagione in cui la loro immagine è in crisi sanno di dover recuperare, e che ciò potrà farsi solo a condizione che le persone possano toccar con mano che la giurisdizione è una risorsa in termini di tutela dei diritti.
5. I nodi del nuovo ordinamento giudiziario
Le preoccupazioni maggiori hanno riguardato alcuni contenuti della legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario.
Su questo terreno l’Associazione ha manifestato con chiarezza il timore per la tendenza di quell’impianto normativo verso facili e affrettate soluzioni di organizzazione burocratica.
Questa riforma, animata dal fine di incrementare il servizio, fa correre il rischio di veder intaccato il modello di magistrato delineato in Costituzione: un magistrato che si distingue soltanto per diversità di funzioni, che non ha capi gerarchici, che segue logiche di giustizia e non logiche produttivistiche di aumento incontrollato delle statistiche.
Il disegno costituzionale di un magistrato non gerarchizzato con netta vocazione professionale non è per nulla incompatibile con un sistema giudiziario maggiormente capace di tenere il passo con i bisogni di una risposta rapida e di qualità.
La nostra convinzione è che l’efficienza non ha un metro di misura soltanto quantitativo e che si apprezza anche e forse di più sul terreno della qualità delle decisioni.
Cosa c’è di corporativo in questa posizione? Quale e dove la chiusura al nuovo e ai bisogni di modernizzazione?
Dalla riforma di ordinamento giudiziario ci si attendeva altro.
Forte era la speranza che rimediasse alle storture di una enfatizzazione della carriera e delle sue lusinghe, che per giudizio unanime sono state cofattore decisivo delle degenerazioni nelle attività del Csm e nelle relazioni tra associazionismo e sistema di governo autonomo della Magistratura.
Se il fine era di sopire l’ansia di far carriera, sarebbe stato necessario deprimere il peso e l’incidenza della carriera, riducendone gli spazi, disinnescando i meccanismi che ne hanno fatto crescere il fascino tra i magistrati, spinti a ricercare nelle promozioni e negli incarichi la compensazione delle frustrazioni per la quotidiana constatazione di farraginosità procedurali e organizzative che sono d’ostacolo alla gratificazione del rendere giustizia.
Qui si colgono le maggiori responsabilità della Politica, nel non aver ricercato le ragioni di un disagio, del malessere di parte della Magistratura, che si è manifestato nelle forme del carrierismo, patologia che è effetto e non causa del progressivo indebolimento della giurisdizione.
Non si è compreso che un discorso sulla responsabilità della Magistratura non si sviluppa utilmente imboccando la direzione di una revisione dell’organizzazione in senso accentuatamente gerarchico, con pagelle, fascicoli delle valutazioni onnivori ove si trova di tutto per poter dire di tutto, con capi che dispongono della leva del progressivo innalzamento dei livelli di produttività all’interno di programmi di gestione che non ammettono revisioni se non per ulteriori aumenti di numeri e di prodotto.
Non si è voluto comprendere che la giurisdizione non può essere ossessionata dagli obiettivi di efficienza, non deve essere schiacciata da una logica efficientista che punti tutto sul dato numerico dimenticando quel che un fascicolo di causa rappresenta: uno scorcio di vita, di sofferenza, di umanità ferita.
Il nostro auspicio è pertanto che, in sede di esercizio della delega legislativa, la Politica ascolti attentamente ciò che abbiamo da dire.
6. Cenni alla responsabilità della magistratura
Eppure, di responsabilità della Magistratura occorre ragionare.
La questione è però di come farlo, se con l’attenzione interamente rivolta al passato, a quel che si è commesso, oppure con lo sguardo al futuro, ponendo al centro del discorso quel che la Magistratura può fare in risposta alle attese e ai bisogni sociali in un tempo attraversato, innervato da instabilità e paure, incertezze e ansie per un avvenire sempre meno sicuro.
Un’avvertenza è doverosa, per evitare fraintendimenti.
La declinazione della responsabilità nei termini a cui ho appena fatto cenno non implica che i magistrati debbano misurare l’esercizio della loro discrezionalità interpretativa su un piano di valutazioni di opportunità del tutto soggettive e quindi arbitrarie o, per dirla, con il prof. Luciani, che il giudice debba giudicare non già in ragione dei presupposti, ma delle conseguenze auspicate o temute, secondo un’etica della responsabilità nel senso dell’orientamento alle conseguenze. L’orientamento è dato, piuttosto, dai principi e valori costituzionali, oltre che, ne siamo ormai consapevoli, da quelli convenzionali e sovranazionali.
Occorre, piuttosto, focalizzare l’attenzione su una responsabilità di metodo, sulla responsabilizzazione nell’uso degli strumenti dell’agire giudiziario.
Dall’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione la Magistratura, e con essa la sua Associazione, furono protagoniste nell’attuazione di quell’alto disegno di costruzione di una giurisdizione come presidio forte di garanzia dei diritti e delle libertà.
Autonomia e indipendenza, i “duri privilegi” di una giurisdizione democratica, furono progressivamente acquisiti al patrimonio ideale della Magistratura intera che superò, anche grazie al Legislatore del tempo, le incrostazioni verticistiche, autoritarie e conservatrici di un assetto che la vedeva, nei suoi gradi più alti, in stretto collegamento col potere.
Allo sforzo e all’impegno culturale di quei lunghi anni si deve la scoperta del significato autentico del dispositivo che dà identità costituzionale alla Magistratura.
Soggezione alla legge che non è subordinazione al Legislatore, alla politica, sì come nella dimensione prerepubblicana si era abituati ad intendere quel rapporto, ma si sostanzia nell’assenza di mediazioni di qualunque tipo nella relazione che lega il giudice-interprete alla legge.
Soggezione che non è asservimento meramente applicativo non foss’altro perché quel rapporto è animato democraticamente dal controllo diffuso di costituzionalità, che dà lo strumento per superare limiti non altrimenti valicabili di contrarietà alla legge fondamentale.
Quella formula, in un suo primo significato, è servita a bandire dal campo della giurisdizione ogni possibile interferenza che intendesse subordinarla al perseguimento di scopi altri e diversi dall’unico in cui si riconosce e si risolve, che è appunto l’attuazione del diritto, della legge nel suo essere parte di un sistema complesso che richiede – ed è qui il secondo significato della soggezione – una continua e faticosa ricerca interpretativa di coerenza.
Il periodo di grande crisi economica e sociale induce a riflettere con uno sforzo in più su quest’ultimo aspetto del vincolo di soggezione, a responsabilizzarsi rispetto al bisogno di maggiore prevedibilità delle decisioni.
Non si tratta ovviamente di rinverdire una assoluta primazia della legge quando l’ordinamento si compone di una pluralità di fonti, per buona parte non ordinate gerarchicamente, e la Costituzione ha occupato il posto di vertice prima assegnato alla legge.
In gioco è piuttosto la consapevolezza di muoversi all’interno di un mondo delle norme spesso complicato. Una complessità che richiede impegni interpretativi rivolti a contrastare spinte disgregatrici e a prevenire il rischio di confusione, di sovrapposizioni, di interferenze incoerenti, di contraddizioni che disorientano.
Da qui l’esigenza di prudenza e cautela interpretativa che si traduce nell’attenzione al precedente, al diritto cd. vivente, alla legge e al suo testo che, per quanto aperto ad una pluralità di letture, contiene pur sempre un numero finito di significati.
Prudenza e cautela che, nella prospettiva di concorrere alla tenuta sistematica del diritto, non sono espressioni di un conservatorismo di ripiego verso lidi che evitino la sovraesposizione di responsabilità, quanto piuttosto fattori che rafforzano nel compito di presidiare gli spazi in cui i conflitti sono più aspri e i bisogni di tutela più impellenti.
Oggi più che mai, nel tempo dell’incertezza che angoscia, occorre sfruttare la capacità ordinante del diritto, che non ingabbia e non deprime l’evoluzione ma consente al nuovo, se sapientemente e prudentemente costruito, di radicarsi e proporsi come momento di un sedimentato percorso di progresso.
Per questa via la giurisdizione, se mostrerà comprensione dell’esigenza diffusa di stabilità, potrà recuperare meglio e più in fretta quella fiducia di cui oggi si avverte la mancanza, e così volgere la crisi a suo vantaggio.
Concessioni “balneari” e la persistente necessità della pronuncia della Corte di Giustizia
di Ruggiero Dipace
Sommario: 1. Premessa - 2. I problemi sollevati dall’ordinanza e i quesiti sottoposti alla GUCE - 3. L’accertamento dei requisiti dell’interesse transfrontaliero e della scarsità della risorsa - 4. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
La complessa vicenda delle proroghe delle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali per finalità turistico-ricreative (di seguito “concessioni balneari”) approda alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Il Tar Puglia, sez. Lecce, con ordinanza 11 maggio 2002, n. 743 ha sottoposto alla Corte alcuni quesiti che riguardano innanzitutto il valore da attribuire alla direttiva 2006/123 (c.d. Bolkestein) e le relative conseguenze sulla possibilità di disapplicare la normativa nazionale sia da parte del giudice sia da parte dell’amministrazione[1].
Come noto, la questione è stata recentemente sottoposta alla valutazione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, con le decisioni 17 e 18 del 20 ottobre 2021, ha affermato in particolare che le norme di proroga automatica delle concessioni sono in contrasto con il diritto europeo stabilendo la loro decadenza una volta spirato il termine individuato dal giudice stesso[2]. Tali decisioni, però, al di là dell’affermazione della applicabilità del principio della concorrenza in materia, sono state oggetto di critica in relazione al ruolo di “supplenza” che il giudice amministrativo ha svolto in assenza di una normativa chiara e inequivoca. E invero, le continue proroghe stabilite normativamente hanno creato confusione e incertezze nella loro applicazione da parte delle amministrazioni concedenti alcune delle quali, in ossequio alla normativa europea favorevole alle procedure a evidenza pubblica, hanno negato le proroghe, disapplicando la normativa nazionale; altre amministrazioni hanno deciso in senso diametralmente opposto concedendo proroghe in applicazione della disciplina nazionale. Ciò perché è mancata e tutt’ora manca una disciplina attuativa della direttiva Bolkestein atta a dipanare i dubbi interpretativi in un settore certamente strategico per l’economia del nostro Paese. Da ciò deriva che il contenzioso scaturito dalle decisioni ondivaghe delle amministrazioni ha contribuito non poco a rendere complessa la situazione, che non è stata del tutto chiarita dalle decisioni del Consiglio di Stato.
Tale situazione non si è risolta neppure con la legge 5 agosto 2022, n. 118 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021) che, lungi dal definire il nuovo sistema di affidamento delle concessioni, si è limitata a delegare il Governo alla revisione della materia[3].
La persistente incertezza in ordine alla disciplina della materia, soprattutto con riferimento ad alcuni punti come il tema dell’accertamento della scarsità della risorsa e il legittimo affidamento per il concessionario uscente, induce a ritenere che un pronunciamento della Corte di giustizia sia quantomai attuale oltreché opportuno. Ciò anche alla luce del dibattito non solo giuridico ma anche politico sul tema nel quale si confrontano visioni diametralmente opposte che non rende certo l’approdo verso l’applicazione del principio di concorrenza.
2. I problemi sollevati dall’ordinanza e i quesiti sottoposti alla GUCE
L’ordinanza del Tar Lecce pone come prima questione quella dell’ambito di immediata e diretta applicabilità di una direttiva cd self executing. In particolare se, in coerenza con i principi generali di buona fede nei confronti degli amministrati, l’ambito di applicazione si limiti all’effetto verticale e non possa quindi essere invocato dalle Autorità nazionali, responsabili del suo mancato recepimento, in danno degli operatori privati.
Altro problema sollevato dall’ordinanza è se, in assenza di disposizioni specifiche dettagliate, tali da non lasciare residuare alcuna discrezionalità allo Stato membro e tecnicamente idonee a regolare in via diretta e automatica i rapporti tra pubbliche amministrazioni e privati, una direttiva possa imporre la disapplicazione delle disposizioni interne incompatibili con i principi da essa affermati, determinando una situazione di oggettiva incertezza. In particolare, con riferimento alla Direttiva 123/06, l’ordinanza sottolinea che, alla stregua dell’interpretazione autentica desumibile dal § 61 della sentenza Promoimpresa e confermata dalla sentenza CGUE, Grande Sezione, del 30 gennaio 2018 sulle cause C-360/15 e C-31/16 (§106) in relazione al “chiaro tenore letterale del Considerando n. 7”, essa è una “direttiva di armonizzazione”, che, se prescrive agli Stati membri l’adozione di disposizioni attuative di contenuto specifico e determinato (cd “armonizzazione esaustiva”), non è auto-esecutiva. Ne dà prova anche l’art. 12, della stessa direttiva che, come rimarcato dall’ordinanza, “prescrive l'adozione di una specifica determinata normativa nazionale di attuazione, ipotizzando evidentemente come necessaria e imprescindibile” per dettare “regole uniformi per l’effettuazione delle gare, relative ai requisiti di partecipazione e ai criteri di aggiudicazione, nonché criteri uniformi di determinazione eventuale ‘indennizzo’ in favore del concessionario uscente”.
Per cui in assenza di una di una tale specifica e dettagliata disciplina, che tenga conto anche della necessaria tutela di interessi pubblici prevalenti su quello della concorrenza, la tesi secondo cui i dirigenti dei singoli comuni - cui le regioni hanno delegato la competenza amministrativa in materia - dovrebbero indiscriminatamente disapplicare la normativa nazionale di proroga e procedere in piena autonomia alla indizione e gestione delle procedure selettive per l’affidamento delle nuove concessioni senza neppure regole di tutela della posizione dei gestori uscenti sarebbe incompatibile con “i principi fondamentali di completezza dell’ordinamento giuridico (così come etero-integrato dal diritto dell’Unione europea) e di certezza del diritto”, nonché con il principio di tutela del legittimo affidamento e con i principi a tutela del diritto di proprietà e del diritto d’impresa.
Peraltro lo stato di incertezza, afferma l’ordinanza, non è stato neppure fugato dalle decisioni dell’Adunanza Plenaria che nonostante la ritenuta immediata applicabilità della direttiva, hanno disposto un differimento degli effetti della sentenza determinando una proroga automatica della scadenza delle concessioni al fine di sollecitare un intervento del legislatore, ritenendo, quindi, necessaria l’approvazione di una normativa nazionale di concreta attuazione della direttiva.
Su questi punti l’ordinanza appare condivisibile.
Innanzitutto, occorre rilevare che la direttiva Bolkestein non contiene specifiche norme riferibili alle concessioni balneari e all’applicazione alle stesse del principio della concorrenza e questo qualunque posizione si voglia prendere sulla natura autoesecutiva o meno della stessa.
Inoltre, nel nostro ordinamento alla direttiva è stata data una formale e parziale esecuzione da parte del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 e tale normativa di recepimento non prevede l’applicazione del principio della concorrenza alle concessioni balneari né tantomeno prevede norme sulle procedure di selezione.
Tali disposizioni attuative specifiche sono vieppiù necessarie allorché si definisca di “armonizzazione” la direttiva.
L’applicazione della direttiva alla fattispecie delle concessioni balneari deriva piuttosto dall’interpretazione fornita dalla sentenza Promoimpresa, la quale ha affermato la natura autoesecutiva del solo art. 12 della direttiva stessa[4]. Ma tale norma impone la gara solo nelle ipotesi in cui le autorizzazioni riguardino risorse limitate e chiaramente rimandano agli Stati membri l’individuazione di una normativa specifica sulle modalità di effettuazione delle procedure di selezione.
Nel nostro ordinamento, quindi, manca una disciplina di attuazione chiara in relazione all’applicazione del principio della concorrenza alle concessioni balneari, una disciplina dei parametri per stabilire la “limitatezza” della risorsa al fine di applicare il disposto dell’art. 12 della direttiva.
Ciò ha comportato un’inammissibile situazione di disorientamento delle pubbliche amministrazioni e, in particolare, dei Comuni ai quali spetta la competenza al rilascio delle concessioni che hanno assunto decisioni spesso contraddittorie generando un contenzioso ingestibile.
3. L’accertamento dei requisiti dell’interesse transfrontaliero e della scarsità della risorsa
L’ordinanza, inoltre, sottopone alla Corte di Giustizia alcuni quesiti riguardanti temi che le stesse decisioni gemelle dell’Adunanza Plenaria non avevano risolto in maniera soddisfacente. Si tratta della verifica del requisito dell’interesse transfrontaliero certo e di quello della limitatezza della risorsa ai fini dell’applicazione del principio dell’evidenza pubblica.
Le decisioni dell’Adunanza Plenaria avevano ritenuto in via generale sussistente il requisito dell’interesse transfrontaliero certo e della scarsità delle risorse prendendo a parametro l’intero territorio nazionale senza svolgere alcun approfondimento istruttorio. Da ciò scaturiva la considerazione della generalizzata limitatezza del numero di autorizzazioni disponibili e, quindi, la necessità di applicare in ogni caso il principio dell’evidenza pubblica.
Il tema delle modalità di verifica dei requisiti dell’interesse transfrontaliero certo e del requisito della limitatezza della risorsa ai fini dell’applicazione del diritto eurounitaria appare assolutamente dirimente considerato che nessuna normativa nazionale, né quella di attuazione della direttiva 2006/123 né la recente legge di delega, stabiliscono criteri per l’accertamento della sussistenza di tali requisiti.
È da condividere, quindi, l’ordinanza del Tar allorché ritiene di investire la Corte di giustizia in merito alla corretta interpretazione della direttiva sui punti indicati.
Invero, le decisioni dell’Adunanza Plenaria non sono apparse del tutto convincenti in quanto hanno effettuato analisi generiche.
Infatti, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, svolgendo alcune considerazioni generali sul “mercato” delle concessioni demaniali con finalità turistico ricreative, ha specificato che in questi casi a venire in rilievo come strumento di guadagno offerto dalla pubblica amministrazione non è il prezzo di una prestazione, né il diritto di sfruttare economicamente un singolo servizio. Ciò che contraddistingue queste concessioni dagli appalti o dalle concessioni di servizi è che la pubblica amministrazione mette a disposizione dei privati un complesso di beni demaniali che costituiscono uno dei patrimoni naturalistici più attrattivi nel mondo. Per il Consiglio di Stato la potenzialità economica del mercato delle concessioni balneari dimostra che queste non possono essere sottratte al regime della concorrenza e dell’evidenza pubblica in quanto avrebbero un interesse transfrontaliero certo ai sensi dell’articolo 49 del TFUE, che disciplina la libertà di stabilimento nei paesi membri della Unione europea.
Sul punto occorre rilevare che la “presunzione” della sussistenza del requisito dell’interesse transfrontaliero per tutte le ipotesi di concessioni “balneari” deriva da un ragionamento effettuato in via del tutto astratta dal Consiglio di Stato, frutto anche di una incertezza qualificatoria dell’istituto, che ha equiparato autorizzazioni, concessioni e contratti. E da questa equiparazione ne è discesa l’applicazione del requisito dell’interesse transfrontaliero certo che invece si riferisce prioritariamente all’attività negoziale delle pubbliche amministrazioni. D’altra parte, l’Adunanza Plenaria, per precisare il concetto di interesse transfrontaliero, prende in esame la giurisprudenza europea sui contratti della pubblica amministrazione.
Ma oltre a questo argomento, il Consiglio di Stato afferma che l’obbligo di evidenza pubblica discende direttamente dall’applicazione dell’articolo 12 della direttiva servizi, che prescinde dall’individuazione dell’interesse transfrontaliero certo e si incentra sul requisito della “limitatezza” della risorsa.
Anche in relazione a tale requisito il Consiglio di Stato percorre una strada non condivisibile. Secondo il Consiglio di Stato, infatti, il concetto di scarsità deve essere interpretato tenendo conto non solo della quantità del bene disponibile, ma anche dei suoi aspetti qualitativi e, di conseguenza, della domanda che è in grado di generare da parte di altri potenziali concorrenti, oltre che dei fruitori finali del servizio. Tali considerazioni, però, vengono effettuate con un riferimento generico a tutto il territorio nazionale allorché si afferma che sussiste il requisito della scarsità della risorsa poiché la maggior parte delle coste sono occupate da stabilimenti balneari. E ciò senza neppure il supporto di dati certi derivanti da una mappatura del territorio nazionale.
Se, però, la valutazione in ordine alla sussistenza di tale requisito è, così come previsto dall’art. 12 della direttiva, presupposto indefettibile per l’indizione di una procedura a evidenza pubblica è evidente che devono essere le singole amministrazioni comunali, che hanno la competenza alla indizione delle gare a stabilire quando nel loro territorio ci si trovi dinanzi a risorse cd “scarse”. Non si ritiene possibile, quindi, che la valutazione su tale presupposto venga operata in via generale e “sostitutiva” da parte di una decisione del giudice senza alcun dato tecnico certo.
Questa valutazione, peraltro, non può essere effettuata in via generale e astratta, ma la legge deve indicare alle singole pubbliche amministrazioni quali siano i parametri, anche di tipo tecnico, per operare tale accertamento e quindi decidere se nel territorio comunale debbano essere indette o meno procedere a evidenza pubblica.
4. Considerazioni conclusive
Da quanto esposto si può concludere che sia auspicabile un rapido intervento della Corte di giustizia per avere una interpretazione autentica del diritto UE e nella specie della direttiva 123, dirimendo quindi i numerosi dubbi intrepretativi in materia che, come chiaramente affermato dall’ordinanza del Tar, hanno determinato “lo stato di caos e di assoluta incertezza del diritto connesso all'effetto di esclusione o disapplicazione meramente ostativa risulta devastante”.
D’altra parte occorre osservare che il tema dell’obbligo di disapplicazione per le pubbliche amministrazioni, così come affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, se in via astratta appare soluzione conforme ai principi generali più volte ribaditi dalla giurisprudenza, è tuttavia nel concreto di difficile attuazione in quanto comporta valutazioni molto spesso caratterizzate da un elevato livello di complessità e opinabilità spesso non alla portata degli uffici tecnici di amministrazioni comunali, in molti casi di piccole dimensioni, per giunta in un contesto in cui non è del tutto sicura la natura autoapplicativa della direttiva servizi. Ciò potrebbe indurre i funzionari pubblici a privilegiare soluzioni chiaramente imposte da norme nazionali (come le proroghe), disinteressandosi del diritto europeo di incerta applicazione per evitare rischi di contenzioso e di responsabilità.
[1] L’ordinanza è resa su un ricorso per l’annullamento degli atti con cui il Comune di Ginosa, in applicazione delle disposizioni di cui alla legge 145/2018 e al d.l. 34/2020, hanno disposto la proroga al 31 dicembre 2033 delle concessioni “balneari” in essere sulle proprie coste. Il ricorso è stato proposto dall’AGCM, ai sensi dell’art. 21 bis della l. 287/1990, per asserita inapplicabilità delle suddette disposizioni di legge in quanto contrastati con gli artt. 49 e 56 TFUE e 12 Direttiva 2006/123/CE.
[2] In relazione alla questione dell’applicazione della disciplina dell’evidenza pubblica alle concessioni balneari, anche alla luce delle sentenze dell’Adunanza Plenaria 17 e 18 del 2021, la dottrina si è molte volte soffermata; basti richiamare solo alcuni contributi presenti in questa rivista: M.A. Sandulli, Sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, 2, 2022; F. Francario, Se questa è nomifilachia. Il diritto amministrativo 2.0. secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 1, 2022; E. Zampetti, Le concessioni balneari dopo le pronunce Ad. Plen. 17 e 18 2021. Definito il giudizio di rinvio innanzi al C.G.A.R.S. (nota a Cgars, 24 gennaio 2022 n. 116), 1, 2022; E. Cannizzaro, Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee? In margine alle sentenze 17 e 18/2021 dell’Ad. Plen, 12, 2021; F. P. Bello, Primissime considerazioni sulla “nuova” disciplina delle concessioni balneari nella lettura dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 11, 2021; R. Dipace, All’Adunanza plenaria le questioni relative alla proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative, 7, 2021. Al tema è stato anche dedicato un numero speciale della Rivista Diritto e Società n. 3/2021: “La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenza 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria”, con scritti di M.A. Sandulli, F. Ferraro, G. Morbidelli, M. Gola, R. Dipace, M. Calabrò, E. Lamarque, R.Rolli - D. Sammarro, E. Zampetti, G. Iacovone, M. Ragusa, P. Otranto, B. Caravita di Toritto - G. Carlomagno.
[3] La l. 118/2022 5 agosto 2022 ha delegato il governo a riordinare e semplificare la materia definendo alcuni criteri della nuova disciplina (art. 4). In sintesi, tali criteri attengono alla determinazione dei parametri per l'individuazione delle aree suscettibili di affidamento in concessione; all’affidamento delle concessioni sulla base di procedure selettive, nel rispetto dei principi di imparzialità, non discriminazione, parità di trattamento, massima partecipazione, trasparenza e adeguata pubblicità; all’adeguata considerazione degli investimenti, del valore aziendale dell'impresa e dei beni materiali e immateriali, della professionalità acquisita anche da parte di imprese titolari di strutture turistico-ricettive che gestiscono concessioni demaniali, nonchè valorizzazione di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori, della protezione dell'ambiente e della salvaguardia del patrimonio culturale; alla definizione di una disciplina uniforme delle procedure selettive di affidamento delle concessioni; all’adeguata considerazione, ai fini della scelta del concessionario, della qualità e delle condizioni del servizio offerto agli utenti; alla valorizzazione e adeguata considerazione dell'esperienza tecnica e professionale già acquisita in relazione all'attività oggetto di concessione, secondo criteri di proporzionalità e di adeguatezza e, comunque, in ma niera tale da non precludere l'accesso al settore di nuovi operatori; alla considerazione della posizione dei soggetti che, nei cinque anni antecedenti l'avvio della procedura selettiva, hanno utilizzato una concessione quale prevalente fonte di reddito; alla previsione di clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato nell'attività del concessionario uscente, nel rispetto dei principi dell'Unione europea e nel quadro della promozione e garanzia degli obiettivi di politica sociale; alla previsione della durata della concessione per un periodo non superiore a quanto necessario per garantire al concessionario l'ammortamento e l'equa remunerazione degli investimenti autorizzati;alla definizione di criteri uniformi per la quantificazione di canoni annui concessori; all’introduzione di una disciplina specifica dei casi in cui sono consentiti l'affidamento da parte del concessionario ad altri soggetti della gestione delle attività, anche secondarie, oggetto della concessione e il subingresso nella concessione stessa; alla definizione di criteri uniformi per la quantificazione dell'indennizzo da riconoscere al concessionario uscente, posto a carico del concessionario subentrante.
[4] Corte di giustizia UE, sez. V, 14 luglio 2016, C-458/14 e C-67/15) secondo la quale l’art. 12, par. 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE “deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico-ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati”.
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