ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Carenza sopravvenuta di interesse e interesse alla pronuncia di illegittimità “a fini risarcitori” (commento a Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 13 luglio 2022, n. 8)
di Andreina Scognamiglio
Sommario: 1. Il caso. - 2. Le interpretazioni dell’art. 34, comma 3. - 2.1. La soluzione accolta dalla Plenaria. - 3. Carenza sopravvenuta di interesse nella giurisprudenza anteriore al codice. - 4. Carenza sopravvenuta ex art. 34. comma 3 e principi ispiratori del c.p.a.. - 5. La lettera della norma condiziona tuttavia l’interprete. - 6. La sentenza della Plenaria non scioglie tutti i dubbi riguardanti l’interpretazione dell’art. 34, comma 3. - 7. Alcune (precarie) conclusioni.
1. Il caso
Con sentenza n. 8 del 13 luglio 2022 l’Adunanza Plenaria ha risolto il quesito riguardante l’interpretazione dell’art. 34 c.p.a. nella parte in cui, al comma 3, dispone che “quando nel corso del giudizio l’annullamento del provvedimento impugnato non è più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse a fini risarcitori”.
Nel caso, che ha dato luogo all’ordinanza di rinvio della Sezione IV, n. 945 del 9 febbraio scorso, il Tar del Veneto aveva dichiarato improcedibili per carenza sopravvenuta di interesse i ricorsi proposti da alcuni proprietari avverso le delibere comunali di adozione del Piano di assetto del territorio che aveva dichiarato la non edificabilità di aree di loro proprietà. Nelle more del giudizio era poi intervenuta una disciplina urbanistica, nuova e sostitutiva rispetto a quella esistente al momento della proposizione della domanda, circostanza, quest’ultima, che aveva reso certa e definitiva l’inutilità dell’eventuale annullamento delle delibere impugnate. Il Tar aveva poi ritenuto non essere sorretta da adeguato interesse neppure la domanda intesa a conseguire una pronuncia di mero accertamento dell’illegittimità delle delibere contestate ai fini di una eventuale futura azione risarcitoria: parte ricorrente si era difatti limitata a dichiarare l’intenzione di proporre con separato e successivo giudizio una domanda per il ristoro dei danni patiti e a versare in atti una perizia per la stima delle perdite asseritamente derivanti dall’imposizione del vincolo di inedificabilità, senza invece dar conto “neppure genericamente” della sussistenza o meno di tutti gli altri elementi costitutivi dell’illecito. Così statuendo il giudice di prime cure aveva dunque aderito all’interpretazione dell’art. 34, comma 3, c.p.a. per la quale, venuto meno nel corso del giudizio l’interesse all’annullamento, è necessaria l’allegazione da parte del ricorrente di tutti i presupposti della successiva domanda risarcitoria perché si concreti l’interesse alla sentenza di mero accertamento dell’illegittimità dell’atto [1].
2. Le divergenti interpretazioni dell’art. 34, comma 3
L’ordinanza di rimessione sintetizza le diverse letture dell’art. 34, comma 3 che sono state di volta in volta proposte da una giurisprudenza invero altalenante e che sono ricondotte a tre diversi indirizzi: a) l’obbligo del giudice di pronunciare sui motivi di ricorso (e quindi di accertate l’illegittimità del provvedimento impugnato) sussiste solo che la parte ricorrente dichiari di avere interesse a detta pronuncia a fini risarcitori[2]; b) per radicare l’interesse all’accertamento dell’illegittimità dell’atto è necessario che il ricorrente alleghi tutti i presupposti della successiva domanda risarcitoria[3]; c) al fine di dimostrare l’interesse è, quantomeno, necessario che il ricorrente “comprovi sulla base di elementi concreti il danno ingiustamente subito”[4] .
Le soluzioni sub b) e c) aprono la strada ad un ulteriore interrogativo sul quale pure la Plenaria è stata chiamata ad esprimersi, ovvero se il giudice debba non esaminare affatto la questione dell’ingiustizia del danno (ovvero i profili di illegittimità del provvedimento) laddove accerti la mancanza degli ulteriori elementi dell’illecito (nesso di causalità, spettanza del bene della vita, elemento soggettivo, danno patrimoniale o non patrimoniale) la cui assenza assumerebbe valore assorbente.
Accanto agli indirizzi sopra sintetizzati è rinvenibile invero nella giurisprudenza una tesi ulteriore e più radicale che l’ordinanza di rimessione pure riporta e per la quale esprime la sua preferenza.[5] Secondo la lettura prediletta dalla IV Sezione, una volta che nel giudizio di annullamento sopraggiunga o venga dichiarata la carenza di interesse della domanda di annullamento dell’atto impugnato, la pronuncia di accertamento della mera illegittimità dell’atto è possibile solo se la domanda risarcitoria sia effettivamente formulata nel medesimo giudizio (qualora il processo penda in primo grado), con la proposizione di motivi aggiunti (notificati dalla parte proprio in previsione della possibile declaratoria di improcedibilità del giudizio, in ragione dell’eccezione di una delle parti resistenti o del rilievo officioso della questione), o con un autonomo ricorso (soluzione, quest’ultima, inevitabile quando la carenza sopravvenuta si verifichi nel giudizio di appello).
A sostegno della tesi l’ordinanza deduce argomenti di ordine letterale e di ordine sistematico. In particolare, l’indicativo impiegato dall’art. 34, comma 3, c.p.a., (“il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”) postulerebbe la concreta sussistenza dell’interesse risarcitorio e dunque l’avvenuta proposizione della domanda di risarcimento danni. Inoltre se il legislatore avesse voluto davvero consentire la prosecuzione del giudizio solo in vista di una ‘futura’ domanda risarcitoria, non avrebbe adoperato non l’espressione “se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”, ma avrebbe impiegato una formulazione diversa. Ad esempio: “se è dichiarato un (futuro/eventuale) interesse a fini risarcitori” o anche “se sono allegati i presupposti di un (futuro/eventuale) interesse a fini risarcitori”.
Sul piano sistematico, l’interpretazione che postula l’avvenuta proposizione della domanda di risarcimento danni è ritenuta poi coerente con la nozione di “interesse” cui il comma 3 fa riferimento e che, in linea di principio, dovrebbe coincidere con l’interesse di cui all’art. 100 c.p.c., e dunque munito dei caratteri della concretezza ed attualità. Non secondario nella motivazione della ordinanza è poi l’argomento utilitaristico ovvero l’esigenza di impiegare con parsimonia la “scarsa” risorsa giurisdizionale che imporrebbe anch’essa una lettura restrittiva dell’art. 34, comma 3.. Uno sperpero di esercizio di giurisdizione si avrebbe infatti laddove si consentisse l’esercizio dell’azione a meri fini esplorativi costringendo il giudice ad esaminare questioni di legittimità complesse che si potrebbero palesare irrilevanti quando poi – nel giudizio a cognizione piena sulla domanda di risarcimento – emerga la mancanza degli ulteriori elementi costitutivi della fattispecie aquiliana.
In ogni caso, ad evitare un accertamento in astratto dell’illegittimità del provvedimento che potrebbe poi rivelarsi inutile o addirittura portare ad una duplicazione di giudizi, sul ricorrente dovrebbe poi quanto meno gravare l’onere di allegare alla domanda di accertamento tutti gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito ( e dunque il nesso di causalità, il giudizio prognostico circa la spettanza del bene della vita, la colpevolezza dall’amministrazione e il danno arrecato al destinatario del provvedimento) così che il giudice possa non pronunciare sui vizi dell’atto ove ritenga insussistente uno degli altri elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria.
2.1. La soluzione della Plenaria
La Plenaria prende le distanze dalle soluzioni suggerite dall’ordinanza di rimessione.
L’argomento legato cioè a supposte ragioni di economia processuale[6] è respinto in base alla considerazione che le medesime esigenze potrebbero essere addotte a sostegno della tesi opposta: indubbiamente la sentenza di accertamento mero ex art. 34, comma 3, c. p.a. potrebbe anche avere una funzione deflattiva poiché se l’accertamento dell’illegittimità richiesto dal ricorrente dovesse essere negativo l’azione risarcitoria sarebbe preclusa. Al tempo stesso, il giudizio di accertamento mero consentirebbe all’amministrazione autrice dell’atto impugnato, di conoscere anticipatamente se questo sia o meno illegittimo e se vi sono pertanto rischi di esborsi economici, e dunque di assumere le opportune iniziativa attraverso il proprio potere di autotutela.
Nella ricostruzione del significato della norma, la Plenaria riconosce invece un valore decisivo al comma quinti dell’art. 30 c.p.a.. La possibilità, consentita dalla norma, di domandare in successione la tutela demolitoria e quella risarcitoria e di attivare il secondo rimedio entro un congruo termine decorrente dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio di annullamento non può essere derogata in via interpretativa. Pertanto non può essere imposto al ricorrente di azionare la tutela risarcitoria immediatamente, pena l’estinzione del processo per carenza sopravvenuta di interesse.
Dimostrata la fallacia della tesi per la quale, una volta venuto meno l’interesse all’annullamento, la pronuncia di accertamento della mera illegittimità dell’atto è possibile solo se la domanda risarcitoria è effettivamente formulata, nel medesimo giudizio o in via autonoma, la Plenaria critica pure la tesi c.d. intermedia per la quale ai fini dell’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato è comunque necessario che il ricorrente alleghi i presupposti della futura eventuale azione risarcitoria. Anche questa soluzione è ritenuta sprovvista di fondamento normativo e tale, comunque, da determinare una sovrapposizione tra le due domande, di annullamento e risarcitoria, che il codice del processo ed in particolare l’art. 30 nel suo complesso considera autonome.
Per la Plenaria l’interpretazione corretta della disposizione controversa è quella che pone i minori ostacoli alla prosecuzione del processo in linea, del resto, con la tendenza propria della giurisprudenza anteriore al codice del processo a considerare restrittivamente le ipotesi di carenza sopravvenuta e a considerare procedibile il ricorso anche in assenza di utilità materiali ricavabili dalla sentenza. Venuto meno l’interesse all’annullamento, il processo deve comunque andare avanti fino alla sentenza di accertamento della legittimità/illegittimità del provvedimento impugnato solo che il ricorrente manifesti detto interesse, con semplice dichiarazione da rendersi nelle forme e nei termini previsti dall’art. 73 c.p.a..
3. La giurisprudenza anteriore al codice
Il rinvio operato dalla IV Sezione ha offerto (alla Plenaria) l’occasione di tornare [7] sul tema dell’interesse a ricorrere riguardato, in questo caso, sotto il particolare angolo di visuale della permanenza di detto interesse, una volta che l’annullamento dell’atto impugnato non sia più in grado di fornire al ricorrente una utilità concreta.
Che l’esito di una siffatta vicenda non sia scontatamente quello di una pronuncia in rito di improcedibilità per carenza sopravvenuta di interesse è acquisizione già raggiunta dalla giurisprudenza anteriore alla entrata in vigore del codice e pure in mancanza di una disposizione che espressamente prevedesse la proseguibilità del processo.
La massima costante di quella più risalente giurisprudenza limitava la possibilità di chiudere il processo con sentenza di rito dichiarativa della improcedibilità per sopravvenuta carenza d'interesse ai casi nei quali il mutamento della situazione di fatto o di diritto intervenuto nelle more del giudizio avesse fatto venir meno con assoluta certezza una qualsiasi utilità, anche se solo strumentale o morale[8], ad ottenere la pronuncia in merito sul ricorso [9].
E, in mancanza di una esplicita dichiarazione di carenza sopravvenuta da parte del ricorrente, altrettanto costante è, in quella giurisprudenza, l’avvertenza di dover il giudice valutare con la massima attenzione la persistenza dell'interesse alla decisione di merito e a considerare anche le possibili ulteriori iniziative in ipotesi attivabili da parte attrice per ottenere comunque un risultato positivo tramite il processo intentato. In particolare, a prescindere dall’effetto eliminatorio del provvedimento impugnato (la cui utilità è esclusa per le sopravvenienze), la giurisprudenza affermava di doversi tener conto di tutti i possibili effetti conformativi e ripristinatori della sentenza di accoglimento del ricorso e anche di quelli solo propedeutici a future azioni rivolte al risarcimento del danno[10].
In definitiva, l’assetto dell’istituto della carenza sopravvenuta proprio della fase antecedente al codice si incentra su due punti: la verifica del residuo interesse può essere condotta dal giudice anche d’ufficio [11]; la gamma degli interessi che giustificano la prosecuzione del processo è ampia perché la declaratoria di improcedibilità non deve trasformarsi in un sostanziale diniego di giustizia né può consentire al giudice di eludere l’obbligo di pronunciare nel merito sulla domanda[12].
Al fondo di questo indirizzo interpretativo vi è indubbiamente l’idea che il processo ed il ricorso di legittimità che sono sicuramente finalizzati alla tutela di situazioni soggettive del singolo assolvono però anche una funzione di diritto oggettivo, di tutela della legalità, e che l’utilità di tale funzione può prescindere dall’interesse all’annullamento.
4. L’interpretazione dell’art. 34. comma 3 orientata ai principi ispiratori del c.p.a.
La disposizione contenuta nell’art. 34, comma 3, c.p.a. recepisce dalla giurisprudenza precedente l’idea che la sopravvenuta “inutilità” della tutela di annullamento non comporta necessariamente una pronuncia di improcedibilità per carenza sopravvenuta di interesse. Al tempo stesso la norma restringe il campo dei possibili residui interessi ad una pronuncia di merito (che è però di mera dichiarazione della illegittimità dell’atto impugnato) al solo interesse “risarcitorio”. La norma assume dunque un significato più evidente se letta in negativo, alla luce della giurisprudenza precedente: non è sufficiente a proseguire il processo la prospettazione di un interesse solo morale o dell’interesse alla affermazione della soluzione conforme al diritto. Deve sussistere, invece, un “interesse risarcitorio”.
Ma, al di là delle più o meno significative novità ricavabili dalla formulazione letterale della norma, sulle quali mi soffermerò più tardi, innegabilmente mutato dal codice è il contesto nel quale questa si colloca e che inevitabilmente orienta l’interprete. Il contesto è segnato da una irrobustita visione soggettiva del processo amministrativo come processo su impulso di parte e finalizzato alla tutela di situazioni soggettive della parte ricorrente[13]. Alla stregua di tale concezione, risulta in primo luogo inaccettabile l’idea di una officiosa conversione della domanda di annullamento in domanda per la mera declaratoria dell’illegittimità dell’atto[14]. Un’ulteriore posizione di principio che condiziona l’interpretazione dell’art. 34, comma 3 è quella della conclamata autonomia della azione risarcitoria, che rinnega l’indefettibilità di una previa pronuncia di annullamento ai fini della proposizione della domanda risarcitoria[15] e invece ammette che l’indagine sulla illegittimità possa essere condotta autonomamente in sede di accertamento del danno (concretando l’illegittimità il requisito della ingiustizia)
Il mutato contesto incide in misura notevole sull’interpretazione dell’art. 34, comma 3 c.p.a. e sulla individuazione dei presupposti per la pronuncia di improcedibilità per carenza sopravvenuta di interesse.
La concezione soggettiva del processo amministrativo porta al superamento di un assunto essenziale nella precedente costruzione giurisprudenziale dell’istituto che contemplava la verifica anche d’ufficio della attualità di un qualsivoglia interesse alla decisione. La verifica dell’interesse e dunque la conversione officiosa dell’azione di annullamento in azione per la mera declaratoria dell’illegittimità dell’atto non è espressamente consentita dall’art. 34, comma 3 ed è oggi dai più ritenuta inaccettabile in un processo retto sul principio della domanda[16].
Il riconoscimento della autonomia della azione risarcitoria e della possibilità di esperire questa forma di tutela dinanzi al giudice amministrativo porta poi a ritenere che, una volta venuta meno, per il mutato contesto di fatto o di diritto, l’utilità della tutela demolitoria, a giustificare la prosecuzione del giudizio fino alla sentenza di merito non è sufficiente un interesse qualsiasi, anche solo morale, alla decisione[17]. Si afferma così nella giurisprudenza la massima secondo la quale anche l’interesse morale in tanto rileva, ai fini della prosecuzione del giudizio (sia pure mirato alla mera declaratoria di illegittimità) in quanto questo venga dedotto per dimostrare la sussistenza dei presupposti per la proposizione di una, anche successiva, azione risarcitoria per danno non patrimoniale nella forma del danno morale ovvero di un danno anche di natura diversa correlato alla tipologia di diritto della persona che viene in rilievo[18].
In definitiva, i principi ispiratori del codice del processo amministrativo orientano l’interpretazione dell’art. 34, comma 3 nel senso di rendere pressoché inevitabili due prime acquisizioni: la conversione della tutela di annullamento in tutela di accertamento dell’illegittimità richiede la domanda di parte; il solo interesse che è deducibile per evitare la chiusura della causa in rito, con sentenza di improcedibilità per dichiari la sopravvenuta carenza di interesse, ed è quello di natura risarcitoria.
5. La lettera della norma condiziona tuttavia l’interprete
Se i principi giocano la loro parte nella interpretazione dell’art. 34, comma 3, l’interprete (e anche il giudice[19]) è però inevitabilmente vincolato dal tenore testuale delle disposizioni del codice che non può essere stravolto[20].
Dalla lettera delle disposizioni del codice risultano allora alcuni punti fermi: laddove venga meno l’interesse all’annullamento (che per ragioni di fatto si riveli non più satisfattivo per il ricorrente) e però sussiste un interesse di natura risarcitoria, il processo non è necessariamente destinato a chiudersi con sentenza di rito. Il ricorrente può chiedere che il giudice accerti l’illegittimità/legittimità del provvedimento asseritamente lesivo e fonte di danno.
Alla conclusioni sopra raggiunte circa la portata dell’art. 34, comma 3 (necessità dell’istanza di parte sorretta da un interesse risarcitorio) un ulteriore dato, per così dire di segno negativo è ancora desumibile dal testo della norma: la prosecuzione del processo non è subordinata alla avvenuta proposizione della domanda di risarcimento danni (nello stesso o in separato giudizio) per la semplice ragione che detta condizione non è prevista dalla norma. Inoltre, laddove – su impulso di parte - il processo vada avanti, è previsto che il medesimo si concluda con una sentenza dichiarativa dell’illegittimità e non già di condanna al risarcimento dei danni. Ciò significa che la domanda di risarcimento non è stata proposta. Altrimenti, per il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, il giudice sarebbe tenuto ad emettere sentenza di condanna al risarcimento e non già sentenza di accertamento dell’illegittimità.
Ancora la lettera dell’art. 34 comma 3, impone di escludere che un interesse qualsiasi sia sufficiente a sorreggere l’istanza alla sentenza di merito.
A detta opzione ermeneutica si oppone non solo il requisito della attualità e concretezza dell’interesse al ricorso[21] ma pure il disposto dell’art. 34, comma 3, che inequivocabilmente richiede che sia dedotto un “interesse risarcitorio” perché il processo prosegua, e dell’art. 35, comma 1, lett. c), che contempla la chiusura del processo con pronuncia di improcedibilità per carenza sopravvenuta di interesse quale possibile esito del ricorso. Quest’ultima norma risulterebbe svuotata di contenuto ove si ammettesse che il processo debba invece proseguire fino alla sentenza di merito a fronte di una mera dichiarazione della parte di voler intentare l’azione risarcitoria.
6. La sentenza della Plenaria non scioglie tutti i dubbi riguardanti l’interpretazione dell’art. 34, comma 3
La lettura aderente ai principi e al dato testuale dell’art. 34, comma 3, consente dunque di circoscrivere le possibili interpretazioni della disposizione controversa lasciando irrisolto un solo aspetto. Il punto che appare realmente incerto concerne l’espressione “interesse (ad una pronuncia dichiarativa dell’illegittimità) a fini risarcitori”. In particolare viene da chiedersi quali siano gli elementi che il ricorrente è tenuto a dedurre al fine di dimostrare detto interesse.
Sul significato e sul contenuto dello “interesse a fini risarcitori” la Plenaria invece non si sofferma in base all’assunto che a determinare l’obbligo del giudice di pronunciare nel merito sulla domanda è sufficiente la mera dichiarazione del ricorrente di avervi interesse.
Si tratta di una impostazione che però non è del tutto convincente. Rispetto ad essa restano a mio avviso valide le perplessità espresse dalla ordinanza di rimessione circa la coerenza dell’interpretazione che ritiene sufficiente la mera dichiarazione di interesse alla pronuncia con la costante lettura dell’art. 100 c.p.c. la quale postula l’attualità e la concretezza dell’interesse al ricorso.
Non è allora da escludere che, al di là della mera dichiarazione di intenzione di parte ricorrente, la questione se in concreto sussiste o meno l’interesse a fini risarcitori dovrà essere affrontata nel processo al fine di decidere se questo debba (o meno) proseguire fino alla pronuncia di accertamento della legittimità/illegittimità dell’atto impugnato. Emblematica una sentenza del Consiglio di Giustizia amministrativa Regione Sicilia[22] di pochi giorni successiva alla pronuncia della Plenaria. Al fine di decidere della prosecuzione, o meno, del giudizio sino alla pronuncia di accertamento dell’illegittimità del provvedimento al fine della tutela risarcitoria per equivalente, i giudici siciliani sono andati oltre la dichiarazione resa dal ricorrente e si sono spinti ad accertare la concretezza dell’interesse risarcitorio verificando accuratamente la consistenza del danno lamentato e la riconducibilità del medesimo al provvedimento, asseritamente illegittimo.
Sul punto, vale allora la pena di ricordare le soluzioni offerte dalla giurisprudenza che sono raggruppabili in tre indirizzi distinti[23]: a) l’interesse alla pronuncia dichiarativa dell’illegittimità a fini risarcitori si concreta solo che il ricorrente dimostri che il pregiudizio subito presenta una consistenza economica così da giustificare la futura proposizione di una domanda risarcitoria; b) l’interesse ad una decisione nel merito, in luogo delle decisione di improcedibilità, sussiste se il ricorrente allega tutti gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito, nesso di causalità, spettanza del bene della vita, elemento soggettivo, oltre al danno patrimoniale o non patrimoniale; c) l’interesse risarcitorio sussiste se il giudice accerta positivamente l’esistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito (con la conseguenza –si precisa nell’ordinanza - che giudice potrebbe non esaminare affatto i profili di illegittimità del provvedimento in caso di accertata mancanza degli ulteriori elementi dell’illecito. La mancanza di ognuno di questi assumerebbe, infatti, valore assorbente).
Evidentemente è da scartare la posizione più estrema, sopra sintetizzata sub c), la quale incorre in una evidente confusione tra i profili relativi alla ammissibilità domanda che va valutata in astratto, sia pure alla luce degli elementi di fatto addotti dalla parte ricorrente, e quelli inerenti alla sua fondatezza/infondatezza nel merito[24].
Restano allora in campo le tesi sopra sintetizzate sub a) e sub b) che prospettano con diversa ampiezza l’onere di allegazione a carico della parte ricorrente: se, per dimostrare l’interesse risarcitorio, il ricorrente possa limitarsi ad affermare il pregiudizio di cui invoca il ristoro e la perdita che lamenta di aver subito o se debba invece allegare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito.
Un punto fermo è segnato dai principi sopra evocati e dai caratteri propri del processo amministrativo: una volta venuta meno l’utilità derivabile dall’annullamento, non è comunque sufficiente a sorreggere la prosecuzione del giudizio l’interesse alla legittimità, alla affermazione, cioè, di quella che è la soluzione conforme a diritto, così come non è sufficiente un interesse solo morale che potrebbe al limite coincidere con la mera soddisfazione di un sentimento di giustizia.
Per definire, poi, in positivo quando può parlarsi di “interesse risarcitorio” e la consistenza dell’onere di allegazione a carico del ricorrente qualche indicazione può essere tratta dalla giurisprudenza del giudice ordinario in tema di proponibilità della domanda di risarcimento. Si potrebbe, invero, obiettare che l’art. 34, comma 3 riferisce l’interesse risarcitorio alla proponibilità di una domanda di accertamento dell’illegittimità e non di risarcimento. Ma, quel che è certo è che l’onere di allegazione a carico di chi chiede l’accertamento della illegittimità, a fini risarcitori, non può essere più esteso di quello che incombe su chi propone una domanda di risarcimento danni.
Per la giurisprudenza del giudice ordinario, l’onere di allegazione a carico di chi propone una azione di risarcimento danni consiste nella indicazione analitica e rigorosa dei fatti materiali che egli assume essere stati fonte di danno e nella indicazione dei danni subiti. Così ad esempio è ritenuta insufficiente a radicare il potere/dovere del giudice di pronunciare sulla domanda l’abusata formula di stile consistente nella richiesta di risarcimento dei danni “subiti e subendi”. Questa è considerata come non apposta poiché non mette né il giudice, né il convenuto, in condizione di sapere di quale concreto pregiudizio si chieda il ristoro [25]. E’ vero pure che, nella giurisprudenza del giudice ordinario, la mancata indicazione del pregiudizio di cui in concreto si chiede il ristoro non è censurata tanto alla stregua dell’art. 100 c.p.c., e dunque non espone alla conseguenza di rendere la domanda inammissibile per carenza di interesse, quanto piuttosto alla stregua dell’art. 163 c.p.c... Restano comunque, a mio avviso, utilizzabili le indicazioni circa l’ampiezza dell’onere di allegazione a carico del ricorrente.
A conclusioni non dissimili conducono pure il quadro concettuale in tema di interesse a ricorrere elaborato da una copiosa giurisprudenza del giudice amministrativo e la casistica che da quella giurisprudenza emerge. E’ vero che l’elaborazione concettuale e casistica sono essenzialmente riferite all’azione di annullamento e l’utilità che la giurisprudenza predica come necessaria a radicare l’interesse a ricorrere è definita con riferimento all’esito della (eventuale) eliminazione dell’atto impugnato. E’ però significativo che nel caso della azione di annullamento, l’interesse a ricorrere si concreta non solo ove sia prospettata “una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente”, ma richiede pure che nei fatti risulti una “effettiva utilità dell’eventuale annullamento dell’atto impugnato”[26].
Allo stesso modo si potrebbe sostenere che l’effettiva utilità della pronuncia dichiarativa dell’illegittimità a fini risarcitori sussiste solo ove sia quanto meno dimostrato un danno riconducibile al provvedimento del quale si predica l’illegittimità.
7. Alcune (precarie) conclusioni
Da quanto sopra osservato è possibile trarre alcune conclusioni, che definirei, però, precarieperché non del tutto in linea con la massima della Plenaria.
L’interpretazione dell’art. 34, comma 3 c.p.a. coerente con i principi e con la lettera delle disposizioni del codice del processo sembra essere quella per la quale, divenuta “inutile” la tutela demolitoria a causa di sopravvenienze di fatto o di diritto, il giudice è tenuto tuttavia ad emettere sentenza di merito di accertamento della illegittimità del provvedimento su domanda del ricorrente[27] solo che questi deduca di avere subito un pregiudizio per effetto del provvedimento impugnato e che questo è astrattamente riparabile per equivalente monetario[28].
Un aspetto merita forse di essere ancora chiarito. Ci si potrebbe cioè chiedere se la domanda di risarcimento dei danni possa essere, in alternativa, proposta in via autonoma, in un successivo giudizio. La soluzione positiva è a mio avviso preferibile. Infatti la sentenza dichiarativa della carenza sopravvenuta resta una sentenza in rito e non può essere attribuito ad essa alcun contenuto di accertamento nel merito della fondatezza/infondatezza della pretesa. Con la conseguenza che l’autonoma domanda di risarcimento danni risulterà preclusa solo ove il giudice accerti la legittimità del provvedimento in origine impugnato, così escludendo l’ingiustizia del danno lamentato. Se, invece, il processo si chiude con la declaratoria di carenza sopravvenuta di interesse, la domanda di risarcimento danni potrà essere proposta successivamente nel rispetto del termine di centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di mera improcedibilità del ricorso.
[1] Il T.a.r. Veneto, 27 agosto 2020, n.768, punto 10) della motivazione precisa che l’allegazione da parte del ricorrente di tutti i presupposti della domanda di risarcimento danni è necessaria per di consentire alle parti di contraddire sul punto e al giudice di formarsi in proposito un adeguato convincimento, non risultando a tal fine sufficiente la mera dichiarazione dell’intenzione di proporre una domanda per il ristoro dei danni subiti.
[2] Cons. Stato, Sez. V, 29 gennaio 2020, n. 727; Cons. Stato, Sez. V, 2 luglio 2020, n. 4253; Sez. V, 17 aprile 2020, n. 2447; Sez. VI, 4 maggio 2018, n. 2651; Sez. IV, 5 dicembre 2016, n. 5102; Sez. IV, 16 giugno 2015, n. 2979; Sez. V, 24 luglio 2014, n. 3939; Sez. IV, 13 marzo 2014, n. 1231; Sez. V, 14 dicembre 2011, n. 6539.
[3] Cons. Stato, Sez. VI, 11 ottobre 2021, n. 6824; Sez. III, 4 febbraio 2021, n. 1059; Sez. II, 5 ottobre 2020, n. 5866; Sez. III, 22 luglio 2020, n. 4681; Sez. III, 29 gennaio 2020, n. 736; Sez. IV, 17 gennaio 2020, n. 418; Sez. III, 8 gennaio 2018, n. 5771; Sez. V, 28 febbraio 2018, n. 1214; sez. IV, 18 agosto 2017, n. 4033; Sez. V, 15 marzo 2016, n. 1023; Sez. IV, 28 dicembre 2012, n. 6703)
[4] Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 2018, n. 1214; e, forse, anche Cons. Stato, Sez. III, 29 gennaio 2020, n. 736
[5] In questo senso, Cons. Stato, sez. IV, 18 maggio 2012, n. 2916 e 4 febbraio 2013, n. 646; Cons. Stato, sez. VI, 18 luglio 2014, n. 3848; Cons. Stato, sez. V, 24 luglio 2014, n. 3939; Cons. Stato, sez. IV, 7 novembre 2012, n. 5674, nonché Tar Milano, sez. III, 4 febbraio 2011, n. 353; sez. II, 4 novembre 2011, n. 2656; Tar Lazio, sez. III ter, 28 ottobre 2014, n. 10797; Tar Napoli, sez. VI, 23 ottobre 2014, n. 5460 e ancora Tar Milano, sez. II, 14 febbraio 2017, n. 621.
[6] Il rilievo che fa leva su esigenze di economia processuale per escludere la percorribilità di una pronuncia di accertamento dell’illegittimità che è l’argomento abbondantemente speso nell’ordinanza di rimessione non è del resto nuovo. In giurisprudenza, in particolare, per T.a.r. Lombardia, Brescia, 12 marzo 2013, n. 252 si rivela contrario al principio di economia processuale - e per logica conseguenza potrebbe confliggere anche col principio di ragionevole durata dei processi - un accertamento dell'illegittimità dell'atto compiuto in totale assenza della domanda risarcitoria. Aderisce, in dottrina, a questa impostazione g. invernici, I problemi applicativi dell’art. 34, comma 3 del codice del processo amministrativo inDir. Proc. Amm, 2013, 1320. Contra n.paolantonio, Commento al l’art. 34, in g.morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, 537 ss. il quale osserva, e il rilievo non è privo di buon senso, che, una volta istruita la domanda di annullamento ed emersa l’illegittimità degli atti gravati, costituirebbe inutile spreco di risorse giudiziarie rinviare ad un futuro autonomo giudizio risarcitorio anche la cognizione di questi aspetti. Alla critica aderisce pure m. silvestri, Sull’abolizione pretoria dell’art. 34, comma 3 c.p.a.cit, 1498.
[7] A breve distanza dai due noti precedenti, cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 9 dicembre 2021, n. 22; Cons. Stato, Ad. Plen., 28 gennaio 2022, n.3.
[8] La massima è assolutamente costante, vedi nota successiva. Ma i precedenti in cui in concreto si è ravvisato un interesse solo “morale” alla decisione sono piuttosto rari. Un caso curioso è quello deciso dal T.a.r. Campania, Napoli, sez. I, 30 ottobre 1990, n. 552 in cui i giudici hanno ravvisato un interesse “morale” alla decisione del ricorso elettorale proposto da un candidato al consiglio regionale, primo dei non eletti, ancorché il medesimo fosse poi stato nominato consigliere regionale a causa del decesso di uno degli eletti della lista. A ben vedere poi, accanto all’interesse morale del candidato ad essere proclamato eletto in forza della manifestazione diretta della volontà popolare e non per il meccanismo indiretto del subentro, i giudici partenopei riconoscono anche qui peso, al fine di escludere la carenza sopravvenuta di interesse, al più concreto interesse materiale a godere dei benefici connessi alla carica (indennità, trattamento previdenziale ecc.) con effetto retroattivo dal momento dell'insediamento del nuovo consiglio regionale e non dal momento, necessariamente successivo, del suo subentro al consigliere deceduto.
[9] Cons. Stato sez. IV, 09/09/2009, n.5402; Cons. Stato sez. IV, 12/03/2009, n.1431; C.G.A. Sicilia, sez. giurisd., 21 settembre 2006, n. 530; C.d.S., Sez. IV, 22 novembre 2004, n. 7620.
[10] Cons. Stato,, sez. V, 28 giugno 2004, n. 4756, nell’escludere che la revoca ex nunc dell’ordinanza sindacale di sospensione della licenza per l’esercizio dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande determini l’improcedibilità del ricorso per ragioni di rito residuando invece l’interesse alla declaratoria di illegittimità fin dall’origine dell’atto impugnato a fini risarcitori, ribadisce “pertanto il giudice deve di volta in volta verificare le concrete conseguenze del nuovo atto sul rapporto preesistente, al fine di stabilire se, nonostante il suo sopravvenire, l'eventuale sentenza di accoglimento del gravame, a prescindere dal suo contenuto eliminatorio del provvedimento impugnato, possa - o meno - comportare ulteriori effetti conformativi, ripristinatori o anche solo propedeutici a future azioni rivolte al risarcimento del danno. Merita, pertanto, di essere precisato che la concreta individuazione dei casi di sopravvenuta carenza d'interesse al ricorso giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo precludendo la disamina del merito della controversia, dev'essere condotta secondo criteri assai rigorosi”.
[11] La tesi favorevole alla conversione anche d’ufficio della domanda di annullamento osserva invero che l’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato è comunque contenuto nel petitum di annullamento come un antecedente necessario: “siccome il più contiene il meno, il giudice limita d’ufficio la sua pronuncia ad un contenuto di accertamento dell’illegittimità, in relazione alla pretesa risarcitoria, giacché manca l’interesse all’annullamento ma sussiste l’interesse ai fini risarcitori”, così tra le tante Cons. Stato, sez. V, 12 maggio 2011, n. 2817.
[12] Anche su questo punto la giurisprudenza è assolutamente costante: C.d.S., sez. IV, 21 agosto 2003, n. 4699; T.A.R. Lombardia Milano, sez. II, 26 aprile 2006, n. 1066.
[13] Per G.D. Comporti, Una battuta d’arresto per gli annullamenti a geometria variabile, in Giur.it. 2015, 1695, il potere di accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato ai soli fini risarcitori prevista dall’art. 34, 3 comma, c.p.a.va necessariamente coniugato con il principio della domanda e con il corollario del principio dispositivo in ordine alla prova dei fatti posti a fondamento della stessa
[14] La tesi della convertibilità d’ufficio non resiste ad una lettura orientata al principio della domanda il quale implica altresì quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato così m. silvestri, Sull’abolizione pretoria dell’art. 34, comma 3 c.p.a.. Ovvero dell’irrisarcibilità del danno per lesione del diritto all’istruzione, in Dir. Proc. Amm., 2017, 1505.
[15] Che la giurisprudenza più risalente muova dal presupposto della necessità di una previa pronuncia sull’illegittimità dell’atto ai fini della successiva proposizione della domanda di risarcimento risulta da C.d.S., sez. V 27.12. 2010 n. 9395. In una fattispecie nella quale era stata impugnata la delibera di organizzazione di reparto ospedaliero che aveva di fatto asseritamente provocato il demansionamento del ricorrente ed era poi nelle more del giudizio sopravvenuto il collocamento a riposo del ricorrente, il Consiglio di Stato ritiene che “l’appellante conservi un interesse attuale all’annullamento del provvedimento impugnato (pur se di natura organizzatoria), anche in seguito al suo collocamento in pensione, perché il mancato apprezzamento della legittimità o meno dello stesso (essendo di ostacolo all’apprezzamento della ingiustizia del danno o della illiceità della condotta tenuta dall'Amministrazione) frustrerebbe comunque il suo interesse strumentale a dimostrare il danno al suo prestigio professionale subito nel corso della sua attività fintantoché l’atto impugnato ha spiegato i suoi effetti, al fine di ottenerne, anche in separata sede, il risarcimento”.
[16] La tesi, semplicemente etichettata come “risalente” nella ordinanza 945, non è in effetti neppure esaminata.
[17] Per C.d.S., sez. IV, 30 marzo 2021, n. 3669, il rischio insito nella accettazione dell’idea della sufficienza di un mero interesse morale alla decisione è quello di trasformare quella amministrativa in una sorta di giurisdizione di diritto oggettivo e sul punto rinvia a C.d.S., Ad. plen., n. 1 del 28 gennaio 2015 e Sez. V, 27 marzo 2015, n. 1603.
[18] C.d.S. sez. VI, 11 ottobre 2021, n. 6824 e T.a.r. Campania, Salerno, 28 febbraio 2022, n. 582.
[19] Vi è tutto un recente filone giurisprudenziale, maturato con riferimento alla questione della appellabilità o meno del decreto presidenziale monocratico, per il quale è lo stesso art. 101, secondo comma, della Costituzione, ai sensi del quale “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”, a sancire la prevalenza della interpretazione testuale al cospetto d’una preclara formulazione della normativa applicabile, in tal senso Cons. Stato, sez. IV, decreto 29 aprile 2022, n. 1962 in questa Rivistacon nota di M. Sforna, Tutela cautelare monocratica. Il Consiglio di Stato torna ad affermare l’inappellabilità del decreto presidenziale ex art. 56 c.p.a. e ancora Cons. Stato, sez. IV decreto 4 luglio 2022, n. 3114. Ammonisce F. Francario, Se questa è nomofilachia. Il diritto amministrativo 2.0 secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in questa Rivista 28 febbraio 2022 che pure nell’esercizio della nomofilachia il giudice resta sub lege e dunque necessariamente ancorato al dato testuale della norma..
[20] Che l’interprete non possa prescindere dal dato letterale è più volte sottolineato dalla stessa Plenaria n. 8/22.
[21] Sul quale correttamente richiama l’attenzione l’ordinanza di rimessione alla Plenaria. Ma in tal senso, vedi già in dottrina m. silvestri, Sull’abolizione pretoria dell’art. 34, comma 3 c.p.a., cit., 1509 il quale osserva che la tesi per la quale sarebbe sufficiente a proseguire il giudizio per l’accertamento dell’illegittimità la mera intenzione della parte di voler intentare l’azione risarcitoria elude, in qualche modo, elude la stessa esigenza da sempre predicata di un interesse concreto ed attuale al ricorso.
[22] C.g.a., sez. giur., 21 luglio 2022, n. 851.
[23] E correttamente individuati dalla ordinanza di rimessione.
[24] La verifica dell’interesse a ricorrere prescinde del tutto dall’accertamento effettivo della sussistenza della situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio. Su questi aspetti, M. Clarich, Manuale di giustizia amministrativa, Bologna, 2021, 170.
[25] Così Cass. civ. 30 giugno 2015, n. 13328 in Resp. Civ. e previdenza, 2015, 1990. La sentenza enuncia il principio con riferimento ad un caso di responsabilità medica nel quale la ricorrente pretendeva di vedersi risarciti i costi di un intervento chirurgico resosi necessario a seguito delle cure sbagliate assumendo che detta pretesa fosse implicita nella richiesta di risarcimento dei danni “subiti e subendi”. Per la Suprema Corte una domanda così formulata deve ritenersi tamquam non esset per la sua genericità e quindi il giudice investito della decisione non solo non può, ma anzi non deve esprimersi in merito. In termini, vedi ancora Cass. civ., 18 gennaio 2012, n. 691, ove la massima secondo la quale “le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione della condotta in tesi colpevole della controparte (...), ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e/o non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo l'attore mettere il convenuto in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, e ciò a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall'assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo”; Cass. civ., 18 gennaio 2012, n. 69; Cass. civ., 13 maggio 2011, n. 10527; Cass. Sez. Un. civ., 17 giugno 2004, n. 11353; Trib. Roma, sez. VI, 31 gennaio 2018, n. 2415; T.a.r., Lazio, sez. IIIquater, 5 giugno 2019, n. 7217.
[26] Cons. Stato, Ad. plen. n. 4/2018, punto 16.8; ribadito da Cons. Stato, Ad. plen., n. 22/2021, punto 5
[27] Probabilmente l’istanza andrebbe notificata poiché comunque determina una modifica del thema decidendum, se non si condivide la tesi per la quale la domanda di accertamento dell’illegittimità è “compresa” per continenza in quella di annullamento. Posizione questa condivisa dalla giurisprudenza “risalente” e che – come già detto – giustificherebbe la conclusione della convertibilità d’ufficio.
[28] Ristretto l’onere di allegazione a carico del ricorrente alla affermazione di aver subito un danno risarcibile per equivalente monetario e alla descrizione della perdita subita, si osserverà forse che il filtro dell’”interesse risarcitorio” non opera una selezione adeguata con il rischio che il processo sia portato avanti fino alla sentenza di accertamento della legittimità/illegittimità a meri fini esplorativi. Ma all’argomento che fa leva su esigenze di economia processuale non può accordarsi un peso decisivo come correttamente rilevato dalla Plenaria in commento.
Il Consiglio di Stato nega la legittimazione del promissario acquirente all’impugnazione dei titoli edilizi (nota a Cons. St., sez. VI, 14 marzo 2022, n. 1768)
di Marco Magri
Sommario: 1. Una vicenda particolare: il promissario acquirente come “terzo”. – 2. Il predicato territoriale della vicinitas. – 3. La soggettivazione non dominicale dell’interesse al vaglio della teoria della “norma di protezione” (o della “qualificazione normativa”). – 4. Conseguenze: il capovolgimento dell’esito di primo grado e la “delegittimazione” del promissario acquirente. – 5. Conclusioni.
1. Una vicenda particolare: il promissario acquirente come “terzo”.
Questa sentenza va probabilmente esaminata oltre i confini dell’orientamento giurisprudenziale riguardante la posizione del promissario acquirente rispetto all’esercizio delle funzioni amministrative in materia edilizia[1].
Bisogna infatti attribuire il giusto rilievo alle particolarità della vicenda che aveva dato origine al contenzioso: il promissario acquirente, venuto a conoscenza di abusi edilizi ulteriori a quelli dichiarati dal promittente venditore, si era rifiutato di stipulare il contratto definitivo e aveva incardinato un giudizio civile nel quale chiedeva l’accertamento della risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del venditore, oltre al rimborso del doppio della caparra confirmatoria.
Con il successivo ricorso al TAR il promissario acquirente aveva domandato l’annullamento del permesso in sanatoria che disponeva il condono dell’immobile, ritenendo che l’accertamento dell’illegittimità dei titoli edilizi impugnati gli avrebbe consentito di «dimostrare, nel corso del giudizio civile, che l’immobile oggetto del contratto preliminare di compravendita era interamente abusivo». Ciò avrebbe confermato «l’inadempienza degli obblighi di venditore (…) e il riconoscimento a suo favore del diritto ad ottenere il doppio della caparra versata».
Si tratta quindi di un caso in cui il promissario acquirente non vantava una relazione qualificata con l’immobile; anzi, sul piano giuridico era a tutti gli effetti un “terzo”, rispetto al rapporto giuridico tra il promittente venditore e l’amministrazione che gli aveva rilasciato il permesso di costruire in sanatoria[2].
Inevitabile, inoltre, riconoscere nell’interesse vantato dell’acquirente la più classica ipotesi di interesse “strumentale”, dato che il “bene della vita” a cui tendeva l’impugnazione del permesso non consisteva nel recupero delle facoltà di godimento del bene, ma nella chance di vedere accolta dal giudice ordinario una pretesa di natura risarcitoria[3] consequenziale alla risoluzione del contratto.
La degradazione di questo interesse a mero interesse di fatto, da parte del Consiglio di Stato – che in riforma della pronuncia di primo grado ha dichiarato il difetto di legittimazione ad agire – sollecita interrogativi processuali più ampi: suggerisce di utilizzare questo caso per riflettere direttamente sul criterio utilizzato dal giudice per accertare la titolarità dell’interesse legittimo del “terzo” (e, ancor più complessivamente, dell’interesse legittimo come figura giuridica soggettiva).
2. Il predicato territoriale della vicinitas.
Il permesso di costruire rappresenta da sempre un settore privilegiato per l’emersione di problematiche attorno all’interesse legittimo, specie per la rilevanza della specifica e ormai tradizionale discussione sui limiti dell’interesse del “terzo” a che il Comune eserciti correttamente i propri poteri (autorizzativi, di vigilanza e controllo) nei confronti del titolare dell’attività edificatoria[4].
La prassi giurisprudenziale, ribadita anche di recente[5], è quella di valutare la titolarità della situazione di interesse legittimo del terzo (dunque la sua legittimazione alla proposizione del ricorso) in termini di stabile collegamento tra la sua proprietà e l’area oggetto dell’intervento edilizio. Alla base di questo criterio, cd. vicinitas territoriale, regge ancora la vecchia nozione di «insediamento abitativo», «stabile ubicazione» o «radicazione in loco» dei propri «interessi di vita», familiari, economici o relativi ad altri «qualificati e consolidati rapporti sociali»[6].
La legittimazione del terzo a impugnare il permesso di costruire dipende dunque dal riscontro caso per caso di questi requisiti e, in fin dei conti, da un apprezzamento largamente discrezionale del giudice. Dovrebbe tuttavia reputarsi fuori discussione, almeno, che lo stabile collegamento tra la proprietà del terzo e l’area oggetto dell’intervento edilizio non equivalga necessariamente alla situazione legittimante l’azione civile a difesa della proprietà contro la turbativa provocata dall’attività edificatoria, ma possa essere oggetto di un’indagine dai parametri più ampi, elastici ed “inclusivi”.
Sempre si ricorda infatti che il teorema della vicinitas risale alla celebre sentenza del Consiglio di Stato “correttiva” del significato fatto palese dall’art. 10 comma 9 della legge-ponte[7], che consentiva a chiunque l’impugnazione delle licenze[8]. Il legislatore, «per colpire il fenomeno dell’abusivismo (…) chiamava propriamente a collaborare e vigilare i membri della comunità»[9]. Ma il Consiglio di Stato non vi riconobbe i caratteri dell’azione popolare e ne trasse piuttosto l’idea di una legittimazione allargata, per la quale «è sufficiente che ci sia un collegamento giuridico del soggetto con una non effimera situazione sulla quale incidono gli effetti dell’atto»[10].
Rielaborato nella formula della vicinitas, il criterio ha ricevuto conferme sempre più numerose e può ritenersi oggi un meccanismo consolidato di individuazione dell’interesse legittimo del terzo. La sua funzione regolativa dell’accesso al merito del giudizio amministrativo fa sì che le norme di edilizia risultino più stabilmente amalgamate agli interessi pubblici e, almeno in parte, sollevate dal compito suppletivo che sembrava loro affidato dalle disposizioni del Codice civile del 1942.
Comunque sia, in termini di allargamento dell’area degli interessi tutelabili in sede giurisdizionale, i passi in avanti sono stati enormi rispetto alla situazione di un tempo: quando l’impugnazione al Consiglio di Stato della licenza era un semplice predicato della “doppia tutela” del proprietario contro la violazione di regolamenti edilizi integrativi del codice civile[11]. D’altra parte le Sezioni Unite sottolineavano che il potere di reprimere degli abusi era ampiamente discrezionale, arrivando su queste basi a negare che il terzo – fermo il suo diritto di chiedere in sede civile il risarcimento del danno e la riduzione in pristino (art. 872 c.c.) – potesse vantare interessi legittimi di tipo “pretensivo” davanti al Consiglio di Stato, ad esempio l’interesse a che il Sindaco emanasse un’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva (art. 32 legge 17 agosto 1942, n. 1150). La riprova ne è, in un caso alquanto dibattuto, l’annullamento per difetto di giurisdizione di una sentenza del Consiglio di Stato che aveva accolto il ricorso avverso il silenzio-rifiuto del Comune di demolire costruzioni realizzate da altri in difformità dai regolamenti edilizi[12].
Ora queste asimmetrie non hanno più ragione di essere e concordemente si ammette che il “terzo” sia legittimato a chiedere la tutela del proprio interesse legittimo, dinanzi al giudice amministrativo, contro una pluralità di situazioni patologiche, tramite azioni anche diverse da quella di annullamento: il rilascio di un permesso illegittimo, l’omissione dell’obbligo di vigilanza sugli abusi edilizi, l’inadempimento del dovere di controllo e di eventuale interdizione della SCIA; nonché – come nel caso che ci occupa – l’illegittimo esercizio del potere di sanatoria[13].
Resta da dire che la vicinitas soddisfa il solo requisito della legittimazione; è condizione necessaria, ma non sufficiente all’ammissibilità del ricorso. Occorre anche l’interesse ad agire: lo specifico pregiudizio allegato dal ricorrente, che può riferirsi al godimento dell’immobile o al suo deprezzamento, ma anche – come ha precisato la Plenaria – alla compromissione della salute e dell’ambiente in danno di coloro che sono in durevole rapporto con la zona interessata[14].
3. La soggettivazione non dominicale dell’interesse al vaglio della teoria della “norma di protezione” (o della “qualificazione normativa”).
Fatta questa lunga premessa (col rischio, anzi la certezza di aver detto cose fin troppo note) rimane il dubbio su cosa debba fare il giudice amministrativo quando il ricorrente allega una vicinitas “non territoriale”, si afferma cioè titolare di un interesse legittimo basato non su relazioni di prossimità tra fondi o tra luoghi, ma su un altro tipo di situazione soggettiva “collegata” all’atto impugnato.
Sappiamo che una famosa variabile della vicinitas edilizia è la “vicinitas commerciale”: il “bacino di utenza” corrispondente a uno spazio fisico più ampio di quello del permesso edilizio, entro il quale si consuma il confronto tra il ricorrente e il titolare dell’attività concorrente, autorizzata con l’atto impugnato[15].
A ben vedere, peraltro, nel ragionare di “vicinitas commerciale” si rimane pur sempre nell’ambito di una relazione determinata dalla distanza fisica o geografica, dunque di un criterio il cui contenuto non è troppo dissimile dall’altro. Inoltre, specie se si considera la concorrenza come un naturale attributo della libertà di iniziativa economica privata, è perfettamente accettabile l’idea che le norme regolatrici delle autorizzazioni, rilasciate al concorrente, “prendano in considerazione” e in qualche misura “investano” e perciò “qualifichino” la posizione del terzo.
Il vero salto di qualità lo si compie quando si assumono a termini di confronto le situazioni dei terzi in difesa del cui interessenon è stata scritta la disposizione di legge che sia assume essere stata violata[16]; i “non destinatari” dell’investitura, i soggetti che invocano, contro l’amministrazione, una norma non “pensata” per loro, che non ha “voluto” farli entrare in rapporto con l’amministrazione e che perciò, ovviamente, non sono stati “presi in considerazione” nemmeno dall’amministrazione stessa[17].
Al giudice amministrativo si aprono allora due strade: 1) escludere la legittimazione di tali soggetti; 2) ammettere, se non altro come possibilità, che interessi legittimi possano sorgere anche dall’interessamento del singolo a norme che non lo hanno previsto come destinatario dell’atto amministrativo. Come per la vicinitas territoriale, una volta esclusa l’azione popolare – e confermato che un interesse è giuridicamente rilevante quando è basato sull’ordinamento – l’idoneità di una norma (singola) a dar vita a interessi legittimi può, a volte, presumersi cristallizzata nella sua “volontà protettiva”; ma può benissimo accadere che la norma invocata dal ricorrente contro l’atto amministrativo protegga, magari per caso fortuito, un interesse che su di essa non si fonda e che neppure si concretizza in un rapporto con l’amministrazione. Il caso da cui nasce la sentenza in esame ne è un tipico esempio: l’interesse del promissario acquirente si basa sul Codice civile ed ha come controparte del rapporto il promissario venditore, non l’amministrazione. L’interesse del promissario venditore al condono dell’immobile si basa sulle leggi di sanatoria e, inoltrata l’istanza di condono, ha come controparte del rapporto l’amministrazione, non il promissario acquirente. Ciò significa forse che l’amministrazione, nell’esercizio del potere conferitole dalle leggi sul condono, non può ledere l’interesse del promissario acquirente? Certamente no. Tutto dipende da cosa è concretamente successo, dall’esposizione sommaria dei fatti (art. 40 c.p.a.): dalla persuasività dell’affermazione, che è opera del ricorrente ed è svolta, per così dire, a suo rischio e pericolo. Ora si potrebbe discutere a lungo, se nel processo amministrativo l’affermazione del ricorrente contribuisca alla formazione dell’oggetto del processo[18] o se debba restarne rigorosamente estranea, onde evitare che l’oggetto del processo finisca per coincidere con una situazione soggettiva «creata dal giudice per il tramite dell’ammissibilità dell’azione»[19]. Sta di fatto, per quanto ora interessa, che il rischio di “creatività” è insito anche nell’ipotesi inversa: quando il giudice dichiara l’inammissibilità del ricorso, constatando che l’amministrazione non aveva il dovere di applicare la legge nei confronti del ricorrente, il quale viene di conseguenza assimilato al quivis de populo.[20]
La prospettiva adottata dal giudice amministrativo è generalmente la prima, in misura crescente da quando l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha precisato che tra le condizioni dell’azione di annullamento rientra il “titolo, o possibilità giuridica dell’azione” [21]; ma non pare che da essa si desuma una convincente ricostruzione della legittimazione: più che altro, l’impressione è che la giurisdizione amministrativa si alimenti impropriamente dei princìpi sull’attività amministrativa discrezionale[22], che – questa sì – non può volgere alla soddisfazione di interessi diversi da quelli che la legge ha voluto mettere in rapporto con l’amministrazione.
Non stiamo parlando degli interessi diffusi, per i quali vale un altro genere di considerazioni[23]. Troviamo nella giurisprudenza amministrativa interessi che si direbbero, più semplicemente, “squalificati” dal giudice, perché non rispondenti alla teoria della “norma di protezione”, automaticamente assegnati all’area dei cosiddetti interessi dipendenti (utili solo a un eventuale intervento nel giudizio).[24]
Solo in tempi recenti – la qual cosa è spesso sottovalutata – l’individuazione dell’interesse legittimo per mezzo della “teoria della qualificazione normativa” è stata sostenuta in chiave prescrittiva, allo scopo di offrire un’immagine razionalizzata della presenza del “terzo” nel processo[25], senza darsi carico della «grave difficoltà di riconoscere i casi in cui esiste una qualificazione normativa»[26] e, in ultima analisi, dell’esaltazione della “creatività” del giudice amministrativo: altra conseguenza, non sempre sottolineata, alla quale conduce il dogma della “qualificazione”.
Ora il discorso dovrebbe essere portato a una dimensione più ampia, certamente inadeguata ai fini di queste brevi annotazioni. Una cosa però va detta chiara: un’assiduità esasperata, da parte giurisprudenza amministrativa, nell’affidare il vaglio di ammissibilità del ricorso al teorema della norma di protezione può avere esiti appaganti, quanto portare, se praticata con eccessivo rigore, a conseguenze contrarie al più comune buon senso. Lo dimostrano alcuni esempi di interesse legittimo “squalificato”: quello del datore di lavoro a impugnare il rigetto del visto d’ingresso adottato dal consolato italiano all’estero, nei confronti del lavoratore, cittadino straniero, che il datore di lavoro ha già regolarmente assunto dall’Italia (autorizzato dal Prefetto)[27]; quello dell’ex amministratore di società di capitali a impugnare l’interdittiva antimafia emessa nei confronti della società, nella quale si indica l’ex amministratore come soggetto sospettato di collegamento con la criminalità organizzata[28]; quello dell’operatore economico partecipante a una gara d’appalto, legittimamente, ma non «definitivamente» escluso (art. 2-bis Direttiva 89/665/CE del 21 dicembre 1989), a impugnare l’aggiudicazione disposta dalla stazione appaltante[29].
In tutti questi casi – esattamente come, nella vicenda di specie, è accaduto al promissario acquirente – l’interesse è stato declassato dal giudice amministrativo a interesse strumentale, non giuridicamente “protetto”, equiparato a quello del quivis de populo, la cui ammissione alla tutela di merito implicherebbe la violazione del divieto di sostituzione processuale; quindi considerabile tutt’al più come titolo idoneo a un intervento ad adiuvandum nel giudizio di annullamento (ipotetico, quanto improbabile, per non dire impossibile) promosso dal “vero” legittimato.
L’aspetto in discussione – sia chiaro – non è la possibilità che la teoria della norma di protezione sia applicata nel processo amministrativo; è l’idea che essa debba sempre essere seguita, non essendovi criteri alternativi di individuazione dell’interesse legittimo e di accertamento della legittimazione ad agire: in questo senso si risolve in una esclusione standardizzata, senza alcuna possibilità di bilanciamento (verrebbe da osservare, polemicamente, una “teoria della delegittimazione ad agire”).
4. Conseguenze: il capovolgimento dell’esito di primo grado e la “delegittimazione” del promissario acquirente.
Nell’economia di questo breve commento ci si può solo chiedere, alla luce di quanto detto fin qui, se l’interesse del promissario acquirente fosse davvero un interesse di mero fatto e fino a che punto sia condivisibile la soluzione adottata dal Consiglio di Stato. Sia consentito riprendere brevemente la vicenda.
La pronuncia di primo grado[30] aveva annullato due permessi di costruire in sanatoria rilasciati, in applicazione delle leggi sul condono edilizio (28 febbraio 1985, n. 47 e 23 dicembre 1994, n. 724), alla società proprietaria di un immobile ubicato in area sottoposta a vincolo paesaggistico. Si trattava per la precisione di un ristorante, costruito lungo sponde di un lago, sul quale erano stati eseguiti a più riprese lavori di ampliamento abusivo che avevano portato a una modifica complessiva di entità piuttosto rilevante (nel processo era stata documentata la parziale colmatura delle acque lacustri e realizzazione di una terrazza di 285 mq. su palafitte).
La sanatoria[31] era stata giudicata, dal TAR, non conforme a legge per una serie di motivi: la parziale realizzazione degli interventi abusivi su area appartenente al demanio dello Stato; l’esecuzione di lavori di ampiamento in epoca successiva al termine stabilito dalla legge n. 47/1985 per la proposizione dell’istanza di condono; la contrarietà dell’atto di sanatoria al parere negativo della Soprintendenza; la realizzazione di una cubatura complessiva (oltre 2200 mc.) non condonabile perché superiore al limite di 750 mc. stabilito dalla legge n. 724/1994.
Gli argomenti che hanno portato alla riforma della sentenza sono, come si accennava, legati al profilo delle condizioni dell’azione.
Il TAR aveva accolto due ricorsi riuniti (per connessione oggettiva): il primo era stato proposto della promissaria acquirente, l’altro da una persona «qualificatasi come proprietaria confinante», la quale aveva sostenuto di avere “interesse a ricorrere” per «i per danni alla sua proprietà, provocati anche da diminuzione di panoramicità, visibilità, visualità e godibilità, conseguenti all’edificazione dell’immobile di cui è causa». Questo ricorso era stato ammesso dal Giudice di primo grado «in ragione della sussistenza del requisito della vicinitas che, per giurisprudenza consolidata, legittima il proprietario confinante ad impugnare i titoli edilizi rilasciati a favore del vicino controinteressato (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 24 dicembre 2020, n. 8313)».
Anche qui il Consiglio di Stato è andato di diverso avviso, cogliendo l’occasione per ribadire l’indirizzo, espresso dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 22 del 2021, secondo il quale la legittimazione dei terzi all’impugnazione di titoli edilizi non è soddisfatta dall’allegazione della vicinitas, ma richiede l’allegazione e, se necessario, l’autonoma dimostrazione di un concreto ed effettivo “pregiudizio”. Nel caso di specie la ricorrente si era limitata a generiche allegazioni in merito al deterioramento della qualità della vita (valori storici, culturali, ambientali), che per i giudici d’appello si ancorava a una «percezione personale del tipo di luogo in cui si vorrebbe vivere e non a parametri oggettivi che sono, invece, gli unici dai quali partire per fissare l’aumento o la diminuzione di valore di un bene immobile».
Quanto alla legittimazione del promissario acquirente, il TAR aveva trattato i profili d’inadempimento del contratto preliminare in modo per così dire pragmatico: come «questioni indubbiamente conoscibili dal giudice civile, ma che in questa sede rilevano per affermare la sussistenza di un interesse a contestare i provvedimenti impugnati, al fine di far valere in quella sede il loro annullamento».
Il Consiglio di Stato ha invece ritenuto che la promissaria acquirente fosse estranea «alle vicende relative ai titoli edilizi sugli immobili oggetto del contratto preliminare» e che soltanto «in sede civile», semmai, essa avrebbe potuto «far valere quelle vicende al mero fine di definire i rapporti giuridici sorti tra le parti».
«Lasciando da parte ogni considerazione sviluppata dagli appellanti circa l’effettiva sussistenza di detto ruolo (ad esempio: il fatto che al momento della proposizione del ricorso il contratto aveva cessato di produrre effetti) occorre rilevare che la posizione di promissario acquirente non è idonea a fondare la legittimazione a ricorrere. Già da tempo il Consiglio di Stato (sez. IV, 12/04/2011, n. 2275) ha affermato il principio secondo il quale non può ritenersi legittimato ad impugnare il provvedimento con il quale un Comune ha annullato in autotutela un piano di lottizzazione, il promissario acquirente del terreno interessato dal medesimo piano di lottizzazione, ove questi, nonostante la stipula del contratto preliminare di compravendita dell'area, non abbia acquisito la effettiva e materiale disponibilità del terreno stesso, che si potrebbe configurare in caso di preliminare cd. ad effetti anticipati, con il quale quantomeno si anticipa l’effetto della consegna dell'immobile. Nella specie, [la promissaria acquirente] non ha mai acquistato il possesso o la detenzione o, ancora, la materiale disponibilità del bene, per cui non si è radicata in capo ad essa alcuna posizione giuridica diversa dall’interesse di mero fatto. Più di recente, il Consiglio di Stato ha chiarito in maniera più specifica la reale situazione ricoperta dal promissario acquirente in un passaggio della motivazione della sentenza n. 6961 del 14 ottobre 2019 che di seguito si riporta: “Rispetto agli interessi pretensivi, il potere di conformazione e di autorizzazione edilizia investe infatti in via diretta ed esclusiva il proprietario della res, in capo al quale l’interesse si appunta, mentre il vincolo obbligatorio che si instaura tra il promittente venditore ed il promissario acquirente fa sì che le modalità di esercizio del potere riverberino, sulla posizione del secondo, effetti solo indiretti relegando la posizione di quest’ultimo, nell’ambito della relazione pubblicistica, a quella di titolare di un mero interesse di fatto. Tali effetti indiretti rilevano invece sul piano civilistico dell’esatto adempimento e quindi nell’ambito della relazione contrattuale, giammai in seno alla relazione procedimentale dove il proprietario resta l’interlocutore esclusivo della vicenda dinamica del potere. Ne discende che rispetto a tutti gli interventi edilizi via via autorizzati sulle unità immobiliari promesse in vendita, l’odierno appellante […] è privo di una situazione giuridica soggettiva idonea a differenziarne la posizione e quindi a radicarne la legittimazione, non potendosi ritenere idoneo a tale scopo il mero vincolo obbligatorio che ha ad oggetto la prestazione (nella specie del consenso richiesto per il perfezionamento del contratto) non l’esercizio di un potere”».
La sostanza della motivazione è molto chiara: per il Consiglio di Stato la difesa del diritto di credito è un affare di esclusiva pertinenza del giudice civile e non può convertirsi nella potestà di proporre ricorso agli organi di giustizia amministrativa; il che, si può soggiungere, sarebbe invece normale se ad agire in giudizio nei panni del “terzo”, per far valere l’illegittimità del permesso di costruire, fosse il titolare del diritto di proprietà di un immobile vicino. Non per nulla, l’eccezione è la consegna anticipata dell’immobile al promissario acquirente, che dà vita a una situazione di fatto (materiale disponibilità) somigliante a un diritto dominicale; ulteriore riprova che il diritto relativo non ha la forza bastevole alla individuazione di un interesse legittimo tutelabile dinanzi alla giurisdizione amministrativa.
Probabilmente sulle considerazioni del Consiglio di Stato ha esercitato una certa influenza l’idea che il giudizio d’inadempimento del preliminare contratto abbia, in sé, l’autonomia necessaria alla tutela del promissario acquirente.
Il recesso dal contratto preliminare per abusi edilizi è tuttavia una fattispecie che merita una particolare attenzione. Stando alla giurisprudenza civile, la nullità di cui all’art. 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 trova applicazione ai soli contratti con effetti traslativi e non anche a quelli con efficacia obbligatoria, quale il preliminare di vendita[32]. Non è data quindi al promissario acquirente azione di nullità, ma solo di adempimento o, come nella vicenda di specie, di risoluzione del contratto per inadempimento (con restituzione del doppio cella caparra).
La validità del contratto preliminare avente ad oggetto un immobile abusivo ha però una seconda conseguenza, anch’essa desumibile dalla giurisprudenza civile, proprio nel caso di condono dell’immobile successivo al recesso dell’acquirente. In questo frangente, infatti, il rilascio del permesso in sanatoria, regolarizzando la condizione giuridica dell’immobile, realizza la condizione che rende possibile per il venditore, interessato alla stipula del contratto definitivo, l’azione costitutiva di trasferimento di cui all’art. 2932 c.c. contro il compratore[33]. Non è questo – o meglio non è dato sapere se sia questo – il caso di specie. Se però il condono determina automaticamente l’illegittimità del recesso dell’acquirente, esercitato a causa dell’abuso (tanto da permettere al venditore di agire per l’esecuzione dell’obbligo di contrarre), a maggior ragione impone una valutazione d’infondatezza della domanda di risoluzione per inadempimento proposta dall’acquirente stesso.
Questi meccanismi sono rimasti sfuocati agli occhi del giudice. La legittimazione ad agire, secondo la giurisprudenza, implica l’irrilevanza dell’affermazione e la necessità di ricercare l’effettiva titolarità dell’interesse legittimo[34]. Se il giudice avesse voluto procedere in questo modo, gli sarebbe stato più facile seguire la strada di un’analisi approfondita del diritto del promissario acquirente, che avrebbe restituito la reale consistenza dell’interesse vantato dal ricorrente. Affidandosi invece ai dogmi della “teoria generale”, il giudice ha finito per mettere, tra sé e i fatti di causa, uno schermo protettivo che gli ha impedito di vedere l’interesse così come protetto dall’ordinamento (a tutto vantaggio, evidentemente, dell’amministrazione).
Con ogni probabilità, la chiave di lettura della sentenza sta nella fiducia del Consiglio di Stato verso l’unico strumento di tutela rimasto all’acquirente, vale a dire il potere del giudice civile di disapplicare il permesso di costruire in sanatoria[35].
Non è un esito nuovo né sorprendente, se si pensa che, com’è stato da tempo osservato, anche nei casi più “classici” – nei quali cioè il permesso di costruire in sanatoria viola le norme sulle distanze tra le costruzioni, quindi la proprietà del terzo (art. 873 c.c.) – il carattere peculiare dell’istituto del condono, che impedisce alla pubblica amministrazione di sindacare il rispetto delle distanze, ostacola l’individuazione dell’interesse legittimo e lascia a disposizione del terzo la sola tutela civile, previa disapplicazione del permesso di costruire in sanatoria; nel che si sono ravvisate alcune “crepe” nel concetto stesso di “doppia tutela”[36].
Il restare affidato al potere di disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice civile mette però alquanto in sott’ordine il promissario acquirente rispetto al promissario venditore, «interlocutore esclusivo della dinamica del potere», che fruisce invece della tutela giurisdizionale di annullamento, in caso di scorretto esercizio del medesimo potere (es. in caso di diniego di permesso in sanatoria).
Già qui ci si potrebbe soffermare, per cercare di comprendere se questo differente trattamento sia ragionevole o non, piuttosto, «sconveniente»[37]; considerato anche l’interesse pubblico a che gli abusi, se insanabili, non siano condonati, il che avrebbe potuto introdurre nel discorso del giudice un fattore di “bilanciamento” e rendere, se non altro, più elastico il giudizio di ammissibilità del ricorso.
5. Conclusioni.
L’aspetto che più induce a dubitare della correttezza della soluzione adottata dal Consiglio di Stato rimane però l’esasperato formalismo della ricostruzione operata dal giudice in merito alla «dinamica del potere», che è il vero momento di partenza del diniego di legittimazione ad agire del promissario acquirente.
Dal punto di vista dell’amministrazione e dei suoi doveri di esecuzione, è plausibile che il «potere conformativo e autorizzativo» si consumi nella «relazione pubblicistica» con il promissario venditore e non incida, se non indirettamente – appunto, in via di mero fatto – nella «relazione contrattuale» tra privati.
Questo non è però, a ben vedere, se non il metro di valutazione delle ricadute soggettive del potere amministrativo; là dove l’accertamento della legittimazione del ricorrente mette in gioco i confini del potere giudiziario.
Gli articoli 103 e 113 Cost. destinano la giurisdizione amministrativa non alla protezione dell’efficacia dell’atto, ma alla tutela degli interessi legittimi nei confronti della pubblica amministrazione. Non pare quindi corretto che il giudice rinunci a decidere solo perché l’interesse che sta alla base del ricorso poggia su regole di diritto diverse da quelle dalla cui violazione derivano i vizi dell’atto impugnato.
Non è ora il caso di approfondire; né di prendere una posizione argomentata sulla soluzione data dal Consiglio di Stato al problema della legittimazione del promissario acquirente. Tanto meno è il momento di proclamare princìpi o massime generali sulla tutela del promissario acquirente nel giudizio amministrativo.
Ci si può domandare, tuttavia, se nella sentenza in esame non vi fosse spazio per un ragionamento più spregiudicato di quello che il giudice ha sviluppato, muovendo dagli schemi teorico-generali del potere e del rapporto giuridico.
Non era in discussione che la ricorrente fosse stata promissaria acquirente e che vantasse un diritto di obbligazione verso la venditrice.
L’interesse all’esatto adempimento di un preliminare e, in caso d’inadempimento, alla restituzione del doppio della caparra data non è un diritto assoluto; non dà titolo per vantare prerogative dominicali sull’immobile. E’ un diritto di obbligazione che si fonda sull’art. 1385 comma 2 c.c. Questo significa che non è “protetto dall’ordinamento”? Certamente no. Non meno di quanto lo sia il diritto dominicale sull’immobile garantito al proprietario dal Codice civile.
Si dirà che le norme sul condono edilizio non hanno considerato l’interesse dell’acquirente tra quelli che entrano in rapporto con l’amministrazione.
Poiché però la protezione di un interesse è o non è accordata dall’ordinamento – che è il tutto, il complesso generale di regole e principi – non si avverte alcuna stortura nel pensare che una disposizione di legge possa essere invocata, contro un provvedimento amministrativo ritenuto illegittimo, sia a tutela di interessi che essa qualifica, sia a tutela di interessi che essa non qualifica e che, a differenza dei primi, non entrano in una “relazione pubblicistica” con l’amministrazione.
Non si vede d’altra parte perché non debba valere, anche per il giudizio amministrativo di annullamento – se si vuol proprio parlare di una legittimazione ad agire concepita sulla “falsariga del processo civile”[38] – la regola per cui l’idoneità della norma a dar vita a situazioni soggettive dipende, più che dalla “qualificazione”, dal principio generale del neminem laedere, che potrebbe benissimo fungere, anche qui, da criterio di selezione degli interessi protetti (senza con questo incorrere, sempre e necessariamente, in violazioni del divieto di sostituzione processuale).
Ma forse basterebbe riconoscere che l’art. 24 «ci si presenta (…) come una sorta di norma in bianco la quale aderisce a tutte le norme sostanziali, che attribuiscono diritti o interessi legittimi: queste norme, anche se nulla dispongono (e il più delle volte non dispongono) sulla tutela giurisdizionale, funzionano, per così dire, come fattispecie rispetto al primo comma dell’art. 24, che mettono automaticamente in moto»[39], per dubitare che qualche principio sul processo amministrativo avrebbe patito, se il ricorso della promissaria acquirente fosse stato giudicato nel merito, anziché dichiarato inammissibile perché non “qualificato”.
Di qui una chiave di lettura conclusiva; non tanto della sentenza, quanto del problema ad essa sottostante. Ovviamente le leggi sul rilascio dei titoli edilizi sono scritte “volendo” che i poteri dell’amministrazione incidano sul regime della proprietà immobiliare; che si rivolgano al proprietario o a chi da esso acquisti la disponibilità dell’immobile o il diritto di costruire. Aggiungiamo pure i titolari di altri diritti assoluti, investiti dagli effetti di quei poteri amministrativi attraverso la vicinitas “territoriale”: sono questi i “terzi”, legittimati a “reagire”, anch’essi perché dotati di poteri giuridici di disposizione, magari solo materiale, di un immobile.
L’idea che fuori da questo schema, diciamo “più in là” sul territorio, o dove proprio non è la terra il mezzo di collegamento – dove insomma la norma non ha voluto che arrivassero gli effetti del potere – esista solo l’interesse di fatto, del quivis de populo (espressione forse troppo diffusa in giurisprudenza), fa parte di una cultura giuridica senza mezzi termini tipica dell’Italia tardo ottocentesca[40].
Una sentenza come quella in esame, che ad ogni passaggio cerca nel “potere di volere della norma” la ragione dell’interesse, può far riscoprire il gusto della modernità della giustizia amministrativa e, con riferimento al problema della impugnazione dei titoli edilizi, sollecitare l’interrogativo se la vicinitas non meriti un approccio diverso da quello del giurista e amministrativista «di terra»[41].
Sarebbe bello se le leggi sul rilascio dei titoli edilizi, che nulla dispongono sulla tutela giurisdizionale, permettessero l’accesso al giudice amministrativo non solo agli interessi che vogliono proteggere, ma anche, prima di tutto, agli interessi che ledono ingiustamente. Tutte le norme dell’ordinamento che attribuiscono diritti potrebbero così combinarsi con quelle sul potere e svolgere, attraverso il processo amministrativo, il loro fondamentale ruolo di qualificazione e di protezione.
Il giudice amministrativo sarebbe – se non altro, nel frangente in cui occupa della legittimazione ad agire – quello che tutti vogliamo: giudice speciale, ma pur sempre giudice o, per meglio dire, un po’ più giudice, e meno amministratore.
[1] Sull’illegittimità dell’ordine di demolizione emesso dal Comune nei confronti del promissario acquirente, TAR Lazio, 18 maggio 2022, n. 6286; per la legittimazione a impugnare un diniego di autorizzazione da parte del promissario acquirente che abbia la materiale disponibilità dell’immobile, Cons. St., sez. IV, 19 aprile 2022, n. 2017 (che in motivazione richiama la pronuncia qui in esame). In merito alla possibilità del promissario acquirente di chiedere il permesso di costruire, quando ad esito della consegna anticipata abbia acquisito la materiale disponibilità dell’immobile, la giurisprudenza non è univoca (a favore TAR Campania, Salerno, 10 giugno 2022, n. 1639; TAR Emilia Romagna, 3 giugno 2022, n. 470; TAR Campania, 18 marzo 2021, n. 1809; contra, con richiami a contrastanti indirizzi giurisprudenziali, TAR Liguria, 26 aprile 2022, n. 320; TAR Campania, 24 giugno 2021, n. 4328; TAR Calabria, 10 dicembre 2021, n. 2264; TAR Emilia Romagna, 16 novembre 2021, n. 936). In dottrina, sul tema dei rapporti tra normativa urbanistico-edilizia e circolazione dei diritti immobiliari, M.C. D’Arienzo, Trasmissibilità dell’interesse legittimo e circolazione dei diritti edificatori tra previsioni codicistiche e suggestioni giurisprudenziali, in Dir. e proc. amm, 2016, 965 ss.; Id., Trasferibilità dell’interesse legittimo, Napoli, 2017; F. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, 468 ss.).
[2] Di qui anche l’eccezione di inammissibilità per carenza di interesse al ricorso, sollevata dal promittente venditore appunto con riferimento alla impossibilità dell’acquirente di vantare alcun titolo giuridico sull’immobile.
[3] Si allude qui al carattere risarcitorio che la caparra confirmatoria acquista quando è oggetto dell’obbligo di restituzione a carico della parte inadempiente, essendo, in questo caso, da interpretare come somma di denaro stabilita in funzione di preventiva forfettaria liquidazione del danno subito dalla parte che ha legittimamente receduto (giurisprudenza pacifica; v. per tutte Cass. civ., sez. II, ord. 12 luglio 2021, n. 19801; sent. 1 agosto 2013, n. 18423)
[4] Sempre fondamentali al riguardo i contributi di A.M. Sandulli ora in Scritti giuridici, vol. VI, Napoli 1990, tra i quali si possono ricordare, per attinenza al tema qui trattato (e ovviamente senza alcuna pretesa di completezza), Giurisdizione e amministrazione in materia di edilizia urbanistica, 3 ss.; Sui mezzi di tutela giurisdizionale del terzo danneggiato d auna licenza edilizia illegittima, 229 ss.; Sui mezzi di tutela dei terzi lesi da costruzioni «contra legem», 263 ss.; Costruzioni «contra ius» e provvedimenti di sanatoria, 269 ss.; Ancora sulla qualificazione giuridica dell’interesse di terzi alla demolizione ad opera dell’autorità comunale di costruzioni «contra ius», 303 ss.; Repressione di abusi edilizi e interesse dei terzi, 321 ss.; L’azione popolare contro le licenze edilizie, 371 ss.
[5] Cons. St., ad. plen., 9 dicembre 2021, n. 22; tra i primi commenti, F. Saitta, C’era una volta un’azione popolare… mai nata, in Riv. giur. edil., 2021, 239 ss.; S. Tanquilli, Sull'incerto rapporto tra vicinitas e “vicinanza della prova” dopo la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 22/2021, in Il processo, 2022, 201 ss.; M. Ceruti, La vicinitas non basta a dimostrare l’interesse al ricorso per l’annullamento dei titoli edilizi. E nella materia ambientale?, in RGA online, 1 maggio 2022.
[6] Cons. St., sez. V, 9 giugno 1970, n. 523, in Foro it., III, 201 ss. «È dunque questo», proseguiva il Consiglio di Stato, «l’elemento che qualifica l’interesse del singolo e, correlativamente, lo legittima alla tutela giurisdizionale, sempreché, beninteso, egli abbia un interesse concreto, attuale e personale a dolersi dell’illegittimità dell'atto per il pregiudizio effettivo che questo gli ha arrecato e che l’impugnativa tende a rimuovere». Per un’importante trattazione dell’argomento, E. Guicciardi, La sentenza del chiunque, in Giur. it., 1970, III, 193 ss.
[7] Articolo 10 legge 6 agosto 1967, n. 765 (sostituzione dell’art. 31 legge 17 agosto 1942, n. 1150): «Chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di
piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione».
[8] A.M. Sandulli, L’azione popolare contro le licenze edilizie, in Scritti, cit., loc. cit.; V. Spagnuolo Vigorita, Interesse pubblico e azione popolare nella legge-ponte per l’urbanistica, in Riv. giur. ed., 1967, II, 387 ss.
[9] Cons. St., n. 523 del 1970, cit.
[10] Cons. St., sent. cit.; in argomento, F. Saitta, L’impugnazione del permesso di costruire nell’evoluzione giurisprudenziale: da azione popolare a mero (ed imprecisato) ampliamento della legittimazione a ricorrere, in www.lexitalia.it, n. 7-8/2007; Id., C’era un volta un’azione popolare, cit.
[11] G. Sciullo, Concessione edilizia e tutela civilistica fra privati, in Riv. giur. urb., 1988, 17 e ss.
[12] Cass. civ., ss.uu., sentenza 18 luglio 1961, n. 1746, in Foro it., 1961, I, 1672 ss., con commenti critici di M. Nigro, L’art. 32 della legge urbanistica e l’individuazione degli interessi legittimi, ivi, 1962, I, 83 ss. e di A.M. Sandulli, Ancora sulla qualificazione giuridica, in Scritti, cit. loc. cit., malgrado le tesi di questo Autore conducessero, con altra impostazione, a negare l’esistenza di un interesse protetto del terzo. Su quest’ultimo punto, la tesi di Sandulli si opponeva a quella, da cui la Cassazione sembrava aver tratto qualche argomento, di F. Benvenuti, Violazione delle norme edilizie e poteri di sanatoria del Sindaco, in Riv. amm., 1958, 1 ss.; cfr. anche G. Vignocchi, Sui regolamenti edilizi e sulle conseguenze giur. della loro violazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, 346.
[13] D’altra parte un analogo allargamento della sfera degli interessi tutelabili contro il permesso di costruire illegittimo si dovrebbe registrare sul versante del destinatario, nel caso in cui il permesso illegittimo, dopo essere stato rilasciato, sia annullato d’ufficio dalla stessa amministrazione comunale o su ricorso giurisdizionale del “terzo”: eventualità che, per giurisprudenza oramai pacifica, permette al destinatario proporre l’azione di risarcimento del danno contro il Comune. Che si tratti di un allargamento dell’area degli interessi tutelabili, naturalmente, si può condividere solo se si continua a vedere nel permesso di costruire illegittimo la causa di una lesione originaria dell’interesse legittimo del destinatario, distinta dalla possibile (ma non necessaria) lesione del diritto soggettivo derivante dalla violazione del principio di buona fede, che attrae la controversia nell’ambito della giurisdizione ordinaria. Nulla impedirebbe, cioè, di affermare l’ingiustizia ex sé (anche dove concretamente non vi sia violazione del canone di buona fede) e quindi l’autonoma risarcibilità, dinanzi al giudice amministrativo, del danno che il permesso non conforme a legge arreca direttamente all’interesse legittimo del destinatario; costituendo, l’annullamento, il fatto che rende attuale l’interesse ad agire per il risarcimento (si permetta, per più precisi ragguagli, di rimandare a M. Magri, Il Consiglio di Stato sul danno da provvedimento illegittimo favorevole, in Giorn. dir. amm., 2014, 704 ss.).
[14] Cons. St., ad. plen., n. 22 del 2021, cit. e dottrina citata retro, nota n. 5.
[15] Per questa distinzione, Cons. St., sez. V, 19 novembre 2018, n. 6527. Con riferimento ad altri criteri di collegamento degli interessi legittimi ad atti autorizzativi di insediamenti non residenziali, A. Romano, Interessi «individuali» e tutela giurisdizionale amministrativa, in Foro It., 1972, III, 261 ss.
[16] V.E. Orlando, La giustizia amministrativa, in Id. (a cura di), Primo trattato completo di diritto amministrativo, Milano, 1914, 722-723, soffermandosi sulla relazione che «deve correre tra la illegalità del provvedimento e la lesione dell’interesse», considera «affatto ingiustificata» l’impressone che «il far valere, in via di ricorso, una illegalità di un atto amministrativo spetti solo a colui, in difesa del cui interesse era scritta la disposizione di legge che sia assume essere stata violata», perché «il dire che chi propone ricorso debba averci interesse e che quest’interesse debba essere personale, con esclusione di forme analoghe alle azioni popolari, non implica affatto (…) che fra la lesione dell’interesse e la violazione della legge debba esservi una tale intima correlazione (…). L’ipotesi di un nesso fra l’interesse che reclama difesa e la norma obiettiva che tale difesa accordi, è necessariamente implicita nell’esercizio di una giurisdizione vera e propria, appunto perché vi si decide di diritti subbiettivi, dove quel nesso è immancabile». L’opinione di Orlando, pur essendo formulata con riferimento all’attività della IV Sezione del Consiglio di Stato (che non per tutti, com’è noto, era una giurisdizione «vera e propria») rimane una delle più significative enunciazioni del nesso che collega l’interesse legittimo all’ampiezza delle situazioni soggettive tutelate; nel che si è riconosciuto «uno degli aspetti più preziosi della tradizione graziosa e pretoria della giustizia amministrativa» (M. Mazzamuto, Il dopo Randstad: se la Cassazione insiste, può sollevarsi un conflitto?, in questa Rivista, 16 marzo 2022).
[17] M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 2000, 113.
[18] Per questa tesi, G. Berti, Connessione e giudizio amministrativo, Padova, 1970.
[19] Le parole sono di L. Ferrara, Conclusioni, in C. Cudia (a cura di), L’oggetto del processo amministrativo visto dal basso, Torino, 2020, 328.
[20] La misura della creatività del giudice è data dalla difficoltà di distinguere l’interesse legittimo dall’interesse di fatto, che non si attenua affatto, anzi, nel momento in cui si tratta di decidere se e in che limiti, le norme su cui si fonda il ricorso qualifichino interessi (M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., loc. cit.). Anni addietro lo stesso Nigro, com’è noto, mostrò maggiori perplessità in merito alla teoria della “qualificazione normativa”, obiettando a chi la sosteneva che il meccanismo di «soggettivazione di una norma di azione, giuridica o di buona amministrazione — sub specie di collegamento alla norma di un interesse legittimo — si muove su di un piano diverso da quello che attiene ai vincoli che gravano sul potere disciplinato dalla norma» (M. Nigro, L’art. 32 della legge urbanistica, cit., 85).
[21] Cioè «la situazione giuridica soggettiva qualificata in astratto da una norma, ovvero (…) la legittimazione a ricorrere discendente dalla speciale posizione qualificata del soggetto che lo distingue dal quisque de populo rispetto all’esercizio del potere amministrativo (Cons. St., ad. plen, 25 febbraio 2014, n. 9, in Foro it., 2014, III, 429 ss.).
[22] Questa perdita di autonomia degli schemi del giudice rispetto a quelli dell’amministrazione era molto visibile nella vecchia tesi della Cassazione, che (con larghi omaggi alla figura dell’eccesso di potere per “sviamento”), ravvisava l’eccesso di potere giurisdizionale nelle sentenze del Consiglio di Stato che annullavano atti amministrativi – secondo le Sezioni Unite – vincolati al solo interesse pubblico, accogliendo il ricorso di interessati non presi in considerazione dalla legge (Cass. civ., ss.uu., n. 1746 del 1971, cit.; 8 maggio 1978, n. 2207, in Foro it., 1978, I, 1090). Per un approccio critico a questo modo di decidere le questioni di giurisdizione, M. Mazzamuto, L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2012, 1677 ss. (delle cui conclusioni bisognerebbe far tesoro anche adesso, che i ruolo si sono quasi “invertiti”, per mettere nel giusto rilievo la circostanza che nell’economia di alcune sentenze di rito del giudice amministrativo in tema di difetto di legittimazione, come quella che qui commentiamo, si avverte qualcosa di vagamente simile al «pastrocchio» del «giudice amministrativo che applica il diritto civile»; Id., op. cit., 1714).
[23] Esattamente M. Ceruti, op. cit., dubita che il criterio della vicinitas possa essere applicato al di fuori della materia urbanistico-edilizia e, segnatamente, al campo del contenzioso amministrativo ambientale.
[24] Per approfondimenti sul tema, ancora attuale M. D’Orsogna, L’intervento nel processo amministrativo: uno strumento cardine per la tutela dei terzi, in Dir. proc. amm., 1999, 381 ss.
[25] G. Mannucci, I terzi nel processo amministrativo, Santarcangelo di Romagna, 2016; cfr. L. De Lucia, Provvedimento amministrativo e diritti dei terzi. Saggio sul diritto amministrativo multipolare, Torino, 2005.
[26] M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., loc. cit.
[27] TAR Lazio, sez. IV, 25 marzo 2022, n. 3381; TAR Lazio, sez. III-ter, 13 settembre 2016, n. 9697.
[28] Cons. St., ad. plen., 28 gennaio 2022, n. 3; sulla quale si vedano R. Rolli e M. Maggiolini, Interdittiva antimafia e legittimazione all’impugnazione. La necessaria partecipazione dei soggetti direttamente coinvolti (nota a Consiglio di Stato Ad. Plen. N. 3/2022), in questa Rivista, 6 aprile 2022.
[29] Cons. St., sez. III, 7 agosto 2019, n. 5606, origine del noto e molto dibattuto “caso Randstad” (dopo l’impugnazione alle Sezioni Unite); ci si permette di rinviare, per tutti, agli scritti di F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in questa Rivista, 11 novembre 2020; Id., Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in federalismi.it, 16 dicembre 2020; Id. Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Italia spa, in federalismi.it, 9 febbraio 2022.
[30] Tar Campania, Napoli, sez. VI, 4 giugno 2021, n. 3721
[31] Si parlerà d’ora in poi del provvedimento impugnato al singolare, data la connessione tra i due permessi di costruire controversi ma sostanzialmente unificati dalla circostanza di vertere sullo stesso immobile e di aver prodotto, dal punto di vista dei ricorrenti, un unico effetto lesivo degli interessi legittimi di cui si chiedeva la tutela (per questa impostazione generale, G. Berti, Connessione e processo amministrativo, cit.).
[32] Per un esempio recente tra i tanti che potrebbero essere richiamati, Cass. civ., sez. II, 8 marzo 2022, 7521.
[33] Ciò si ricava, a contrario, dalla giurisprudenza che individua nel mancato perfezionamento della sanatoria una causa ostativa all’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre Cass. civ., ss.uu., sent. 11 novembre 2009, n. 23825 e Cass. civ., sez. II, sent. 18 settembre 2009, n. 20258, entrambe in Foro it., 2009, I, 2148 ss. Ove però si tratti di difformità solo parziale, la Cassazione sembra ammettere l’applicabilità dell’art. 2932 c.c. anche all’immobile abusivo (Cass. civ. sez. II, 23 novembre 2020, n. 26558; in dottrina, su quest’ultimo aspetto, M.A. Sandulli, Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in federalismi.it, 2 ottobre 2019, 34).
[34] A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2021, 201; per approfondimenti F. Saitta, La legittimazione a ricorrere: titolarità o affermazione?, in C. Cudia (a cura di), op. cit., 45 ss.
[35] Che è appunto il meccanismo civilistico operante nel sistema della doppia tutela edilizia (cfr. tra le tante, Cass. civ., sez. II, 4 settembre 2020, n. 18499). Un consistente numero di casi di disapplicazione del permesso in sanatoria si registra anche nella giurisprudenza penale, avendo la Cassazione stabilito e ripetutamente confermato (talvolta senza neppure citare l’art. 5 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo) che il permesso in sanatoria illegittimo non estingue il reato edilizio (Cass. pen., sez. III, 12 marzo 2019, n. 10799).
[36] L. Viola, La doppia tutela in ambito edilizio dopo il nuovo Codice del processo amministrativo, in giustizia-amministrativa.it, 7 ottobre 2021.
[37] Essendo la disapplicazione conseguenza di un accertamento senza efficacia di giudicato, dovrebbero valere a maggior ragione le osservazioni di V. Scialoja, a margine di Cass. Roma, sez. un., 24 giugno 1891, Laurens, in Foro it., 1891, I, 1120, che (con riferimento all’art. 4 dell’allegato E) riteneva «cosa affatto sconveniente l’immaginare che il legislatore abbia accordato più pronta e in certo modo anche più larga protezione amministrativa al semplice interesse, il quale non costituisca un vero e proprio diritto, che a quell’interesse certamente più grave ed elevato, il quale forma contenuto di un diritto; per modo che, mentre il primo potrebbe produrre l’annullamento dell’atto amministrativo (…) il secondo invece potrebbe portare soltanto ad una semplice modificazione dell’atto amministrativo, ristretta a quanto riguarda il caso deciso, dopo avere ottenuta una favorevole sentenza dell’autorità giudiziaria».
[38] Cons. St., ad. plen. n. 9 del 2014, cit.
[39] V. Andrioli, La tutela giurisdizionale dei diritti nella Costituzione della Repubblica italiana, ora in Scritti giuridici, I, Milano, Giuffrè 2007, 7. Sul dibattito in merito al rapporto tra norma e giurisdizione amministrativa, qui troppo esteso per essere anche solo richiamato, si permetta di rinviare a F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, Napoli, 2017.
[40] «Nella prospettiva oggettiva, e ancor più nell'ambiente ideologico nel quale si è iscritta l'istituzione della quarta Sezione del Consiglio di Stato, probabilmente non esistevano troppe vie di mezzo: l’interesse era sentito come individuale, nel senso di proprio a pochi singoli, e quindi tutelabile, oppure diffuso, nel senso di proprio a molti, e quindi non tutelabili» (A. Romano, op. cit., 271). E’ d’obbligo a questo proposito il rinvio a E. Cannada Bartoli, Il diritto soggettivo come presupposto dell’interesse legittimo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1953, 334 ss., specialmente al richiamo dell’Autore a ciò che «dovrebbe essere chiaro: che al fondo dell’interesse legittimo o, per lo meno, al fondo del comportamento del singolo per la tutela di tale interesse, vi è la utilità privata del cittadino stesso; che il problema dev’essere impostato in maniera formale; e che esso consiste nel giustificare la giuridicità e l’individualità di siffatto interesse. Sembra che tali esigenze sistematiche, epperò positive, siano compiutamente soddisfatte ove si riconosca che l’interesse legittimo ha natura esclusivamente formale, siccome concernente la legittimità degli atti amministrativi e che esso ha come presupposto di qualificazione una situazione di diritto soggettivo» (Id., op. cit., 348).
[41] Usiamo qui liberamente un’espressione formulata, in tutt’altro contesto (ma con impostazione che sarebbe utile anche per il tema qui trattato), da V. Angiolini, Sulla rotta dei diritti, Torino 2016, 132.
Intervista a Mario Palazzi, candidato al C.S.M. per le elezioni del 18 e 19 settembre 2022
di Michela Petrini
Mario Palazzi ha 55 anni e dall’ingresso in magistratura (D.M. 11.4.1995), tranne una breve parentesi di funzioni “fuori ruolo”, ha svolto sempre la funzione di pubblico ministero. Dal 2011 alla Procura di Roma, assegnato alla DDA, si è occupato con passione, con risultati apprezzabili in termini di esito dibattimentale, tra l’altro delle organizzazioni mafiose “autoctone”. In precedenza, ha svolto le funzioni requirenti in Ariano Irpino (dove è stato Procuratore f.f. per quasi un anno), in Perugia ed in Rieti, praticando ogni possibile settore dell’attività del pubblico ministero e confrontandosi continuativamente con le tematiche, anche diverse in ragione della dimensione degli uffici, dell’organizzazione, consapevole che l’idea di una “magistratura orizzontale” si declini attraverso l’impegno ed il contributo di tutti, non solo degli apicali. Per circa sei anni ha avuto anche esperienze fuori ruolo che gli hanno consentito di acquisire esperienza di confronto con altre professionalità e nuove conoscenze tecniche di grande utilità per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali.
Un sondaggio pubblicato sul Corriere della Sera il 15 maggio 2021 ha evidenziato come nel 2010 l’apprezzamento della magistratura da parte della opinione pubblica si attestava al 68%, mentre attualmente solo il 39% degli italiani dimostra fiducia nei magistrati ed il 12% preferisce sospendere il giudizio.
Ritieni che il rapporto di fiducia tra la magistratura e la società si sia incrinato solo a causa dello scandalo scoppiato in seguito ai fatti dell’Hotel Champagne o le ragioni di questa profonda crisi di credibilità dei magistrati siano da ricercare anche in alcune disfunzioni del servizio giustizia?
In quale modo il Consiglio Superiore può e dovrà operare per recuperare la stima dei cittadini e offrire un’immagine della magistratura che sia il più possibile aderente al modello delineato nella carta costituzionale?
Gli scandali che hanno colpito la magistratura in questi ultimi anni hanno indubbiamente inferto un duro colpo alla credibilità dell’istituzione e, come sempre accade in questi casi, colpendo indistintamente una categoria che, nella stragrande maggioranza dei casi, opera con rigore e passione.
Credo però che l’opinione pubblica sia condizionata non solo dagli interessati cantori delle nefandezze, molti dei quali attratti dalla possibilità di ridurre gli spazi di controllo di legalità, ma dalla risposta, in termini di efficienza, alla comune domanda di giustizia “quotidiana”, purtroppo gravemente condizionata dalla cronica carenza di organico, dalla evidente inadeguatezza di risorse e da una normazione processuale che a volte sembra scritta da chi non ha mai varcato la soglia di un’aula di giustizia.
Dobbiamo, come magistratura, “rialzare la testa”, rivitalizzando l’orgoglio della nostra funzione a tutela dei diritti e a difesa dei valori fondanti il nostro Stato; da un lato, poi, dobbiamo rivendicare la capacità che abbiamo sempre avuto di “fare pulizia” al nostro intento – altre categorie avrebbero reagito in modo ben diverso, certamente non estromettendo gli appartenenti indegni come noi abbiamo fatto – e dall’altro dimostrare, con l’abnegazione al lavoro che è il tratto caratteristico della stragrande maggioranza dei colleghi, che le inefficienze sono assai spesso a noi non imputabili, chiamando gli altri attori istituzionali alle loro responsabilità.
IL CSM ha un ruolo importante in questo processo. Le logiche e l’operato del futuro Consiglio Superiore devono altresì esprimere, con assunzione di responsabilità da parte di ciascun componente, lo stesso rigore morale che il cittadino correttamente rivendica nel magistrato che ritrova nell’aula di giustizia.
Ciascun magistrato dovrà essere messo in condizioni di verificare il rigore dell’agire consiliare consentendogli di conoscere tempestivamente tutti i passaggi procedimentali (calendarizzazione delle pratiche, tempistiche, attività istruttorie svolte, stato della pratica e infine esiti in commissione referente e in plenum) e le ragioni della scelta. E ciò potrà essere fatto solo rendendo il Palazzo dei Marescialli una “casa di vetro”. I magistrati, in quanto direttamente interessati all’azione consiliare potranno così controllare l’azione dell’organo consiliare che hanno contribuito a formare con il loro voto, conoscendo con tempestività le ragioni delle scelte consiliari, garantendo un controllo di legittimità orizzontale e “qualificato”, perché operato da parte di esperti, un freno “naturale” all’uso distorto delle funzioni di autogoverno.
In una stagione di riforme la magistratura sarà presente e come suo solito, in primo piano; non si utilizzi, però, la necessità del cambiamento per ridurre spazi di autonomia ovvero per conformare il magistrato secondo modelli incompatibili con l’assetto costituzionale: non ci staremo, ed il Consiglio che verrà dovrà alzare alta la voce se ciò dovesse essere necessario.
Il professore Sabino Cassese, già giudice della Corte costituzionale, in più occasioni ha definito il CSM come un “organo fallito” che troppo spesso ha operato quale organo di autogoverno incapace di individuare i criteri di scelta dei magistrati e non, invece, quale scudo della tutela della indipendenza della magistratura.
Condividi tale severo giudizio? Più in generale, quali sono gli obiettivi e le sfide che dovranno essere affrontati dal prossimo Consiglio e quale contributo pensi di poter dare come candidato del gruppo Area Democratica per la giustizia?
Pure essendo stato mio illustre maestro, ancora una volta debbo dissentire dai più recenti giudizi tranchant del Prof. Cassese; non mi pare possa delinearsi, in un contesto di Stato democratico fedele alla propria Costituzione, un modello di autogoverno della magistratura che faccia a meno del Consiglio Superiore, a meno di non auspicare derive ungheresi o similari.
Certo, la vita del Consiglio in questi ultimi anni ha visto episodi e pratiche non commendevoli, ma il sistema ha i propri anticorpi, spetta all’impegno di tutti ed ovviamente in primis a chi si candida per parteciparvi, declinarli in modo convincente.
Come ho già detto, per riacquistare credibilità l’attività consiliare deve, innanzitutto, essere leggibile e verificabile da parte dell’intera comunità di magistrati. Nella società contemporanea dove tutto è tracciabile non sono più tollerabili pratiche che non hanno un responsabile del procedimento, che non sia possibile “seguire” nel loro andamento attraverso la consultazione del sito, che non si completino con una comunicazione istituzionale e non affidata a chi, dentro e fuori il Consiglio, si affanna a comunicare per mantenere una primazia utile per future occasioni elettorali.
In altri termini la medicina della trasparenza è efficacissima non solo per riconquistare la fiducia nell’istituzione, ma anche per sterilizzare ogni tentazione clientelare. Questa è, senza dubbio, una priorità.
Ma vi è di più: il Consiglio, proprio a difesa dell’istituzione che governa, deve migliorare la sua capacità di comunicare anche oltre la comunità di magistrati. Non penso unicamente alle pratiche a tutela, purtroppo negli ultimi tempi troppe volte necessarie, ma nella capacità di rappresentare all’esterno l’ottimo lavoro che la magistratura italiana svolge e, se necessario, censurare le eventuali risposte insufficienti degli altri attori istituzionali.
L’attuale circolare sulla organizzazione degli uffici requirenti, partendo dai principi costituzionali declinati negli artt. 105, 107, 108 e 112 cost. si ispira al criterio secondo il quale la disciplina dei profili organizzativi e la condivisione e partecipazione dei sostituti alle scelte del dirigente dell’ufficio è funzionale alla garanzia del rispetto dei principi costituzionali di esercizio imparziale ed obbligatorio dell’azione penale, della celerità del procedimento, dell’effettività dell’azione penale e del diritto di difesa.
Quale ruolo deve avere il Consiglio Superiore nel monitorare la corretta applicazione della predetta circolare? Ci sono, a tuo avviso, margini di miglioramento e spazi per ulteriori interventi di normazione secondaria?
Quello che è accaduto nella definizione dei criteri generali per l’organizzazione degli uffici del PM, dalla improvvida riforma normativa del 2006 fino alla circolare del 2020, dimostra ancora una volta quale debba essere il ruolo del Consiglio Superiore a tutela dell’assetto costituzionale della magistratura che lo individua come potere diffuso.
Il percorso approdato finalmente alla soddisfacente circolare del 2020, è stato indubbiamente irto di ostacoli, attraverso le tappe intermedie delle ancor timide risoluzioni del 2007 e 2009 e della migliorabile circolare del 2017.
L’ultima circolare è un notevole passo avanti. Il potere organizzativo del Procuratore deve essere discrezionale e non arbitrario e, comunque, sempre finalizzato a realizzare gli obiettivi e i principi di valenza costituzionale; in tale prospettiva la valorizzazione degli obblighi di motivazione, degli interpelli e della predeterminazione dei criteri di valutazione e più in generale del metodo partecipato per l’adozione del progetto organizzativo sono passaggi decisivi per migliorare la trasparenza dell’esercizio del potere organizzativo ed incentivare quell’idea di una magistratura orizzontale, valore insopprimibile ed impegno di tutti.
In questa prospettiva può salutarsi con favore la riforma Cartabia nella parte in cui prevede l’allineamento della procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure (per la più ragionevole durata di un quadriennio) con quella delle tabelle degli uffici giudicanti, prevedendo quindi una verifica da parte del sistema di autogoverno.
Desta, invece, preoccupazione la previsione dell’obbligo di trasmettere i progetti organizzativi al Ministro della Giustizia per le proprie “eventuali” osservazioni, disposizione eccentrica rispetto alle prerogative, con il rischio di interferenza del potere politico sull’esercizio della funzione giurisdizionale requirente: su questo punto la vigilanza del Consiglio dovrà essere massima.
Il 19 luglio 2022 hai partecipato ad una tavola rotonda organizzata dalla Camera penale di Perugia Fabio Dean” sul tema del bilanciamento tra presunzione di innocenza ed esigenze mediatiche.
La riforma attuata con il d.lg.vo 188 del 2021 detta regole rigide per disciplinare i rapporti tra le Procure e la stampa ed introduce nuove ipotesi di illecito disciplinare in caso di violazioni.
Ritieni che nello specifico settore della comunicazione degli uffici giudiziari lo strumento della sanzione disciplinare sia adeguato a garantire il rispetto della legge e, più in generale, credi che la scelta dell’ampliamento del catalogo degli illeciti disciplinari sia funzionale ad orientare correttamente l’esercizio della funzione da parte del singolo magistrato?
Ritengo che ad un problema serio, comune in tutte le democrazie occidentali, quello di un “ecologia” nella comunicazione giudiziaria, sia stata data una risposta sbagliata, con un approccio proibizionista e, facile previsione, del tutto inefficace.
Una società democratica dovrebbe preoccuparsi di aumentare gli spazi di informazione, non di ridurli e, per quanto ci interessa, vorrei ricordare che la giustizia è amministrata in nome del popolo e che quindi l’informazione non è solo un diritto, ma una modalità di controllo della funzione giurisdizionale.
Certo, il problema è “come” informare, non se farlo. A me appare sorprendente – ma anche qui si muovono pulsioni indicibili – come tutta la discussione prima, la norma poi, ruoti attorno al presunto “strapotere” comunicativo delle procure, grande assente il mondo del giornalismo.
Qual è il criterio per stabilire che ricorrono specifiche ragioni di interesse pubblico per procedere alla diffusione di informazioni sui procedimenti penali? È immaginabile un’autorità giudice di tale interesse? Senza tema di essere smentiti, come afferma la raccomandazione Rec (2010)12 del Consiglio d’Europa, «i procedimenti giudiziari e le questioni relative all’amministrazione della giustizia sono di pubblico interesse».
Per non parlare, poi, della leva disciplinare introdotta in Commissione giustizia nella riforma Cartabia, senza alcun rispetto del principio di tassatività – l’ordito normativo pullula di avverbi che dovrebbero esercitare una funzione restrittiva come «esclusivamente», «strettamente», «solo», a dimostrazione della intangibilità del precetto – con il solo effetto di incentivare esposti non indifferenti ed emulativi nei confronti dei magistrati del pubblico ministero di cui ci si voglia sbarazzare.
Il tutto senza considerare come, di converso, condotte realmente rimproverabili, da parte di magistrati, in tale settore siano state già censurate in passato sulla base della più tranquillizzante disposizione di cui all’art. 2, comma 1, lett. g) D. Lgs. n. 109/2006.
I prossimi anni saremo impegnati in due grandi sfide: il raggiungimento degli obiettivi del PNRR tramite l’Ufficio del Processo e l’attuazione della riforma ordinamentale.
Il presidente Giuseppe Santalucia, in occasione dell’introduzione all’Assemblea generale dell’ANM del 30 aprile 2022, ha sottolineato l’esistenza del rischio di creare un modello di magistrato burocrate, pauroso, preoccupato delle statistiche e della produttività e poco attento alla qualità del servizio ed ha ricordato che “noi vogliamo ribadire la vocazione altamente professionale della magistratura italiana che sta scritta in Costituzione”.
Quale ruolo avrà il Consiglio nella concreta attuazione delle riforme e come potrà al contempo garantire le prerogative costituzionali e la dignità professionale della magistratura?
Noi magistrati siamo i primi ad essere consapevoli dello stato di crisi in cui versa la Giustizia in Italia, ma non siamo disposti ad assumere il ruolo di una specie di sig. Malaussène, per cui la colpa delle inefficienze è sempre e solo nostra.
Dico questo perché i toni che sono stati assunti durante la recente campagna referendaria sulla giustizia erano espressione, all’evidenza, di uno spirito di rivalsa figlio di antichi e mai sopiti conflitti tra politica e magistratura che, cogliendo le debolezze di quest’ultima – anche a fonte ad una opinione pubblica non solo frastornata dall’inaccettabile scandalo dell’hotel Champagne, ma che proprio dalle inefficienze riceve quotidiano danno – mira ad un drastico ridimensionamento del controllo giudiziario sulle condotte illegali.
Questo, però, non vuole dire che non vi debba essere una stagione di riforme a cui vogliamo contribuire con il massimo sforzo e con spirito costruttivo.
Sul versante operativo è indubbio che L’Ufficio per il processo rappresenti una grande opportunità che chiama non solo i dirigenti, ma i magistrati tutti, ad un modello culturale di giudice molto diverso da quello attualmente esistente, capace di organizzare il lavoro altrui, non solo di essere un ottimo conoscitore della materia giuridica della quale si occupa.
È indubbiamente presto per trarre prime conclusioni, a fronte poi di una situazione degli uffici giudiziari molto diversificata; debbo segnalare, però, che in molte realtà il primo e non secondario problema sia stato la cronica carenza di spazi idonei e sufficienti per la collocazione degli addetti all’UPP in luoghi che consentano un loro continuo e diretto contatto con i magistrati a fianco dei quali essi dovranno operare: l’edilizia giudiziaria continua ad essere una emergenza a cui finora non è stata data risposta adeguata.
L’abbattimento dell’arretrato è sì la priorità a cui dovrà contribuire l’UPP, ma credo che l’aspetto ancora più innovativo potrà essere la possibilità di implementare servizi trasversali, dal monitoraggio statistico alla digitalizzazione, dalla raccolta degli indirizzi giurisprudenziali e banca dati per il settore civile e per il settore penale al supporto alla tenuta degli albi periti e CTU, ecc., in altri termini strumenti che possano contribuire non solo in termini di celerità alla risposta di giustizia ma anche quale supporto al mantenimento di alti standard qualitativi.
Il CSM avrà il compito di intercettare le migliori prassi e diffonderle, ma al contempo individuare le criticità collegate alla carenza di risorse strumentali operando una continua interlocuzione con il Ministero con spirito collaborativo ma senza sconti.
Il profilo delle riforme ordinamentali è quello, invece, che preoccupa di più, e ritengo ancora valide le ragioni dello sciopero indetto dall’ANM, ben sintetizzate nelle parole del Presidente Santalucia; sui pericoli evidenziati il Consiglio dovrà rappresentare un leale ma fermo interlocutore del legislatore delegato.
Gli ultimi accadimenti politici aggiungono, poi, una preoccupazione in più. Siamo sicuri che si darà corso alla delega già approvata oppure una nuova maggioranza intenderà forzare maggiormente verso un modello di magistratura ancora più lontano da quello delineato dal costituente? Io spero di no, ma se così non fosse, ancor di più il Consiglio dovrà rappresentare il principale usbergo a difesa di prerogative che non sono certo del singolo magistrato ma nell’interesse della intera collettività.
Commissioni di valutazione per la conferma a tempo indeterminato dei magistrati onorari di lungo corso: quando il diavolo si nasconde nei dettagli
di Luciano Ciafardini
Sommario: 1. Il travaglio del legislatore nazionale. – 2. Il perimetro dell’analisi. – 3. Le criticità connesse alla nomina e alla composizione delle commissioni di valutazione. – 4. Conclusioni.
1. Il travaglio del legislatore nazionale
Le vicende normative concernenti i magistrati onorari rispecchiano le difficoltà incontrate dal legislatore nel disegnare una disciplina idonea a soddisfare molteplici istanze, tutte inderogabili ma difficilmente conciliabili.
Tra tali esigenze, la più impellente è quella di assicurare la continuità della funzione giudiziaria, alla quale i magistrati onorari, negli ultimi decenni, hanno fornito un contributo – per restare solo al dato quantitativo – fondamentale e, al momento, irrinunciabile a tutti i livelli di giudizio[1].
D’altro canto, occorre garantire il rispetto dei precetti costituzionali, che impongono una chiara differenziazione di status tra magistratura professionale e magistratura onoraria[2].
Infine, nel ruolo di “terzo incomodo”, irrompono istanze sovranazionali, spinte dalla forza cogente di recenti sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea[3], che si è pronunciata sulla disciplina nazionale in tema di impiego della magistratura onoraria, rilevandone l’incompatibilità con il diritto europeo.
In questo quadro, la legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022) ha modificato, con efficacia dal 1° gennaio 2022, gli artt. 29, 31 e 32 del decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116 (recante la riforma organica della magistratura onoraria), nel tentativo di ricondurre ad unità le tre istanze appena indicate: nella relazione illustrativa del disegno di legge di bilancio si legge, infatti, che le risorse sono apprestate «in funzione dell’efficienza del sistema giustizia, attraverso misure coerenti con le sollecitazioni sovranazionali e nel rispetto dei limiti imposti dall’ordinamento interno».
Non è possibile, ovviamente, tratteggiare un quadro completo della complessiva disciplina introdotta nel 2017 e modificata sul finire del 2021[4].
Ai nostri fini, basterà ricordare che, per i magistrati onorari in servizio alla data di entrata in vigore della riforma (15 agosto 2017), si prevedeva un sistema – immediatamente operativo – di conferma quadriennale nell’incarico, per un massimo di quattro quadrienni e, comunque, fino al compimento del sessantottesimo anno di età. Un regime transitorio diluiva nel tempo il passaggio al nuovo schema di organizzazione del lavoro e, quanto al compenso, prorogava il vecchio sistema “a cottimo”[5] fino al 15 agosto 2021 (termine poi differito al 31 dicembre 2021[6]).
Ai magistrati onorari “di lungo corso” è indirizzata, infatti, la novella adottata con la legge di bilancio per il 2022, il cui obiettivo principale – del resto dichiaratamente perseguito – è quello «di dare una risposta alle sollecitazioni provenienti dalla Commissione europea in ordine alle problematiche relative al rapporto di impiego dei magistrati onorari in servizio»[7].
Si allude alla lettera di costituzione in mora del 15 luglio 2021, inviata dalla Commissione europea al Governo italiano per preannunciare l’avvio di una procedura d’infrazione, per la non conformità della disciplina prevista dal d.lgs. n. 116 del 2017 ad alcune direttive europee, con particolare riferimento al divieto di reiterazione abusiva di contratti di lavoro a termine[8].
Il riscontro offerto del legislatore italiano è appunto compendiato nei commi da 629 a 633 dell’art. 1 della legge di bilancio per il 2022.
Per le esigenze di sintesi già segnalate, è sufficiente ricordare che il comma 629, lett. a), sostituisce integralmente l’art. 29 del d.lgs. n. 116 del 2017, che ora prevede una procedura di conferma «a tempo indeterminato» dei magistrati onorari in servizio alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 116 del 2017, sino al compimento dei settanta anni di età (comma 1).
L’intervento ruota sulla creazione di un «contingente ad esaurimento dei magistrati onorari in servizio» (così lo definisce la rubrica del nuovo art. 29), nel quale arruolare i magistrati onorari di più lunga militanza, ai quali si prevede di applicare regole peculiari sulla durata del servizio e sul relativo compenso, nonché alcune tutele ordinariamente previste per i lavoratori assunti alle dipendenze della pubblica amministrazione, senza che ciò comporti, però, la trasformazione della natura dell’incarico conferito, che continua ad essere considerato onorario[9].
A tal fine, si dispone (comma 3) che il Consiglio superiore della magistratura provveda ad indire, con apposita delibera, tre procedure valutative, da tenere con cadenza annuale nel triennio 2022-2024 e relative ai magistrati onorari che, alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 116 del 2017 (15 agosto 2017), abbiano maturato, rispettivamente, oltre 16 anni di servizio, tra i 12 e i 16 anni di servizio e meno di 12 anni di servizio[10].
Tali procedure valutative consistono (comma 4) in un colloquio orale, della durata massima di trenta minuti, su un caso pratico di diritto civile sostanziale e processuale oppure sul diritto penale sostanziale e processuale, in base al settore in cui i candidati hanno esercitato le funzioni giurisdizionali onorarie.
La commissione di valutazione è composta dal Presidente del tribunale o da un suo delegato, da un magistrato che abbia conseguito almeno la seconda valutazione di professionalità designato dal Consiglio giudiziario e da un avvocato iscritto all’albo speciale dei patrocinanti davanti alle magistrature superiori designato dal Consiglio dell’ordine.
Per coloro che non supereranno la procedura valutativa, oppure che non riterranno di sottoporvisi (in tal modo cessando dal servizio: comma 9), si prevede (comma 2) la corresponsione di una indennità nella misura di euro duemilacinquecento o millecinquecento, al lordo delle ritenute fiscali, per ciascun anno di servizio nel corso del quale il magistrato sia stato impegnato in udienza, rispettivamente, per almeno ottanta giornate o per un numero inferiore, e comunque per un importo complessivamente non superiore alla somma di euro cinquantamila lordi.
Sia la partecipazione alla procedura di valutazione (evidentemente per coloro che la supereranno) sia la percezione di tale indennità (per coloro che non vi si sottoporranno o che non la supereranno) comporta la conseguenza della «rinuncia ad ogni ulteriore pretesa di qualsivoglia natura conseguente al rapporto onorario» pregresso o cessato (così, rispettivamente, i commi 5 e 2).
Coloro che supereranno la procedura di valutazione potranno optare (comma 6) per un «regime di esclusività delle funzioni onorarie», nel qual caso percepiranno un trattamento economico equivalente a quello di un funzionario dell’amministrazione della giustizia[11].
A coloro che non eserciteranno l’opzione per l’esclusività del servizio onorario, invece, sarà corrisposto (comma 7) un compenso inferiore[12] e solo ad essi continuerà ad applicarsi il limite dei due giorni di impegno settimanali (previsto dall’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 116 del 2017), «in modo da assicurare il contestuale espletamento di ulteriori attività lavorative o professionali»[13].
Le altre disposizioni del comma 629, così come quelle contenute nei commi da 630 e 633 dell’art. 1 della legge n. 234 del 2021, operano raccordi con la disciplina previgente[14] e provvedono alle coperture finanziare per l’attuazione del nuovo sistema.
2. Il perimetro dell’analisi
Non è questa l’occasione per stabilire se la novella legislativa che ha visto la luce all’alba del 2022 sia riuscita, complessivamente considerata, ad operare una reductio ad unitatem delle tre esigenze in precedenza evidenziate, nel pieno rispetto delle cornici di principio tracciate dall’ordinamento interno e da quello sovranazionale.
Non è difficile, tuttavia, immaginare che ben presto le Corti rispettivamente deputate ad accertare la compatibilità del diritto nazionale con i precetti costituzionali e con il diritto europeo saranno sollecitate a compiere tale verifica in relazione ad alcuni profili che, di primo acchito, suscitano più di una perplessità.
È sufficiente ricordare che l’intento del maxi-emendamento governativo, esplicitato nella relativa relazione illustrativa, era quello di «dare una risposta alle sollecitazioni provenienti dalla Commissione europea in ordine alle problematiche relative al rapporto di impiego dei magistrati onorari in servizio, a seguito della lettera di costituzione in mora inviata in data 15 luglio 2021», proprio sulla scia della sentenza della Corte di giustizia del 16 luglio 2020, in causa C-658/18, UX contro Governo della Repubblica italiana, che aveva fissato alcuni fondamentali principi[15].
Occorrerà, dunque, verificare se le coordinate tracciate dalla giurisprudenza sovranazionale siano state rispettate[16].
Un altro campo di scontro, del resto, potrà aprirsi con riferimento alla previsione della “rinuncia forzosa” a qualunque pretesa di qualsivoglia natura conseguente al rapporto onorario pregresso o cessato imposta a coloro che supereranno la valutazione o che, non avendola superata (o avendo deciso di non sottoporvisi), accetteranno l’indennità offerta dallo Stato a tacitazione di ogni rivendicazione economica, nel limite massimo di euro cinquantamila lordi.
Si tratta di una previsione che interviene “a gamba tesa” su un nutrito contenzioso già in atto prima dell’entrata in vigore della legge di bilancio per il 2022 e volto ad ottenere il riconoscimento dei diritti connessi alla qualità di lavoratore a tempo determinato, beninteso ove quest’ultima sia accertata, caso per caso e in concreto, dal giudice nazionale in applicazione del diritto dell’Unione.
A tal proposito, è interessante notare che la decisa presa di posizione della Corte di giustizia, se non risulta aver ancora determinato un cambio di prospettiva nelle magistrature superiori di legittimità[17] ed amministrativa[18], sembra, invece, aver spiegato notevole influenza sui giudici di merito, tanto che in alcune pronunce ci si è spinti a riconoscere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e, di conseguenza, a condannare lo Stato italiano al risarcimento del danno (c.d. “eurounitario”) per l’illegittima reiterazione di contratti di lavoro a termine nei confronti di uno stesso lavoratore (ossia del magistrato onorario, per decenni confermato nell’incarico)[19], oppure a riconoscere – in aggiunta – il diritto a percepire un trattamento economico corrispondente a quello del magistrato professionale di prima nomina[20], oppure, ancora, ad accertare e riconoscere (anche prima della sentenza europea) «la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato di fatto […], con ogni effetto conseguente per legge»[21].
È evidente l’incidenza che il novellato art. 29 del d.lgs. n. 116 del 2017 è destinato a spiegare sul contenzioso in corso, a vantaggio di una delle parti in causa (quella pubblica). Non è difficile, allora, pronosticare la sollevazione – nell’ambito di tali giudizi – di questioni di legittimità costituzionale per violazione dei principi del legittimo affidamento e di certezza del diritto e, dunque, degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU[22].
In disparte questi (pur rilevantissimi) risvolti, nella presente sede s’intende, piuttosto, concentrare l’attenzione su un aspetto – quello concernente la nomina e la composizione delle commissioni di valutazione ai fini della conferma a tempo indeterminato – che può apparire marginale e che, invece, assume un certo rilievo, sotto almeno due profili: il ruolo attribuito al Consiglio superiore della magistratura e, soprattutto, l’incidenza della disciplina sull’indipendenza dei magistrati onorari che decideranno di sottoporsi alla procedura.
3. Le criticità connesse alla nomina e alla composizione delle commissioni di valutazione
Occorre partire da un dato ineludibile.
La Corte costituzionale (con la già citata sentenza n. 267 del 2020) ha affermato che la differente modalità di nomina, il carattere non esclusivo dell’attività giurisdizionale svolta e il livello di complessità degli affari trattati «non incidono sull’identità funzionale[23] [rispetto a quelli compiuti dal magistrato professionale] dei singoli atti che il giudice di pace compie nell’esercizio della funzione giurisdizionale».
Si spiega, dunque, come anche al magistrato onorario debba essere garantita, per necessità costituzionale, l’indipendenza nell’esercizio delle funzioni.
Si tratta di un principio costantemente affermato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui il giudice di pace è «organo giurisdizionale, in posizione di indipendenza costituzionalmente garantita» (ordinanza n. 151 del 2013), e sul quale converge, del resto, la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea (punto 56 della più volte citata sentenza del 16 luglio 2020, UX).
L’indipendenza di un soggetto o di un organo «presuppone che nell’ordinamento siano presenti regole, le quali appunto attribuiscano al soggetto o all’organo la facoltà di decidere liberamente, impedendo altresì che le sue libere determinazioni possano essere causa di reazioni, o di sanzioni, a suo carico»[24]. Si tratta di concetto che assume importanza e significato peculiari per i singoli magistrati, perché, ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost., il singolo giudice è soggetto soltanto alla legge, ciò che sottolinea la sua indipendenza da organi e poteri esterni alla magistratura (come pure dagli altri giudici).
C’è da chiedersi se le disposizioni che si stanno scrutinando, e in particolare quelle che disciplinano la nomina e la composizione delle commissioni di esame, rispettino l’esigenza inderogabile di garantire l’indipendenza anche del magistrato onorario.
Una parziale risposta al quesito è stata fornita dal Consiglio superiore della magistratura, il quale, nel parere adottato con delibera del 22 dicembre 2021 e reso su richiesta del Ministro della giustizia, ha ritenuto che la procedura di conferma configurata dal legislatore sia in contrasto con i principi di autonomia e indipendenza che presidiano anche l’esercizio delle funzioni giurisdizionali onorarie.
Nel suddetto parere si è evidenziato che «la Commissione di concorso non è […] nominata dall’Organo di governo autonomo, ma è composta da un membro predeterminato dalla legge (il Presidente del Tribunale nel quale il magistrato ha prestato servizio), da un magistrato designato dal Consiglio giudiziario e da un avvocato nominato dal Consiglio dell’ordine, laddove la commissione del concorso per l’accesso alla magistratura ordinaria, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. 160 del 2006, “è nominata (...) con decreto del Ministro della giustizia, adottato a seguito di conforme delibera del Consiglio superiore della magistratura”».
Si tratta di un’osservazione pertinente, che però è riferibile solo indirettamente alla necessità di garantire anche ai magistrati onorari l’imprescindibile guarentigia dell’indipendenza e dell’autonomia nell’esercizio delle funzioni. In altri termini, è vero che la procedura di valutazione non appare “governata” – come invece dovrebbe – dal Consiglio superiore della magistratura in tutti i suoi passaggi, con particolare riferimento al giudizio finale di idoneità o meno del candidato. Ed è vero, quindi, che ciò incide, di riflesso, sull’indipendenza del magistrato onorario, al quale spetterebbe, invece, una valutazione compiuta in ultima istanza dall’organo di governo autonomo della magistratura, il quale non dovrebbe limitarsi ad una mera “certificazione” dei risultati dell’esame condotto da commissioni formate da componenti non nominati dal Consiglio stesso.
In via diretta, tuttavia, gli argomenti spesi nel parere sembrano prefigurare, piuttosto, la lesione di attribuzioni costituzionali proprie dell’organo di governo autonomo.
Ciononostante, il Consiglio superiore non ha ritenuto di reagire a una tale riscontrata menomazione, rinunciando a promuovere conflitto di attribuzione contro la legge[25].
Più concreto, invece, parrebbe un aspetto critico connesso alla composizione della commissione di valutazione, in cui è prevista la presenza di componenti dell’avvocatura, nominati secondo modalità che effettivamente potrebbero risultare contrastanti con il principio di indipendenza della magistratura onoraria.
Il profilo incrocia, all’evidenza, il delicato tema della partecipazione di componenti laici, di origine forense, alle decisioni sui momenti salienti del percorso professionale dei magistrati, anche professionali.
Non deve certo menare scandalo la possibilità che un tale qualificato contributo possa essere fornito anche da membri dell’avvocatura.
È la stessa Costituzione, infatti, a prevedere (art. 104, quarto comma) che un terzo dei componenti del Consiglio superiore della magistratura – al quale spetta l’adozione di tutti i provvedimenti riguardanti i magistrati (art. 105) – siano eletti dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio della professione, sicché è evidente che questa commistione è stata giudicata compatibile con il disegno costituzionale ed anzi necessaria, oltre che foriera di positivi effetti in ordine alla gestione dei percorsi professionali dei magistrati[26].
Del resto, la strada dell’apertura alla partecipazione della componente laica alla formulazione dei pareri che i consigli giudiziari devono esprimere per le valutazioni di professionalità dei magistrati è stata imboccata dalla legge 17 giugno 2022, n. 71, contenente deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario: l’art. 3, comma 1, lett. a), indica, tra i principi e i criteri direttivi ai quali dovrà attenersi l’esercizio della delega, l’introduzione della facoltà, per i membri laici, di partecipare alle discussioni e di assistere alle deliberazioni relative, con attribuzione alla componente degli avvocati della facoltà di esprimere un voto unitario[27].
Già oggi, infine, tale partecipazione è prevista dalla legge per le decisioni assunte nei confronti dei magistrati onorari. L’art. 10 del decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25, infatti, ha istituito, in seno ai consigli giudiziari, sezioni autonome per i giudici onorari di pace e i vice procuratori onorari. In tali sezioni siedono avvocati che, partecipando ai lavori dell’organo “in composizione allargata”, decidono sul rapporto di servizio dei magistrati onorari.
Tuttavia, in tutte queste ipotesi, la Costituzione e la legge di ordinamento giudiziario hanno circondato la partecipazione dei componenti laici ai lavori degli organi di governo autonomo della magistratura, da una serie di cautele appunto indirizzate a scongiurare possibili condizionamenti sull’esercizio indipendente della funzione giurisdizionale.
E così, è lo stesso art. 104, ultimo comma, della Costituzione a prevedere che i membri laici del Consiglio superiore della magistratura, finché sono in carica, non possono essere iscritti negli albi professionali, in modo che non sia in alcun modo neppure ipotizzabile un “intreccio funzionale” tra costoro e i magistrati sulle cui “carriere” sono chiamati a decidere e che potrebbero, già solo per questo, subire condizionamenti nell’esercizio delle funzioni.
Allo stesso modo, nell’ambito della sezione autonoma dei Consigli giudiziari, quando si tratta di esercitare le competenze assegnate dalla legge in relazione al giudizio di idoneità per la conferma nell’incarico e in relazione alle valutazioni sulle proposte di sospensione dalle funzioni, decadenza, dispensa, revoca dell’incarico e di applicazione di sanzioni disciplinari, il componente laico di estrazione forense non può partecipare alle discussioni e alle deliberazioni della sezione medesima, ove tali decisioni riguardino un magistrato onorario che esercita le funzioni in un ufficio del circondario del tribunale presso cui ha sede l’ordine al quale l’avvocato è iscritto (art. 10, comma 5, del d.lgs. n. 25 del 2006). E ciò sempre a salvaguardia dell’indipendente esercizio delle funzioni onorarie.
Infine, è facile pronosticare che, nell’esercizio della delega contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. a), della legge n. 71 del 2022, il legislatore delegato[28] potrà introdurre disposizioni che assicurino anche per la magistratura professionale cautele non minori di quelle riconosciute dall’art. 10 del d.lgs. n. 25 del 2006 alla magistratura onoraria, onde scongiurare il rischio che i membri laici indicati dall’avvocatura possano contribuire a valutare la professionalità di un giudice davanti al quale penda una controversia da essi patrocinata.
Nulla di tutto ciò, invece, è previsto per le commissioni di valutazione di cui al comma 4 del nuovo art. 29 del d.lgs. n. 116 del 2017, il quale, al contrario, dispone che sia proprio il consiglio dell’ordine circondariale a designare un avvocato per le procedure valutative dei magistrati onorari che operano (e che ancora opereranno, se confermati) nel medesimo circondario in cui il designato esercita l’attività professionale.
La posta in gioco è altissima per il magistrato onorario soggetto a valutazione, visto che la procedura può sfociare addirittura nella cessazione di un incarico che, nella maggior parte dei casi, costituisce l’unica fonte di sostentamento per l’interessato[29].
Assume rilievo, dunque, l’interesse pubblico volto ad evitare che richieste o promesse indebite (senza escludere eventuali minacce, anche larvate) possano alterare le normali dinamiche processuali che devono governare i processi affidati, non solo all’attualità, ma anche in futuro, al magistrato in valutazione e di cui sia parte uno dei componenti della commissione di esame.
Il rischio di condizionamenti contrastanti con il dettato costituzionale che presidia l’indipendenza e l’imparzialità del magistrato onorario appare, quindi, non solo evidente ma anche assolutamente concreto, sol che si pensi alla posizione di “debolezza istituzionale” in cui, tradizionalmente (e al di là delle qualità personali dei singoli), versa la magistratura non professionale, a differenza di quella togata.
Il Consiglio superiore della magistratura, dal canto suo e nel silenzio della legge, ha evidentemente avvertito la delicatezza del problema, tanto che, nel procedere all’indizione della prima procedura di valutazione, ha contestualmente approvato (con la già citata delibera del 20 aprile 2022) una circolare con la quale ha previsto (art. 6, comma 6) che «costituiscono cause di incompatibilità dei componenti la Commissione con i candidati sottoposti a valutazioni quelle previste dagli art. 51 e 52 del codice di procedura civile».
Ma il rimedio ipotizzato appare insufficiente, e non solo perché adottato con prescrizioni prive di valore normativo primario.
Le cause di astensione e ricusazione del giudice previste dalle citate norme del codice di procedura civile, infatti, non sono perfettamente adattabili al caso di cui si discute. Non si tratta, infatti, di garantire l’imparzialità del giudice nell’ambito di una specifica controversia affidata alle sue cure, quanto piuttosto di assicurare la neutralità della valutazione sul giudice, per azzerare il rischio di quegli indebiti condizionamenti a cui si è fatto in precedenza riferimento, non solo presenti, ma anche futuri.
Per questa ragione – e in disparte le ipotesi (pacifiche) di parentela, affinità, convivenza, commensalità abituale o grave inimicizia – non basta che siano esclusi dalla commissione di esame gli avvocati che attualmente patrocinano in cause già pendenti innanzi al magistrato in valutazione, ma è necessario evitare, invece, che il giudizio sia affidato a soggetti che continueranno, anche in futuro, ad esercitare abitualmente attività professionale innanzi a lui, magari in contesti di ridotte dimensioni territoriali. Questa circostanza, a ben vedere, nella valutazione sul magistrato, costituisce una grave ragione di convenienza, che a pieno titolo può rientrare nella clausola di chiusura del secondo comma dell’art. 51 c.p.c. e che riguarda tutti gli iscritti all’ordine professionale circondariale.
È proprio questa, del resto, la ratio che ha guidato il legislatore nella redazione dell’art. 10, comma 5, del d.lgs. n. 25 del 2006, quando, a monte, ha escluso gli avvocati dalla partecipazione alle deliberazioni della sezione autonoma del Consiglio giudiziario, quando le decisioni riguardano un magistrato onorario che esercita le funzioni in un ufficio del medesimo circondario presso cui ha sede l’ordine al quale l’avvocato è iscritto.
4. Conclusioni
Il cantiere della magistratura onoraria è, storicamente, sempre aperto, sebbene i lavori abbiano subito, oggi, uno stop improvviso per lo scioglimento anticipato delle Camere[30].
L’officina legislativa, tuttavia, andrà riavviata non appena possibile, perché è notizia recente[31] quella secondo cui la Commissione europea, in data 15 luglio 2022, ha deciso di inviare – a distanza di un anno esatto dalla prima – una lettera di costituzione in mora complementare all’Italia, perché ritiene che la legislazione nazionale applicabile ai magistrati onorari continui a non essere pienamente conforme al diritto del lavoro dell’Unione europea, nonostante le modifiche apportate nel dicembre 2021, considerate, anzi, fonte di nuove criticità.
L’Italia dispone ora di due mesi per adottare le misure necessarie, trascorsi i quali la Commissione potrà decidere di emettere un parere motivato.
Sarebbe forse il caso di approfittarne per correggere anche quella che, allo stato, non può che considerarsi una “smagliatura” – potenzialmente contrastante con un fondamentale precetto costituzionale – nella sempre più fitta trama ordinamentale che governa il destino di migliaia di (come detto, indispensabili) operatori di giustizia.
[1] L’indispensabilità dell’apporto della magistratura onoraria è sostanzialmente ammessa dalla stessa Corte costituzionale, la quale, pur dichiarando la contrarietà a Costituzione delle disposizioni che hanno introdotto la figura del giudice ausiliario d’appello – con l’assegnazione di funzioni attribuite a giudici, non già «singoli», come richiede l’art. 106, secondo comma, Cost., ma tipicamente collegiali e di secondo grado, quali sono le corti d’appello – non ha potuto ignorare «l’esigenza di tener conto dell’innegabile impatto complessivo che la decisione di illegittimità costituzionale è destinata ad avere sull’ordinamento giurisdizionale e sul funzionamento della giustizia nelle corti d’appello» (così, la sentenza n. 41 del 02021). Si tratta di una constatazione che ha indotto il Giudice delle leggi a modulare nel tempo gli effetti del proprio decisum, differendoli fino al completamento del riordino del ruolo e delle funzioni della magistratura onoraria, onde evitare un (evidentemente intollerabile) «pregiudizio all’amministrazione della giustizia e quindi alla tutela giurisdizionale, presidio di garanzia di ogni diritto fondamentale».
[2] Ancora di recente (sentenza n. 267 del 2020, con argomentazioni riprese dalla già citata sentenza n. 41 del 2021), la Corte costituzionale ha ribadito che «la posizione giuridico-economica dei magistrati professionali non si presta a un’estensione automatica nei confronti dei magistrati onorari tramite evocazione del principio di eguaglianza, in quanto gli uni esercitano le funzioni giurisdizionali in via esclusiva e gli altri solo in via concorrente. Enunciata a proposito del trattamento economico dei componenti delle commissioni tributarie (ordinanza n. 272 del 1999) e per quello dei vice pretori onorari (ordinanza n. 479 del 2000), l’affermazione è stata ripetuta anche per i giudici di pace, sia in tema di cause di incompatibilità professionale (sentenza n. 60 del 2006), sia in ordine alla competenza per il contenzioso sulle spettanze economiche (ordinanza n. 174 del 2012)».
[3] Il riferimento è alle sentenze del 16 luglio 2020, in causa C-658/18, UX contro Governo della Repubblica italiana, e del 7 aprile 2022, in causa C-236/20, PG. Su tali pronunce è sufficiente rinviare, rispettivamente, ai contributi di R. Calvano, Corte di giustizia, primato del diritto Ue e giudici onorari, in Giustizia Insieme, 22 novembre 2021, e di V.A. Poso, I Giudici di Pace dalla «guerra di posizione» alla «guerra di movimento» e il loro nuovo felice approdo davanti alla Corte di Giustizia. Quali possibili conseguenze per tutta la magistratura onoraria nell’ordinamento costituzionale e giudiziario italiano?, in Labor, 5 maggio 2022.
[4] Per una panoramica descrittiva, L. Buffoni, La legge di bilancio stabilizza i magistrati onorari di lungo corso, in Sistema Penale, 28 gennaio 2022
[5] Sul quale, all’occorrenza, L. Ciafardini, Sul compenso da riconoscere ai magistrati onorari di lungo corso: aspettando Godot, in Consulta on line, 2021, fasc. III, 959 (6 dicembre 2021).
[6] Ai sensi dell’art. 17-ter, comma 1, lett. a), del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, convertito in legge 6 agosto 2021, n. 113.
[7] Così, ancora, nella citata relazione illustrativa al disegno di legge di bilancio per il 2022.
[8] Con la lettera di messa in mora, la Commissione europea ha invitato l’Italia a riconoscere ai magistrati onorari, in quanto siano accertate le condizioni affinché possano essere considerati lavoratori pubblici a tempo determinato secondo il diritto europeo, le tutele consistenti: nella corresponsione di una indennità in caso di malattia, infortunio e gravidanza; in un adeguato sistema di tutela previdenziale; nell’eliminazione del divario retributivo rispetto al lavoratore a tempo indeterminato che svolge mansioni equivalenti; nel rimborso delle spese legali sostenute durante procedimenti disciplinari; nel congedo di maternità retribuito; nel riconoscimento delle ferie annuali; nella precisa misurazione dell’orario di lavoro; in un sistema che impedisca gli abusi derivanti da una successione di contratti a tempo determinato e riconosca un risarcimento adeguato per tali abusi.
[9] Viene così perpetuata – ed anzi aggravata – quella che in altra sede è stata definita “truffa delle etichette” (se si vuole, L. Ciafardini, Il restyling nel prossimo futuro dello status della magistratura onoraria: cosa bolle davvero in pentola?, in Giustizia Insieme, 25 novembre 2021).
[10] La prima procedura è stata indetta con delibera del 20 aprile 2022, in conformità a quanto disposto dal D.M. 3 marzo 2022, con il quale il Ministero della giustizia, sentito il Consiglio superiore della magistratura, ha dettato le misure organizzative necessarie per l’espletamento delle procedure.
[11] Il citato comma 6, più precisamente, prevede un compenso parametrato allo stipendio e alla tredicesima mensilità, spettanti alla data del 31 dicembre 2021 al personale amministrativo giudiziario di Area III, posizione economica F3, F2 e F1, in funzione, rispettivamente, del numero di anni di servizio maturati (oltre 16, tra 12 e 16 e meno di 12). È inoltre corrisposta un’indennità giudiziaria in misura pari al doppio dell’indennità di amministrazione spettante al personale amministrativo giudiziario e non sono dovute alcune delle voci retributive accessorie (ad es. quella connessa al lavoro straordinario). Tale trattamento economico non è cumulabile con i redditi di pensione e da lavoro autonomo e dipendente.
[12] L’indennità giudiziaria, infatti, non sarà corrisposta in misura doppia rispetto all’indennità di amministrazione, bensì in misura equivalente a quest’ultima.
[13] Non viene previsto, dunque, alcun divieto di cumulare il trattamento economico con altri redditi di pensione e da lavoro autonomo e dipendente.
[14] Da segnalare, in questa sede, che la lettera d) del comma 629 abroga il primo comma dell’art. 32 del d.lgs. n. 116 del 2017, che prevedeva, per i magistrati onorari già in servizio, un sistema di progressiva entrata in vigore delle disposizioni della c.d. riforma Orlando, in relazione alle procedure di conferma quadriennali in precedenza previste.
[15] Interpretando gli artt. 1, paragrafo 3, e 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, nonché le clausole 2 e 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, la Corte di giustizia, una volta riportata la figura del giudice di pace alla nozione di «lavoratore a tempo determinato», ha stabilito, con riferimento al tema specifico delle ferie annuali retribuite, che differenze di trattamento rispetto al magistrato professionale non possono essere giustificate dalla sola temporaneità dell’incarico, ma unicamente «dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui detti magistrati devono assumere la responsabilità». Al fine di verificare se la diversità di trattamento sia giustificata, la Corte ha affermato che spetta al giudice nazionale stabilire se l’attività lavorativa dei magistrati onorari sia equiparabile a quella dei togati, tenuto conto degli elementi che, in concreto, avvicinano o divaricano le mansioni esercitate dalle due figure. Nell’ambito di tale valutazione comparativa assume rilievo – osserva ancora la Corte di giustizia – la circostanza che per i soli magistrati ordinari la nomina debba avvenire per concorso, a norma dell’art. 106, primo comma, Cost., e che a questi l’ordinamento riservi le controversie di maggiore complessità.
[16] Di sfuggita, vale la pena osservare che possono apparire superate le criticità della c.d. “riforma Orlando” più apertamente in contrasto con le direttive europee, quali la reiterazione dell’incarico, connessa al sistema delle conferme quadriennali e, quanto al profilo economico, i meccanismi che legavano la determinazione concreta del compenso alle decisioni dei dirigenti dell’ufficio in sede di fissazione degli obiettivi da raggiungere e di scelta dei magistrati onorari da destinare all’esercizio di funzioni solo giudiziarie oppure di mera collaborazione con i magistrati professionali (acute riflessioni si leggono, sul punto, in Russo F., Breve storia degli extranei nella magistratura italiana, 2019, 137 ss.). Qualche dubbio, invece, può suscitare la scelta della retribuzione spettante ai funzionari amministrativi come parametro di riferimento per la determinazione dell’indennità riconosciuta ai magistrati onorari che superino le procedure di valutazione, dal momento che la Corte di giustizia dell’Unione europea sembra invece aver identificato nel magistrato professionale la figura da mettere in comparazione, fatte sempre le debite differenze.
[17] La Corte di cassazione è sempre ferma sull’esclusione di qualsiasi possibilità di ipotizzare la sussistenza di un rapporto di impiego del magistrato onorario (ex plurimis, Cass. 3 maggio 2022, n. 13973; Cass., sezione prima, 10 febbraio 2022, n. 4386; Cass., sezione prima, 25 gennaio 2022, n. 2131; Cass., sez. lavoro, 5 giugno 2020, n. 10774; Cass., sez. III, 14 ottobre 2019, n. 25767; Cass., sez. lavoro, 4 gennaio 2018, n. 99).
[18] Il Consiglio di Stato, con la sentenza 4 febbraio 2021, n. 1062, ha escluso, sul piano del diritto interno, qualsiasi effetto della pronuncia europea sulla qualificazione del rapporto, che resta “onorario” e distinto da quello di pubblico impiego.
[19] Tribunale di Roma, sentenza 13 gennaio 2021, e Tribunale di Napoli, sezione lavoro, sentenza 7 ottobre 2020.
[20] Tribunale di Vicenza, sentenze 23 luglio 2021 e 16 dicembre 2020; Tribunale di Napoli, 11 gennaio 2021.
[21] Tribunale di Sassari, sezione lavoro, sentenza 24 gennaio 2020.
[22] Secondo quanto ribadito, ancora di recente, dalla Corte costituzionale (sentenza n. 145 del 2022), in consonanza con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (ex plurimis, sentenze 24 giugno 2014, Azienda agricola Silverfunghi sas e altri contro Italia, paragrafo 76; 25 marzo 2014, Biasucci e altri contro Italia, paragrafo 47; 14 gennaio 2014, Montalto e altri contro Italia, paragrafo 47; 7 giugno 2011, Agrati e altri contro Italia, paragrafo 58), «il principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo sanciti dall’art. 6 ostano, salvo che per imperative ragioni di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia» (in senso analogo, sentenza n. 136 del 2022, che richiama la sentenza n. 236 del 2017), fermo restando che «considerazioni di natura finanziaria non possono, da sole, autorizzare il potere legislativo a sostituirsi al giudice nella definizione delle controversie (ex plurimis, sentenze 29 marzo 2006, Scordino contro Italia, paragrafo 132; 31 maggio 2011, Maggio contro Italia, paragrafo 47; 15 aprile 2014, Stefanetti e altri contro Italia, paragrafo 39)».
[23] Non disconosciuta neppure dalla giurisprudenza comune delle Corti superiori (da ultimo, la già citata Cass., sez. lav., 3 maggio 2022, n. 13973; Consiglio di Stato, sez. settima, 14 aprile 2022, n. 1736), come detto contraria, però, a riconoscere la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato
[24] N. Zanon, F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, 2019, 94.
[25] Un conflitto di attribuzione è stato, invece, promosso da un giudice di pace, per denunciare, tra gli altri, anche il vizio evidenziato nel parere del Consiglio superiore della magistratura. Il tentativo, tuttavia, è stato smorzato sul nascere dalla Corte costituzionale con una declaratoria d’inammissibilità (ordinanza n. 157 del 2022).
[26] Sulle ragioni di una tale scelta da parte dei costituenti, N. Zanon, F. Biondi, op. cit., 33, ove si sottolineano le finalità di contemperare l’autonomia della magistratura con il legame che essa deve comunque conservare con altre componenti del mondo delle professioni giuridico-legali nonché di prevenire il rischio di un’autoreferenzialità dell’ordine giudiziario e dei suoi appartenenti.
[27] Voto che deve essere manifestato «sulla base del contenuto delle segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione, nel caso in cui il consiglio dell’ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione».
[28] È noto che al legislatore delegato spetta sempre un “potere di completamento e sviluppo” delle scelte espresse dal legislatore delegante (da ultimo, sentenza n. 150 del 2022 della Corte costituzionale), purché all’interno dei confini ermeneutici delle indicazioni fornite da quest’ultimo.
[29] Non è un mistero che, con il progressivo incremento, negli ultimi due decenni, delle competenze in astratto assegnate ai magistrati onorari e dei compiti in concreto ad essi attribuiti, unitamente a stringenti procedure di controllo sulla produttività, l’attività svolta si è trasformata, nella quasi totalità dei casi, in quella esclusiva, o comunque di gran lunga prevalente, degli incaricati di funzioni onorarie, con buona pace delle solenni enunciazioni di principio ancora contenute nelle disposizioni di ordinamento giudiziario (art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 116 del 2017: «L’incarico di magistrato onorario […] si svolge in modo da assicurare la compatibilità con lo svolgimento di attività lavorative o professionali»).
[30] Fino allo scioglimento disposto dal Presidente Mattarella con decreto firmato il 21 luglio 2022, pendevano, innanzi alla Commissione giustizia del Senato, ben cinque disegni di legge (S. 1438, S. 1516, S. 1555, S. 1882 e S. 1714), di cui era stata disposta la trattazione congiunta e che miravano ad apportare (ulteriori) modifiche alla disciplina sulla riforma organica della magistratura onoraria.
[31] Reperibile all’indirizzo https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/inf_22_3768.
Riflessioni sulla sentenza a Sezioni Unite della Suprema Corte n. 22281/2022 in tema di motivazione degli interessi nella cartella di pagamento: un arretramento sul piano dell’effettività giuridica
di Rossella Miceli
Sommario: 1. Premessa - 2. Il caso di specie e la ricostruzione del quadro normativo nella prospettiva delle Sezioni Unite - 3. Le argomentazioni delle Sezioni Unite in ordine all’ampiezza della motivazione della cartella esattoriale in tema di interessi – 3.1. La motivazione della cartella di pagamento per gli interessi mai prima determinati e pretesi dal Fisco – 3.2. La motivazione della cartella di pagamento per gli interessi già richiesti con un precedente atto prodromico – 4. Il principio di diritto delle Sezioni Unite e considerazioni critiche – 4.1. La motivazione della cartella esattoriale quale risultante del buon andamento ed efficienza dell’agire amministrativo – 4.2. Il principio di effettività nella tutela dei diritti e la motivazione della cartella di pagamento in ordine agli interessi – 5. Conclusioni.
1. Premessa
Con la recente sentenza a Sezioni Unite del 14 luglio 2022, n. 22281, la Corte di Cassazione ha risolto la nota querelle giurisprudenziale relativa al rapporto tra l’obbligo motivazionale della cartella di pagamento ed il calcolo degli interessi richiesti per il ritardato versamento dei tributi.
Chi scrive, nel commentare la precedente ordinanza interlocutoria di rimessione alle Sezioni Unite, n. 31960 del 5 novembre 2021, sollevata dalla quinta sezione civile della Suprema Corte, aveva auspicato una soluzione della vicenda improntata a garantire la massima trasparenza e chiarezza dell’agire amministrativo, quali irrinunciabili canoni di civiltà giuridica, non sacrificabili dinanzi ad apparenti esigenze di celerità ed economicità della fase di riscossione coattiva[1].
Le argomentazioni spese in tale sede, fondate su di una interpretazione sostanziale e non meramente formale dei principi sottesi agli artt. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 e 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), sono state tuttavia disattese dalle Sezioni Unite, le quali hanno mostrato di prediligere un approccio differente, volto a semplificare l’onere motivazionale dell’atto esattoriale nella prospettiva di un bilanciamento tra l’interesse del contribuente ad una cognizione reale e non meramente formale degli obblighi nascenti dall’atto fiscale e l’opposto interesse dell’Amministrazione finanziaria alla realizzazione di procedure esattive snelle ed efficienti nel contrasto all’evasione.
Nel prosieguo della trattazione, attraverso un esame critico delle riflessioni sviluppate dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, si intende dimostrare come, secondo la prospettiva di chi scrive, la pronuncia annotata non conduca, sul piano sostanziale, alla realizzazione di un equo assetto dei valori costituzionali in gioco, favorendo piuttosto una soluzione che sacrifica il diritto di difesa del contribuente e il principio di effettività, come sanciti rispettivamente dalla Carta Costituzionale e dall’ordinamento europeo.
2. Il caso di specie e la ricostruzione del quadro normativo nella prospettiva delle Sezioni Unite
La vicenda, come noto, trae origine dalla impugnazione di una sentenza della CTR del Lazio che aveva riconosciuto la legittimità di una cartella di pagamento, impugnata dai contribuenti, recante un elevato importo a titolo di interessi maturati nell’arco di circa trent’anni e del tutto priva di motivazione in ordine alle modalità di calcolo e di determinazione degli stessi.
In specie, i ricorrenti sostenevano che la cartella si ponesse in evidente contrasto con l’obbligo motivazionale di cui agli artt. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 e 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, atteso che non era possibile ricostruire i calcoli eseguiti dall’Agente della riscossione nella quantificazione degli interessi applicati all’imposta dovuta, degli interessi di mora e delle somme aggiuntive, essendo la cartella del tutto priva dell’indicazione delle relative basi di calcolo e delle percentuali applicate.
La sezione quinta civile della Suprema Corte, esaminate le argomentazioni poste dai contribuenti, ne riconosceva la rilevanza, anche alla luce di un acceso contrasto giurisprudenziale esistente sul tema, ed auspicava l’intervento delle Sezioni Unite per una riconsiderazione complessiva della materia.
Sulla scorta di queste premesse, la pronuncia annotata procede dapprima alla ricostruzione del quadro normativo di riferimento ed illustra, con rigore, le norme applicabili al caso di specie, distinguendo tra le disposizioni di legge rilevanti rispetto alla questione dell’obbligo di motivazione degli atti tributari ed il relativo contenuto circa l’obbligazione degli interessi dovuti dal debitore fiscale.
Con riferimento al primo aspetto, le Sezioni Unite ricordano che l’obbligo motivazionale degli atti amministrativi tributari, rinvenibile nei citati artt. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 e 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, involge anche la cartella di pagamento emessa dall’agente della riscossione, mediante il richiamo effettuato dall’art. 17 della medesima L. 27 luglio 2000, n. 212, la quale deve necessariamente recare l’esposizione dei “presupposti di fatto” e delle “ragioni giuridiche” sui quali si fonda la pretesa fatta valere.
Tale obbligo è peraltro rafforzato dalle previsioni di cui agli artt. 12, comma terzo, e 25, comma secondo, del d.p.r. n. 602/1973, ove il legislatore prevede che nel ruolo debbano essere indicati i riferimenti al precedente atto di accertamento ovvero, in mancanza, una motivazione sintetica della pretesa fiscale.
L’obbligo di motivazione della cartella esattoriale dovrebbe, in sostanza, anche alla luce delle norme richiamate dalla Suprema Corte, essere parametrato al grado di effettiva conoscenza che il contribuente possiede rispetto ai vari elementi destinati a comporre il credito vantato dal Fisco.
Per ciò che concerne il secondo aspetto, il panorama normativo tratteggiato dalle Sezioni Unite appare – ovviamente - ben più complesso e disarticolato dal momento che la disciplina del calcolo degli interessi nella procedura di riscossione coattiva dei tributi afferisce ad una pluralità di norme, di fonte primaria o secondaria, stratificatesi nel tempo, secondo un’impostazione che manifesta marcati caratteri di ipertrofia.
Senza necessità di ripercorrere in questa sede le considerazioni già svolte nel precedente contributo della scrivente, preme ricordare che per la Suprema Corte assumono rilievo, per le imposte dirette, gli artt. 20 e 30 del d.p.r. n. 600/1973 e per le imposte sui trasferimenti di ricchezza, gli artt. 54 e 55 del d.p.r. n. 131/1986, che si completano con le previsioni di cui alla L. 26 gennaio 1961, n. 29, alla L. 28 marzo 1962, n. 147 e alla L. 18 aprile 1978, n. 130.
A questi riferimenti normativi si sommano poi numerose disposizioni di attuazione, fondamentali per la quantificazione degli interessi – a mero esempio, D.L. 6 luglio 1974, n. 260, art. 8 comma 1 conv. da L. 14 agosto 1974, n. 354; D.L. 4 marzo 1976, n. 30, art. 2, comma 1, conv. da L. 2 maggio 1976, n. 160; L. 11 marzo 1988, n. 67, art. 7, comma 3; D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, art. 13, comma 1, conv. da L. 26 febbraio 1994, n. 133; L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, comma 141; D.M. Finanze 27 giugno 2003, art. 3, comma 1, n. 149; D.M. Finanze 21 maggio 2009 - che, a vario titolo, si sono succedute nel tempo e che segnano, con estrema evidenza, la frammentazione e la complessità della disciplina in esame.
La pronuncia annotata, ancor prima di addentrarsi nella soluzione del quesito posto dal giudice remittente, mostra così il pregio di una ricostruzione in punto di diritto che appare esatta e puntuale in ordine alla identificazione delle molteplici disposizioni che regolano la quantificazione degli interessi ma che, contestualmente, sconta la grave carenza di non valorizzare la natura disorganica ed ipertrofica di tale normativa.
In specie le Sezioni Unite avrebbero dovuto sottolineare, già dalla esposizione preliminare del quadro normativo, il grado di profonda asistematicità che connota la disciplina degli interessi nella procedura di riscossione coattiva dei tributi.
Si tratta di un profilo oggettivo e di massima evidenza, che non può non essere considerato e valorizzato ove si voglia compiere un bilanciamento degli interessi costituzionali rilevanti; invero, più elevato è il grado di complessità e/o oscurità della normativa di riferimento, maggiore è la chiarezza e la trasparenza che deve essere pretesa dall’impianto motivazionale dell’atto amministrativo.
Tale rilevantissimo aspetto rimane del tutto taciuto.
Il silenzio delle Sezioni Unite risulta un primo indice dell’atteggiamento svalutativo adottato rispetto alle problematiche sollevate dai ricorrenti e preconizza una sensibilità giuridica più vicina alle esigenze di celerità dell’Amministrazione finanziaria che alla effettività nella tutela dei diritti del contribuente.
3. Le argomentazioni delle Sezioni Unite in ordine all’ampiezza della motivazione della cartella esattoriale in tema di interessi
Soprassedendo all’esame degli orientamenti giurisprudenziali emersi negli anni circa il contenuto motivazionale della cartella di pagamento che intima al contribuente il versamento di interessi sul debito fiscale accertato, ampiamente illustrati nel precedente contributo, si vogliono ora esaminare, con attenzione, le argomentazioni spese nella pronuncia in commento per risolvere la querelle giurisprudenziale.
Il ragionamento sviluppato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte si avvia da una premessa logica del tutto condivisibile: appare dirimente individuare l’esatto significato da attribuire ai sintagmi “presupposti di fatto” e “ragioni giuridiche” enucleati dal disposto dell’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, che fonda l’obbligo di motivazione degli atti tributari (e quindi anche della cartella esattoriale) ed è espressione di principi immanenti dell’ordinamento giuridico[2], al fine di comprendere se sia necessario che l’Agente della riscossione espliciti – oltre ai riferimenti normativi e alla data di decorrenza – anche i criteri di calcolo adottati ed i tassi applicati.
In questa prospettiva di analisi, afferma correttamente la Corte, è necessario operare un bilanciamento tra divergenti interessi costituzionali, abitualmente posti in una condizione di tensione dialettica.
Da un lato, si collocano gli interessi dei contribuenti ad una “cognizione reale e non meramente formale degli obblighi nascenti dall’atto fiscale”, ritraibili dagli artt. 23, 24, 97, 111 e 113 Cost., oltreché dall’art. 41 della Carta europea dei diritti fondamentali, che si concretizzano, in un’ottica di trasparenza e di difesa, nella esplicitazione del criterio di calcolo e dei saggi d’interesse all’interno della cartella esattoriale.
Sul versante opposto, si rilevano gli interessi del Fisco, di cui agli artt. 2, 3, 53 e 97 Cost., volti a favorire atti amministrativi sintetici e snelli ed evitare un aggravio ingiustificato della procedura di riscossione e di contrasto all’evasione, che potrebbe aversi ove si reputasse come essenziale un obbligo motivazionale non necessario e ridondante.
Il bilanciamento tra tali diversi interessi, desumibili dal vigente quadro costituzionale, rappresenta il file rouge seguito dalla Suprema Corte per definire lo standard motivazionale relativo all’obbligazione degli interessi reclamati con la cartella di pagamento.
3.1. La motivazione della cartella di pagamento per gli interessi mai prima determinati e pretesi dal Fisco
Le Sezioni Unite procedono dapprima ad illustrare l’ampiezza dell’obbligo motivazionale nell’ipotesi in cui la cartella esattoriale sia il primo atto con il quale gli interessi vengono richiesti al contribuente.
In tale circostanza, affermano i giudici di legittimità, la cartella palesa la natura di un atto impositivo in senso sostanziale che impone un obbligo motivazionale stringente, essendo necessario veicolare al contribuente tutte le informazioni utili a verificare la bontà della pretesa e, se del caso, a fondarne l’impugnazione.
La pronuncia annotata si appoggia ad una interpretazione marcatamente restrittiva del sintagma “presupposti di fatto” e “ragioni giuridiche” di cui all’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, ritenendo sufficiente l’indicazione i) del fondamento normativo idoneo a giustificare la debenza degli interessi, ii) dell’imposta cui essi afferiscono e iii) della data di decorrenza, essendo ogni altro criterio di calcolo già predeterminato dalla legge.
Più in particolare, per le Sezioni Unite, la generale indicazione della normativa in tema di interessi dovrebbe reputarsi sufficiente per consentire al contribuente di valutare la legittimità della pretesa e, se del caso, di difendersi, giacché le operazioni di calcolo degli interessi potrebbero essere eseguite, in maniera autonoma, dal contribuente, che si trova nella condizione di compiere da sé i passaggi aritmetici e di applicare i saggi d’interesse di volta in volta rilevanti.
La giustificazione del ragionamento seguito dalla Corte va ricercata nella pubblicità legale di tutte le norme relative alla determinazione degli interessi nella Gazzetta Ufficiale o, comunque, nei portali online dell’Agenzia delle Entrate e del Ministero dell’Economia e delle finanze, le quali divengono così immediatamente accessibili per il contribuente, che è chiamato a ricercarle sua sponte e quindi a provvedere ai relativi calcoli.
Invero, le “ragioni giuridiche” della pretesa che devono essere espresse nella motivazione dell’atto consistono, secondo le Sezioni Unite, nella elencazione delle norme di legge dalle quali discende l’obbligazione degli interessi, di modo che la mera citazione di tali norme, nel corpo della cartella esattoriale, valga ad integrare sic et simpliciter il sintagma dell’art. 7.
L’ipertrofia normativa, lo stratificarsi di differenti fonti attuative nel tempo, la pluralità di aliquote e il tecnicismo della materia risultano essere – paradossalmente – del tutto irrilevanti a fronte della predeterminazione normativa del saggio degli interessi.
In definitiva, nella prospettiva svalutativa del principio di effettività adottata della Corte, la mera enunciazione di norme di legge, nel corpo della motivazione, prevale in ogni caso sulla comprensibilità e applicabilità delle stesse da parte del contribuente[3].
3.2. La motivazione della cartella di pagamento per gli interessi già richiesti con un precedente atto prodromico
Nella diversa ipotesi di una cartella di pagamento che rechi un importo a titolo di interessi, già richiesti in un precedente atto impositivo notificato al contribuente (si pensi all’ipotesi ordinaria dell’avviso di accertamento) ovvero in una sentenza, l’interpretazione resa dalle Sezioni Unite in ordine all’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212 appare ancor più restrittiva.
Invero, atteso che le norme di legge e il periodo di decorrenza degli interessi si trovano già esposti nell’atto prodromico ricevuto dal contribuente, la cartella esattoriale dovrà limitarsi ad un diretto riferimento all’atto presupposto, essendo le “ragioni giuridiche” ed i “presupposti di fatto” già enucleati in tale sede.
L’atto genetico è l’unico chiamato a rispettare l’obbligo motivazionale – nella versione ristretta concepita dalle Sezioni Unite – di cui al citato art. 7, dovendosi solo limitare ad aggiornare il quantum preteso in ragione dell’ulteriore lasso temporale trascorso.
Addirittura, secondo la sentenza qui in esame, non solo l’enunciazione delle norme di legge relative agli interessi e al periodo di decorrenza, presenti nell’atto prodromico, sarebbero sufficienti a rendere edotto il contribuente della legittimità della pretesa ma egli potrebbe addirittura impugnare la cartella esattoriale, sul punto, solo ove la quantificazione compiuta dall’Amministrazione finanziaria non corrisponda al calcolo che il contribuente stesso ha realizzato in autonomia[4].
In questa prospettiva, il diritto ad una motivazione rigorosa e chiara in ordine alla determinazione degli interessi risulta ancor più ridimensionato dal momento che il contribuente è chiamato, da sé, a recuperare il precedente atto prodromico, ad individuare le norme di legge ivi citate, a tenere conto degli eventuali mutamenti intercorsi medio tempore nella disciplina e nella applicazione dei saggi d’interesse e, quindi, a tentare di ripercorrere le operazioni di calcolo già compiute dal Fisco.
La probabile difficoltà o, addirittura, impossibilità manifestata dal contribuente nello svolgere tali dispendiose attività non viene, in alcun modo, contemplata dalla Suprema Corte.
4. Il principio di diritto delle Sezioni Unite e considerazioni critiche
Le argomentazioni delle Sezioni Unite si compendiano in un principio di diritto piuttosto asciutto che, al netto della distinzione tra le due fattispecie dinanzi illustrate, dispone che
(i) in presenza di un atto prodromico, l’obbligo di motivazione di cui all’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212 è da reputarsi soddisfatto attraverso il semplice richiamo all’atto presupposto e la quantificazione dell’ulteriore importo a titolo di accessori;
(ii) in presenza di una cartella esattoriale recante per la prima volta la pretesa a titolo di interessi, è sufficiente indicarne la base normativa e il periodo di decorrenza.
In alcun caso appare necessaria la specificazione dei singoli saggi applicati o delle relative modalità di calcolo[5].
Ad avviso di chi scrive, le conclusioni contenute in questo principio di diritto e sviluppate nella sentenza non appaiono condivisibili, in quanto come anticipato contrastanti con i principi costituzionali ed europei.
4.1. La motivazione della cartella esattoriale quale risultante del buon andamento ed efficienza dell’agire amministrativo
Il nodo focale del ragionamento esposto dalla Suprema Corte è dato dalla necessità di addivenire ad un equo bilanciamento tra vari interessi costituzionali, fisiologicamente contrapposti, rappresentati dalla necessità di atti amministrativi chiari ed esaustivi in relazione ad ogni pretesa fatta valere, così da permettere al consociato di saggiarne la legittimità e valutare le possibilità di difesa, e dall’esigenza di una attività amministrativa snella ed efficiente, in specie nella fase di riscossione coattiva e di contrasto all’evasione.
Nel ponderare i predetti interessi, le Sezioni Unite hanno privilegiato una interpretazione dell’art. 97 Cost. volta a sostenere una motivazione minima (e senza dati specifici) della cartella di pagamento.
In tale ragionamento emerge il convincimento che l’obbligo di una motivazione più pregnante in ordine alle modalità di determinazione degli interessi possa rappresentare, per l’Amministrazione finanziaria, un onere gravoso e ridondante.
Si ritiene che il principio di buon andamento, espresso dall’art. 97 Cost. e correlato agli artt. 2 e 3 Cost., non possa legittimare una scelta incondizionata di alleviare gli oneri procedimentali della Pubblica Amministrazione ove questa scelta comprometta la comprensione del fondamento della pretesa recata nell’atto impositivo[6].
Il suddetto principio costituzionale impone l’adozione di forme procedimentali adeguate al caso di specie, quale bilanciamento nel rapporto tra il potere esercitato e lo scopo perseguito, che dia prova della massima trasparenza, imparzialità ed efficienza dello Stato[7].
Ne consegue che l’agire amministrativo presenta le suddette caratteristiche solo se pone il contribuente nella condizione di poter - materialmente e concretamente - comprendere la legittimità del credito che lo Stato fa valere nei suoi confronti, a maggior ragione ove esso si sia originato in un tempo remoto e sia mutato negli anni.
In altre parole, l’atto amministrativo deve essere chiaro nella forma e comprensibile nella sostanza e permettere attraverso la motivazione di ripercorrere e/o ricostruire i calcoli operati dal Fisco; in assenza di tali prerogative il paradigma offerto dall’art. 97 Cost. risulta del tutto vanificato.
Con riferimento al caso di specie ne seguono alcune considerazioni.
In primo luogo, si evidenzia che l’esplicitazione dei calcoli aritmetici e dei saggi applicati in ciascuna cartella esattoriale non comporterebbe aggravio alcuno per l’agire amministrativo, ai sensi dell’art. 97 Cost.
Invero, gli importi ivi descritti a titolo di interesse sono il frutto – chiaramente - di operazioni automatizzate, compiute dai software posti a disposizione dell’Agente della riscossione, con la conseguenza che la loro enunciazione per iscritto, nel corpo della cartella, non sarebbe altro che una banale operazione di trascrizione di tali calcoli aritmetici già eseguiti dai computer, e quindi del tutto priva di costi ed oneri.
L’esplicitazione di queste operazioni aritmetiche, come richiesto dai ricorrenti, non si porrebbe pertanto in contrasto con il principio di efficienza e buon andamento dell’agire amministrativo, ma ne sarebbe la più ovvia risultante.
Inoltre, la sentenza annotata statuisce che la motivazione della cartella esattoriale non deve indicare né la specificazione dei saggi applicati né le modalità di calcolo ma, allo stesso tempo, chiarisce che tali considerazioni non vogliono in alcun modo inficiare la “prassi virtuosa” che alcuni uffici dell’Amministrazione finanziaria hanno spontaneamente adottato, esplicitando i criteri di calcolo seguiti, anche in attuazione dei principi di leale collaborazione di cui all’art. 10 della L. 27 luglio 2000, n. 212[8].
Queste ultime parole appaiono difficilmente conciliabili con il principio di diritto espresso dalla sentenza giacché se la prassi di esplicitare nel corpo motivazionale della cartella i calcoli degli interessi è da ritenersi “virtuosa”, allora è evidente che la prassi opposta, propugnata dalle Sezioni Unite, “non è virtuosa” e quindi non può che essere in contrasto con l’art. 97 Cost.
4.2. Il principio di effettività nella tutela dei diritti e la motivazione della cartella di pagamento in ordine agli interessi
L’approccio espresso dalle Sezioni Unite della Suprema Corte non appare altresì accettabile in un moderno ordinamento giuridico permeato dal principio di effettività[9].
Nella sostanza, il nucleo essenziale del principio di effettività impone di interpretare e implementare l’enunciato astratto della legge di modo che esso venga concretamente applicato nella realtà quotidiana, rifuggendo da approcci di “mera forma”, che rendono, di fatto, impossibile o estremamente difficile il riconoscimento e la tutela dei diritti[10].
In questa prospettiva, appare evidente che la pronuncia annotata si ponga in aperto contrasto con tale principio giacché l’interpretazione formale dell’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, che reputa sufficiente la mera enunciazione astratta di norme di legge nel corpo della cartella esattoriale al fine di assolvere all’obbligo motivazionale sugli interessi, pone su di un piano secondario la comprensibilità e la conseguente applicabilità – sul piano fattuale e concreto – di tali norme da parte del contribuente.
Più nel dettaglio, la posizione assunta dalle Sezioni Unite permette di rispettare formalmente il disposto normativo dell’art. 7, attraverso l’interpretazione del sintagma “ragioni giuridiche” e “presupposti di fatto” come mera enunciazione di riferimenti normativi o temporali.
Al contempo, però, l’interpretazione in esame determina un ostacolo alla effettiva possibilità, per il contribuente, di cogliere le ragioni della pretesa fatta valere (ossia il quantum degli interessi da pagare) poiché l’ipertrofia normativa, la complessità dei calcoli e la modalità di applicazione dei tassi – in specie ove la pretesa sia molto risalente nel tempo – rendono la ricostruzione defatigante o, financo, impossibile.
Non si comprende, infatti, come possa ritenersi legittima la motivazione della cartella di pagamento che si limiti a sterili enunciazioni di norme di legge.
Quanto rappresentato si trasla peraltro sul piano della tutela giurisdizionale dei diritti.
Invero, il principio di diritto propugnato dalle Sezioni Unite pone il contribuente in una condizione profondamente deteriore poiché, pur non potendo ricostruire le operazioni di calcolo che hanno condotto l’Amministrazione finanziaria a vantare un determinato credito e pur versando in una condizione di incertezza circa il quantum della pretesa fatta valere a titolo di interessi, egli non ha – ad oggi - facoltà di trovare una adeguata tutela giurisdizionale, non potendo far valere l’oscurità della motivazione recata dalla cartella esattoriale ove questa si sia limitata a enunciare le norme di legge e il periodo di decorrenza degli interessi.
Con la pronuncia in esame, il grado di effettività dell’ordinamento giuridico, con specifico riferimento all’istituto della motivazione ne risulta compromesso.
5. Conclusioni
L’evoluzione del rapporto tributario verso i canoni universali della trasparenza e collaborazione imporrebbe la ricerca costante di soluzioni giuridiche ispirate al principio di effettività.
Tale necessità si deve tradurre nella valutazione dell’adattabilità delle norme alle fattispecie concrete, ponendosi sempre in una prospettiva secondo la quale i contribuenti dovrebbero essere in grado di comprendere le ragioni sottese alle pretese fiscali.
In tale assetto, la motivazione degli atti costituisce un istituto fondamentale nelle dinamiche del rapporto tributario; quest’ultima nel corso degli anni ha acquisito sempre di più una valenza sostanziale, definendo un punto di equilibrio tra i contribuenti, l’Amministrazione finanziaria e il giudice[11].
Alla motivazione sono assegnate funzioni primarie, espressive di un ordinamento tributario moderno, garantista ed efficiente che si traducono nella trasparenza dell’attività amministrativa, nella garanzia della difesa del contribuente e nella conseguente attivazione di processi consapevoli, in ordine ai fatti contestati, per le parti e per i giudici.
Si tratta di interessi non sacrificabili in nome di una celere lotta all’evasione perché essi stessi funzionali a quest’ultimo obiettivo.
Secondo tale prospettiva, il principio di diritto espresso dalla sentenza delle Sezioni Unite non può essere condiviso in quanto si pone in contrasto con i suddetti valori e non declina l’istituto della motivazione alla luce dei canoni dell’effettività.
Quest’ultima, nel caso specifico, avrebbe dovuto fungere da criterio interpretativo espressivo di concretezza giuridica e di buon senso, volto a calibrare il contenuto del paradigma normativo alla fattispecie concreta al fine di garantire il raggiungimento delle suddette funzioni primarie.
Ne deriva come anche l’obbligazione in materia di interessi debba ricevere una motivazione adeguata alla fattispecie concreta.
Una motivazione recante il dettaglio dei saggi applicati e delle relative modalità di calcolo permette, senza alcun ulteriore passaggio operativo o finanziario per il Fisco, di garantire la trasparenza dell’agire amministrativo e, contestualmente, di porre il contribuente nella condizione di avere piena contezza della legittimità dell’obbligazione che è chiamato ad assolvere, in specie se risalente nel tempo.
Preso atto della posizione in esame, si auspica una maggiore saldatura tra gli istituti giuridici, le disposizioni ed i canoni dell’effettività al fine di edificare un rapporto tributario più evoluto e vicino alle legittime aspettative dei contribuenti. [1] Cfr. R. Miceli, La motivazione della cartella di pagamento sugli interessi e il valore dell’effettività giuridica, in Giustizia Insieme, 2022. Si veda anche sulla medesima pronuncia C. Califano, Alle Sezioni Unite la motivazione delle cartelle di pagamento. Verso un obbligo di motivazione differenziato?, in Giustizia Insieme, 2022.
[2] In questi termini Corte Cass., SS. UU., 2 febbraio 2022, n. 3182.
[3] Affermano espressamente le Sezioni Unite che “il richiamo alla disposizione che regola il “tipo” di interesse richiesto e le norme che presiedono alla sua quantificazione, ivi predeterminate, consentono dunque al contribuente di individuare gli elementi essenziali dell’obbligazione complessivamente pretesa ed il perimetro entro il quale l’Amministrazione si è mossa per quantificare specificamente l’obbligazione degli interessi, onde eventualmente contestarla”.
[4] Sul punto si legge nella sentenza annotata che “ne consegue che, in assenza di una ulteriore specificazione di una diversa tipologia di interessi richiesti rispetto a quanto già indicato a titolo di interessi nell'atto prodromico, la cartella di pagamento non dovrà che limitarsi ad attualizzare il debito di interessi già individuato in modo dettagliato e completo nell'atto genetico. Sarà semmai onere del contribuente contestare la quantificazione degli interessi operata in cartella ove risulti incoerente rispetto all'originaria pretesa per interessi, evidenziandone in tutto o in parte la non conformità rispetto al contenuto dell'obbligazione degli interessi determinata nell'atto genetico e sarà, per l'effetto, compito del giudice tributario acclarare il reale contenuto dell'obbligazione azionata con la cartella”.
[5] Il principio di diritto è di seguito riportato. “Allorché segua l'adozione di un atto fiscale che abbia già determinato il quantum del debito di imposta e gli interessi relativi al tributo, la cartella che intimi al contribuente il pagamento degli ulteriori interessi nel frattempo maturati soddisfa l'obbligo di motivazione, prescritto dalla L. n. 212 del 2000, art. 7 e dalla L. n. 241 del 1990, art. 3, attraverso il semplice richiamo dell'atto precedente e la quantificazione dell'ulteriore importo per gli accessori. Nel caso in cui, invece, la cartella costituisca il primo atto con cui si reclama per la prima volta il pagamento degli interessi, la stessa, al fine di soddisfare l'obbligo di motivazione deve indicare, oltre all'importo monetario richiesto a tale titolo, la base normativa relativa agli interessi reclamati che può anche essere desunta per implicito dall'individuazione specifica della tipologia e della natura degli interessi richiesti ovvero del tipo di tributo cui accedono, dovendo altresì segnalare la decorrenza dalla quale gli interessi sono dovuti e senza che in ogni caso sia necessaria la specificazione dei singoli saggi periodicamente applicati nè delle modalità di calcolo”.
[6] Come noto, la nozione di buon andamento non si riduce alla rapidità, semplicità ed efficacia dell’attività amministrativa ma impone collaborazione e solidarietà delle quali sono espressione imprescindibile il rispetto della fiducia dei cittadini e la lealtà dello Stato. In tal senso, F. Benvenuti, Per un diritto amministrativo paritario, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova, 1975, pp. 818 ss. Il passaggio in esame è stato declinato nella materia tributaria da G. Marongiu, Statuto del contribuente, diritto on line (Enc. giur. Treccani), 2016.
[7] Cfr. A. Andreani, Il principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione, Padova, 1979, p. 23. Sul tema, in tal senso, S. Cassese, Il diritto alla buona amministrazione, in Studi in onore di Alberto Romano, I, Napoli, 2011, 105; A. Cerri, Imparzialità e buon andamento della Pubblica amministrazione, diritto on line, (Enc. giur. Treccani), 2013.
[8] Nella sentenza in commento si legge che “le considerazioni appena esposte non intendono, ovviamente, incidere sulla prassi che l'Amministrazione abbia eventualmente intrapreso, nell'ottica di una migliore collaborazione con il contribuente - anche alla luce dell'art. 10 del c.d. Statuto dei diritti del contribuente - volta ad esplicitare nelle cartelle anche i tassi via via applicabili per la quantificazione degli interessi richiesti. Prassi virtuosa che, tuttavia, non è in grado di modificare il contenuto precettivo delle disposizioni normative richiamate né, dunque, il contenuto dell'obbligo motivazionale dalle stesse risultante. Obbligo che, come si è già detto, non priva in alcun modo di effettività la tutela apprestata al contribuente, anzi garantendola in modo pieno ed adeguato rispetto alle diverse fattispecie sopra ricordate”.
[9] Cfr. N. Lipari, Il problema dell’effettività del diritto comunitario, in Diritto comunitario e sistemi nazionali: pluralità delle fonti e unitarietà degli ordinamenti, Napoli, 2009, pp. 635 ss.; M. Ross, Effectiveness in the European Legal Order(s): Beyond Supremacy to Constitutional Proportionality?, in Eur. Law Rev., 2006, pp. 476 ss.
[10] Per alcune riflessioni su questo tema, R. Miceli, Il principio comunitario di effettività quale fondamento dell’integrazione giuridica europea (in AA. VV., Scritti in onore di V. Atripaldi, Napoli, 2010, sezione Europa, p. 1623.
[11] Cfr., in tal senso, ex pluribus, F. Gallo, Motivazione e prova nell’accertamento tributario: l’evoluzione del pensiero della Corte, in Rass. trib., 2001, p. 1088; F. Califano, La motivazione degli atti impositivi tra forma e sostanza, principi europei e valori costituzionali, in Riv. trim. dir. trib., 2013, p. 81; Id., La motivazione degli atti impositivi, Torino, 2012, passim; R. Miceli, La motivazione degli atti tributari, in Lo Statuto dei diritti del contribuente, (a cura di A. Fantozzi, A. Fedele), Milano, 2005, p. 281.
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