ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ricordo di Maurizio Fioravanti
di Antonello Cosentino
A poche settimane dalla scomparsa di Paolo Grossi la cultura giuridica italiana subisce un nuovo, dolorosissimo, lutto.
Il 19 agosto è scomparso, pochi giorni dopo aver compiuto settant'anni, il prof. Maurizio Fioravanti, che di Paolo Grossi è stato illustre allievo e continuatore nell’insegnamento della storia del diritto medievale e moderno nella Facoltà, e poi nella Scuola, di Giurisprudenza dell’Ateneo fiorentino. In tale Ateneo egli era professore emerito, dopo aver insegnato nelle Università di Macerata e di Modena, essere stato visiting professor presso l’Università di Chicago ed aver svolto attività di ricerca in Germania, presso il Max Planck Institut per la storia del diritto europeo.
Egli ha focalizzato la sua attenzione sulla storia del diritto pubblico e, in particolare, del diritto costituzionale, approfondendo i temi della storia costituzionale comparata e della storia del costituzionalismo e insegnando anche, per molti anni, Storia delle costituzioni moderne.
Il prof. Fioravanti è stato uno storico, non un antiquario, del diritto; aveva la visione dello storico, ma guardava il presente. La sua attenzione è sempre stata rivolta essenzialmente ai problemi dell’oggi, alla forma di Stato ed all’assetto costituzionale dell’Italia di oggi; ed è perciò che, pur da storico, egli ha sempre intessuto un dialogo serrato con gli studiosi del diritto pubblico positivo, tanto da essere stato autorevole componente del comitato direttivo della rivista Diritto Pubblico, fondata nel 1995 da Andrea Orsi Battaglini.
Nella consapevolezza che «nessun tempo storico può produrre categorie universali»[1], egli ha consegnato ad una prospettiva storica - così negandone, appunto, il carattere universale - le categorie del modello ottocentesco dello Stato di diritto, da lui chiamato “Stato di diritto della tradizione” e contrapposto allo “Stato costituzionale del presente”, ossia alla forma politica del nostro tempo.
Non è possibile sintetizzare in queste brevi note, né avrei le competenze per farlo, i contenuti del grandissimo contributo offerto dal prof. Fioravanti agli studi di storia del diritto. Qui voglio soffermarmi su un punto, in particolare, della sua vastissima riflessione: quello del rapporto del giudice con la legge e con la Costituzione.
È una riflessione che nasce da un ricordo personale.
Nel 2017 fui invitato ad intervenire in un convegno, a Firenze, destinato a presentare il numero monografico di Questione Giustizia n. 4/2016, intitolato Il giudice e la legge. Ho un ricordo nitido di quel bellissimo pomeriggio. Dopo il mio ed altri interventi, prese la parola il prof. Fioravanti; egli incantò, letteralmente, la platea, svolgendo - con il suo eloquio semplice, quasi familiare, adornato da un robusto accento toscano - una relazione che metteva a fuoco con straordinaria chiarezza il mutamento del ruolo del giudice nel passaggio dallo “Stato di diritto della tradizione” allo “Stato costituzionale del presente”. Nello “Stato di diritto della tradizione”, spiegò, esisteva una linea verticale che ordinava, procedendo dall’alto verso il basso, la Costituzione, la legge e il giudice. Il giudice quindi, collocato più in basso della legge, non poteva "vedere" la Costituzione e, dunque, la conosceva solo per il tramite della legge; nello “Stato costituzionale del presente”, per contro, il giudice tende a “smarcarsi” - usò proprio questo termine, sottolineando egli stesso che l’espressione proveniva dal linguaggio calcistico - ossia a spostarsi per “vedere”, dietro la legge, la Costituzione.
L’ immagine del giudice che “si smarca” per “vedere” la Costituzione dietro la legge mi colpì moltissimo e, con me, colpì tutto l'uditorio. Era una immagine di una plasticità potente, come può essere concepita solo da un grande didatta, quale il prof. Fioravanti è stato. Era un'immagine, allo stesso tempo, profonda e semplice, capace di spiegare, da sola, tutta la storia della magistratura italiana a partire dal congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati di Gardone del 1965.
La mozione finale di quel congresso, approvata all’unanimità, ha affermato che il giudice «deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un'applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione»[2].
Cos'altro era quella «applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione» se non il consapevole superamento del postulato di Raymond Carré de Malbérg secondo cui il giudice applica la legge, e non la Costituzione? Cos’altro era quella dichiarazione contenuta nel documento congressuale dell’Associazione Nazionale Magistrati se non l’esplicitazione della volontà di “vedere” la Costituzione dietro la legge? se non il programma di «reperire nel nostro ordinamento un tipo di garanzia dei diritti di ordine completamente giurisdizionale, che si esplica cioè tra il giudice che solleva la questione di costituzionalità, la giurisprudenza della Corte, e il seguito che questa ultima ha con la sua decisione presso gli stessi giudici» ?[3]
Per il prof. Fioravanti - come egli stesso ci spiegò in quella vera e propria lectio magistralis che fu il suo intervento nel convegno fiorentino del 2017 [4]- potere legislativo e potere giudiziario stanno affiancati, uno accanto all’altro, di fronte alla Costituzione ed entrambi devono collaborare per l'attuazione dei principi costituzionali. Non si può infatti partire dal presupposto, egli sottolineò a chiusura del suo intervento, che tra i due poteri, alla fine, ci debba essere un vincitore o un vinto. Ed è proprio questa conclusione, a mio avviso, il prezioso retaggio che il prof. Fioravanti lascia alla magistratura ed alla politica italiana.
[1] M. Fioravanti, Passato, presente e futuro dello stato costituzionale odierno, in Nomos. Le attualità nel diritto, 2018, 2, pag. 1.
[2] Cfr. E. Bruti Liberati, Considerazioni su magistratura e società, in Questione Giustizia on line, 10. 2. 2017.
[3] Ancora M. Fioravanti, loc. cit., pag. 7.
[4] Chi sia interessato, può vedere su youtube la registrazione di quel convegno - Dialoghi su giurisdizione e legge, Firenze, 11 maggio 2017 - al link https://www.youtube.com/watch?v=JSVPReWYg2c ; l'intervento del prof. Fioravanti è al minuto 2:08:16.
Dirigenza giurisdizionale e dirigenza amministrativa riguardo agli addetti all’U.P.P. presso la Corte di Cassazione
di Raffaele Frasca
Sommario: 1. Premessa. - 2. L’art. 11 e l’art. 12 del d.l. n. 80 del 2021. - 3. Le Circolari del Ministero della Giustizia. - 4. Il Decreto del Primo Presidente della Corte n. 119 del 2021. - 5. Conclusioni.
1. Premessa.
L’intento di queste note è di svolgere una riflessione, anzi direi una puntualizzazione, sull’atteggiarsi del rapporto fra la dirigenza giurisdizionale e quella amministrativa riguardo alle modalità di utilizzo degli “addetti” all’Ufficio per il Processo (UPP) in Corte di Cassazione. La riflessione su tale rapporto – che svolgerò, per quanto di mia competenza, con l’occhio rivolto al settore civile, ma con considerazioni che si debbono ritenere estensibili al settore penale[1] - mi sembra imposta dalla constatazione che si è sostenuta l’esistenza di una sorta di ibridismo delle loro funzioni, che, a mio avviso, lo dico subito, è del tutto inesistente, e lo si è fatto imputandola a torto alla volontà del legislatore, che invece non la giustifica affatto.
Anticipo che, se il preteso ibridismo potrebbe apparire imputabile soltanto ad un equivoco indotto dalla novità dello status che gli addetti hanno ricevuto a seguito dell’assunzione secondo la tecnica della costituzione di un rapporto di lavoro pubblico a tempo determinato, la corretta lettura delle norme sulle funzioni e sui compiti che gli addetti all’UPP sono chiamati a svolgere avrebbe dovuto scongiurare l’equivoco.
Avverto che la mia riflessione concerne specificamente la posizione degli addetti all’UPP presso la Corte di Cassazione, ma le sue conclusioni possono ritenersi pertinenti anche all’UPP presso gli uffici di merito.
Mi soffermerò sulla situazione determinatasi con riferimento all’Ufficio del Processo, costituito presso la Corte di Cassazione in forza del disposto dell’art. 11, comma, 1 del d.l. n. 80 del 2021, convertito, con modificazioni, nella l. n. 113 del 2021. Peraltro, le conclusioni raggiunte si attaglieranno anche all’Ufficio del Processo come disciplinando dal decreto legislativo recante norme sull’Ufficio per il Processo in attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206 e della legge 27 settembre 2021, n. 134, di cui è già circolato uno schema ancora in gestazione. I contenuti relativi alle funzioni ed ai compiti degli addetti ivi presenti sono infatti nella sostanza non dissimili da quelle vigenti in attuazione del citato art. 11.
Ciò premesso, ricordo che la figura degli “addetti” all’Ufficio per il processo è stata introdotta dal citato art. 11, comma 1, del d.l. n. 80 del 2021. La disposizione è intervenuta in una situazione nella quale l’ufficio per il processo era già normativamente previsto per gli uffici di merito, ma non per la Corte di Cassazione[2].
L’art. 11, nell’introdurre la figura degli addetti all’ufficio per il processo non ha previsto in modo diretto la costituzione di un UPP presso la Corte di Cassazione. Lo ha fatto in modo, se così può dirsi, indiretto e non scevro per ciò di una certa singolarità, creando appunto una nuova figura lavorativa in seno all’Amministrazione della Giustizia, quella degli “addetti all’ufficio per il processo” e prevedendone l’operatività anche alla Corte di Cassazione. In tal modo, per un verso si è ampliata la platea dei soggetti coinvolti nell’ufficio del processo per come disciplinato dalla precedente legislazione e, per altro verso, facendo riferimento all’operatività della nuova figura anche per la Corte di Cassazione, si è implicitamente previsto che l’UPP si costituisse pure preso la Corte.
L’introduzione della figura è stata fatta in funzione della più ampia realizzazione degli obiettivi del PNNR, costituente il titolo del d.l., e con specifico riferimento nella norma di esordio del Capo II, che si apre con l’art. 11, alle “misure urgenti per la giustizia ordinaria e amministrativa”.
Il citato art. 11 è rubricato, del resto, proprio con questa espressione.
Il modo in cui l’art. 11, nel quadro di una disposizione generale individuatrice della nuova figura degli addetti all’UPP e delle modalità di costituzione dei relativi rapporti individuali, ha introdotto l’ufficio per il processo in Cassazione risulta, come ho detto, “indiretto” ed “implicito”, perché la norma ebbe a stabilire che in esito alla proceduta di reclutamento degli addetti, dovesse farsi l’assegnazione di una quota fissa non superiore a 400 all’ufficio per il processo presso la Corte di Cassazione (in concreto poi limitata in prima battuta, a 200 unità).
Questa previsione ha rappresentato l’epifania normativa dell’UPP presso la Corte di Cassazione ed il suo contenuto ebbe il valore di prevedere, come ho detto implicitamente, l’istituzione di un UPP presso la Suprema Corte, giacché l’assegnazione di una quota fissa degli addetti non poteva che rivelare l’intento di disporre la costituzione dell’ufficio per il processo pure presso la Corte, naturalmente con una struttura che, per un verso ripetesse quella degli UPP presso gli uffici di merito e ciò anche quanto ai giudici.
In precedenza, pur essendo normativamente già regolata, la figura dell’Ufficio per il Processo non era certamente prevista per la Corte di Cassazione, ma solo per gli uffici di merito[3].
In ragione dell’introduzione del disposto legislativo e nelle more del procedimento di reclutamento degli addetti, ricordo che – evidentemente svolgendo, nell’àmbito delle sue funzioni, un potere di indicazione delle modalità di attuazione di un disposto recante come ho detto implicitamente la prescrizione della costituzione di un UPP presso il giudice di legittimità[4] – il C.S.M. adottò, in data 13 ottobre 2021, una deliberazione di modifica delle tabelle per gli anni 2020-2002, stabilendo che la costituzione dell’ufficio per il processo “potesse” avvenire anche presso la Corte di Cassazione, nonché un’altra coeva deliberazione recante le “linee guida” in proposito.
Sulla base del disposto del d.l. n. 80 del 2021 e delle citate delibere del CSM, ma evocando a monte il disposto dell’art. 16-octies del D.l. n. 179 del 2012, convertito con modificazioni, nella l. n. 221 del 2012 (articolo dall’art. 50 del d.l. n. 90 del 2014, convertito nella l. n. 114 del 2014), che aveva previsto l’UPP presso giudici di merito, con decreto n. 119 del 29 dicembre 2021 il Primo Presidente della Corte di Cassazione ha disposto, quindi, l’istituzione dell’UPP presso la Corte, che, naturalmente ha compreso non solo la nuova figura degli addetti all’UPP, ma anche quelle fra le figure indicate dall’art. 16-octies presenti in Cassazione.
La ragione di queste note è che risulta sostenuta da taluni commentatori e non mi pare affatto condivisibile l’idea che il legislatore, introducendo con l’art. 11 citato del d.l. n. 80 del 2021 la figura degli addetti all’UPP, avrebbe creato una figura connotata da un ibridismo di funzioni sia pure nella logica del funzionamento dell’UPP, con conseguente ripercussioni sia sull’individuazione dei compiti da espletarsi da essi in seno all’UPP, sia sull’individuazione del potere direttivo riguardo ai compiti stessi. E’ evidente che questa idea di ibridismo può comportare, alla prova dell’espletamento da parte degli addetti delle loro funzioni presso l’UPP di Cassazione (ma non diversamente presso gli UPP degli uffici di merito), ricadute o comunque problemi in ordine al rapporto fra la dirigenza giurisdizionale e la dirigenza amministrativa della Corte nelle rispettive articolazioni (e così presso gli uffici di merito).
2. L’art. 11 e l’art. 12 del d.l. n. 80 del 2021.
Vediamo innanzitutto più specificamente il tenore dei disposti normativi che hanno introdotto la nuova figura degli addetti all’UPP.
L’art. 11 del d.l. n. 80 del 2021, per quanto attiene alla giurisdizione ordinaria, nel comma 2, dopo avere previsto nel comma 1 la modalità di assunzione degli addetti con un contratto di lavoro a tempo determinato, indicò come requisito legittimante alla partecipazione alla procedura concorsuale finalizzata all’assunzione il possesso della laurea in giurisprudenza (e, per una quota limitata, da indicarsi nel bando di concorso, della laurea in economia e commercio o scienze politiche).
Nel secondo, terzo e quarto inciso il comma 2:
a) precisò che, in deroga alle norme degli artt. 2, comma 2, 40 e 45 del d.lgs. n. 165 del 2001 (e, dunque, alla sostanziale rilevanza della contrattazione collettiva in ordine alla individuazione del profilo professionale e retributivo dei dipendenti pubblici), la specificazione del profilo professionale degli addetti, cioè dei loro compiti, fosse quella indicata nell’Allegato II, numero 1 allo stesso d.l.;
b) dispose, quanto «al trattamento economico fondamentale ed accessorio e ad ogni istituto contrattuale, in quanto applicabile», l’equiparazione degli addetti al persona di cui «ai profili dell’area III, posizione economica F1»;
c) ed in fine (ultimo inciso) stabilì che il Ministero della Giustizia, «sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative», potesse stabilire «anche in deroga a quanto previsto dalla contrattazione collettiva, particolari forme di organizzazione e di svolgimento della prestazione lavorativa, con riferimento al lavoro agile e alla distribuzione flessibile dell'orario di lavoro».
Il successivo art. 12 – rubricato “modalità di impiego degli addetti all’ufficio per il processo” – nel comma 2 ribadì il rinvio al ricordato allegato, stabilendo che «le modalità di impiego degli addetti all’ufficio per il processo presso gli uffici giudiziari della Giustizia ordinaria sono individuate all’Allegato II, numero 1».
Il comma 3, a sua volta dispose che «all'esito dell'assegnazione degli addetti all'ufficio per il processo di cui al comma 2, il Capo dell'ufficio giudiziario entro il 31 dicembre 2021, di concerto con il dirigente amministrativo, predispone un progetto organizzativo che preveda l'utilizzo, all'interno delle strutture organizzative denominate ufficio per il processo, degli addetti selezionati in modo da valorizzare il loro apporto all'attività giudiziaria.».
Il ricordato Allegato II, numero 1 – essendo chiaramente estranee all’UPP le precisazioni contenenti le specifiche e i contenuti professionali indicati come relativi agli “specialisti della gestione nella Pubblica Amministrazione” e agli “esperti legali in imprese o enti pubblici” - indicò, sotto la rubrica “attività di contenuto specialistico”, le mansioni degli addetti all’UPP con un elenco che suona in questi termini: «studio dei fascicoli (predisponendo, ad esempio, delle schede riassuntive per procedimento); supporto al giudice nel compimento della attività pratico/materiale o di facile esecuzione, come la verifica di completezza del fascicolo, l’accertamento della regolare costituzione delle parti (controllo notifiche, rispetto dei termini, individuazione dei difensori nominati ecc.), supporto per bozze di provvedimenti semplici, il controllo della pendenza di istanze o richieste o la loro gestione, organizzazione dei fascicoli, delle udienze e del ruolo, con segnalazione all’esperto coordinatore o al magistrato assegnatario dei fascicoli che presentino caratteri di priorità di trattazione; condivisione all’interno dell’ufficio per il processo di riflessioni su eventuali criticità, con proposte organizzative e informatiche per il loro superamento; approfondimento giurisprudenziale e dottrinale; ricostruzione del contesto normativo riferibile alle fattispecie proposte; supporto per indirizzi giurisprudenziali sezionali; supporto ai processi di digitalizzazione e innovazione organizzativa dell’ufficio e monitoraggio dei risultati; raccordo con il personale addetto alle cancellerie.».
Ebbene, se ci si interroga su quali siano le implicazioni di tali disposti normativi in ordine all’individuazione di chi debba esercitare rispetto agli addetti il potere di individuare in concreto – cioè dando attuazione alle previsioni dell’allegato - i loro compiti e le loro specifiche funzioni, di controllare ed esaminare il risultato del loro espletamento, di rappresentare, dunque, il loro “organizzatore”, in altri termini su chi debba esercitare le funzioni di dirigenza del loro operato, mi sembra decisamente che il contenuto di detti disposti e in particolare la natura dei compiti di cui all’Allegato non lasci spazio che ad una sola alternativa.
I compiti e le funzioni indicati nell’allegato sono certamente strumentali all’esercizio della funzione giurisdizionale magistratuale, e, dunque, in Cassazione, del “giudice Corte di Cassazione”, ma non lo sono, per il loro contenuto e per la conseguente loro natura, nel senso in cui deve dirsi strumentale l’attività del personale amministrativo ordinario di cancelleria.
Si tratta di attività che in alcun modo ineriscono alle funzioni, cioè alle prestazioni lavorative, che normalmente espleta il personale di cancelleria. Esse riguardano invece attività che sono normalmente da compiersi dal giudice (e, quindi, dal “giudice Cassazione”), nelle varie articolazioni in cui viene espletato il lavoro del giudice, e lo sono quali attività preparatorie rispetto al momento decisionale o comunque all’adozione del provvedimento con cui il giudice e, dunque, il “giudice Cassazione”, è chiamato ad esternare la sua funzione.
Tale affermazione trova giustificazione nella considerazione analitica dell’elenco dell’Allegato.
Così, lo studio dei fascicoli, con quanto l’allegato prevede (in via esemplificativa alludendo alla predisposizione di schede riassuntive del procedimento), è attività che è chiaramente estranea al profilo delle prestazioni da svolgersi da qualsiasi figura dell’ordinario personale amministrativo.
L’attività di verifica della completezza del fascicolo e l’accertamento della regolare costituzione delle parti con le specificazioni dell’allegato è anch’essa un’attività che il giudice affidatario del fascicolo e nel momento decisionale il giudice- collegio (se la decisione è collegiale) deve compiere nell’àmbito del corretto esercizio delle sue funzioni ed in vista dell’attività provvedimentale: lo fa, del resto, manifesto lo stesso uso dell’espressione “supporto al giudice”.
È da rilevare che, sebbene non perché inerente ai compiti formalmente propri del personale cancelleria, ma sulla base di una logica di mera collaborazione fra il giudice e tale personale e tenuto conto che la custodia dei fascicoli (anche in àmbito digitale) compete a quel personale, il compimento di una simile attività di verifica avrebbe potuto essere richiesto a quel personale (per esempio: il relatore designato avrebbe potuto chiedere al cancelliere se è presente un documento nel fascicolo o se risulta l’esistenza di una notificazione), ma, non solo in ultima analisi, il giudice – è questo il punto - non avrebbe potuto “fare affidamento” su tale controllo, avendo l’onere, in quanto funzionale all’esercizio corretto della sua funzione, di procedere comunque al controllo egli stesso, ma altresì no avrebbe potuto affatto “pretendere” dal personale l’espletamento di detta attività, in quanto estranea ai doveri e compiti di esso. La novità dell’attribuzione agli addetti di questi controlli connota la relativa prestazione come svolgimento di un’attività che in ultima analisi continua a spettare, come spettava, al giudice come risultato finale, ma di cui essi assumono formalmente la responsabilità, nel mentre prima la richiesta dei controlli al personale di cancelleria, in quanto frutto di una scelta del giudice e non essendovi previsione normativa, risultava espressione di mera richiesta di generica collaborazione del tutto informale, inidonea – essendo estranea ai compiti specifici del personale di cancelleria – a determinare responsabilità.
Per quanto attiene al controllo della pendenza di istanze o richieste, si rileva che al personale di cancelleria non ineriva affatto il controllo, ma semmai l’onere di notiziare il giudice e, dunque, anche il “giudice Cassazione”, della loro presentazione, essendo il controllo un’iniziativa del giudice. Di pertinenza del giudice era, poi, la “gestione” di istanze e richieste. Si tratta dunque, di attività del tutto estranee ai compiti del personale di cancelleria e che prima erano da compiersi d’iniziativa del giudice.
È lapalissiano, poi, che l’attività di supporto nella redazione di provvedimenti in alcun modo era riferibile al personale di cancelleria, trattandosi di attività che il giudice doveva compiere in proprio, per così dire “autosupportandosi”.
L’attività che viene definita organizzazione dei fascicoli, delle udienze e del ruolo è ed era un’attività di cui il giudice è ed era responsabile e, dunque, di sua spettanza e non certo di spettanza al personale di cancelleria e meno che mai ad essa delegabile. Se anche per il suo espletamento il giudice poteva avvalersi dell’ausilio del personale ordinario (sempre per la posizione custodiale del medesimo), l’avvalimento non poteva certo concernere l’organizzazione di fascicoli, udienze e ruolo, ma solo le attività prodromiche all’esercizio in concreto del potere organizzativo: per esempio, se il giudice aveva in animo di organizzare udienze in una certa materia, al personale poteva richiedere che gli fossero messi a disposizione i fascicoli pendenti relativi ad essa, ma nulla di più. L’organizzazione funzionale al risultato, era attività magistratuale ed ora può essere espletata attraverso gli addetti, con assunzione ovvia di responsabilità e sempre fermo restando che il risultato conseguente suppone un’attività finale comunque riferibile e, in ultima analisi, da approvarsi dal giudice e, dunque, al giudice imputabile.
Attività oggettivamente inerenti in modo manifesto e che non abbisogna di dimostrazione all’espletamento della funzione del giudice ed in alcun modo, questa volta nemmeno a livello soltanto preliminare suscettibili di coinvolgere il personale ordinario di cancelleria, sono tutte le altre dell’elenco.
In fine, è attività non riferibile al personale di cancelleria, cioè non considerabile come espletata antecedentemente da tale personale, quella finale indicata come di “raccordo con il personale addetto alle cancellerie”: è palese che ci si riferisce ad un’attività di raccordo che necessariamente è espressione dell’esercizio, sia pure a livello interno, della funzione giurisdizionale propria del giudice. In altri termini agli addetti si assegna un compito di svolgimento di un’attività di raccordo che altrimenti sarebbe stato esercitabile direttamene dal giudice e di cui, nuovamente, sempre il giudice è, com’era antecedentemente, il responsabile finale in quanto l’attività di raccordo era com’è pur sempre espressione di quanto necessario per la sua attività giurisdizionale, cioè di “giudice”.
Dalla rassegna appena compiuta emerge allora in modo chiaro che la nuova figura degli addetti all’UPP (mi riferisco agli addetti ad esso destinati e non ai due profili specialistici minori indicati prima nell’allegato, che sono estranei all’UPP) si presenta come quella di un lavoratore a tempo determinato, certamente inserito nell’amministrazione giudiziaria e non riconducibile invece ed estraneo al personale magistratuale, ma che è chiamato ad esercitare compiti e funzioni, cioè mansioni, che, con una vera e propria novità, non sono riconducibili alle normali attività che il personale amministrativo di cancelleria è chiamato ad espletare per consentire l’esercizio della giurisdizione civile.
Si tratta di attività che anteriormente erano e che in ultima analisi sono di competenza del giudice e che gli addetti vengono chiamati ad esercitare necessariamente, per la loro natura, per conto del giudice, con diretta assunzione di responsabilità nell’espletamento da parte dell’addetto, ma con attribuzione di responsabilità finale al “giudice”.
Ne segue che gli addetti, nella filosofia legislativa, dovendo esercitare un’attività che esula da quella dell’ordinario personale amministrativo e, soprattutto, dovendo espletare un’attività che dovrebbe compiere, sebbene a livello preparatorio dell’esercizio del potere decisionale e comunque dell’adozione dei provvedimenti di sua competenza, il giudice, si presentano come soggetti che, pure essendo incardinati nell’àmbito dell’organizzazione amministrativa non magistratuale, tuttavia, sul piano dello svolgimento dei compiti non possono ritenersi in alcun modo, in ragione dell’oggettività delle funzioni che sono chiamate ad espletare, nello svolgimento del loro rapporto di lavoro con l’esercizio delle mansioni, allo stesso modo dell’ordinario personale amministrativo di cancelleria.
Essi, quindi, ai fini dell’esercizio e dell’individuazione delle mansioni da esercitarsi in concreto, stante l’indicata natura dei loro compiti, non sono soggetti, in seno all’ufficio in cui sono incardinati, al potere direttivo del dirigente amministrativo dell’ufficio, come invece lo è l’ordinario personale che esplica le funzioni e le mansioni amministrative serventi rispetto all’esercizio della giurisdizione. Sono, invece, soggetti al potere direttivo ed organizzativo del “giudice”, cioè dell’articolazione che, sul piano dell’organizzazione magistratuale, è chiamata a “gestire” l’ufficio per il processo in cui sono incardinati.
Lo sono perché la responsabilità ultima del risultato dell’esercizio dei loro compiti e delle loro funzioni spetta a tale articolazione e dunque al “giudice”.
Ferma questa precisazione, la peculiarità che connota gli addetti discende dal fatto che essi sono personale incardinato nell’amministrazione giudiziaria come il personale amministrativo di cancelleria ordinario. Questo implica che, dovendo espletare le loro mansioni sulla base di un rapporto di lavoro, la gestione del loro rapporto di lavoro, per quanto attiene ai diritti che ne discendono (ferie, permessi, orario di lavoro, indicato come flessibile, dall’ultimo inciso del comma 2 dell’art. 11) compete all’organizzazione amministrativa dell’ufficio giudiziario presso il quale sono assegnati e, in questo senso al dirigente amministrativo di esso e alle sue articolazioni (in Cassazione a livello sezionale).
È solo a questi limitati effetti che viene in rilievo la dirigenza amministrativa dell’ufficio, in quanto gli addetti sono, come lavoratori e, quindi, rispetto alle pretese ed ai diritti che il rapporto di lavoro prevede, inseriti nell’organizzazione amministrativa e sono lavoratori dipendenti come il personale di cancelleria.
Peraltro, il dirigente amministrativo, nell’esercizio dei poteri relativi al detto rapporto di lavoro dovrà necessariamente sentire l’avviso del “giudice”, cioè del dirigente dell’UPP, cioè della struttura in cui l’addetto esercita i suoi compiti e le sue mansioni.
D’altronde, lo stesso allegato, coerentemente con quanto emerge dall’elenco delle funzioni, mostra di porre gli addetti in una posizione che rappresenta qualcosa di diverso da quella del personale addetto alle cancellerie, proprio là dove si chiude con la previsione della funzione di “raccordo con il personale di cancelleria”. E’ palese che tale funzione pone gli addetti come “altro” rispetto al personale di cancelleria e lo fa proprio perché i compiti in precedenza elencati e da svolgere sono estranei a quelli del detto personale ed espressione delle attività di competenza del giudice.
Non contraddice in alcun modo, ma anzi conferma la ricostruzione offerta, il disposto del comma 3 dell’art. 12, del d.l. n. 80 del 2021. Esso, non a caso, evoca la dirigenza amministrativa con riferimento al solo momento dell’assegnazione degli addetti all’ufficio per il processo, prevedendo che il capo dell’ufficio predisponga, «di concerto con il dirigente amministrativo», «un progetto organizzativo che preveda l’utilizzo, all’interno delle strutture organizzative denominate ufficio per il processo, degli addetti selezionati in modo da valorizzare il loro apporto all’attività giudiziaria». L’evocazione del “concerto” del dirigente amministrativo è chiaramente da intendere come relativa all’assegnazione degli addetti all’interno della struttura dell’ufficio del processo per quanto attiene all’incardinazione del rapporto lavorativo e, d’altronde il progetto di cui si parla ha questa finalità, essendo testualmente diretto a prevedere “l’utilizzo, all’interno delle strutture organizzativa denominate ufficio del processo, degli addetti”. L’esegesi in tal senso, se ve ne fosse bisogno – ma così non è – sarebbe obbligata, attesa la decisività delle emergenze dell’allegato. Il “concerto” appartiene a questo momento assolutamente prodromico e non al concreto funzionamento dell’UPP e dunque all’assegnazione ed all’espletamento in concreto dei compiti degli addetti.
La conclusione che mi sembra, dunque, sostenibile è che la nuova figura degli addetti all’ufficio per il processo, nella logica del disposto normativo, è stata prevista – e la cosa non può che riguardare anche l’UPP presso la Corte di Cassazione - come quella di un personale assunto nell’àmbito della struttura amministrativa, ma solo nel senso dell’inquadramento in essa della nuova figura di rapporto di lavoro a tempo determinato e non anche nel senso di aggiungere un contingente di personale per l’espletamento delle normali funzioni del personale di cancelleria, bensì con lo scopo di svolgere una funzione nuova comprendente compiti inerenti al “lavoro” del giudice di natura preparatoria per l’adozione dei suoi provvedimenti, decisori e non decisori. Compiti sempre e comunque al “giudice” attribuibili ed in precedenza estranei all’attività del personale di cancelleria, dovuta secondo i profili delle varie categorie di inquadramento di quel personale ed in ragione dei compiti previsti dal Codice di procedura civile (e da quello di procedura penale).
Un lavoro che, per tale “nuova” natura ed in ragione della sua oggettività per come emergente dall’Allegato, deve svolgersi sotto la direzione del “giudice” nella dimensione organizzativa dell’ufficio per il processo.
Se si volesse coniare un’espressione suggestiva e riassuntiva, le mansioni degli addetti sono riconducibili ad un’attività di “assistenza del giudice” e di essa sono espressione.
3. Le Circolari del Ministero della Giustizia.
A seguito dell’adozione della normativa di cui al d.l. n. 80 del 2021 il Ministero della Giustizia ha emanato due successive circolari, quella del 3 novembre 2021, intitolata «Piano Nazionale di ripresa e resilienza – Avvio progetto Ufficio per il processo – Informazione e linee guida di primo indirizzo sulle attività organizzative necessarie per l’attuazione», e quella del 21 dicembre 2021, intitolata «Reclutamento, mansioni, formazione e modalità di lavoro dei primi 8.250 addetti all’ufficio per il processo assunti ai sensi del decreto-legge n. 80 del 2021».
In esse, a mio avviso, si è incorsi in qualche equivoco sulla natura dei compiti degli addetti e questo equivoco può ingenerare qualche conseguenza errata sulla questione della spettanza della dirigenza degli addetti.
Mi spiego.
Nella prima circolare, nel paragrafo 4, dedicato agli addetti all’UPP, dopo il corretto rilievo della riconduzione degli addetti all’UPP alla «figura degli addetti all’ufficio per il processo ai dipendenti pubblici, seppur con contratto a tempo determinato, non solo per quanto attiene ai profili economici ma anche a livello ordinamentale», e dopo il corretto rilievo che ne deriva il «completo riconoscimento di tutti i diritti contrattuali ed economici di cui gode il pubblico dipendente con applicazione integrale – con alcune deroghe […] – del CCNL e del CCNI», si fa derivare – rilevando che gli uffici hanno posto quesiti al riguardo - «che gli addetti all’UPP, seppur a tempo determinato, avranno un orario di lavoro di 36 ore settimanali, articolato, salvo esigenze peculiari, su 5 gg settimanali (art. 17 dell’attuale CCNL del comparto funzioni centrali)» e che essi «avranno accesso a tutti i sistemi informatici utili a svolgere le proprie mansioni (registri di cancelleria, consolle assistente ecc.) possedendo account per ADN, fruendo ed avvalendosi quindi di tutti gli strumenti tipici dei funzionari giudiziari» e con un inquadramento «in specifici profili professionali di nuovo conio, istituiti ex lege, con modalità derogatrici della generale disciplina delle fonti». Le deroghe – per quello che specificamente interessa in questa sede - si individuano nel «potere svolgere lavoro agile anche in deroga alla normativa di settore (articoli 13, comma 3, e 17, comma 3, del decreto-legge n. 80/2021)» e nel «maggiore regime di flessibilità oraria, derogando alla richiesta del consenso dell’interessato per il lavoro pomeridiano (articolo 13)».
Queste notazioni sono certamente condivisibili ed a mio avviso integrano una lettura corretta dell’innovazione legislativa.
È di seguito, invece, a me sembra, che la Circolare contiene affermazioni che al contrario non lo sono e che portano ad un parziale snaturamento del profilo professionale degli addetti.
Infatti, la Circolare – dopo avere correttamente rassegnato il “mansionario” degli addetti all’UPP, con espressa evocazione del ricordato Allegato II, n. 1, al d.l. n. 80 del 2021, ed avere altrettanto correttamente osservato che «le mansioni di supporto all’attività giurisdizionale, anche in un’ottica schiettamente organizzativa, sono logicamente descritte con maggiore dovizia di particolari (data la novità dell’istituto), ma sono per la maggior parte riprese dalla pregressa esperienza di impiego ed utilizzo dei tirocinanti ex articolo 73 del decreto-legge n. 69/2013», e, quindi, sostenuto che «altre poi sono le mansioni che rappresentano assoluta novità e che possono risultare utili per la costruzione di un modello di servizio di accompagnamento al cambiamento dell’organizzazione dell’ufficio: supporto ai processi di digitalizzazione e monitoraggio dei risultati» – osserva, quindi, testualmente che: «la clausola generale che rinvia al “raccordo con il personale addetto alle cancellerie”, sistematicamente interpretata avendo riguardo alla collocazione ordinamentale, più volte sottolineata, quale personale amministrativo di terza area, delinea questo nuovo profilo professionale come “ponte” tra il momento decisionale propriamente detto (di imprescindibile spettanza del magistrato giudicante, sia pure in una nuova logica corale nella preparazione e nell’istruttoria) e la corposa attività amministrativa che questo momento precede e segue. A mero titolo esemplificativo, si possono così indicare le seguenti attività, rinviando alla specifica circolare sul punto: spoglio delle nuove iscrizioni, verifica dei presupposti di priorità di trattazione, “scarico” dell’udienza del magistrato a cui si è assegnati, attività di notifica e comunicazione alle parti nei fascicoli del magistrato a cui si è assegnati, accertamento della definitività del provvedimento, ecc.».
Su questa base si asserisce, poi, che «la logica del sistema, come evidenziata già dalla lettera della legge, delinea un generale ventaglio di mansioni nelle quali per la prima volta vi è una netta prevalenza di attività specificamente dedicate e orientate al supporto diretto della funzione giurisdizionale (studio fascicoli, preparazione di bozze provvedimentali, ecc.), rispetto a mansioni propriamente e storicamente definibili come “amministrative”. L’individuazione concreta delle attività da destinare alle risorse degli addetti all’ufficio per il processo nell’ambito delle 36 ore settimanali previste dal CCNL, dovrà quindi regolarsi secondo il criterio tradizionale di valutazione della prevalenza del nucleo principale del ventaglio delle attività previste dal mansionario di cui all’allegato II del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, ovvero delle attività di studio e di staff rispetto a quelle di raccordo con le cancellerie.». Di seguito, la Circolare afferma ancora «che l’ampio ventaglio di mansioni consente di individuare delle attività residuali o sussidiarie da poter svolgere nell’ambito delle 36 ore lavorative settimanali quando l’addetto all’ufficio per il processo non è assegnato ad attività principali o prioritarie (ad esempio, quando non segue le attività dei singoli magistrati o le attività del presidente di sezione)».
Le affermazioni della Circolare mi sembrano del tutto prive di base normativa quanto ai profili che vado ad esporre.
La lettura dell’espressione finale dell’Allegato, quella sul “raccordo con il personale addetto alle cancellerie”, là dove si sostiene che un’interpretazione sistematica, peraltro non spiegata e basata su una non meglio chiarita “collocazione ordinamentale” (l’espressione non viene spiegata: che significa?) degli addetti «quale personale amministrativo di terza area, delinea questo nuovo profilo professionale come “ponte” tra il momento decisionale propriamente detto (di imprescindibile spettanza del magistrato giudicante, sia pure in una nuova logica corale nella preparazione e nell’istruttoria) e la corposa attività amministrativa che questo momento precede e segue», risulta del tutto priva di fondamento nella legge, cioè non corrispondente al significato dell’espressione “raccordo”.
Questa, come ho già rilevato sopra, non sottende un’attribuzione di competenze diverse da quelle prima indicate dall’Allegato (e come si è detto di spettanza del “giudice”), ma che, ai fini del loro espletamento, gli addetti, così come farebbe lo stesso giudice se direttamene svolgesse quei compiti, sono legittimati a interfacciarsi con il personale amministrativo per ottenere l’assistenza necessaria al loro espletamento. Eventualmente – dico eventualmente perché l’attività di raccordo è riferita agli addetti, è indicata come loro compito e, dunque, parrebbe supporre la loro iniziativa – si può ritenere che nel contempo gli addetti siano legittimati a ricevere, anche al di là dei compiti di cui all’Allegato, eventuali richieste, notizie, etc., dal personale di cancelleria, motivate dai compiti ad esso affidati e che esso debba, in funzione della sua attività amministrativa comunicare al personale magistratuale componente dell’UPP. Richieste, notizie, che altrimenti il personale dovrebbe indirizzare al giudice. Ma non è questo il raccordo indicato come compito dall’Allegato. Sarebbe semmai una mera conseguenza della riferibilità dell’operato degli addetti al “giudice”.
Del tutto estraneo al significato della parola “raccordo” è dunque, quanto invece ipotizza la Circolare in generale e poi passando all’esemplificazione.
Peraltro, in essa non ci si avvede che solo talune delle attività indicate – quelle di “scarico dell’udienza” e quella di “notifica e comunicazione alle parti nei fascicoli del magistrato” (tra l’altro si dice “a cui si è assegnati”, supponendo che l’addetto sia assegnato ad un magistrato e non all’UPP) e quelle di accertamento della definitività del provvedimento – sono attività che vengono espletate dal personale amministrativo di cancelleria, perché inerenti alle funzioni di quel personale – mentre quella di spoglio delle nuove iscrizioni e di verifica dei presupposti di priorità di trattazione non è in alcun modo attività di competenza del personale ordinario di cancelleria, ma genuinamente propria del giudice.
La conclusione espressa nel senso della prevalenza delle funzioni che vengono riassunte con l’espressione “attività di studio e di staff” rispetto a “quelle di raccordo con le cancellerie” come erroneamente ricostruite risulta, dunque non condivisibile. Non di prevalenza si tratta, ma di esclusività delle prime, comprensiva del raccordo come poco sopra ricostruito.
Parrebbe che la Circolare abbia, dunque, espresso una ricognizione non giustificata dal disposto normativo.
Le considerazioni critiche che ho svolto sono estensibili alla successiva Circolare ministeriale del 21 dicembre 2021. Anche in essa si ripetono le affermazioni ricostruttive svolte nella prima circolare e si attribuiscono agli addetti all’UPP, con la stessa lettura del mansionario e ripetendo gli stessi esempi, funzioni amministrative di pertinenza del personale di cancelleria in alcun modo previste dalla legge.
In modo ambiguo si evoca a giustificazione un argomento che si basa sull’attribuzione agli addetti ai fini del trattamento economico del profilo di cui all’area III, posizione economica F1.
Ma in tal modo si spende sempre un argomento inidoneo per le ragioni innanzi esposte: che gli addetti abbiano – ai sensi dell’art. 11, comma 2 penultimo inciso del d.l. n. 80 del 2021 – il trattamento economico che ha il personale di cancelleria inquadrato in quell’area non può significare che essi debbano e nemmeno possano essere chiamati ad esercitare le mansioni di quel personale corrispondenti a quel profilo.
La legge non lo prevede ed essi non sono stati assunti per questo, ma per svolgere i compiti di cui al noto Allegato.
A prescindere dal valore dell’Allegato correttamente ricostruito, la norma appena evocata rivela, del resto, il suo intento meramente individuatore del trattamento economico quando parla di “equiparazione”. Si tratta di equiparazione economica e non già, nemmeno nel limitato senso ipotizzato dalle circolari, funzionale.
In definitiva, lo ribadisco, mi sembra che l’esegesi ministeriale del disposto normativo istitutivo della figura degli addetti all’UPP si sia spinta oltre il testo normativo nell’individuare fra i compiti degli addetti anche compiti di spettanza del personale amministrativo.
Stante la natura delle Circolari, è palese che esse non avrebbero potuto vincolare i capi degli uffici e quindi il Primo Presidente della Corte di Cassazione, per quanto attiene alla costituzione dell’UPP presso la Corte.
4. Il Decreto del Primo Presidente della Corte n. 119 del 2021.
Essendo le mie considerazioni concentrate sugli addetti all’U.P.P. presso la Corte di Cassazione, svolgo a questo punto alcune brevi rilievi sul decreto del Primo Presidente della Corte di Cassazione n. 119 del 29 dicembre 2021, che ha provveduto alla costituzione dell’Ufficio per il processo presso la Corte, stabilendone la struttura ed inserendovi, come risulta dall’art. 3, comma 3 (insieme ai giovani laureandi e laureati svolgenti attività di tirocinio preso la Corte, nonché il personale EASO collaborante con la Prima Sezione Civile in forza di un protocollo con la corrispondente istituzione UE) e per quello che qui interessa, gli addetti di cui all’art. 11 del d.l. n. 80 del 2021 assegnati alla Corte (peraltro in numero di 200 unità, cioè nella metà del contingente indicato dal più volte citato art. 11 del d.l. nn. 80 del 2021.
Il decreto è stato adottato «sentiti i Presidenti di sezione ed il Dirigente amministrativo» della Corte. All’art. 3, comma 1, qualifica l’UPP come «struttura tecnica (di “staff”) di ausilio dell’attività giudiziaria, che può essere al servizio del giudice e/o dell’ufficio» e, quindi, precisa che trattasi di struttura unitaria al servizio dell’intero ufficio, per poi nel comma 2 precisare che «è diretto dal Primo Presidente, che può delegare singole articolazioni a magistrati della Corte (ed è sostituito in caso di assenza o impedimento dal Presidente aggiunto)»: è palese che l’uso della congiuntiva e della disgiuntiva fra la parola “giudice” e quella “ufficio” sottende che con la seconda si sia inteso sempre l’ufficio con riferimento alla struttura magistratuale e non anche alla struttura amministrativa. Si è voluto, cioè, indicare che il servizio può essere espletato a beneficio del giudice singolo appartenente all’UPP o della struttura magistratuale complessiva componente l’UPP, senza cioè una specifica correlazione dell’ausilio ad un singolo magistrato dell’ufficio. Nell’espressione “ufficio” non v’è alcun riferimento all’ufficio sotto il profilo amministrativo e, dunque, l’uso delle congiunzioni appare significativo di un riferimento all’ufficio nel senso indicato.
Il comma 3 prevede che dell’UPP faccia parte il Dirigente della Corte, ma, è palese che tale presenza non può essere ritenuta in alcun modo giustificata dal dover – peraltro potenzialmente secondo le Circolari - espletare gli addetti compiti proprio del personale amministrativo, sì da non potersi giustificare detta presenza come espressione della funzione direttiva di quel dirigente sull’espletamento di quei compiti e ciò anche in concorso con quella del P.P.
Infatti, la direzione del costituito UPP ai sensi del comma 2 è espressamente attribuita, come s’è detto, al Primo Presidente, il che comunque porrebbe il Dirigente della Corte in una posizione che in alcun modo potrebbe considerarsi espressione di potere direttivo, o meglio di potere direttivo autonomo e, dunque, di vero potere direttivo.
La presenza del Dirigente della Corte, in realtà, appare espressione e si giustifica solo come un necessario apporto collaborativo: aa) sia per l’assegnazione degli addetti, come lavoratori e, dunque, ai fini dell’incardinamento del rapporto di servizio dal punto di vista dell’Amministrazione, come, del resto imposto dal disposto dell’art. 12, comma 3, del d.l. n. 80 del 2021; bb) sia per la definizione degli aspetti logistici inerenti l’allocazione non solo degli addetti come nuovi lavoratori, ma prima ancora, direi, dello stesso UPP; cc) sia – per quanto specificamente attiene agli addetti, atteso il loro status di lavoratori dipendenti – per la definizione di tutto ciò che inerisce agli aspetti che di tale status sono espressione e come tali debbono considerarsi rilevanti per l’espletamento dell’attività degli addetti (orario di lavoro, ferie, etc.): la presenza del Dirigente della Corte si giustifica per la comunicazione almeno delle linee generali al riguardo, che, naturalmente, possono essere discusse dall’UPP sulla base delle esigenze funzionali della struttura dell’Ufficio per il processo.
Il comma 6, dopo che il comma 5 ha indicato i presidenti non titolari, o i consiglieri coordinatori di singole aree o sottosezioni o dello spoglio e dunque appartenenti alla struttura magistratuale, stabilisce che «di ciascuna articolazione sezionale», istituita ai sensi del comma 4, «fa parte l’unità di personale nominata dal Dirigente della Corte, la quale assicura il raccordo tra lo staff dell’ufficio del processo e la cancelleria della relativa sezione»: come si vede un compito specifico e limitato, il quale conferma la posizione servente della struttura amministrativa rispetto all’UPP e, dunque, anche del dirigente della cancelleria della sezione, che, del resto, se ve ne fosse bisogno, è espressamente implicata dal comma 4, il quale affida la direzione dell’UPP sezionale al Presidente titolare o, in caso di impedimento, al Presidente non titolare più anziano nel ruolo sezionale e prevede che il titolare possa, sentito il Primo Presidente, designare un presidente non titolare.
Come si vede, in alcun modo viene evocata una dirigenza amministrativa nel contesto dell’istituzione dell’UPP e con riferimento al suo funzionamento. L’uso della parola “raccordo” è significativo, in quanto evoca il compito che nell’Allegato all’art. 12 è indicato come ultimo compito degli addetti e del quale ho dato ampia spiegazione.
Con specifico riferimento agli addetti, l’art. 4, comma 4, dopo che nel comma 2 si sono precisate le attività dell’UPP, che all’evidenza sono tutte funzionali al lavoro del “giudice Cassazione” e riguardo alle quali si fa peraltro riferimento all’espletamento «in collaborazione con il personale tecnico e amministrativo», ha espressamente stabilito che essi «saranno destinati ai compiti previsti dall’allegato II, n. 1, al citato decreto legge», così rimandando al disposto legislativo. Il riferimento alla collaborazione con il personale tecnico e amministrativo, se ve ne fosse bisogno, sottende che gli addetti non sono personale riconducibile a quelle categorie.
Ne segue che il decreto del Primo Presidente si è, com’era naturale, mantenuto per gli addetti nella logica emergente dal detto disposto e, peraltro, nel delineare il costituito UPP come struttura che li comprende, ha rimarcato, dal livello apicale a quelli sezionale, che la direzione è di spettanza magistratuale, il che non può non valere a livello applicativo concreto anche per la posizione degli addetti.
Può ancora rilevarsi che il richiamo ai compiti di cui all’Allegato impone di dare rilievo all’esegesi che di essa si è fatta commentando sopra il relativo disposto.
Il decreto del Primo Presidente, dunque, è chiaro nell’escludere qualsiasi ipotesi di attribuzione agli addetti di compiti propri del personale amministrativo. Il decreto non ha in alcun modo recepito le non giustificate estensioni di comiti al settore amministrativo ipotizzate a livello di circolari ministeriali.
Ne consegue che il decreto del P.P. non consente in alcun modo di immaginare che nelle articolazioni sezionali si possa configurare un potere direttivo del dirigente amministrativo della sezione sugli addetti ai fini dell’espletamento di quei compiti, e ciò nemmeno in accordo con il potere del presidente titolare o di chi per lui.
La situazione non è diversa, nell’àmbito sezionale, da quella ascrivibile alla partecipazione del Dirigente amministrativo della Corte alla struttura di vertice dell’UPP e di cui ho detto sopra.
Un potere direttivo del dirigente della cancelleria sezionale – conforme a quanto ho osservato in precedenza - può configurarsi solo agli aspetti inerenti allo svolgimento del rapporto di lavoro degli addetti non con riferimento alle loro funzioni, bensì con riguardo agli aspetti relativi ai diritti inerenti ad esso sul piano degli istituti contrattuali (orario, ferie, permessi, etc.).
E, peraltro, l’esercizio di tale potere deve avvenire necessariamente sulla base dell’ascolto delle esigenze che il Presidente Titolare o chi per lui indica come relative al funzionamento dell’UPP sezionale ed all’apporto del singolo addetto.
5. Conclusioni.
Le considerazioni che si sono svolte impongono di manifestare dissenso da talune ricostruzioni del profilo funzionale degli addetti all’UPP, che, adagiandosi sulle ricordate circolari ministeriali hanno condiviso l’idea che essi siano chiamati anche a svolgere attività amministrative corrispondenti a quelle del personale di cancelleria inquadrato nella fascia corrispondente al loro inquadramento sotto il profilo economico come lavoratori a tempo determinato.
Così, non è condivisibile quanto sostenuto da chi[5] - dopo avere registrato che «la qualifica di addetto è, in primo luogo, ricompresa appieno tra quelle del personale amministrativo e non rappresenta un tertium genus rispetto all’ordinaria dicotomia personale magistratuale-personale amministrativo» e osservato che «la gestione di queste risorse umane (per quanto attiene a diritti patrimoniali e non patrimoniali, inquadramento, disciplina, etc.), quindi, è direttamente regolata dalla normativa statale e contrattuale sul pubblico impiego, salvo le deroghe sopra accennate, marginali rispetto al contesto complessivo ed anzi funzionali alla massima efficienza di utilizzo» ed ancora che «si tratta pertanto di risorse assegnate a un ufficio giudiziario, e poi ad una sua articolazione amministrativa, l’ufficio per il processo, e non a uno o più singoli magistrati, per quanto in concreto possano ritualmente ipotizzarsi legami personali di una qualche stabilità» - ha sostenuto che «la natura “anfibia” degli addetti, allo stesso tempo componenti di una struttura di ausilio all’attività tipica dei magistrati giudicanti e personale competente per le mansioni schiettamente amministrative, direttamente o indirettamente serventi rispetto alla suddetta attività giurisdizionale», per poi trarne la conseguenza che «l’addetto partecipa, sotto la supervisione del presidente di sezione o di altro magistrato, allo spoglio delle nuove iscrizioni, allo studio del fascicolo, alla predisposizione di schemi e di bozze di provvedimenti semplici, alla preparazione dell’udienza e al controllo delle notifiche, alla analisi dei ruoli per verificare serialità di procedimenti, scadenze imminenti e così via; dall’altro, è competente, compatibilmente con l’inquadramento nella terza area professionale e sotto la supervisione del direttore di cancelleria o di altro incaricato/referente, per tutto un corollario di attività amministrative che vanno dallo scarico dell’udienza già espletata (e prima ancora alla stessa assistenza al magistrato in quella stessa udienza, o in altre), alla cura delle notifiche, alla ricognizione delle tendenze giurisprudenziali ai fini dell’implementazione di banche dati locali di merito, nonché agli incombenti di diretta gestione del personale, aumentato enormemente, per quanto attiene ferie, permessi, buoni pasto, controllo delle presenze, organizzazione dei turni, etc.».
Secondo questa opinione saremmo «di fronte, quindi, sia a una rimeditazione del ruolo del magistrato giudicante, diretta a liberarne risorse intellettuali ad oggi sparse in mille frammentarie competenze, sia a una volontà di innovazione dei processi di lavoro all’interno dell’amministrazione giudiziaria, anche mediante l’introduzione di una figura che funga da cerniera tra il momento tipicamente giurisdizionale e l’attività amministrativa che questo momento precede, accompagna e segue».
Pr quanto ho in precedenza osservato, l’opinione, che riflette ed anzi amplifica l’avviso espresso nelle circolari ministeriali, non può in alcun modo essere condivisa, là dove assegna agli addetti addirittura una posizione “anfibia” tra lo svolgimento delle funzioni del giudice e, dunque, del “giudice Cassazione” e quelle del personale amministrativo.
I testi normativi, lo ripeto, non contengono alcun avallo di questa idea che, coerentemente, partorisce poi quella che circa l’impego degli addetti vi sia una sorta di “doppia dirigenza”, quella giurisdizionale e quella amministrativa, nel mentre, invece, poiché non è previsto che gli addetti svolgano, come invece, si sostiene, anche funzioni amministrative proprie del personale della cancelleria, alla dirigenza amministrativa compete solo – come ho detto - un potere direttivo riguardo agli aspetti inerenti alla posizione dell’addetto con riferimento ai diritti ed agli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro e, peraltro, tale potere deve esercitarsi, se vi siano spazi di discrezionalità, considerando le esigenze dell’adibizione dell’addetto alle funzioni in seno all’UPP. Dunque, sentito il Presidente titolare o il delegato alla dirigenza dell’UPP sezionale.
Analogo dissenso debbo esprimere da altra opinione che, riprendendo quella di cui ho appena detto, si è mossa nello stesso senso[6].
Mi sembra, in fine, da ribadire che, a livello applicativo presso le Sezioni, il riferito contenuto del decreto del Primo Presidente n. 119 del 2021 debba essere considerato tale da escludere che gli addetti all’UPP, sebbene in funzione di esigenze correlate al funzionamento della struttura sezionale di essa, possano essere impiegati nell’espletamento di compiti di natura amministrativa propri del personale di cancelleria, il che, dunque, esclude che il dirigente amministrativo della cancelleria possa di sua iniziativa e anche con l’assenso del Presidente Titolare o del Presidente da lui delegato, affidare compiti di tale genere.
I provvedimenti adibitori degli addetti ai compiti di cui all’Allegato sono di volta in volta di esclusiva competenza del Presidente Titolare o del Presidente da lui delegato ed eventualmente, sulla base di quanto disposto da essi anche in via generale oppure di volta in volta, di competenza di un magistrato delegato componente dell’UPP.
Il potere direttivo del dirigente di cancelleria concerne solo la gestione dei diritti e delle posizioni degli addetti inerenti al rapporto di impiego a tempo determinato nel senso che ho in precedenza indicato. Detto potere dev’essere esercitato previa necessaria interlocuzione con il Presidente Titolare o il Presidente delegato.
[1] Il decreto del Primo Presidente della Corte n. 119 del 29 dicembre 2021, com’è noto, ha istituito l’UPP anche per il settore penale, sebbene con un’assegnazione ad esso degli addetti di cui al d.l. n. 80 del 2021 più limitata rispetto al settore civile (art. 4, comma 5).
[2] Si veda l’art. 16-octies del d.l. n. 179 del 2012, convertito con modificazioni, dalla l. n. 221 del 2012, introdotto dall’art. 50, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, nella l. n. 114 del 2014, il cui testo nel comma 1, prevedeva l’istituzione dell’UPP presso corti di appello e tribunale ed indicava chi componeva l’UPP e precisava : «(1. Al fine di garantire la ragionevole durata del processo, attraverso l'innovazione dei modelli organizzativi ed assicurando un più' efficiente impiego delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione sono costituite, presso le corti di appello e i tribunali ordinari, strutture organizzative denominate 'ufficio per il processo, mediante l'impiego del personale di cancelleria e di coloro che svolgono, presso i predetti uffici, il tirocinio formativo a norma dell'articolo 73 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, o la formazione professionale dei laureati a norma dell'articolo 37, comma 5, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111. Fanno altresi' parte dell'ufficio per il processo costituito presso le corti di appello i giudici ausiliari di cui agli articoli 62 e seguenti del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, e dell'ufficio per il processo costituito presso i tribunali, i giudici onorari di tribunale di cui agli articoli 42 ter e seguenti del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12.».
[3] Ricordato il richiamo normativo di cui alla nota precedente, riassuntivamente si veda A. DI FLORIO, Il nuovo ufficio per il processo: proposte per la Cassazione, in www.Questione Giustizia.it
[4] Potere già previsto a suo tempo dal comma 2 dell’art. 16-octies citato sub nota 2.
[5] A. LEOPIZZI, Gli addetti all’ufficio per il processo e gli altri nuovi profili professionali previsti dal Progetto Capitale Umano – PNRR. Riflessioni e prospettive, in www.unicost.it
[6] L.R. LUONGO, Le funzioni degli «addetti» per il processo nel sistema della giustizia ordinaria, in www.judicium.it.
Violenza di genere e misure di prevenzione: la valutazione della pericolosità nel contesto delle relazioni familiari
Nota a Corte d’Appello di Bari n. 27405 del 01.06.2022
di Rita Russo
Sommario: 1. La violenza domestica: prevenzione e repressione. - 2. La valutazione del contesto. - 3. L'interesse del minore.
1. La violenza domestica: prevenzione e repressione.
La violenza domestica e di genere è un fenomeno complesso che si è drammaticamente imposto negli ultimi anni alla attenzione del legislatore e degli operatori del diritto. Gli interventi legislativi in materia, in continua sovrapposizione ed aggiornamento, hanno creato un quadro difficile da decifrare, ove si intrecciano misure penali e civili, preventive e riparative. Particolare attenzione è stata riservata alle misure di prevenzione, poiché la violenza all’interno di una relazione familiare di regola non si manifesta subito nelle sue forme più severe, ma segue un andamento crescente (escalation): prima degli atti violenti più severi si presentano segnali d’allarme e indicatori che possono presagire violenze più gravi.
Nel sistema penale, la violenza domestica o di genere viene ricondotta dalla recente legge n. 69 del 2019 (c.d. codice rosso) alle seguenti fattispecie: maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.); violenza sessuale, aggravata e di gruppo (artt. 609-bis, 609-ter e 609-octies c.p.); atti sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p.); corruzione di minorenne (art. 609-quinquies c.p.); atti persecutori (art. 612-bis c.p.); diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art. 612-ter c.p.); lesioni personali aggravate e deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (art. 582 e 583-quinquies, aggravate ai sensi dell'art. 576, primo comma, nn. 2, 5 e 5.1 e ai sensi dell'art. 577, primo comma n. 1 e secondo comma.
Il sistema repressivo è strutturato con completezza e secondo parametri severi, tuttavia la Corte Edu lo ha considerato insufficiente a contrastare il fenomeno in due casi noti, di cui uno molto recente, rimproverando alle autorità italiane di non avere saputo valutare il rischio della escalation della violenza e di non aver adottato idonee misure preventive[1].
Si tratta, a ben vedere, di un rimprovero che riguarda più l'efficienza concreta del sistema che la sua struttura; ed infatti nell'ordinamento giuridico italiano gli strumenti di prevenzione della violenza domestica non solo esistono da molti anni, ma sono stati anche rafforzati ed ampliati di recente.
Per contrastare questi reati sono previste, in ambito penale, sia misure cautelari, che misure di prevenzione. In particolare, per apprestare una difesa anticipata delle potenziali vittime dei reati di questo tipo, si è fatto ricorso alle misure di prevenzione già previste per i delitti di mafia dal D.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 estendendone la applicabilità anche alle persone indiziate di maltrattamenti in famiglia (2019) e di stalking (2017), ai sensi dell’art. 4 comma prima lett. i)ter. Le misure di prevenzione sono misure special-preventive, indipendenti dalla commissione di un precedente reato, e da qui la denominazione di misure ante delictum o praeter delictum. Il che comporta una marcata autonomia di queste misure rispetto alle misure cautelari penali e allo stesso processo penale: il giudice deve valutare se le condotte tenute siano sintomatiche della pericolosità sociale del proposto e anche quegli elementi che siano stati acquisiti nel corso di un processo che si è concluso con sentenza di assoluzione possono essere utilizzati ai fini di applicare la misura quando i fatti, pur ritenuti insufficienti a fondare una condanna penale, siano tuttavia in grado di giustificare un apprezzamento in termini di pericolosità[2].
Ciò ha portato la dottrina ad esprimere qualche dubbio sulla compatibilità di dette misure con l’art. 27 della Costituzione e sui presupposti scientifici della prognosi di pericolosità [3], rimarcando la differenza con la disciplina delle misure di sicurezza e delle misure cautelari personali, ove la base del giudizio di pericolosità è la commissione di un previo reato, e quindi il riferimento a una fattispecie incriminatrice determinata e tassativa.
Può di contro osservarsi che diverse sono le finalità del processo penale, che mira a irrogare la pena, e del procedimento per l’applicazione della misura di prevenzione, che mira invece a prevenire condotte delittuose, ma con autonoma configurazione rispetto alle misure di sicurezza.
È vero che vi è una rilevante difficoltà nell'accertamento della pericolosità e nella valutazione del rischio quando non si può muovere da un fatto storico ben definito, ma soltanto da indizi di reato: si rischia infatti di cadere in pericolosi automatismi correlati alla presentazione di una denuncia, specie quando si tratta di reati di rilevante impatto sociale, quale è la violenza domestica e di genere. Ma il rigore con il quale si deve contrastare questo fenomeno non può trasmodare in una applicazione diffusa e indiscriminata delle misure di protezione, perché è sempre necessaria una attività di giudizio, vale a dire di discernimento e distinzione sulla base di criteri oggettivi e predeterminati.
Il caso esaminato dalla Corte d’appello di Bari con il decreto n. 27405 del 01/06/2022 del 19 maggio 2022 è esemplificativo della difficoltà di rendere un simile giudizio.
Una coppia di coniugi entra in crisi e il marito assume l’iniziativa della separazione chiedendo l’addebito alla moglie; un mese dopo quest’ultima sporge denuncia per maltrattamenti familiari. Mentre il giudizio di separazione segue il suo corso, viene richiesta ed applicata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale. La Corte d’appello di Bari, adita dall’interessato, revoca la misura escludendo la sussistenza di un livello indiziario sufficientemente elevato per giustificare la misura nonché la attualità della pericolosità, e a tal fine valuta anche il contesto familiare e la intervenuta cessazione della convivenza coniugale.
Il decreto offre diversi spunti interessanti.
La Corte più che valutare il fatto in sé e cioè la sussistenza del quadro indiziario e la sua gravità, valuta il periculum, soffermandosi su due punti specifici: esamina il contesto familiare in cui sarebbero maturate le denunciate violenze e tiene in considerazione l'interesse delle figlie minori. Particolare rilievo viene dato alla circostanza che la denuncia penale, mai preceduta da altre richieste di intervento, viene presentata dopo che il marito ha proposto il ricorso per separazione con addebito e si è allontanato dalla casa familiare e che tra le parti non sussiste un'apprezzabile disparità socio-culturale. Si tratta di elementi apparentemente marginali, ma che rivestono invece una certa importanza, poiché la violenza in ambito familiare matura generalmente in un clima di prevaricazione, favorito da una situazione di disparità socio-economica e spesso trova il suo acme quando la vittima cerca di liberarsi del legame contro la volontà del soggetto maltrattante, che invece vuole mantenerlo.
2. La valutazione del contesto.
Le ipotesi di violenza domestica non sempre sono facilmente individuabili in punto di fatto: con essa si intende ogni forma di aggressione fisica, di violenza psicologica, morale economica, sessuale o di persecuzione, attuata o tentata, all’interno di una relazione familiare, o comunque di una relazione intima, presente o passata.
La violenza non necessariamente consiste in atti di aggressioni fisica che lasciano tracce visibili, ma può anche essere psicologica, e ciò significa che per contrastarla non basta il solo allontanamento tra vittima e oppressore, ma occorre impedire che possano essere esercitate pressioni, anche indirette, sulla vittima oppure strategie dirette ad isolare l’offeso dal contesto sociale e dal resto della famiglia.
La violenza può essere economica, ed in tal caso è costituita da una pluralità di comportamenti, tutti volti ad impedire che la vittima divenga economicamente autonoma o a farle perdere l’autonomia economica e quindi ad esercitare il controllo sulla vita del partner tramite il denaro. Vendere la casa familiare, intestare i propri beni a un prestanome, sottarsi continuativamente all’adempimento degli obblighi di collaborazione al ménage familiare, pretendere che la vittima consegni i propri guadagni al soggetto abusante, oppure renda conto minuziosamente delle spese, costituiscono atti di violenza specie quando la vittima non ha alcun autonomo accesso a risorse economiche alternative o supporto da parte della famiglia di origine.
Questo genere di comportamenti può trovare -a seconda dei casi- il suo inquadramento nel delitto di maltrattamenti in famiglia, che si può realizzare, come afferma la giurisprudenza della Corte di legittimità, anche tramite comportamenti aggressivi e prevaricatori, manifestazione della pervasiva volontà prevaricatrice e di controllo, tali da incidere sulle condizioni di vita della persona offesa, costretta a vivere la quotidianità con un senso di turbamento e paura[4].
Il termine “maltrattamento” presenta invero un certo grado di indeterminatezza e per percepircene adeguatamente il significato, rispettando il principio di tassatività, è necessario ancorarlo da un lato ai presupposti di carattere soggettivo e oggettivo che qualificano la condotta, e dall'altro al contesto in cui essa si verifica, in modo da rilevarne un contenuto offensivo compatibile con i principi costituzionali e con l'intera logica del sistema di tutela della famiglia. La caratteristica del reato è quella di punire comportamenti di vessazione fisica o morale non necessariamente qualificabili, se singolarmente considerati, come reato, ma ripetuti nel tempo ed in grado di arrecare offesa, perché la vittima non è un extraneus, ma un soggetto che la relazione familiare pone in condizione di vulnerabilità. All’interno della relazione familiare esistono infatti doveri di solidarietà e protezione che impongono ai loro componenti obblighi positivi, definiti dalla legge, e di astenersi anche da quelle condotte che, di scarso rilevo se tenute nei confronti di un terzo, divengono particolarmente offensive se tenute nei confronti del partner o di un figlio. Ad esempio, secondo la giurisprudenza di legittimità, anche il pubblico disprezzo, che di per sé non è un reato, ove reiterato e tale da infliggere profonde umiliazioni, può costituire reato di maltrattamenti [5]. D'altro canto, è anche vero che all'interno del nucleo familiare la solidarietà comporta necessariamente un certo grado di tolleranza nei confronti delle offese minime (non penalmente rilevanti), che in un rapporto solido e sostanzialmente sano possono essere riparate spontaneamente.
La complessità di inquadramento refluisce anche sulle modalità di accertamento del reato o del suo fumus. Ai fini del processo penale rileva la ricostruzione storica di ciò che è avvenuto. La difficoltà in questo caso consiste prevalentemente nel reperire le fonti di prova e cioè testimoni attendibili e che abbiano assistito al fatto o ne conoscano sia pure indirettamente i dettagli, e documenti affidabili che con il fatto abbiano una stretta correlazione (ad esempio i referti medici). Nei giudizi per l’applicazione di una misura di prevenzione invece – e analogo problema si pone in sede civile per l’applicazione dell’ordine di protezione – la questione non è tanto o soltanto ricostruire il fatto, ma valutare il rischio, cioè rendere un giudizio prognostico su ciò che potrebbe avvenire.
Il giudizio di pericolosità sociale è uno dei più complessi che si possa immaginare, in particolare quando muove da una base fattuale i cui contorni sono ancora incerti.
La base fattuale è comunque necessaria: le limitazioni della libertà personale non possono fondarsi su un mero “processo alle intenzioni” e cioè sull’esame di quei moti che avvengono all'interno dell'animo umano e che non trovano alcuna manifestazione all'esterno: nessun fenomeno che si risolva in interiore homine rileva per il diritto. Ogni prognosi sfavorevole deve essere fondata su elementi concreti, idonei a dimostrare la pericolosità, l’attualità e la probabile condotta futura del soggetto. Si deve quindi muovere da fatti e comportamenti e da questi desumere la probabilità che il comportamento si ripeta o anche progredisca verso forme più gravi di aggressione dei beni protetti dalla norma. In questo modo si traccia il profilo di personalità del soggetto la cui pericolosità si deve valutare; ma sarebbe un errore pensare che si tratti di un esame meramente individuale perché la valutazione del contesto in cui i comportamenti sono tenuti è altrettanto rilevante, e in particolare quando si tratta di reati che, come quello di maltrattamenti, sono definiti dal contesto e presuppongono l'esistenza di una relazione tra vittima e aggressore.
Poiché la violenza domestica si connota essenzialmente come una prevaricazione che assume di volta in volta le forme più varie – violenza fisica, psicologica, economica – occorre fare attenzione a quegli elementi che favoriscono il crescere e il progredire degli atteggiamenti prevaricatori. Tra questi – come messo in evidenza dalla Corte d’appello di Bari – la attualità della convivenza e la condizione di disparità tra le parti.
Ed è determinante la distinzione tra la mera conflittualità, che è una dinamica molto comune nelle relazioni familiari in fase di dissoluzione, e la violenza, posto che la prima presuppone una situazione interpersonale basata su posizioni di forza (economica, sociale, relazionale, culturale) simmetriche, e di contro la violenza si esercita e si può esercitare perché la relazione è – o divenuta per effetto della violenza – asimmetrica. L’assenza di simmetria determina uno squilibrio di relazione e, quindi, in presenza di violenza non si può parlare di mero conflitto. Per distinguere la conflittualità dalla violenza non deve guardarsi soltanto al comportamento materiale, che potrebbe essere simile nell’uno e nell’altro caso, quanto ai rapporti di forza tra le parti. Ad esempio, la circostanza che la moglie rinunci alla attività extradomestica è un atto di violenza se imposto, è un atto di autonomia privata dei coniugi, che trova il suo riconoscimento nell’art 144 c.c., se frutto di un accordo assunto su posizioni di parità.
Altro elemento di particolare rilievo è la presenza nel contesto familiare di specifici fattori di rischio, quali l’alcoldipendenza, la tossicodipendenza, la disoccupazione, pregressi episodi di maltrattamenti nei confronti dello stesso partner o di partner diverso. Di per sé nessuno di questi fattori è decisivo, poiché ogni caso è diverso dall'altro, ma la loro presenza o assenza orientano il giudizio prognostico sulla pericolosità e quindi devono essere oggetto di indagine da parte del giudice investito della richiesta di una misura di prevenzione.
3. L'interesse del minore.
Altro elemento preso in considerazione dalla Corte d'appello di Bari è l'interesse delle figlie minori della coppia. Sebbene non si tratti di un giudizio che ha per oggetto l'affidamento delle minori, tuttavia vengono presi in considerazione gli effetti che la misura di prevenzione può avere sulla relazione familiare tra il genitore e le figlie. Si fa quindi applicazione del principio secondo il quale se il giudizio riguarda, sia pure indirettamente, la vita del minore, non può prescindersi la considerazione del best interest of the child.
Anche in questo caso rileva la distinzione tra conflitto e violenza.
La violenza nelle relazioni familiari investe di regola anche il minore, spesso nella forma della violenza assistita; il che comporta la necessità di valutare attentamente l’idoneità del soggetto violento ad esercitare le funzioni genitoriali o comunque ad esercitarle senza alcuna limitazione e controllo ed, eventualmente, supporto.
Il mero conflitto tra genitori invece non deve interferire con il diritto del minore a mantenere un rapporto equilibrato con entrambi, ma soprattutto con il diritto a ricevere da entrambi, e non solo dal genitore affidatario, la "prestazione genitoriale" e cioè cura, educazione, istruzione ed assistenza materiale e morale.
Una spinta decisiva alla affermazione di questi diritti è stata data dalla adesione dell'Italia alle Convenzioni internazionali sull'infanzia e in particolare la Convenzione sui diritti del fanciullo firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con la L. 27 maggio 1991, n. 176, e la Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli firmata a Strasburgo il 26 gennaio 1996 e ratificata con la L. 20 marzo 2003, n. 77. Il quadro si completa con la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (c.d. Carta di Nizza) che all'art. 24, tratta espressamente dei diritti del bambino affermando che "I bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere. Essi possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità".
Esprimendosi con le parole dall'art. 3 della Convenzione di New York del 1989, si può dire che al fanciullo devono essere assicurate le condizioni perché egli possa svilupparsi in modo sano e normale fisicamente, intellettualmente, moralmente, spiritualmente e socialmente, in condizioni di libertà e dignità e, in ogni decisione che lo riguarda il suo interesse deve essere considerato preminente.
Si esplicita così il principio della “prevalenza” dell'interesse del minore, ma senza trascurare l'importanza del diritto del genitore alla relazione familiare, diritto che pure esiste e che sarebbe irragionevole negare, a maggior ragione considerando che gli stessi diritti del minore sono attuati in chiave relazionale. È infatti da chiedersi se l'interesse del minore che il giudice deve tenere in considerazione è veramente “superiore”, cioè prevalente su qualsiasi altro interesse o soltanto il migliore, vale a dire che tra più scelte deve farsi quella che meglio garantisce il suo benessere psicofisico. A questa domanda se ne lega un'altra, sul se, quando e in che misura questo interesse vada bilanciato con ulteriori e diversi interessi di pari rango. La relazione familiare, infatti, non è un diritto solo del minore, ma anche dei genitori.
Un tempo si parlava di interesse superiore della famiglia, cui si potevano (e dovevano) sacrificare gli interessi individuali. La prospettiva si è oggi in un certo senso rovesciata, poiché si parla non più di interesse superiore della famiglia, ma di superiore o prevalente interesse del minore, perpetrando così un errore di fondo, quello di applicare alla famiglia la regola del conflitto, da dirimere individuando una parte vincente ed una soccombente, anziché promuovere la cultura della mediazione. Con la doverosa precisazione che, anche quando si parla di mediazione, è decisiva la distinzione tra violenza e conflitto. La mediazione non deve essere avviata nei casi di violenza familiare, come peraltro prevede la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata in Italia con legge 77/2013. Invece, nei casi di conflitto, la mediazione può essere particolarmente utile per riavviare il colloquio tra i genitori e aiutarli a trovare da soli la via migliore per continuare ad esercitare la responsabilità genitoriale, nell’interesse dei figli minori, nonostante la separazione.
In ogni caso, la decisone della interruzione dei rapporti tra i genitori e figli è una questione assai delicata, che non può essere regolata da automatismi, poiché la interruzione della relazione tra genitori e figli sul piano giuridico, ma anche naturalistico, si giustifica solo in funzione di tutela degli interessi del minore. In questi termini la giurisprudenza di legittimità ha affermato il giudice civile deve valutare autonomamente sia sotto il profilo materiale, sia sotto quello della potenziale dannosità per l'equilibrato sviluppo psicofisico del minore, la rilevanza dei comportamenti penalmente censurabili ascritti a un genitore ancora oggetto di accertamento in sede penale[6].
[1] Corte Edu, 2 marzo 2017, Talpis c. Italia, il testo in lingua italiana in www.giustizia.it; Corte Edu 7 aprile 2022, Landi c. Italia, in https://hudoc.echr.coe.int
[2] Cass. pen. sez. II, 05/04/2022, n.22732; Cass. Pen. sez. II, 18/01/2022, n.8166
[3] Cfr. anche per i riferimenti bibliografici, PETRINI, Le misure di prevenzione personali: espansioni e mutazioni in Dir. Pen. e Processo, 2019, 11, 1531
[4] Cass. pen. sez. VI, 30.05.2022, n.27166
[5] Cass. pen. Sez. VI, 12.10.2021, n. 2378
[6] Cass. civ. Sez. I Ord., 19.05.2020, n. 9143
G. Luccioli, Dignità della persona e fine della vita, Cacucci, Bari, 2022
Recensione di R.Conti
Sommario: 1. Dal Diario di una giudice a “Dignità della persona e fine della vita”. - 2. L’arena in cui si svolge il viaggio della Luccioli. - 3. I quattro punti cardinali del libro. La dignità della persona malata. - 4. Autodeterminazione e consenso - 5. Le cause bandiera e il ruolo del giudice e della Cassazione. - 6. La legge n.219/2017 e il suicidio assistito. - 7. Le (possibili e plurali) chiavi di lettura del volume. - 8. Dalla decostruzione alla costruzione del sistema per mezzo della cooperazione fra giudice e legislatore. - 9. Il coraggio responsabile di Gabriella Luccioli.
1. Dal Diario di una giudice a “Dignità della persona e fine della vita”
Gabriella Luccioli ci regala, all’interno della collana diretta da Pietro Curzio “Biblioteca di cultura giuridica, Breviter et dilucide, un saggio dedicato a “Dignità della persona e fine vita”.
Avevamo lasciato Gabriella al Suo Diario di una giudice che, ben prima delle note vicende dell’Hotel Champagne, rivendicava “con orgoglio di non avere mai salito le scale di Palazzo dei Marescialli se non per motivi istituzionali e non aver mai alzato il telefono per chiedere”.
Correva l’anno 2016, le acque in magistratura erano assolutamente “chete” e l’organo di autogoverno si apprestava alla nomina di un numero vertiginoso di posti direttivi e semidirettivi che avrebbero per il successivo lustro governato la magistratura italiana. Quella sua “rivendicazione” allora cadde nel nulla, come spesso accade alle riflessioni che alcuni grandi fanno ma che si preferisce non ricordare, salvo poi spendere elogi postumi circa la loro ariosità ed intrinseca verità.
Ora, il lettore potrà chiedersi il senso di questa considerazione in una riflessione sul libro dedicato al fine vita. A questo interrogativo crederà di poter rispondere evidenziando che proprio nel trattare la questione, tormentata e dolorosa, che anima “Dignità della persona e fine della vita” esce a tutto tondo la figura della giurista, donna magistrato, dell’Autrice, autorevole e soprattutto credibile, con la sua ferma convinzione di doversi mettere ancora una volta al servizio della scienza giuridica, dell’opinione pubblica e della comunità dei giuristi per offrire il proprio pensiero.
In un tempo di ormai bassa estate, comunque dedicato al riposo ed alla ricarica mentale e fisica potrebbe sembrare poco indicato suggerire la lettura di una riflessione su un tema complicato e non certo “allegro” quale è quello che immediatamente si coglie dal titolo del saggio.
Ma è proprio la riflessione della Luccioli a suggerire il contrario, ad indurre il lettore a fermarsi e riflettere, fuori dai tormenti del lavoro e delle occupazioni ordinarie, su questioni che toccano la persona umana del nostro tempo, i nostri cari e noi stessi.
2. L’arena in cui si svolge il viaggio della Luccioli
In gioco ci sono, infatti, i destini dei più anziani - quando la vita comincia ad imboccare un declino tormentato e doloroso -, dei figli minori - quando hanno la sventura di subire, innaturalmente, insieme ai genitori un destino altrettanto tormentato ed angusto per malattie che la medicina non può governare - e di chi, infine, non appartenendo né all’uno né all’altro segmento dell’esistenza umana avverte comunque il bisogno di dedicarsi ad un momento di conoscenza per farsi un’idea, un’opinione ed acquisire consapevolezza su ciò che il destino di ciascuno potrebbe riservargli, contro la propria volontà e le proprie speranze.
Il viaggio di Gabriella Luccioli è un bell’itinerario, guidato da un’interprete sui generis, accompagnatrice e guida davvero speciale per la storia che si porta dietro.
A volte accade che per spiegare fatti e vicende complesse occorrano fiumi di parole, ricostruzioni storiche che fanno tremare i polsi per quanto esse appaiono indaginose, complicate, farraginose ed impervie al fine di consentire una visione di insieme al lettore che poco sa di un dato argomento.
Il libro di Gabriella è - sotto questo profilo - straordinario, perché racchiude in una pubblicazione cartacea che, in linea con la collana, ha il formato di un libro virtuale Kindle di poco meno di 100 pagine, la “storia” del fine vita.
Una storia che scorre fluida e che consente di leggere il libro, metterlo da canto per qualche giorno e rileggerlo in pochi giorni per sentirne il battito, la pressione, la temperatura.
3. I quattro punti cardinali del libro. La dignità della persona malata
Ogni espressione, ogni parola, ogni ragionamento è un distillato prezioso che l’Autrice ha raccolto naturalmente, senza alcun sforzo se non quello rivolto a renderne l’analisi tanto asciutta quanto scorrevole e lineare, quasi da proporsi anche sul piano della tecnica argomentativa come “modello” anche per il giurista del nostro tempo.
Il che avvantaggia di molto il ruolo di chi ha il privilegio di offrire una panoramica di questo percorso attraverso il fine vita che sembra svolgersi attorno a quattro punti cardinali sui quali si dipana il ragionamento dell’Autrice.
Il primo è rappresentato dalla dignità della persona sulla quale la Luccioli si diffonde, cogliendo i tratti qualificanti di un super valore che “appare maggiormente a rischio di essere calpestato” quando il tempo della vita “è quello della malattia, perché l’infermità rende fragili, vulnerabili, dipendenti dagli altri.” (21)
Ed è proprio a quel concetto plurale di dignità - sul quale v., volendo, anche R. Conti, Bioetica e biodiritto. Nuove frontiere, in questa Rivista, 28 gennaio 2019 - che occorre rifarsi ed ispirarsi per delineare una proficua relazione tra esseri umani ed una valida relazione terapeutica proprio quando, dice Gabriella, “i venti gelidi dell’indifferenza, della noncuranza e peggio dell’intolleranza verso la malattia, il dolore e la fragilità dei più deboli sembrano prendere il sopravvento.” Né sembra esservi nell’Autrice alcun intento moraleggiante, pedagogico o paternalista, intendendo piuttosto la stessa sottolineare la centralità della “persona” nel senso che la Costituzione mira a promuovere e proteggere, lasciando in ombra quella, solo apparentemente conforme, di “individuo”.
In ciò sembra esservi piena sintonia fra la giurista laica Luccioli ed il pensiero espresso da Papa Francesco alla presenza dell’Associazione Nazionale Magistrati nell’anno 2019 ed il suo invito a considerare al centro della giustizia l’uomo e la sua dignità o, meglio, come disse, la carne viva delle persone, soprattutto di quelle più indigenti. Un invito ad essere capaci di garantire sempre, a qualunque persona, senza discriminazioni e pregiudizi di sesso, di cultura, di ideologia, di razza o di religione, la dignità che gli è propria, non dimenticando che la peculiare condizione di chi versa in situazioni di estrema debolezza e di indigenza impone, a volte, di adottare dei correttivi al canone del suum cuique tribuere, in modo da offrire e garantire una giustizia ‘con uno sguardo di bontà’, ‘sempre più inclusiva, attenta agli ultimi e alla loro integrazione’ - v. volendo, R. Conti, Se lo dice il Papa, in questa Rivista, 11 febbraio 2019 -.
4. Autodeterminazione e consenso
Segue poi, nella riflessione di Gabriella, l'analisi del principio di autodeterminazione e del consenso nonché degli sviluppi provocati dalla legge n.217 del 2019 sulla relazione di cura.
Il ruolo del consenso è centrale. Lo è nella materia che tratta la Luccioli autrice e lo è parimenti per la Luccioli studiosa e giurista, naturalmente portata a formare le proprie opinioni ed i propri giudizi sulle rime obbligate del confronto schietto, leale e aperto.
In questa prospettiva, cara all’Autrice, il medico che dà attuazione alla scelta consapevole e informata del paziente di rifiutare la cura, non è un essere inanimato, roboticamente programmato per eseguire la volontà altrui, ma è “un coprotagonista della vicenda, in quanto nessuna scelta libera, consapevole o meditata è possibile se non preceduta da una fruttuosa interlocuzione fra i due.” (34)
Il ribaltamento che si produce per effetto della (nuova) relazione di cura intessuta fra il medico e il paziente scompagina la figura tradizionale del sanitario, rendendola centrale nel percorso di realizzazione massima della dignità del malato.
Si giunge così al cuore della questione sul fine vita, agganciata alla sentenza Englaro ed alle pronunce della Corte costituzionale rese tra il 2018 ed il 2020.
Questo cammino che la Luccioli si prende cura di delineare prende forma e consistenza da iniziative di persone che reclamano il rispetto della dignità delle persone coinvolte in fatti tragici delle proprie esistenze.
5. Le cause bandiera e il ruolo del giudice e della Cassazione
Queste “fonti di innesco” impongono risposte coraggiose e responsabili da parte degli organi giurisdizionali che hanno preso forma e sostanza nella sentenza Englaro resa dal Collegio della prima sezione della Corte di Cassazione che l’Autrice ha presieduto in quella circostanza, per poi diventare presidente titolare della stessa sezione. Una sentenza che traccia, anzitutto, una differenza netta fra rifiuto di cura ed eutanasia, solo la seconda attenendo alla condotta diretta ad interrompere la vita, a fronte del desiderio dell’interessato a che la malattia segua il suo corso sotteso invece al rifiuto di cura. Una pronuncia nella quale si preconizzava la rilevanza del c.d. testamento biologico, che successivamente assumerà consistenza normativa con le “Disposizioni anticipate di trattamento” disciplinate dalla l. n.219/2017.
Era compito ineludibile della Cassazione, in quel caso, “dare una risposta alla domanda di giustizia tenacemente proposta dal padre di Eluana Englaro…” e la Cassazione, in quel contesto “non ha gestito un interesse” ma ha statuito su un diritto (p.38). Una Cassazione che, dunque, è stata al tempo stesso protagonista di una risposta giurisprudenziale creativa inchiodata ai principi costituzionali individuati non soltanto attraverso le sentenze della Corte costituzionale, ma anche grazie alla giurisprudenza delle Corti sovranazionali ed al contempo custode della piena legalità della decisione.
In poche battute l’Autrice offre una risposta in punta di penna alle critiche feroci che sono piovute sulla sentenza Englaro dal mondo politico ed ancora di più tenacemente da non marginali settori dell’Accademia e della magistratura, tuttora fortemente arroccate sull’idea che quella pronunzia abbia rappresentato un innaturale, pericoloso ed indebito intervento del potere giudiziario, tale da mettere in crisi il riparto dei poteri, fissato dalla Costituzione, fra organi di produzione legislativa e giurisdizione.
Quando in ballo ci sono i diritti, scrive la Luccioli, e si tratta di offrire loro tutela, “…quando si tratta di concorrere alla costruzione del diritto vivente, soprattutto quando si riscontra l’incapacità o il rifiuto del legislatore a provvedere…la giurisdizione non può esimersi dal rendere risposte di giustizia adeguate e dall’assumere un carico morale che la costringa a riempire i vuoti lasciati dal legislatore”(38).
Una navigazione, quella imposta al giudice, non solitaria ed “in mare aperto”, ma avente piuttosto “come stella polare e parametro decisorio la Costituzione e le Corti sovranazionali” (38), con una “bussola orientata verso i principi di libertà, dignità ed autodeterminazione della persona” (39).
Dunque, una giurisdizione che, prosegue la Luccioli, per effetto e a causa del progresso scientifico e medico, è stata chiamata nell’ultimo ventennio a “costruire” il sistema attraverso la tavola dei diritti fondamentali in materia di fine vita.
Una costruzione che si alimenta non certo attingendo ai personali convincimenti e ai valori come soggettivamente percepiti dal decisore di turno, ma tutto al contrario nutrendosi di fonti normative e giurisprudenziali nazionali che muovono dalle Carte dei diritti fondamentali, inserite a pieno titolo nell’ermeneutica alla quale il giudice è tenuto (40).
Da qui la sempre più intensa valorizzazione dello strumento comparatistico sul quale altre volte ci è capitato di ragionare (v., volendo, R. Conti, I giudici e il biodiritto. Un esame concreto dei casi difficili e del ruolo del giudice di merito, della Cassazione e delle Corti europee, Roma, 2015, 223 ss.) e che anche nell’ordinanza n.2014/2019 della Corte costituzionale ha giocato un rilevante peso, avvertendosi - anche sulla scelta di rinviare la decisione sull’incostituzionalità consentendo al legislatore di intervenire - le influenze della giurisprudenza straniera nonché dell’accademia nordamericana - sul punto, v., specificamente, una delle risposte di Guido Calabresi in Un intervista impossibile a Guido Calabresi di Roberto Conti, in questa Rivista, 13 settembre 2021 -.
La sentenza Englaro diventa così “un pieno di principi e di regole” (40) che, proprio per dare veste giuridica e consistenza all’idea di dignità manifestata in vita da Eluana, attinge a strumenti normativi anche se privi di vincolatività (Convenzione di Oviedo), fonte di ispirazione dotata di autorità persuasiva al pari delle pronunce della Corte costituzionale (Corte cost. n.262/2016) - cfr. B. Pastore, Interpreti e fonti nell’esperienza giuridica contemporanea, Padova, 2022, 162-.
6. La legge n. 219/2017 e il suicidio assistito
Si giunge, così, al tema della l. n.219/2017, figlia della sentenza Englaro. Ed è proprio questa paternità - più o meno dichiarata - che non garba a coloro che si fanno portatori di concezioni, idee e rappresentazioni della giustizia che additano la sentenza Englaro come esempio di cattiva giurisprudenza da mettere al bando. Venti che si fanno ancora più consistenti e presenti in un clima politico contrastato come lo è quello attuale, nel quale il tema del fine vita dopo gli interventi della Corte costituzionale è rientrato nell’agenda politica di alcune forze politiche. Queste critiche non persuadono. La legge n.219/2017 – al netto dei pur esistenti deficit che possono intravedersi al suo interno – proseguendo la linea tracciata dalla legge n.6/2004, sembra essersi pienamente coniugata e coordinata con alcuni punti di partenza offerti proprio dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione. Ciò in uno spirito di piena e leale cooperazione che ha visto, nel caso di specie, la legge fissare in termini astratti alcuni elementi di base già valorizzati in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità all’interno di una disciplina che si presta, poi, ad essere attuata dal giudice nel caso concreto. Il tutto all’interno di un circuito destinato ad arricchirsi ulteriormente attraverso l’opera ermeneutica del giudice, al quale spetterà eventualmente di colmare le lacune esistenti attraverso il ricorso ai principi fondamentali del sistema dotati di immediata precettivitá ovvero di investire la Corte costituzionale per verificare l’esistenza di disposizioni che realizzino uno iato con quegli stessi principi, riletti anche attraverso le Carte sovranazionali dei diritti. Di questo senso sembra essere intessuto il fil rouge del pensiero della Luccioli sul punto.
Si approda, pertanto, al tema del suicidio assistito.
La Luccioli ripercorre allora la vicenda dolorosa di Fabiano Antoniani, la malattia e le fortissime limitazioni da questa derivate alle basilari funzioni vitali, definitivamente ed irreversibilmente compromesse. Da qui la volontà di dj Fabo di porre fine alla propria esistenza che Marco Cappato agevolò accompagnandolo in Svizzera per consentirgli l’assunzione del farmaco in grado di condurlo rapidamente e senza dolore alla fine.
I due interventi della Corte costituzionale e le ragioni poste a base della decisione sono dalla Luccioli analizzati non nascondendo la delicatezza dell’esito finale prodotto sull’art. 580 c.p. e dando anzi espressamente atto che la Corte, nell’opera di bilanciamento fra tutela della vita e diritto all’autodeterminazione, si mosse “lungo un crinale sottilissimo tra valutazioni politiche divergenti in ordine alla perdurante attualità della fattispecie penale di aiuto al suicidio” (p.67), ridefinendo la disposizione incriminatrice in termini coerenti con i valori costituzionali e radicalmente ribaltando l’approccio del codice penale del 1930 attraverso la valorizzazione dell’autonomia decisionale del paziente “in connessione con la dignità umana” (p.71).
Un’operazione compiuta immutando la teoria crisafulliana delle rime obbligate, “ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento" (72) -sul tema, in generale, v. D. Tega, La Corte nel contesto. Percorsi di «ri-accentramento» della giustizia costituzionale in Italia, Bologna,2020 e, di recente, L. Bartolucci, La disciplina del “doppio cognome” dopo la sentenza n. 131 del 2022: la prolungata inerzia del legislatore e un nuovo capitolo dei suoi rapporti con la Corte, in www.consultaonline-. Ma il risultato raggiunto da Corte cost. n.242/2019 non è, agli occhi della Luccioli, un punto fermo, bensì apre nuovi scenari che dimostrano quanto il cammino intrapreso dalle Corti sia ben lontano dal potersi dire conchiuso, come dimostrano i casi di suicidio medicalmente assistito riconosciuti in Italia – successivamente alla pubblicazione del libro qui recensito - dopo la sentenza della Corte costituzionale - v. M. Annoni, Suicidio assistito e sedazione profonda: la storia di "Mario" e Fabio, in fondazioneveronesi.it, 17 giugno 2022- nonché la vicenda che di recente ha visto ancora una volta protagonista Marco Cappato per avere nuovamente accompagnato in Svizzera, per cessare la propria esistenza, una malata terminale di cancro – Elena - non sottoposta a trattamento di sostegno vitale, nuovamente autodenunziandosi- v., di recente, A. Pugiotto, Chissà perché nessuno ha candidato Cappato, in Il riformista, 23 agosto 2022, 4. - Vicenda, quest’ultima, che finisce col rimettere al giudice penale la valutazione della condotta di aiuto, ciò confermando la gravità del silenzio del legislatore e della decisività del ruolo del giudice.
L’idea che Corte cost. n.242/2019 possa interpretarsi in senso estensivo quanto ai requisiti fissati per giungere ad affermare la liceità della condotta di chi offre il proprio aiuto al malato terminale in assenza di trattamento di sostegno vitale è ben presente nel libro, ponendo essa stessa interrogativi di non facile soluzione, in parte sperimentati dalla giurisprudenza di merito ma che, in ogni caso, rendono necessario un intervento del legislatore “non essendo possibile che le molte problematiche che la vita si dà carico di proporre siano risolte dai non detti della Corte costituzionale, piuttosto che da una disciplina organica della materia (p. 75).
Ma nelle more il legislatore, già rimasto silente nel periodo fissato da Corte cost. n.208/2017, ha continuato a latitare. Né l’iniziativa referendaria sul tema ha superato il vaglio di ammissibilità della Corte costituzionale - cfr. proprio G. Luccioli, Le ragioni di un’inammissibilità. Il grande equivoco dell’eutanasia, in questa Rivista, 8 marzo 2022 -.
7. Le (possibili e plurali) chiavi di lettura del volume
Diverse sembrano essere le chiavi di lettura che si possono scegliere per accostarsi al libretto di Gabriella Luccioli, ma tutte convergenti verso la ricostruzione di un sistema nel quale la produzione del diritto è sempre più plurale, promanando da centri di imputazione che la democrazia, le sue regole, e in particolare quelle che la Costituzione ha fissato, individuano come “motori propulsori” dei diritti al servizio della società.
Si tratta di strumenti che trovano nell’azione giudiziaria intrapresa da - o nei confronti di - una persona innanzi ad un giudice la fonte di innesco per la verifica, demandata al giudice, sulla coerenza, attualità e capacità del sistema normativo vigente di rispondere alle esigenze avvertite da chi è parte della società. L’attività del giudiziario è rivolta a verificare tanto la fondatezza delle ragioni esposte da chi chiede di poter esercitare un diritto - o di consentire a che altri possano effettivamente ottenere protezione di tale diritto - quanto la legittimità o meno delle condotte poste in essere dai consociati. Tanto la magistratura persegue attraverso un’attività di continua ricerca e ricostruzione del sistema, inverato dalla Costituzione e dai valori portanti che essa incarna. Tornano alla mente le parole del Professore e Presidente emerito della Corte costituzionale Paolo Grossi che in questi giorni è mancato ai vivi, ormai da lustri orientate a descrivere il mondo del diritto sempre più votato e indirizzato verso la postmodernità proprio per il caos normativo che costituisce la regola dell’essere giuristi del nostro tempo. Ed è stato proprio Grossi che "...La Costituzione è còlta - ripetiamolo, perché sta qui una soluzione davvero appagante - come testo e come sostrato valoriale, quasi un continente che affiora solo parzialmente alla superficie, ma la cui consistenza maggiore è sommersa (anche se perfettamente vitale). Realtà, dunque, di radici, di valori che non si irrigidiscono nella secchezza di comandi, ma divengono plastici principii con la immediata concretizzazione in diritti fondamentali del cittadino. Radici, sì, ma già ad origine giuridiche, basamento del complesso diritto positivo della Repubblica…”. Ed aggiungeva, ancora, che “…Il vecchio giudice, condannato ad essere 'bocca della legge' dai riduzionismi strategici degli illuministi (dapprima) e dei giacobini (successivamente), non può che togliersi volentieri di dosso la veste opprimente dell'esegeta, ormai del tutto inadeguata, e indossare quella dell'interprete, dell'inventore, intendendo la sua operazione intellettuale irriducibile in deduzioni di semplice natura logica (come in una celebre pagina di Beccaria) e concretizzabile piuttosto in una ricerca, in un reperimento, con le conseguenti decifrazione e registrazione…”- P. Grossi, Il mestiere del giudice, Prefazione, in Il mestiere del giudice, a cura di R.G. Conti, Padova, 2020. -
Eguaglianza, libertà, e dignità si pongono, in questa prospettiva, come valori non negoziabili da alcuno e bisognosi di protezione e tutela per tutti. Non si tratta di valori “propri” del giudice di turno - costituzionale e non - ma di principi inviolabili e irrinunciabili che hanno necessità di essere appagati nel rispetto delle “regole” che la Costituzione ha fissato.
Qui sta tutto il senso dell’esperienza della Luccioli giurista, come Lei stessa sintetizza in una conversazione sul tema del mestiere del giudice e la religione - cfr. Il mestiere del giudice e la religione. Intervista di R. Conti a M. G. Luccioli, in questa Rivista, 2 ottobre 2020 -. In quell’occasione l’Autrice affermò che “…La generalizzazione sempre più diffusa e convinta dell’argomento costituzionale come criterio di interpretazione della legge, secondo acquisizioni maturate sin dal Congresso di Gardone, facendo della Costituzione una fonte in grado di regolare direttamente, attraverso l’interpretazione, la vita delle persone e i rapporti sociali, ha profondamente inciso sull’ esercizio della giurisdizione, consentendo alla giurisprudenza di collocarsi, anche dal punto di vista dommatico, nel sistema delle fonti di produzione del diritto ed attribuendo al giudice un ruolo molto più incisivo e dinamicamente aperto rispetto al passato, ponendolo come cerniera tra legge e cittadino, tra un comando che resta fissato in un testo scritto e richieste di tutela di diritti spesso non immediatamente riconducibili a quel testo. Ed è inevitabile che nel momento in cui l’attività interpretativa si inserisce nel processo di individuazione del significato della norma, e dunque di produzione del diritto, che si fa diritto vivente, si aprano spazi sterminati per l’interpretazione, anche a causa dell’affiorare, spesso inconsapevole, di sensibilità personali, stereotipi inconsciamente alimentati, pregiudizi, convincimenti radicati e mai posti in discussione, esperienze di vita, forme mentali, dati caratteriali. E lì dove premono orientamenti pregiuridici le linee di ragionamento e di valutazione restano profondamente influenzate. In realtà tutte le nostre decisioni sono impregnate di stereotipi, pregiudizi e ideologie, ed anche la proposizione di questioni di costituzionalità riflette, a ben vedere, la maggiore sensibilità del giudice remittente rispetto ad altri giudici che della norma impugnata hanno fatto sino a quel momento applicazione.”
8. Dalla decostruzione alla costruzione del sistema per mezzo della cooperazione fra giudice e legislatore
Il che non vuol certo dire che il giudice abbia un potere incontrastato di usare i canoni ermeneutici per “creare” diritti non riconosciuti dalla Costituzione o dal legislatore. Ed è la stessa Luccioli a spiegare in modo adamantino il suo pensiero quando, nell’intervista da ultimo ricordata sul tema del ruolo del giudice rispetto alla religione - cfr. Il mestiere del giudice e la religione, cit. -, ebbe ad osservare, con un occhio particolarmente rivolto ai giovani magistrati, che “…a fronte delle nuove potenzialità dell’interpretazione in un sistema così articolato e complesso è necessario mettere in campo una forte attenzione e un’ estrema cautela, nel rispetto di quel limite di legalità, di quella soglia ideale oltre la quale si sconfinerebbe nel soggettivismo e nell’arbitrio. Deve essere a tutti chiaro che attraverso l’interpretazione non si può fare tutto, non si può far dire ai testi normativi ciò che essi non intendono dire e che si oppone alla loro ratio, né si può utilizzare il metodo dell’interpretazione conforme come uno schermo per compiere una sostanziale manipolazione del disposto legislativo, anziché proporre le pertinenti questioni di costituzionalità. Vorrei inoltre ricordare ai giovani colleghi che compito dei giudici non è quello di seguire o assecondare nuove mode o tendenze, che sono fenomeni effimeri, ma di comprendere e analizzare i cambiamenti sul piano culturale e sociale e di aver cura, nel dare risposta alle istanze dei cittadini che su tali cambiamenti si innestano, che le decisioni adottate costituiscano coerente sviluppo delle precedenti acquisizioni giurisprudenziali, atteso che ogni distonia può determinare effetti gravemente negativi sulla tenuta complessiva del sistema, come purtroppo di recente è avvenuto”.
Ora, chi scrive sa bene che questa prospettiva, sunteggiata nelle parole della Luccioli, è oggi fortemente avversata da chi, autorevolmente, ritracciando il senso della dottrina Montesquieu, ricorda i limiti del potere giudiziario e ne critica l'attivismo additandolo come pericolo per le fondamenta delle democrazie occidentali e sottolineando come la funzione creativa dei giudici sia capace di porsi in supplenza dei corpi legislativi. Tanto per poi constatare l’incertezza del diritto prodotta dalle scelte della magistratura, la mutazione del proprio ruolo da "guardiana della legalità" a “guardiana dei poteri”, con il progressivo indebolimento dei principi di legalità, determinatezza e tassatività in corrispondenza dell'affermarsi della teoria di un diritto vivente di matrice giurisprudenziale, tutto orientato verso una tendenza creativa della giurisdizione, favorita dall’utilizzo ipertrofico della giurisprudenza delle Corti sovranazionali rivolta verso la soluzione giusta, in tal modo pericolosamente confondendo legalità e legittimità - cfr. di recente, su tali temi, S. Cassese, Il governo dei giudici, Bari/Roma, 2022-.
E tuttavia, riavvolgendo il pensiero della Luccioli attraverso il libro qui esaminato e le riflessioni appena ricordate, non può non colpire la forte sintonia di questo modo di interpretare la funzione giurisprudenziale con recenti e profondi studi sull’interpretazione del diritto – cfr. G.Pino, L’interpretazione nel diritto, Milano, 2022 -, capaci di evidenziare, dopo un’analisi assai approfondita sugli argomenti interpretativi e sulla quasi inevitabile commistione fra formalismo e sostanzialismo che convive nel giurista del nostro tempo quasi endemicamente, che nell’opera interpretativa affidata per Costituzione al giudice vi è indubitabilmente ed inevitabilmente una componente creativa, pur non mancando di sottolineare la complessità del significato che può attribuirsi a tale aggettivazione. E così, in definitiva, confermando quanto sia utopico “classificare il giurista” in modo più sostanzialista ovvero formalista e/o più creativo ovvero più incline ad una interpretazione fedele alla norma. E ciò non tanto per la difficoltà di individuare una linea di confine fra interpretazione e integrazione/creazione della norma, sulla quale lo stesso Pino si è soffermato con analisi lucide e persuasive (G. Pino, L’interpretazione nel diritto, cit., 262 ss.), quanto piuttosto per la necessità di spostare l’indagine sul prodotto cui giunge l’interprete nonché sul risultato cui lo stesso perviene rispetto alla vicenda esaminata e in particolare sulle motivazioni che utilizza per dare un senso, un significato, al dato normativo dal quale parte la sua indagine, sugli argomenti di cui si avvale, sul consolidamento o meno che un’interpretazione riceverà nel futuro da parte di altri operatori, sulla sua persuasività e plausibilità. Ciò che alla fine dimostra, probabilmente, la pluralità che sta dentro il diritto, promanando volta a volta da vari fattori “dislocati ai livelli della sua produzione, integrazione, ricostruzione, applicazione - cfr. B. Pastore, Interpreti e fonti, cit., 119 -.
Insomma, un mondo, quello dell’interpretazione, complesso, nel quale le diverse argomentazioni interpretative vivono rispetto al caso sottoposto all’esame del giudicante, facendo in tal modo del diritto vivente una “fonte di produzione” comunque sui generis, ricorda ancora Pino, proprio perché non vincolante come lo è invece per ogni interprete la legge, anche se proveniente da una giurisdizione chiamata a svolgere il ruolo di nomofilachia qual è la Corte di Cassazione.
Ora, pur senza essere in grado qui sviluppare in questa sede - anche per evidenti limiti di chi scrive - il tema altre volte oggetto di riflessioni profonde (cfr. T. Epidendio, La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura, in questa Rivista, 24 maggio 2022; si v. ancora sul tema, sempre su questa rivista, gli scritti di G. Montedoro-Derrida, Il giudice, il fare giustizia; G. De Amicis, Per l’alto mare aperto…: la Magistratura tra sogni spezzati e nuove speranze; A. Cosentino, Crisi della legge o crisi del giudice? Considerazioni a margine di un recente scritto di Tomaso Epidendio e, da ultimo, B. Montanari, “La fine di un sogno”. Una lettura epistemologica), non sembra possibile dissertare in via teorica sull’interpretazione senza calarla nel contesto che le appartiene, appunto rappresentato dall’applicazione concreta che il decisore di turno è chiamato a svolgere rispetto al caso posto al suo cospetto.
E sembra essere questa la prospettiva che conduce a considerare come estreme le riflessioni - R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quaderni costituzionali, 2019, n.4, 757; A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quaderni costituzionali, n.2, 2019, 251- che gridano all’eversione consumata da parte dei giuristi pratici rispetto all’uso (recte, abuso) di tecniche argomentative sistematiche e per principia tratti dalle Carte dei diritti, piuttosto forse dovendosi prediligere quell’impostazione che, mediando fra approccio formalistico, scettico e misto dell’interpretazione, giunge alla conclusione per cui “il ragionamento giuridico ha una ineliminabile componente particolaristica, che rende la nozione di interpretazione corretta almeno in parte legata alle circostanze” - G. Pino, L’interpretazione nel diritto, cit., 335 -.
9. Il coraggio responsabile di Gabriella Luccioli
Ora, la Luccioli, anche in questo volumetto ha la dignità ed il coraggio di rappresentare ciò che è accaduto in Italia sul fine vita, riconoscendo al padre di Eluana Englaro ed all’iniziativa di Marco Cappato il giusto valore che ad essi va attribuito non tanto per avere essi determinato un cambio di paradigma nell’ordinamento, quanto per avere dato piena attuazione ai canoni costituzionali per la difesa piena ed effettiva dei diritti della persona, affidando ad un organo giurisdizionale il compito di affermare l’esistenza o meno di quel diritto e di verificare se il quadro normativo di riferimento esistente sia compatibile con il quadro dei valori scolpiti dalla Costituzione e non già, si ripete, dei valori propri del giudice, ma della Repubblica nella quale egli svolge il proprio ruolo di garante della legalità e custode dei diritti.
Le iniziative di Beppino Englaro e di Marco Cappato non decostruiscono affatto il sistema, ma lo rendono vicino alle istanze delle persone, offrendone un’immagine efficace, effettiva ed adeguata alla centralità che la persona umana ricopre all’interno dell’ordinamento costituzionale.
Ci si accorge, allora, che il tema affrontato è centrale per la società, per i giudici, per il mondo politico e per il legislatore.
La Luccioli, lo si è detto e piace ripeterlo, spiega e ricostruisce il cammino, non nascondendosi affatto che esso appare ancora incompiuto proprio a causa dell’inerzia del legislatore.
Ciò fa in una prospettiva di ricercata alleanza fra mondo politico ed operatori del diritto, offrendo alcune indicazioni che potrebbero tornare utili al legislatore, senza con questo invadere competenze altrui, ma appunto mettendo a disposizione dell’organo che lei stessa indica come legittimato a provvedere, la sua esperienza da giudice e da giurista al servizio delle istituzioni svolta per ormai ben oltre cinquant’anni. Tanto riflette il desiderio di creare una “rete” e di cooperare insieme agli altri costruttori del diritto che questa Rivista ha da tempo caldeggiato anche sul tema - Il fine vita e il legislatore pensante, Editoriale - e che viene ormai indicato come paradigma sul quale il diritto non può che fondarsi a fronte della sua pluralità - cfr., ancora, B. Pastore, Interpreti e fonti, cit., 28 ss. -. Il che, in definitiva, sembra essere una prospettiva sulla quale potere e dovere investire fruttuosamente.
Ed invero, come ci è capitato di affermare altre volte, nell’attuale contesto della giustizia, tutto aggrovigliato attorno a chi si accapiglia sul rapporto fra giudice e legge, la tendenza allo scontro che, a volte, prende il sopravvento non pare adeguatamente considerare che è proprio la complessità dell’ordinamento giuridico - B. Pastore, Interpreti e fonti, cit, 40 -, della società nel suo dinamismo, del fenomeno giuridico - come l’aveva tracciata Angelo Falzea nella sua lectio magistralis del 2006, in Annali enc. Dir., 2007, 201 ss. -, a non potere essere imbrigliata in formule astratte e/o all’interno delle categorie, le quali non possono certo in alcun modo essere elise o eliminate, ma devono continuamente essere riponderate, attualizzate rispetto al contesto, rinvigorite, riempite dal nuovo rappresentato dalla caotica e sempre cangiante fattualità, in cui i confini e le certezze tradizionali devono continuamente fare i conti con una sempre più avvertita esigenza di protezione e salvaguardia della persona.
Inscrivendosi in questa prospettiva di fondo che pone al centro la teoria ermeneutica dell’interpretazione - sulla quale v. G. Zaccaria, Postdiritto, Bologna, 2022, 149 ss.-, l’Autrice mostra lo stesso coraggio che lei stessa attribuisce alla Corte costituzionale per avere infranto il paradigma dell’art. 580 c.p. Tanto emerge quando affronta, nel paragrafo finale, il problema non risolto dell’eutanasia, riconoscendone l’estrema delicatezza e complessità, sulla quale comunque il Parlamento dovrebbe esercitare le sue prerogative facendo saggio uso dei canoni del bilanciamento, della ragionevolezza e della proporzionalità. Il che si palesa oltremodo pressante quando il tema del fine vita riguarda ipotesi nelle quasi sono coinvolti i minori di età- sul quale ho provato a riflettere in Il giudice e il biodiritto, in Trattato di diritto e bioetica, a cura di A. Cagnazzo, Napoli,2017, 462 ss.- come ha dimostrato la legislazione introdotta dalla l. n.219/2017, sicuramente da meglio declinare proprio con riguardo ad alcuni aspetti circa le interruzioni delle cure per i minori, come ci è capitato di evidenziare in altra occasione - volendo, v.ancora il mio Scelte di vita o di morte, cit., 111 ss.- Ed è stata ancora una volta la cronaca più e meno recente a dare conferma della centralità del ruolo del giudice anche rispetto a tali vicende (P. De Carolis, I medici staccano la macchina. Archie si spegne dopo due ore, in Corr. sera, 7 agosto 2022, 10; id. e ib., Le lacrime e la rabbia di mamma Hollie. Ho il cuore a pezzi: perché non ho potuto decidere per lui?).
Tanto altro resterebbe ancora da dire sul volumetto della Luccioli poiché esso affronta un tema specifico, peraltro non allegro, ma che - come si è detto - tocca il cuore delle questioni pulsanti che ogni giurista ed ogni persona di senso ha il dovere di conoscere e di maneggiare con coraggio, responsabilità, passione e consapevolezza della centralità del dialogo. Esso costituisce dunque un garbato ma fermo invito a non indietreggiare di fronte alle critiche ideologiche, agli attacchi scomposti, alle accuse dei pavidi che intendono delegittimare gli avversari. Invito che giunge da una signora della cultura giuridica italiana, figura centrale nel dibattito scientifico che ruota attorno alle persone, al giudice ed alla società.
Un dono, dunque, per chi legge ed un monito per tanti giuristi ed operatori del diritto.
La riforma Cartabia: alcuni fils rouge
di Giorgio Spangher
1. È approdato al Consiglio dei Ministri lo schema di d.lgs. attuativo della riforma del processo penale ove è stato approvato ed inoltrato alle Camere per il prescritto parere, al fine di consentire al Governo, ancorché in proroga per lo svolgimento degli affari correnti, l’esercizio della delega entro il 18 ottobre 2022.
I tre pilastri, sui quali si regge l’impianto della riforma, come emerge dalla Relazione illustrativa alle bozze presentata nel preconsiglio del c.d.m. sono la riforma del processo penale, quella del sistema sanzionatorio (innestata nel codice penale e nelle modifiche alla l. n. 689 del 1981), quella della giustizia riparativa.
Molti degli aspetti di strutturale dettaglio dei vari profili della riforma (controllo sulla iscrizione della notizia di reato, criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, regole di giudizio dell’archiviazione e del rinvio a giudizio; procedimento in assenza e disciplina delle notificazioni; udienza predibattimentale del rito monocratico; riti speciali tradizionali e nuovi strumenti deflattivi, come la rimessione della querela, l’estinzione delle contravvenzioni, la riforma delle pene detentive brevi e della pena pecuniaria; l’adempimento delle prescrizioni degli enti accertatori per favorire l’estinzione delle contravvenzioni, la disciplina della rinnovazione della testimonianza in caso di mutamento del collegio; le modifiche alla disciplina dell’appello e del ricorso in Cassazione, solo per citare alcuni elementi) sono stati già oggetto di analisi, in sede di analisi della legge delega (l. n. 134 del 2021).
La domanda, pertanto, che è possibile porsi riguarda la possibilità o meno, pur nella consapevolezza di articolazioni, di specificazioni e di deroghe, se in modo meno indicato si possano individuare - dentro i 99 articoli del d. lgs. che comprende un numero significativo (forse oltre 200) di modifiche, di abrogazioni e di nuove previsioni - dei files rouge che prospettino delle possibili linee di tendenza del tema della giustizia penale, considerando che il tema stretto nella ricerca di equilibri tra autorità e individuo, legati alla presenza ed al materializzarsi evolutivo dei fenomeni criminali, che procurano allarme sociale, per un verso, e dall’altro, dal riconoscimento e dal consolidarsi di diritti soggettivi, frutto dell’elaborazione delle parti, in ottemperanza alla Costituzione ed alle Convenzioni internazionali – è in costante evoluzione.
Qualche prima risposta è possibile.
2. Il primo dato, forse quello più evidente, è costituito da una accentuata riduzione del rigore sanzionatorio. Il dato, evidenziato a più riprese tra gli obiettivi della riforma, anche nella prospettiva del decongestionamento carcerario, considerata la folta presenza della condizione dei condannati liberi in attesa di definire la loro improponibile posizione – è perseguito, pur nel mantenimento delle previsioni edittali, attraverso gli strumenti sostitutivi delle misure restrittive dalle pene detentive brevi nonché favorendo strumenti procedurali per definire anticipatamente l’esito processuale con comportamenti e scelte sanzionatorie che agevolano la definizione endoprocessuale delle limitate responsabilità con possibili effetti estintivi del reato.
Questi elementi integrano i tradizionali procedimenti speciali, ma sono incentivati dalle soglie sanzionatorie di accesso e da ridimensionamenti di vari effetti sanzionatori indiretti e collaterali. Si percepisce un retrogusto di “dolce” inquisizione, cioè, la prospettazione, più o meno soft, più o meno velata, dell’opportunità di aderire all’impianto accusatorio. A questo dato non sono del tutto estranei i vincoli prospettati per i successivi sviluppi processuali (come si dirà).
In questo stesso l’elemento sanzione e l’elemento processo si saldano nei limiti del possibile, allo stato, stante la difficoltà di rivedere meccanismi di depenalizzazione e di ridefinizione dei limiti edittali dei diversi reati. Peraltro sotto questa prospettiva va segnata sempre in questa logica una prima propensione all’ampliamento della perseguibilità a querela idonea a favorire con la remissione la definizione anticipata del processo. Il dato trova una collocazione nel più vasto contesto della giustizia riparativa, in ordine alla quale, tuttavia, appare necessaria una riflessione approfondita, non prospettabile al momento.
3. Un secondo elemento suscettibile di costituite una prospettiva di futuri sviluppi, se non ha già raggiunto una sua forte estensione non superabile, è l’accentuazione della cartolarizzazione e della celebrazione dei processi o anche di singole attività che richiedono la presenza dell’imputato o del difensore, con la procedura camerale, nonché con la partecipazione a distanza.
Nonostante resti consegnata – non sempre – alla volontarietà delle scelte, la smaterializzazione dei luoghi dove si celebra il rito – perché tale è – costituisce un elemento che il legislatore, sull’onda dell’emergenza Covid, rafforza in modo significativo, non senza pregiudizio sul principio di pubblicità.
Sul punto, va sottolineata l’ampia disponibilità conferita alle parti, ma soprattutto all’imputato ed al suo difensore, sulle scelte delle modalità di svolgimento del rito, così da non pregiudicare la partecipazione in presenza. Si conferma, anche sotto questo profilo, quanto detto in ordine all’accentuarsi della ritenuta disponibilità della materia processuale penale, con una non marginale indifferenza da parte degli organi giudicanti.
4. Un terzo elemento, seppur disseminato in una pluralità di profili è sicuramente quello teso ad assicurare maggior rispetto delle funzioni assegnate ai protagonisti e comprimari nello svolgimento delle loro funzioni. I riferimenti riguardano soprattutto i comportamenti del pubblico ministero rispetto ai termini di iscrizione soggettiva e oggettiva rispetto dei criteri di priorità nell’adempimento dopo l’esaurimento delle indagini preliminari relativamente alla correttezza nella formulazione delle imputazioni e del difensore caricato di oneri atti a determinare la non strumentalità nello svolgimento di alcune attività in relazione alla tutela dell’imputato (notificazioni e impugnazioni, in primis).
In questo stesso contesto, non può non segnalarsi ulteriormente quanto già detto in ordine alle scelte soprattutto dell’imputato e del suo difensore in ordine alle modalità di conduzione del rito.
5. Punto assolutamente centrale in questo quadro è l’attenzione del legislatore della riforma tesa a garantire la conoscenza da parte dell’imputato del processo a suo carico. Attraverso una disciplina molto articolata viene regolato il processo in assenza e vengono disciplinate lungo tutto l’arco del giudizio, fino alla possibile rescissione del giudicato, le implicazioni di una mancata sua presenza, non riconducibile a consapevoli volontari comportamenti. Sembrerebbe prospettarsi una disciplina – ancorché intrisa di forti profili valutativi del giudice, con il rischio di esiti fortemente differenziati nelle varie sedi – più rigorosa di quanto recentemente richiesto dalla giurisprudenza europea.
6. Una ulteriore costante delle scelte processuali è costituita da una non celata propensione alla compressione, sotto vari profili, della disciplina delle impugnazioni alle quali, in qualche modo, si imputano, seppur non dichiaratamente, non poche disfunzioni del sistema non ultima la durata non ragionevole del processo, anche dopo la interruzione del decorso della prescrizione con la sentenza di primo grado, nonostante l’intervenuta riforma di cui all’art. 2 della l. n. 134 del 2021, attraverso l’introduzione dell’art. 344 bis c.p.p. (improcedibilità dell’azione penale per la durata irragionevole dei giudizi dibattimentali di impugnazione).
Sono numerosi gli elementi introdotti nella prospettiva di rendere mirata e selettiva la funzione di controllo della fase di impugnazione.
Senza entrare nel merito dei vari strumenti che risultano orientati a questa finalità (legittimazione soggettiva e oggettiva; modalità di presentazione formale e sostanziale dell’atto; oneri dimostrativi della richiesta di controllo; modalità di celebrazione delle udienze, fra le altre situazioni riformate) resta la sensazione (confermata anche dalle premialità connesse al mancato esercizio del diritto di appellare la sentenza di abbreviato e del diritto di opporsi al decreto penale di condanna) che si voglia mirare ad una attività ricondotta nella selettività e ridimensionata negli sviluppi processuali dopo la sentenza di primo grado, anche attraverso lo strumento della inammissibilità di cui non è difficile ipotizzare ulteriori sviluppi normativi, senza escludere quelli interpretativi (surrettizia introduzione della manifesta infondatezza del motivo).
Recupera spazi di agibilità, invero, il ricorso per Cassazione accorpando alla tradizionale competenza anche alcuni nuovi poteri di cognizione (regolamento preventivo di competenza; eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della questione).
Seppur presente, ma al momento contenuta, seppur significativa della dimensione prospettiva di più ampio respiro, si presenta il tema della tutela degli interessi civili, ancorché in un contesto che sulla scia della giurisprudenza europea tende a valorizzare il ruolo della vittima. La tutela dei soli interessi civili in sede di gravami se la domanda non è inammissibile infatti viene consegnata al giudice civile.
7. Un ulteriore elemento, suscettibile sicuramente di ulteriori sviluppi è quello relativo al c.d. diritto all’oblio, alla deindicizzazione delle decisioni di archiviazione, di non luogo e di proscioglimento o assoluzione nonché di riduzione degli effetti negativi della decisione pur a seguito dell’accertamento delle responsabilità, ovvero in pendenza dell’attività investigativa. Il dato si salda con alcune recenti modifiche normative tese a tutelare meglio l’imputato innocente, ingiustamente sottoposto a processo (spese di difesa e diritto al silenzio in materia cautelare).
8. Infine, ancorché in posizione non risolutiva, ma pur sempre significativa, va segnalata la scelta del legislatore di recepire, con o senza variabili, gli orientamenti delle Sezioni Unite, nonché anche di ridefinirne i contenuti, così da ricondurre nella riserva di legge il c.d. diritto giurisprudenziale.
I riferimenti, senza pretesa di completezza, vanno alle sentenze delle Sezioni Unite.
Il dato, si per sé significativo, va collocato in una logica più ampia, in quanto conseguenza di un filo rosso che unisce varie modifiche della riforma che toccano gli interventi delle Sezioni unite, per un verso percependone i contenuti, per un altro, adeguandoli alla impostazione della riforma.
Sotto questo profilo vanno segnate, fra le altre, le Sezioni unite Battistella, sul controllo del giudice dell’udienza preliminare sulla motivazione; la sentenza Drassic sulla modifica dell’imputazione in Cassazione; la sentenza Ismael in tema di processo in assenza; la sentenza Patalano sulla rinnovazione in appello del giudizio di abbreviato secco; la sentenza Galtelli in materia di specificità dei motivi d’appello (che come si dirà risultano significativamente inaspriti).
Non mancano, naturalmente, anche norme maggiormente puntuali. Una di queste riguarda, forse la più significativa, stante le forti riserve che hanno contrassegnato l’intervento delle Sezioni unite Bajrami, il principio di immediatezza, cioè, il mutamento del colllegio giudicante. Si prevede il rinnovo della prova assunta in contraddittorio dal vecchio collegio, salva l’ipotesi in cui la dichiarazione sia stata videoregistrata, residuando al giudice il potere di disporre la rinnovazione in presenza di specifiche esigenze (non meglio definite).
9. Tutta le considerazioni svolte, seppur in modo diverso per intensità, nella propensione espressamente dichiarata e giustificata dalla necessità di rispettare gli impegni assunti con il PNRR, si collocano nella prospettiva di una semplificazione dei meccanismi processuali, sicuramente farraginosi e molto spesso frutto di tempi morti non agevolmente superabili così da efficienza del processo.
Non può negarsi il rischio in questa prospettiva di fughe in avanti trasformando l’efficienza in efficientismo a scapito delle garanzie, come evidenziato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 111 del 2022 ribadendo C. cost. n. 317 del 2009 che deve fungere da monito per molti sostenitori di facili argomenti impostati sul bilanciamento tra efficienza e garanzie; il diritto di difesa ed il principio di durata ragionevole non possono entrare in comparazione ai fini del bilanciamento, indipendentemente dalla completezza del sistema delle garanzie, in quanto ciò che rileva è esclusivamente la durata del “giusto” processo, quale delineato dall’art. 111 Cost. Un processo non “giusto”, perché carente sotto il profilo delle garanzie non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata. In realtà non si tratterebbe di un vero bilanciamento, ma di un sacrificio puro e semplice, sia del diritto al contraddittorio sancito dal suddetto art. 111 Cost., sia dal diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24 secondo comma Cost.: diritto garantito da norme costituzionali che entrambe risentono dell’effetto Cedu e della corrispondente giurisprudenza di Strasburgo.
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