ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’indipendenza della magistratura. Storia, attualità, prospettive
(Università di Genova 24 maggio 2024)
Relazione introduttiva
di Roberto Romboli
Sommario: 1. Premessa: il significato della indipendenza della magistratura e le ipotesi di riforma attualmente in discussione. – 2. L’indipendenza esterna: l’autonomia da ogni altro potere e la proposta di sopprimere il termine “altro”. – 3. Segue: la istituzione del Consiglio superiore della magistratura. Le ipotesi di riforma: quale Csm (organo amministrativo o costituzionale; organo rappresentativo o di garanzia)? - 4. Segue: le proposte di riforma relative alla composizione (il rapporto numerico tra laici e togati; la legge elettorale per membri togati e il sistema del sorteggio; la elezione dei membri laici: gli elementi di novità e le ipotesi di riforma). – 5. Segue: le proposte di riforma delle funzioni ed il funzionamento del Csm. – 6. L’indipendenza interna: i rapporti tra magistratura giudicante e requirente e la proposta di separazione delle carriere. – 7. La proposta di due diversi Csm: problemi applicativi e di funzionalità degli organi. – 8. La istituzione dell’Alta corte di disciplina. – 9. L’indipendenza interna con riguardo alla magistratura giudicante e la proposta di abrogazione dell’art. 107.3 della Costituzione. – 10. L’indipendenza interna con riguardo alla magistratura requirente: il principio di obbligatorietà dell’azione penale ed i criteri di priorità quale contenuto obbligatorio del progetto organizzativo della procura. – 11. La indipendenza del giudice da sé medesimo: la fiducia nella giustizia e l’“apparenza di imparzialità”. I casi Apostolico e Toti e la necessità di un bilanciamento tra i diversi valori.
1. Premessa: il significato della indipendenza della magistratura e le ipotesi di riforma attualmente in discussione.
Il tema del Convegno (L’indipendenza della magistratura. Storia, attualità, prospettive) pone come oggetto la fondamentale garanzia che la nostra Costituzione ha voluto riconoscere ed imporre per la magistratura.
Alessandro Pizzorusso scriveva diversi anni fa che “l’indipendenza rappresenta il connotato fondamentale dell’attività giurisdizionale”, affermazione ribadita proprio in questi giorni da Gaetano Silvestri, che sottolinea come “occorre acquisire piena consapevolezza che nell’epoca contemporanea democrazia e legalità sono inscindibili e che non vi è vera legalità senza esercizio indipendente della giurisdizione”.
La Costituzione ha segnato il passaggio da uno stato legale (supremazia e sacralità della legge) ad uno stato costituzionale, nel quale anche le scelte del legislatore possono essere poste in discussione ed eventualmente cancellate dall’ordinamento.
Una fonte, quella costituzionale, organizzata più per principi che non per regole, la quale determina inevitabilmente un ampliamento del potere interpretativo del giudice, poi espresso con la possibilità (obbligo per la Corte costituzionale) di leggere la legge alla luce dei principi costituzionali (c.d. interpretazione costituzionalmente conforme).
Un nuovo ruolo pertanto del giudice, al quale viene riconosciuto il potere-dovere di dare attuazione alla Costituzione, sia attraverso la proposizione di questioni di legittimità costituzionale sia, entro i limiti consentiti dallo strumento interpretativo, attribuendo alla legge il significato che meglio realizzi, nella sua applicazione pratica, i principi costituzionali.
L’ordinamento sovranazionale attribuisce a sua volta un ruolo assai importante al giudice comune, sia nei suoi rapporti con la Corte di giustizia (si pensi all’utilizzo del rinvio pregiudiziale), sia con la Corte di Strasburgo (ad esempio in ordine al rispetto della Cedu ed alla interpretazione di questa fornita dalla Corte europea).
A quest’ultimo proposito Guido Raimondi ha recentemente sottolineato che se le Corti non sono credibili e indipendenti, e non sono percepite come tali, è l’intero edificio democratico su cui si fonda la Cedu che comincia a vacillare. I rischi per l’indipendenza non sono solo violazione della Cedu, ma problema di sistema che regge quello di tutela dei diritti umani.
Il nuovo ruolo riconosciuto ai giudici ha reso pertanto, molto di più di quanto non lo fosse nella fase precedente, ancora più necessario, a garanzia della decisione, preservare i giudici da influenze che potrebbero provenire dall’esterno o dall’interno dell’ordine giudiziario.
Garantire l’indipendenza del giudice significa in sostanza garantire la loro legittimazione nel nostro sistema istituzionale a creare il c.d. diritto giurisprudenziale, dal momento che quest’ultima non si fonda, come per gli organi politici, sulla natura rappresentativa, né sulla supposta infallibilità del giudicante, ma sulla natura indipendente, imparziale e professionale dello stesso.
Per questo l’importanza della indipendenza dei magistrati e lo sforzo della Costituzione e della legge nell’indicare gli strumenti attraverso i quali garantire la stessa (il particolare status che li distingue da tutti gli altri pubblici dipendenti – “magistrati o funzionari?”, il celebre titolo del volume curato da Maranini- la inamovibilità, il possibile divieto di iscrizione a partiti politici, la speciale disciplina per la responsabilità civile e per quella disciplinare ecc.).
Svolgere una introduzione al tema con riguardo ai principi costituzionali, come richiestomi dagli organizzatori di questo Convegno, impone pertanto una scelta a favore di una tra le molte impostazioni possibili.
Sperando di aver recepito le finalità dell’incontro, mi soffermerò, in estrema sintesi, sulla tre forme assai note di indipendenza (classiche, almeno le prime due), limitandomi ad indicare i principi costituzionali di riferimento, per poi passare a segnalare sui singoli temi che vengono in considerazione, le riforme (costituzionali e/o ordinarie) in questi giorni in discussione o comunque pendenti davanti alle camere. In questo esame sarà compreso anche il disegno di legge costituzionale presentato dal governo il 29 maggio (cinque giorni dopo la data del Convegno) ed avente ad oggetto la separazione delle carriere e la istituzione dell’Alta Corte di disciplina.
2. L’indipendenza esterna: l’autonomia da ogni altro potere e la proposta di sopprimere il termine “altro”.
Le tre diverse forme nelle quali tradizionalmente si articola la indipendenza della magistratura sono quelle: a) esterna; b) interna; c) da sé medesima.
Iniziando dalla prima i riferimenti costituzionali sono principalmente i seguenti: 1) “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101.2); 2) “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104.1); 3) la istituzione del Csm: composizione e funzioni (artt. 104 e 105).
Molti gli aspetti, riguardanti la indipendenza esterna, oggetto delle proposte di revisione costituzionale, partiamo da quella, assai ricorrente e presente in quasi tutti i progetti presentati, relativa alla eliminazione del termine “altro” dall’art. 104.1 Cost.
Attraverso una simile operazione si vorrebbe palesemente esprimere il concetto secondo cui la magistratura non è un potere dello Stato.
In proposito appare essenziale capire qual è la nozione di potere alla quale vogliamo fare riferimento, se a quella di un organo monolitico che esprime la volontà del potere, che parla con una sola voce e che è caratterizzato da un proprio indirizzo che si contrappone ad altri poteri (qualcuno ha parlato della magistratura come contropotere), vale a dire il potere legislativo e il potere esecutivo, in questo senso chiaramente la magistratura non è un potere dello Stato. Questo sia che il termine “altro” venga mantenuto, sia che venga eliminato.
Qualora invece si intenda riferirsi ad una nozione di potere come potere diffuso, unitario in ragione dello status che accomuna i componenti della magistratura e titolare di funzioni costituzionali attribuite specificamente ai singoli giudici, in questo caso allora è certo che possiamo parlare della magistratura e dei magistrati come potere dello Stato.
L’attuale versione dell’art. 104.1 Cost. è, come noto, in vigore dal 1° gennaio 1948. In questi anni la qualificazione della magistratura come potere dello Stato ha avuto una applicazione assai importante per la tutela della autonomia e della indipendenza della stessa con riguardo all’accesso allo strumento del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato davanti alla Corte costituzionale.
Questa si è trovata infatti a dover interpretare la disposizione della legge 87/1953 (art. 37) che definisce il potere dello Stato, ai fini della sua legittimazione al conflitto, quale l’organo “competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene e per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali”.
Da tempo la giurisprudenza costituzionale, dopo aver scartato di poter individuare l’organo legittimato a rappresentare la magistratura nel Csm o nella Corte di cassazione, ha riconosciuto la legittimazione attiva e passiva del singolo magistrato (giudicante o requirente) nei conflitti tra poteri, qualificando la magistratura un potere diffuso.
Da quel momento i conflitti tra poteri hanno visto, almeno nell’85% dei casi, la magistratura come parte attiva o come parte passiva ed essa ha potuto difendere la propria indipendenza nei riguardi del parlamento (si pensi alle immunità parlamentari di cui all’art. 68 Cost.), del governo ed anche del Presidente della Repubblica.
Sarebbe ingenuo chiedersi se la soppressione del termine “altro” potrebbe indurre la Corte a mutare la propria giurisprudenza. Con quasi certezza, tutto resterebbe come adesso.
La soppressione in parola pertanto avrebbe solo un valore simbolico, essendo chiaro che per un testo solenne quale è la Carta costituzionale, eliminare, dopo oltre settanta anni dalla sua entrata in vigore, un termine, non può non perseguire una specifica finalità in contrasto con l’originario disegno costituzionale: nella specie mostrare la volontà di un ridimensionamento del ruolo della magistratura e della valorizzazione del diritto giurisprudenziale rispetto al diritto politico.
3. Segue: la istituzione del Consiglio superiore della magistratura. Le ipotesi di riforma: quale Csm (organo amministrativo o costituzionale; organo rappresentativo o di garanzia)?
Sempre dall’art. 104.1 Cost. se ne deriva che la magistratura deve essere indipendente da qualsiasi altro potere, persino quindi dal soggetto titolare della sovranità, vale a dire il popolo. Il magistrato infatti non è politicamente responsabile, non fonda la sua legittimazione nel consenso popolare, ma nel rispetto del principio di legalità.
In specifico possiamo sostenere con certezza che la magistratura non dipende da Capo dello Stato, il quale presiede il Csm, ma come il Consiglio stesso non può interferire nell’esercizio dele funzioni giurisdizionali. Si pensi alle decisioni della cassazione sui limiti alla immunità presidenziale per i fatti commessi (dall’allora presidente Cossiga) fuori dall’esercizio delle sue funzioni.
Non dipende neppure dalla Corte costituzionale, se non quando questa pronuncia decisioni di incostituzionalità di una legge o di un atto con forza di legge. Si pensi, per tutte, alle vicende relative alla c.d. guerra delle due corti in relazione alla efficacia delle sentenze interpretative di rigetto e, più recentemente, all’obbligo di seguire la interpretazione costituzionalmente conforme.
Certamente non dipende dal parlamento in quanto tale, ma è soggetto alla sua volontà solo quando esso si esprime attraverso una legge. Il giudice è soggetto al prodotto, ma non al produttore.
Si pensi ai problemi suscitati dalle leggi di interpretazione autentica, allorchè si è ritenuto che le stesse fossero state approvate per interferire nell’attività giurisdizionale o al notissimo caso Englaro ed al relativo conflitto tra poteri (respinto dalla Corte), sollevato dalle camere per una supposta invasione della propria competenza legislativa ad opera di una pronuncia della cassazione, con la quale si sarebbe in sostanza scritta la disciplina relativa alla possibile interruzione di trattamenti vitali.
Resta comunque fermo che, storicamente, il “nemico naturale” della indipendenza della magistratura è il potere esecutivo, rappresentato dal ministro della giustizia.
Questo è stato il tema cui maggiormente si è dedicata l’Assemblea costituente, la quale intese porre rimedio alla esperienza del periodo precedente principalmente attraverso la creazione del Consiglio superiore della magistratura, un organo nuovo sconosciuto, al pari del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale, dal sistema istituzionale precedente.
La finalità fu, come noto, quella di sottrarre all’esecutivo la competenza a decidere sulla vita professionale dei magistrati, ad evitare possibili influenze sull’attività giurisdizionale.
Quella competenza fu attribuita pertanto ad un organo nuovo, autonomo dal governo e dalla politica, composto in prevalenza da magistrati eletti da magistrati. Contro i rischi di corporativismo e di isolamento della magistratura dagli organi politici e dalla stessa società, si volle la presenza di una componente minoritaria con sicure competenze in materia (professori ordinari e avvocati con quindici anni di servizio), eletta invece dal parlamento in seduta comune con una alta maggioranza, tale da obbligare il coinvolgimento delle minoranze.
Nessuno credo possa disconoscere il ruolo fondamentale svolto dal Csm, a partire dalla sua istituzione nel 1958, per la realizzazione nel nostro paese di una magistratura davvero indipendente dal potere politico, con le conseguenze ed i risultati che tutti conosciamo (la magistratura più indipendente d’Europa, come in varie occasioni ci è stato riconosciuto).
Delle dieci disposizioni che compongono il titolo IV della parte seconda della Costituzione, dedicato alla “magistratura”, ben cinque fanno riferimento al Csm. Naturale quindi che le proposte di modifica e di riforma del nostro modello di ordinamento giudiziario, abbiamo avuto molto spesso ad oggetto proprio il Consiglio, la sua composizione o le sue attribuzioni.
Un presupposto, apparentemente ovvio, di qualsiasi ipotesi di riforma dovrebbe essere quello di specificare quale Consiglio superiore si intende realizzare, dal momento che il dettato costituzionale, seppur appare abbastanza chiaro, lascia certamente spazio a diverse possibili letture.
Mi limito in sintesi a richiamare due contrapposizioni tra le moltissime (forse troppe e non tutte utili): quelle tra organo amministrativo (più o meno “alto”) o costituzionale (o di rilievo costituzionale) e tra organo di garanzia ed organo rappresentativo.
Riguardo alla prima potremmo ritenere che il passaggio delle stesse competenze da un soggetto (ministro) ad un altro (Csm) non possa aver cambiato la natura delle stesse, politiche erano e politiche restano, nel senso che non si tratta di esercitare una funzione amministrativa (seppure “alta”), ma di fare pure scelte che attengono alla amministrazione della giurisdizione, adesso riconosciuta di competenza del Consiglio. Il Csm, come rilevato da Silvestri, non può pretendere di esprimere un indirizzo politico fuori dal campo proprio della amministrazione della giustizia; esso però può e deve esprimere un proprio indirizzo in materia giudiziaria, nel rispetto della legge e della Costituzione.
In caso contrario sarebbe davvero difficile giustificare perché, al fine di svolgere un’attività amministrativa, un terzo dei componenti venga eletto dal parlamento in seduta comune tra esperti della materia e perché l’organo sia addirittura presieduto dal Capo dello Stato.
Per quanto concerne la seconda, alcuni hanno visto una non conciliabilità tra le due funzioni (garanzia e rappresentanza), rilevando come il Csm sia organo di garanzia, che come tale sfugge alla logica dell’organo rappresentativo e che le elezioni non hanno alcuna funzione rappresentativa, la cui logica sarebbe contraria a quella di un soggetto di garanzia, ma solo quella di garantire l’apporto della esperienza professionale dei magistrati nell’esercizio delle funzioni del Consiglio.
Come in altra sede ho già avuto modo di sostenere, credo invece, al contrario, che le due qualificazioni siano entrambe corrette e che si integrino perfettamente per il perseguimento del risultato di tutelare la indipendenza esterna ed interna della magistratura.
Certamente il carattere rappresentativo deve intendersi in maniera differente rispetto alla rappresentanza degli organi di formazione politica, anche qualora facessimo riferimento ai soli membri eletti dai magistrati, per cui il termine di rappresentanza non può intendersi nel senso di rappresentanza politica, né di rappresentanza sindacale e neppure di rappresentanza in senso privatistico.
Stante il tipo di funzioni che il Csm è chiamato ad esercitare, indubbio è il rilievo che vengono ad assumere le qualità personali del candidato, quali la professionalità, l’idoneità e le capacità specifiche richieste, l’indipendenza e l’autorevolezza.
Una volta però constatato che l’attività del consigliere consiste anche nel concorrere a determinare un indirizzo “politico” in tema di amministrazione della giurisdizione e una volta riconosciuta l’esistenza di un pluralismo culturale nella magistratura, i suddetti requisiti personali, pur necessari, non appaiono sufficienti a rappresentare il pluralismo di cui sopra, richiedendosi altresì che il candidato possa essere eletto anche allo scopo di esprimere la differente realtà sociale del corpo elettorale.
La rappresentanza del pluralismo culturale costituisce un elemento che contribuisce, in maniera decisiva, a far sì che il Csm possa svolgere, nella maniera più efficace e con più ampia legittimazione, le proprie funzioni di garanzia della indipendenza della magistratura. In questo senso pertanto la funzione di garanzia e quella di rappresentanza sono niente affatto in contrasto, bensì suscettibili di una piena ed utile integrazione.
Del resto una realtà sociale non può essere cancellata attraverso una legge elettorale e non è neppure opportuno che ciò avvenga, essendo illusoria la possibilità di cancellare per via normativa una realtà che per vari aspetti ha rappresentato e continua a rappresentare un vero e proprio snodo per la evoluzione del modo di essere della magistratura nel nostro paese.
4. Segue: le proposte di riforma relative alla composizione (il rapporto numerico tra laici e togati; la legge elettorale per membri togati e il sistema del sorteggio; la elezione dei membri laici: gli elementi di novità e le ipotesi di riforma).
Venendo alle proposte di riforma del Csm, possiamo distinguere tra quelle che attengono alla composizione e quelle invece relative alle funzioni, concludendo con qualche osservazione in ordine al funzionamento dell’organo.
Circa la composizione un primo aspetto oggetto delle proposte di riforme presentate alle Camere è quello relativo al rapporto tra la componente togata e quella laica.
Allo scopo di evitare che il Csm si atteggi come organo corporativo ed autoreferenziale, nonché di ridurre la politicità (!) dello stesso, viene proposto di aumentare il numero dei laici parificandolo a quello dei togati.
A parte ogni altra considerazione, non si può non rilevare come una simile riforma determinerebbe il mutamento del modello di Csm voluto dal Costituente, per il quale la componente laica è stata prevista allo scopo di evitare un autogoverno dei magistrati e di creare però un governo autonomo dagli organi politici.
Per la individuazione dei membri togati, quello della legge elettorale è stato nel tempo un cantiere aperto per la individuazione del sistema più idoneo a conciliare due aspetti per i quali la conciliazione non risulta sempre facile ed a portata di mano: quello della rappresentatività e quello della professionalità e l’autorevolezza.
In estrema sintesi la l. 195/1958 si fondava su un sistema di tipo maggioritario puro a collegio uninominale ed a turno unico e poteva ritenersi espressiva di una visione riduttiva del Csm e di una concezione piramidale della magistratura; la l. 1198/1967 prevedeva invece una doppia consultazione, la prima delle quali con la funzione simile alle primarie, alla quale seguiva poi una votazione con sistema maggioritario secco in collegi uninominali. Il paradossale risultato delle elezioni del 1972 nelle quali una sola corrente ottenne tutti i seggi disponibili, determinò l’approvazione di una nuova legge; la l. 695/1975 determinò un cambiamento radicale attraverso la introduzione di un sistema proporzionale a liste concorrenti che portava alla luce il ruolo esercitato dalla Anm e dalle correnti; la successiva l. 74/1990 si pose nella logica di limitare il peso delle correnti attraverso alcune modifiche alla legge del 1975 ed il mancato raggiungimento della suddetta finalità condusse alla approvazione della l. 44/2002, votata in un clima di forte contrapposizione fra la magistratura ed il governo Berlusconi, la quale pure non riuscì ad ottenere lo scopo che si era prefisso.
Si è giunti così alla legge Cartabia attualmente in vigore, che ha scelto per criterio maggioritario con elezione dei due candidati più votati (in un caso il miglior terzo) ed un criterio proporzionale per cinque membri, con possibilità di collegamento tra candidati.
Una ipotesi che molto ha fatto discutere è quella del sorteggio, già avanzata da Almirante nel 1971 poi in seguito più volte ripresa fino alla prima versione del c.d. progetto Bonafede.
Il ricordato disegno di legge costituzionale Nordio, presentato lo scorso 29 maggio, procede ad una sostituzione integrale dell’attuale art. 104 Cost.
Mentre non prevede la eliminazione del termine “altro”, né la parificazione dei membri laici e di quelli togati, stabilisce che questi ultimi siano estratti a sorte tra i magistrati giudicanti ed i magistrati requirenti (la proposta, come dirò, prevede la creazione di due distinti Csm), rinviando ad una legge ordinaria la indicazione del numero e delle procedure di sorteggio.
L’introduzione del sorteggio attraverso una legge di revisione costituzionale supera i fondati dubbi di costituzionalità che erano stati avanzati nei riguardi delle leggi ordinarie tendenti allo stesso risultato, dal momento che il sorteggio si pone in contrasto con il dettato costituzionale che parla di “eletti” – sia per l’ipotesi temperata di un sorteggio al quale segue l’elezione tra i sorteggiati, sia del sorteggio tra i candidati risultati eletti – determinando quindi una violazione dell’elettorato attivo o passivo o un possibile stravolgimento del risultato delle urne.
La revisione non pare invece superare i dubbi circa la conformità del sistema ideato con il modello di Csm voluto dal Costituente ed il ruolo che ad esso si è voluto riconoscere, né tantomeno le ragioni di opportunità da più parti avanzate in proposito.
Così ad esempio le Commissioni Vietti e Scotti si erano espresse in senso contrario al sorteggio, rilevando in maniera del tutto convincente come la pari dignità di ogni magistrato non equivale certo a significare che tutti sono ugualmente idonei al ruolo di consigliere del Csm e come la Costituzione richieda un metodo fiduciario che si pone in contrasto con il consigliere “per caso”. Il Costituente, si legge nella relazione della commissione Scotti, fissando la elettività, ha inteso richiamare il concetto di base fiduciaria ed un voto che riconosca idoneità, capacità, valenza istituzionale dell’eligendo. Il Csm non è un consiglio di amministrazione, ma un organo di garanzia, rappresentativo di idee, prospettive, orientamenti su come si effettua il governo della magistratura e su come si organizza il servizio giustizia.
Per questo non mi sembrano convincenti le recenti osservazioni (11 giugno 2024) di Sabino Cassese – il quale ritiene il fatto che quasi tutti i magistrati siano iscritti all’Anm “una circostanza veramente strana e inspiegabile” – circa l’uso del sorteggio nell’ambito del diritto pubblico per rompere maggioranze precostituite, allorché sostiene che “il sorteggio conferisce a qualunque magistrato eguali chances di fare parte del Csm. In questo modo l’organo diventa di nuovo un organo di ponderazione, esame e valutazione della carriera dei magistrati”.
Lo stesso dicasi per le giustificazioni del ministro Nordio, secondo cui “il sorteggio non è fatto tra persone che passano per strada, ma nell’ambito di magistrati che abbiano almeno 15 o 20 anni di esperienza” ed è “l’unico modo per dare alla magistratura indipendenza ed autonomia”. Il ministro, per dimostrare che il sorteggio “non è poi la bestemmia che sembra”, cita i casi dei giudici popolari della corte d’assise (già ricordato agli stessi fini da Mazzamuto nel 2011), del tribunale dei ministri (ai quali potremmo aggiungere quello della Corte costituzionale integrata).
Pare evidente come nei casi citati si tratta sempre di soggetti chiamati a svolgere una funzione giurisdizionale (ai quali potrebbe al più ritenersi omogenea la partecipazione a commissioni di concorso), del tutto differente da quella del consigliere del Csm, nella ricostruzione dello stesso come organo costituzionale o di rilievo costituzionale che ho cercato di evidenziare.
Con riguardo invece ai membri laici, questa consiliatura ha visto realizzarsi due elementi di novità: la necessità di una autocandidatura degli aspiranti ad essere eletti dal parlamento in seduta comune, con allegato il proprio curriculum vitae et studiorum, allo scopo di consentire ai parlamentari un voto maggiormente consapevole, nonché la elevazione del numero di membri da otto a dieci.
Quest’ultimo elemento ha determinato la necessità di cambiare pure i termini della convenzione tra i partiti, che fino ad allora era nel senso che gli otto nomi, cinque erano indicati dalla maggioranza e tre dall’opposizione.
In occasione dell’ultimo rinnovo del Consiglio l’aumento di due laici è andato totalmente a vantaggio della maggioranza, passando da un rapporto di cinque a tre ad uno di sette a tre. Ben quattro sono stati i laici indicati dal partito di maggioranza relativa (FdI), i quali pertanto, da soli, sono in grado di bloccare i lavori del Consiglio facendo mancare il numero legale (che è attualmente di sette laici).
Il disegno di riforma costituzionale governativo prevede che pure i membri laici siano estratti a sorte però da un elenco di professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio compilato dal parlamento in seduta comune mediante elezione, “entro sei mesi dall’insediamento”.
A quest’ultimo proposito può essere utile ricordare quanto avvenuto per la individuazione dei sedici giudici aggregati alla Corte costituzionale, allorchè questa opera come giudice penale. L’art. 135 Cost., nella sua prima versione, stabiliva che questi venissero sorteggiati da un elenco di quarantacinque compilato dal parlamento “all’inizio di ogni legislatura”. La revisione costituzionale, avvenuta nel 1967, ha modificato l’art. 135 - il quale adesso prevede che l’elenco sia compilato “ogni nove anni” - con la dichiarata volontà di separare l’operazione dalla maggioranza politica del momento.
Anche nel nostro caso ritengo che, al contrario di quanto previsto nella proposta Nordio, sarebbe preferibile stabilire un termine diverso dalla legislatura per la compilazione dell’elenco dei sorteggiabili.
Trattasi pertanto di un sorteggio che seguirebbe ad una elezione realizzata verosimilmente con le solite convenzioni di spartizione per quote tra le forze politiche, le quali potrebbero essere rese inutili dalla sorte. Per questo, con riguardo all’appena ricordato sistema previsto per la individuazione dei giudici aggregati alla Corte costituzione, si è parlato da più parti (per primo Pizzorusso) di un sistema del tutto irrazionale.
Alle critiche già indicate al metodo del sorteggio, si aggiunga che il nuovo sistema di indicazione dei membri laici non risolve all’evidenza nessuno dei problemi che questo genere di elezione aveva evidenziato.
Ricordo, per tutti, i rilievi di Nicolò Zanon (ribaditi con l’ultima edizione del manuale scritto con Francesca Biondi, maggio 2024, 31), secondo cui “la designazione dei membri ‘laici’, anziché indirizzarsi su personalità di prestigio nel campo accademico o professionale, segue rigide logiche di schieramento o di collateralismo alla politica: ciò rischia di provocare, nel concreto funzionamento del plenum, fenomeni non meno dannosi della spesso lamentata divisione in correnti dei componenti provenienti dalla magistratura”.
5. Segue: le proposte di riforma delle funzioni ed il funzionamento del Csm.
Per quanto concerne le funzioni che l’art. 105 Cost. riconosce al Csm (“assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari”), sono state avanzate due diverse letture della previsione costituzionale.
Semplificando al massimo potremmo indicare una interpretazione estensiva, fondata sulle finalità per le quali il Csm è stato pensato, vale a dire la tutela della indipendenza dei magistrati. Sulla base di questa lettura, maggioritaria ed in larga parte avallata dalla giurisprudenza costituzionale, è stata giustificata l’estensione delle competenze anche fuori dalle materie espressamente elencate nell’art. 105, ma pur tuttavia essenziali alla tutela della indipendenza della magistratura. Si pensi in primis alla c.d. attività paranormativa con cui spesso il Csm ha coperto lacune o integrato i precetti derivanti dalla fonte primaria; al sistema tabellare; alle pratiche a tutela ecc.
Una seconda lettura, minoritaria e spesso riaffiorante al fine di ridimensionare il ruolo del Csm, secondo cui le materie del 105 Cost. debbono essere intese in maniera tassativa, con la finalità di limitare qualsiasi esorbitanza da una funzione che si vorrebbe solo di carattere amministrativo.
Così, all’esplicitato scopo di escludere che il Csm possa svolgere un ruolo contiguo con la politica, alcuni progetti prevedono che le competenze sono da ritenersi tassative, salvo l’attribuzione di ulteriori funzioni con legge costituzionale.
Questi progetti ricordano, nelle loro finalità, quelle proposte di riforma costituzionale avanzate a fronte di decisioni “manipolative” della Corte costituzionale, sgradite alle forze politiche e tendenti a ridurre le sentenze della Corte a quelle di “accoglimento, rigetto e inammissibilità”.
Sull’esempio di quanto previsto per la Corte costituzionale, alcuni progetti prevedono che sia abolita la prorogatio anche per i consiglieri del Csm, con l’effetto di determinare un blocco di qualsiasi attività del Consiglio fino al rinnovo dei componenti (come noto ciò non accade alla Corte costituzionale, in quanto l’organo non viene mai rinnovato integralmente e neppure in parte, ma solo a seguito del termine del mandato di ogni singolo giudice).
Concludo la parte relativa alla indipendenza esterna ed al Csm, con una piccola notazione riguardo al funzionamento del medesimo.
Nell’ampio dibattito che si è avuto a proposito della legge elettorale per il Csm, è stato correttamente posto in rilievo come un sistema di tipo maggioritario risulta confacente ad un organo il quale funziona secondo il criterio di una maggioranza e di una opposizione. Cosa che certamente non vale (o non dovrebbe valere) per il Consiglio superiore, i cui membri, come di recente ha ricordato il Presidente Mattarella, di diversa provenienza e sensibilità sono uniti da un unico scopo e risultato da realizzare: quello di garantire l’autonomia, l’indipendenza e la professionalità dei magistrati.
Durante la consiliatura in corso dobbiamo registrare la formazione di una nuova corrente, forse la più coesa ed unita nelle posizioni da sostenere in plenum, mi riferisco alla corrente dei consiglieri laici di centrodestra. Pensare che il ruolo dei laici o il più alto numero degli stessi viene spesso invocato per superare i guasti prodotti in Consiglio dal correntismo (!).
Scriveva qualche anno fa Gaetano Silvestri: “se si formassero all’interno del collegio maggioranze precostituite e stabili con vincoli di coalizione e guidate da prospettive di indirizzo politico e su accordi pregressi e vincolanti per tutti, sarebbe la negazione del ruolo assegnato al Consiglio superiore dalla Costituzione”.
Un elemento sul quale i componenti, laici e togati, del Csm dovrebbero riflettere è quello di evitare una eccessiva vicinanza ai soggetti della politica in genere ed alla maggioranza di governo in particolare.
Il Consiglio è certamente un soggetto che, nel senso e nei limiti che prima ho cercato di sintetizzare, fa scelte e quindi fa politica, ma la sua politicità è e deve essere del tutto differente da quella espressa dagli organi di indirizzo politico, altrimenti corriamo il rischio che venga a crearsi una sorta di cortocircuito: un organo pensato per garantire l’indipendenza della magistratura dalle influenze esterne e principalmente da quelle provenienti dai soggetti politici che viene a trasformarsi in un soggetto che si preoccupa troppo di “non scontentare” o di “non urtare” questi ultimi o che utilizza strumenti propri della politica (vincolo di gruppo, far mancare il numero legale ecc.).
Un organo nato per garantire l’indipendenza della magistratura dalle pressioni provenienti in particolare dal potere esecutivo che paradossalmente pare, in certe occasioni, voler garantire il governo da possibili decisioni o pareri non in linea con l’indirizzo politico dell’esecutivo.
Quanto il rischio sia concreto e non un’idea astratta pare essere dimostrato dalla esperienza del Consejo general del poder judicial, previsto dalla Costituzione spagnola del 1978 ed ispirato al nostro modello del Csm, la cui eccessiva vicinanza alla politica ha fatto, specie in certi momenti, scendere ai minimi storici il livello di apprezzamento da parte dell’opinione pubblica e del sistema istituzionale nei confronti del Consejo.
6. L’indipendenza interna: i rapporti tra magistratura giudicante e requirente e la proposta di separazione delle carriere.
Passando adesso a svolgere qualche considerazione in ordine alle garanzie di indipendenza interna, vorrei tenere separati tre aspetti, sebbene tutti facenti riferimento a profili interni all’ordine giudiziario. In particolare: a) quello della relazione tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti, con il tema della separazione delle funzioni e delle carriere, che vorrebbe garantire l’imparzialità e terzietà del giudice, senza diminuire le garanzie di indipendenza del p.m.; b) quello della indipendenza del giudice dagli altri giudici e del p.m. dagli altri magistrati della procura; c) quello della indipendenza del magistrato da se stesso, con il dovere non solo di essere indipendente ed imparziale, ma anche di apparire tale.
Il tema della separazione delle carriere rappresenta un “classico” per le riforme dell’ordinamento giudiziario, in ordine al quale pendono attualmente diversi progetti di revisione costituzionale, tra cui ultimamente quello governativo presentato il maggio scorso.
Un simile interesse – tale da essere presentato quale elemento assolutamente centrale della riforma della giustizia nel nostro Paese – parrebbe non avere riscontro nell’opinione pubblica, se è vero che la richiesta di referendum abrogativo tendente ad introdurre la separazione delle carriere, giudicata ammissibile e sottoposta al giudizio del corpo elettorale il 12 giugno 2022, ha segnato il record assoluto di disinteresse fra tutti i referendum abrogativi che finora si sono tenuti (ha infatti partecipato appena il 20,93% degli aventi diritto).
In realtà il maggior numero di questi progetti, che riprendono in larga misura una proposta di iniziativa popolare di revisione costituzionale promossa dalle camere penali nell’ottobre del 2017, vanno ben al di là della separazione delle funzioni o delle carriere per comprendere aspetti che niente hanno a che vedere con la stessa. Essi coinvolgono infatti la eliminazione del termine “altro” dall’art. 104 Cost. di cui già abbiamo detto; le competenze del Csm; la composizione del (o dei) Csm: metà togati e metà laici oppure, per i laici, nomina paritaria (cinque) da parte del Presidente della repubblica e del parlamento in seduta comune; la possibilità di nominare avvocati e professori universitari “a tutti i livelli della magistratura giudicante”; la modifica dell’art. 112 Cost., integrando (quindi negando) la obbligatorietà dell’azione penale, con la specificazione “nei casi e nei modi previsti dalla legge”; l’abrogazione del principio (come vedremo solo parzialmente collegato) per cui i magistrati si distinguono tra loro solo per diversità di funzioni; la eliminazione della prorogatio per il Csm.
Di per sé significativa la lettura delle relazioni con le quali le proposte di riforma costituzionale vengono presentate.
In esse si parla di una magistratura “onnivora” che assimila giudici e p.m. e che tiene innaturalmente uniti l’arbitro e il giocatore; di giudici-magistrati alla ricerca del consenso, pur non essendo eletti, i quali si sottraggono con ostinazione agli interventi del potere legislativo: un abisso istituzionale all’interno del quale la nostra stessa democrazia lentamente sprofonda. Da qui la necessità di operare affinché la politica assuma nuovamente su di sé la responsabilità del governo della società.
Controllore e controllato (giudice e pm) non possono appartenere allo stesso ordine, essere sottoposti allo stesso potere disciplinare, avere “gli stessi meccanismi di selezione elettorale della loro classe dirigente”.
Non si tratterebbe solo di amicizia (prendere insieme il caffè), ma della assenza di una necessaria “inimicizia” intesa in senso politico, come condizione di un indispensabile conflitto, di fisiologico antagonismo tra poteri. Viene denunciata la ipotesi di un giudice che prende le posizioni del pm, fenomeno, a detta del relatore, reso possibile dalla assunzione di una “identica cultura del processo come strumento di contrasto al crimine”. Se entrambi pensano di essere impegnati, sia pure con funzioni differenti, nella medesima lotta contro questo o quel fenomeno criminale, il giudice non potrà mai essere terzo. Necessità quindi di una situazione di “inimicizia” col significato di “separazione dei poteri”.
Con riguardo ai progetti presentati – ed in verità anche in molti degli interventi e delle discussioni che da tempo si tengono sul tema – vale la pena di sottolineare una confusione terminologica (non da poco) tra separazione delle funzioni e separazione delle carriere.
Si legge infatti nella relazione di uno dei progetti per la separazione delle carriere: “funzioni di accusa e decisione sono incompatibili: per le due funzioni valgono principi costituzionali diversi” (progetti ad iniziativa Costa e Giachetti, 2022) oppure si denuncia l’appartenenza a ruoli unificati “con la naturale e corrispondente possibilità di esercitare indifferentemente l’una funzione e l’altra” (progetto Calderone, 2023) (corsivi aggiunti).
Come noto, già da tempo, e definitivamente con la legge Cartabia, il passaggio di funzioni è stato ridotto in una misura tale da essere generalmente ritenuto ormai sostanzialmente precluso.
Un altro elemento importante da sottolineare è quello della fonte attraverso la quale si intende introdurre la separazione delle carriere: se attraverso l’approvazione di una legge ordinaria oppure a seguito di revisione costituzionale.
In proposito, in una nota decisione della Corte costituzionale pronunciata in sede di giudizio di ammissibilità di una richiesta di referendum abrogativo, questa ha sostenuto che la separazione delle carriere non trova un limite nella Costituzione e che può essere quindi realizzata anche attraverso una legge ordinaria, purché rimanga un unico ordine ed un unico Consiglio superiore (sent. 37/2000). La pronuncia è stata poi, più di recente, ribadita con la sent. 58/2022.
Il disegno di legge costituzionale Nordio (2024) procede, attraverso la riscrittura dell’art. 104 Cost., ad introdurre nella Costituzione il principio della separazione delle carriere (“la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”) e la presenza di due distinti Consigli superiori della magistratura.
La giustificazione della separazione dele carriere viene fondata principalmente sulla necessità di garantire la imparzialità e terzietà del giudice ed il principio di parità delle armi, entrambi fondati anche sulla “nuova” versione dell’art. 111 della Costituzione.
Da un lato potremmo ingenuamente chiederci se fino al 1999, anno in cui è stata approvata la revisione costituzionale dell’art. 111, la Costituzione non richiedeva al giudice di essere terzo ed imparziale e se solo a partire da quella data debba ritenersi costituzionalmente valido e vincolante il principio secondo cui un giudice non imparziale non è un giudice, essendo la imparzialità strettamente connaturata alla figura stesso del giudicante (tesi in realtà sostenuta da Sergio Bartole nel suo conosciuto volume su autonomia e indipendenza della magistratura, edito nel 1964).
Altrettanto ingenuamente potremmo chiederci se attualmente, e fintanto che la separazione delle carriere non sarà realizzata, i giudici non possono essere ritenuti terzi, con possibilità ad esempio di denunciare una simile violazione davanti alla Corte di Strasburgo (art. 6 Cedu).
In ogni caso la parità di cui si discute è comunque una parità funzionale e non ordinamentale, dal momento che è cosa a tutti evidente che il pubblico ministero, in quanto soggetto pubblico, è una parte diversa da quella privata.
La parità delle armi è quella endoprocessuale, garantita dalle norme processuali ed in questo l’art. 111 della Costituzione ha poca incidenza. È accaduto in varie occasioni, e specialmente quando la Corte costituzionale era chiamata a decidere questioni di costituzionalità di grosso rilievo (ad esempio la disciplina sui pentiti, le immunità previste dal c.d. lodo Alfano), che il pubblico ministero presente nel giudizio a quo avesse chiesto di costituirsi nel processo costituzionale, facendo valere la propria qualità di “parte” del giudizio, specie a seguito dell’entrata in vigore del nuovo processo penale.
La Corte costituzionale ha respinto simile richiesta, rilevando come a niente vale il carattere del nuovo processo penale, restando ciò nonostante netta la differenza con la parte privata. La Corte ha, nell’ultima occasione, preso espressamente in considerazione, per decidere sulla legittimazione del pubblico ministero a costituirsi, il “nuovo” art. 111 Cost. ed ha concluso che tale disposizione non comporta una identità di poteri processuali, potendo un diverso trattamento essere giustificato, nei limiti della ragionevolezza, da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia per la peculiare posizione del pubblico ministero e che nel processo costituzionale la parità di armi non impone che al pubblico ministero siano riconosciuti gli stessi poteri spettanti alle parti private.
In un recente volume scritto da un magistrato favorevole alla separazione delle carriere (Bono, Meglio separate, Firenze 2023) si legge “avvocato e pm indossano entrambi la toga ed hanno l’onere di convincere il giudice della bontà della loro tesi. Toga uguale ma che non pesa allo stesso modo: da un lato il p.m. rappresenta ed ha dietro l’apparato statale, l’avvocato ha dietro solo il suo cliente”.
Quanto agli effetti della riforma, scriveva Gaetano Silvestri nel 2004: “spero vivamente di non dover ricordare tra qualche anno agli entusiasti sostenitori della separazione delle carriere, che hanno volutamente rinunciato ad una parte delle loro garanzie, favorendo la formazione di una categoria di accusatori di professione sempre più avulsi dalla giurisdizione in senso stretto e sempre più animati dall'ansia di risultato”.
Senza voler apparire provocatorio (anche se certamente démodé), potrebbe essere rilanciata, a mio avviso, la proposta, opposta a quella della separazione, sostenuta dal mio illustre Maestro (Alessandro Pizzorusso) di rendere non facoltativo ma al contrario obbligatorio un periodo di permanenza del magistrato in entrambe le funzioni, al fine di acquisire quella che viene comunemente indicata, anche se con terminologia imprecisa, come la cultura della giurisdizione.
Appare infatti in sé contradittorio sostenere, da un lato, la separazione delle carriere e giudicare, dall’altro, positivamente, ai fini ad esempio della valutazione di professionalità e dell’attribuzione di incarichi direttivi o semidirettivi, l’aver maturato esperienze diverse ed in particolare sia nella funzione requirente che in quella giudicante.
7. La proposta di due diversi Csm: problemi applicativi e di funzionalità degli organi.
Quale conseguenza della separazione delle carriere viene spesso prevista la creazione di due distinti Csm, uno per la magistratura giudicante, l’altro per quella requirente.
Questa innovazione è presente pure nel progetto di revisione Nordio, il quale stabilisce che i due Consigli siano entrambi presieduti dal Capo dello Stato e che siano, rispettivamente, membri di diritto il primo presidente della cassazione ed il procuratore generale presso la stessa. La composizione resta per due terzi di togati ed un terzo di laici, scelti, come già abbiamo visto, con il sistema del sorteggio.
Le funzioni rimangono sostanzialmente le stesse (la dizione “promozioni” viene sostituita con “valutazioni di professionalità e conferimento di funzioni”), tranne per quella disciplinare che viene trasferita ad una “Alta Corte disciplinare”, come vedremo esterna al Csm.
Al proposito Nicolò Zanon ha avvertito sul rischio, con due Consigli, di dare vita ad una sorta di “Prokuratura” della funzione d’accusa, organo destinato a scaricare nell’ordinamento la forza sostanziale ed inquietante della funzione d’accusa, forza accresciuta da essere protetta, garantita e rappresentata da un organismo esponenziale separato e del tutto autonomo e non responsabile.
Un forum organizzato dalla rivista “Gruppo di Pisa” e pubblicato proprio in questi giorni, poneva tra le domande quella di esprimere un giudizio circa la creazione di due Csm.
Le risposte sono state quasi tutte negative: Balduzzi ha scritto che “l’esistenza di un Csm unitario rappresenta il più esplicito indicatore e, al contempo, il primo vincolo costituzionale nel senso della unitarietà dell’ordine della magistratura titolare del potere di esercitare la giurisdizione. La creazione di due organi separati altera quel modello perché punta alla formazione di due magistrature non solo funzionalmente, ma pure istituzionalmente e culturalmente distinte”; Silvestri ha rilevato come “lo sdoppiamento degli organi di garanzia della magistratura (…) mi sembra destinato a creare complicazioni e contraddizioni per la prevedibile formazione di orientamenti diversi, specie sui criteri di valutazione dei magistrati e altri importanti materie concernenti l’amministrazione della giurisdizione”.
Superato l’aspetto strettamente formale di costituzionalità – attraverso la nuova formulazione degli artt. 104 e 105 della Costituzione – restano molti gli aspetti critici circa la concreta realizzazione dei due Csm ed il loro concreto funzionamento.
La relazione illustrativa parla di “due consigli esattamente sovrapponibili tra loro”, per cui è prevedibile che ogni Csm abbia le proprie commissioni e quindi i propri magistrati-funzionari. L’Ufficio studi e documentazione - per il quale la l. Cartabia ha previsto un organico di dodici componenti, aprendo oltre ai magistrati anche a docenti universitari e avvocati – sarà pure questo sostituito da due distinti Uffici studi ognuno con un proprio organico?
La funzione di fornire pareri sulle iniziative normative attinenti l’ordinamento giudiziario e di approvare la relazione al parlamento sullo stato della giustizia, sarà esercitata da entrambi i Csm con il metodo della navette parlamentare oppure ogni Consiglio presenterà il suo parere o la sua relazione?
Ugualmente l’attività c.d. paranormativa (circolari ecc.) seguirà pure questa, per gli aspetti comuni a tutti i magistrati, il sistema della navette?
Quale sarà, in questo caso, il riflesso sui tempi e l’efficienza dei lavori consiliari?
Ancora: quale conseguenza della separazione saranno previsti due differenti concorsi di ammissione? Pensando alle attuali prove scritte ed orali, sarà possibile distinguere la preparazione giuridica richiesta agli aspiranti giudici rispetto agli aspiranti pubblici ministeri?
La recentissima introduzione della prova psicoattitudinale avrà caratteristiche diverse a seconda che si tratti di concorso per giudicanti oppure per requirenti?
Ricordo come questa ipotesi fosse già stata presentata anni addietro in termini pressochè identici (vale a dire una prova psicoattitudinale da tenersi dopo aver superato le prove scritte e prima di sostenere quelle orali), rispetto alla quale Silvestri (Convegno Aic 2004, i cui atti sono stati pubblicati nel 2008) si chiedeva “come si farà a capire se un soggetto è ‘adatto’ ad esempio a fare il pubblico ministero e non il giudice? Ci sarà uno strumento per misurare l’attitudine alla terzietà? Gli si chiederà se da bambino partecipava alle baruffe con i suoi compagni di scuola o se ne teneva sdegnosamente lontano?”.
La legge Cartabia, come noto, ha attribuito alla Scuola superiore della magistratura il compito di organizzare, anche a livello decentrato, corsi di preparazione al concorso in magistratura.
Dovranno essere organizzati due corsi diversificati (per l’accesso alla carriera giudicante ed a quella requirente)?
Più ancora, per l’attività di aggiornamento dei magistrati e per tutte le competenze attribuite alla Ssm, dovranno, al pari dei due Csm, essere create due differenti Scuole superiori, ovviamente con due diversi consigli direttivi?
8. La istituzione dell’Alta corte di disciplina.
Il recente disegno di legge costituzionale contiene anche una misura non strettamente dipendente dalla separazione delle carriere e in più occasioni apparsa dalla fine del secolo scorso nelle proposte di revisione costituzionale del titolo IV della parte seconda della Costituzione, vale a dire la istituzione di un’Alta corte disciplinare.
Spesso è stato posto in discussione il riconoscimento al Csm, e per esso ad una apposita sua sezione, della funzione di pronunciarsi, in veste di giudice, sugli illeciti disciplinari dei magistrati. Elemento pure questo di evidente diversificazione della posizione del magistrato rispetto a quella degli altri pubblici dipendenti, per i quali la responsabilità disciplinare è fatta valere attraverso un procedimento di tipo amministrativo e davanti alla amministrazione di appartenenza.
Una previsione, quella dell’art. 105 Cost., tendente all’evidenza a garantire la indipendenza della magistratura rispetto al titolare della amministrazione della giustizia.
La delicatezza della materia consiste appunto nella necessità di bilanciare la responsabilità disciplinare cui anche il magistrato, come pubblico dipendente, non può certo essere sottratto, con la tutela della indipendenza, ad evitare un uso strumentale ed intimidatorio dello strumento disciplinare.
Le ragioni avanzate per una eventuale riforma della materia sono state essenzialmente due: a) la denuncia di una giustizia troppo domestica e corporativa, con rare ipotesi di condanna; b) una pericolosa confusione tra funzioni di amministrazione della giurisdizione (specie trasferimenti per incompatibilità ambientale, valutazioni di professionalità e incarichi direttivi) con quelle giurisdizionali del giudizio disciplinare.
Ad attenuare gli inconvenienti derivanti dalle seconde (sub b), in via di legislazione ordinaria, è stata modificata la disciplina relativa alla composizione della sezione disciplinare, stabilendo ad esempio la incompatibilità dei consiglieri membri della disciplinare con l’essere componenti delle commissioni I (incompatibilità), IV (professionalità) e V (direttivi e semidirettivi).
Pur ritenendo questa innovazione certamente apprezzabile, è stato fatto osservare che i componenti della disciplinare partecipano comunque (e non potrebbe essere altrimenti) alle votazioni in plenum su tutte le pratiche, comprese quelle istruite dalle suddette commissioni.
Diverse le soluzioni e le competenze riconosciute alla Corte di disciplina nelle diverse proposte avanzate. In quella più recente del ministro Nordio è prevista un’unica Alta Corte disciplinare, nei riguardi dei magistrati giudicanti e requirenti, composta da quindici giudici (tre di nomina del Presidente della repubblica e tre estratti a sorte da un elenco compilato dal parlamento in seduta comune fra professori universitari ordinari di materie giuridiche e avvocati con almeno venti anni di servizio; sei magistrati giudicanti e tre requirenti estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie, con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità).
Le sentenze dell’Alta Corte sono impugnabili, anche per motivi di merito, solamente dinanzi alla stessa Corte, in diversa composizione rispetto al collegio che ha emesso la decisione impugnata.
Solo qualche breve osservazione.
La motivazione sub a) appare chiaramente fragile e difficilmente sostenibile. In ogni caso non si vede perché l’Alta Corte, composta per due terzi da magistrati come la disciplinare, dovrebbe garantire maggiormente sotto l’aspetto del corporativismo e dell’atteggiamento generalmente assolutorio.
L’Alta Corte è qualificabile quindi come un giudice speciale, il quale potrebbe porre dei dubbi di conformità con l’art. 102 che fissa il divieto di istituire giudici speciali, eccetto le deroghe espressamente previste nel testo costituzionale.
Tra queste sarebbe da ricomprendere anche la sezione disciplinare, sul presupposto della attribuzione al Csm della competenza a pronunciare “provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati” (art. 105 Cost.).
La tesi non è stata mai avallata esplicitamente dalla Corte costituzionale, che si è limitata a riconoscere alla sezione disciplinare la qualifica di “giudice” ai limitati fini della legittimazione a proporre questioni di costituzionalità, senza prendere posizione circa la sua natura, amministrativa o giurisdizionale.
L’istituzione dell’Alta Corte attraverso una puntuale riforma della Costituzione sembra comunque poter superare tali dubbi.
Pure il metodo del sorteggio, allo scopo di indicare i componenti di un organo giurisdizionale (come le corti di assise, il tribunale dei ministri o la Corte costituzionale integrata), pone a mio avviso dubbi decisamente minori.
Ci potremmo chiedere infine se debba ritenersi, ai sensi dell’art. 111 Cost., che anche le sentenze in appello dell’Alta Corte siano comunque ricorribili in cassazione, per violazione di legge e se possa ritenersi giustificata la limitazione posta ai magistrati di svolgere o aver svolto funzioni di legittimità.
9. L’indipendenza interna con riguardo alla magistratura giudicante e la proposta di abrogazione dell’art. 107.3 della Costituzione.
Passando adesso agli aspetti relativi alla indipendenza interna, esaminerò separatamente quelli relativi alla magistratura giudicante rispetto alla magistratura requirente.
Per i primi le disposizioni costituzionali che vengono maggiormente in considerazione sono quelle relative al principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25.1), alla soggezione dei giudici solo alla legge (art. 101.2) ed alla distinzione dei magistrati fra loro soltanto per diversità di funzioni (art. 107.3).
Come ricorda Pizzorusso, se in un primo momento la maggiore attenzione fu concentrata sui profili della indipendenza esterna, nella fase di attuazione dei principi costituzionali – e di realizzazione di quello che poi diverrà il modello italiano di ordinamento giudiziario – sarà l’indipendenza interna del giudice il principale banco di prova della realizzazione del principio costituzionale di indipendenza della magistratura.
Il modello costituzionale trova infatti le maggiori resistenze alla sua realizzazione nell’assetto gerarchico della magistratura ereditato dall’ordinamento precedente ed il principio di indipendenza interna si deve confrontare con gli aspetti pratici del funzionamento della giustizia quali il potere di individuazione del giudice competente, di assegnazione delle cause, di formazione dei collegi, di organizzazione degli uffici e quanto altro.
Allo scopo un ruolo di primo piano viene svolto dalla garanzia dell’art. 25.1 Cost. che vieta la distrazione dal giudice naturale precostituito dalla legge.
A partire dalla storica decisione della Corte costituzionale del 1962, viene infatti superata la equiparazione del principio in questione con il divieto di istituire giudici straordinari e il campo di applicazione della riserva di legge in ordine alla determinazione del giudice viene individuato in quello della competenza del giudice, che deve pertanto essere individuata solo dalla legge ed in anticipo rispetto al fatto da giudicare.
La riserva di legge, a differenza di quanto avviene solitamente, non svolge i suoi effetti per limitare i poteri di normazione secondaria del governo, quanto quelli dei “capi” degli uffici giudiziari.
Centrale, negli anni Settanta ed Ottanta del secolo scorso, la interpretazione del termine “giudice” (naturale) quale organo giudicante oggettivamente inteso (tribunale, corte d’appello ecc.) oppure come persona fisica componente l’organo.
Molte le discussioni e diverse ed oscillanti le prese di posizione da parte del Csm, della Cassazione e della Corte costituzionale. Oggi la seconda opzione può ritenersi assolutamente dominante.
Difficile pensare ad una realizzazione della riserva di legge portata fino alla individuazione dei singoli componenti l’organo giudicante, per questo, prima a livello di circolari del Csm poi con fondamento nella legislazione primaria, viene realizzato il c.d. sistema tabellare e trova diffusione la cultura del giudice naturale, anche quando la violazione del sistema tabellare non trova una efficace risposta a livello ordinamentale.
Il fondamento della indipendenza interna del giudice - sulla quale si fonda la presunzione assoluta in base al quale un giudice individuato in maniera diversa ed arbitraria non può essere ritenuto un giudice indipendente ed imparziale – è da sempre individuata nella previsione costituzionale per cui “i magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni”.
Quest’ultima disposizione viene puramente e semplicemente abrogata, spesso senza neppure un rigo di motivazione, da quasi tutti i progetti di riforma costituzionale pendenti che intendono introdurre la separazione delle carriere (non così il più recente progetto Nordio).
Una simile operazione non può che lasciare quanto meno perplessi quanti hanno letto e inteso quella disposizione come il superamento della organizzazione gerarchica della magistratura (al cui interno le distinzioni sono appunto per diversità di funzioni e non per gradi).
Volendo individuare una giustificazione alla prevista abrogazione, questa la si può vedere nella volontà del legislatore costituzionale di affermare che la distinzione non è solo per funzioni, in quanto per magistrati giudicanti e requirenti viene introdotta una diversità di carriera.
Quand’anche fosse così, non si può negare che la semplice abrogazione porta con sé un significato che va ben oltre le finalità perseguite, finendo con il gettare, insieme all’acqua sporca, pure il bambino. Altre infatti avrebbero potuto essere le possibilità di riformulazione del principio che il legislatore costituzionale avrebbe potuto utilizzare.
Nel già ricordato Forum organizzato dalla rivista Gruppo di Pisa, il giudizio degli intervenuti è stato in proposito assai negativo.
Così, per citarne alcuni, Balduzzi sottolinea le conseguenze di portata sistemica ulteriori rispetto alla separazione delle carriere e la conseguente violazione del principio di indipendenza; Dal Canto definisce maldestro l’operato del legislatore che rischia di produrre effetti ulteriori e preoccupanti; Ferri si interroga su quali potrebbero essere le ripercussioni della eliminazione di un caposaldo dell’indipendenza interna dei magistrati; Ferro rileva come viene abrogato il baluardo formale di indipendenza interna funzionale che non ammette strutturazioni della magistratura improntate al principio gerarchico; Silvestri sostiene che “l’abrogazione (…) segnerebbe il tracollo definitivo dell’indipendenza interna della magistratura”.
Di fronte ad una abrogazione “secca” dell’art. 107.3 Cost. ed al significato che il principio rappresenta per il modello di magistratura voluto dalla Costituzione, ci potremmo chiedere se non sia possibile in questo caso parlare di una legge di revisione incostituzionale in quanto, seguendo la giurisprudenza costituzionale inaugurata nel 1988, non rispettosa del limite implicito alla revisione, rappresentato dai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.
10. L’indipendenza interna con riguardo alla magistratura requirente: il principio di obbligatorietà dell’azione penale ed i criteri di priorità quale contenuto obbligatorio del progetto organizzativo della procura.
Per la indipendenza interna della magistratura requirente, le disposizioni costituzionali che vengono in considerazione sono essenzialmente l’art. 107.4 (“il p.m. gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme dell’ordinamento giudiziario”) e l’art. 112 (“il p.m. ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”).
Ai magistrati del pubblico ministero viene, come noto, riconosciuta una equiparazione pressoché totale alla posizione dei magistrati giudicanti quanto alle garanzie di autonomia ed indipendenza esterna e comunque – nonostante le oscillazioni conseguenti agli interventi normativi delle leggi Castelli e Mastella, in parte poi recuperati dalle interpretazioni fornite dal Consiglio superiore e dalla Corte di cassazione – l’opportunità di una indipendenza interna, seppur in misura ridotta rispetto a quella del giudice.
Di notevole importanza a questo riguardo il recente riconoscimento, da parte della legge Cartabia e poi della circolare del Csm, della estensione anche per le procure di un sistema analogo a quello del tabellare per gli organi giudicanti.
Il principio di obbligatorietà dell’azione penale, mentre è giustificato dalla realizzazione dei principi di legalità e di uguaglianza di tutti davanti alla legge, trova altresì il suo fondamento nel principio di indipendenza sia esterna che interna, dell’attività del p.m.
Assai dibattuto in proposito il tema dei criteri di priorità, del loro fondamento giuridico e della loro legittimità costituzionale, anche con riguardo al principio di indipendenza.
Il problema si è posto principalmente per la c.d. priorità extralegale – vale a dire diversa da quella espressamente prevista dalla legge (art. 132 bis disp. att. c.p.p.) – a fronte del principio di obbligatorietà dell’azione penale.
Un fondamento legale per i criteri di priorità è stato da alcuni individuato nei poteri che l’art. 1 d. leg. 106/2006 riconosce al procuratore della repubblica e la giustificazione degli stessi è stata individuata nei principi della ragionevole durata del processo, del corretto e uniforme esercizio dell’azione penale, nonché dell’uso di risorse tecnologiche e finanziarie.
I profili di costituzionalità hanno riguardato più in particolare un supposto contrasto con l’obbligatorietà dell’azione penale, da un lato, e con quello di indipendenza interna del p.m., dall’altro.
Sotto il primo aspetto credo si possa sostenere che il principio di obbligatorietà non può essere inteso
in una accezione assolutistica, ma vada necessariamente bilanciato con altri interessi di pari rilevanza costituzionale (buon andamento, giusto processo, durata ragionevole del processo). Ciò nella convinzione che una rigida applicazione del principio di obbligatorietà in sistemi ed uffici inflazionati può determinare un aggravamento della situazione di inefficienza, nonché una violazione del principio di eguaglianza a fronte di una disomogeneità di scelte da parte dei singoli procuratori.
Con riguardo invece al principio di indipendenza interna del p.m. la scelta a favore di un assetto verticistico degli uffici di procura è stata rimodulata in chiave funzionale dal Csm (risoluzioni 2007, 2009 e poi 2016) in base al principio cardine per cui l’assetto disegnato dal d. leg. 106/2006 deve svilupparsi secondo un modulo di orizzontalità e non di verticalità e di gerarchia.
Proprio nel perseguimento di tali finalità trova fondamento la legittimazione ad adottare criteri di priorità.
Non trovo convincente la tesi per cui questi ultimi rafforzerebbero la posizione gerarchica del dirigente e ridurrebbero l’autonomia funzionale interna dei singoli magistrati, mentre mi pare maggiormente condivisibile che nella indicazione di criteri di priorità possono operare strumenti di tutela della autonomia dei magistrati del p.m. e di una loro partecipazione alle scelte ed alla formazione dei progetti organizzativi.
La legge Cartabia (art. 13) ha previsto che nella predisposizione del progetto organizzativo dell’ufficio, il procuratore della repubblica indichi criteri di priorità finalizzati a selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto “del numero degli affari da trattare, della specifica realtà criminale e territoriale e dell’utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili”. Ciò “nell’ambito dei criteri generali indicati dal parlamento con legge”; al Csm è inoltre attribuito il compito di indicare “i principi generali” in conformità dei quali dovrà essere predisposto il progetto organizzativo della procura.
La legge 71/2022 viene quindi ad offrire una copertura normativa ai criteri di priorità adottati dagli uffici requirenti, mantenendo intatta la loro identità di strumento di mera organizzazione dell’attività giudiziaria.
La realizzazione di quanto previsto vede pertanto il coinvolgimento del parlamento, del Csm e del procuratore della repubblica, con ruoli e modi di operare diversi e mentre il parlamento lo farà ovviamente in astratto, i procuratori sono chiamati ad operare sul piano concreto delle esigenze territoriali.
Il primo stabilirà i criteri generali sulla base di criteri valoriali, frutto di elaborazione politica, per cui i criteri di priorità da strumento di organizzazione dell’attività interna agli uffici requirenti diventano una modalità di orientare la funzione giurisdizionale verso il perseguimento di specifici obiettivi di politica criminale.
Per questo la necessità che lo strumento permanga uno strumento duttile, da adattarsi ai casi concreti, anche se il procuratore non potrà discostarsi dall’indirizzo del parlamento, specie se i criteri da questo prescelti dovessero rivelarsi inadeguati per la situazione del suo ufficio, con il rischio che vada a perdersi il vantaggio della introduzione nell’ordinamento dell’obbligo di adozione, da parte dei dirigenti, dei criteri di trattazione prioritaria degli affari.
11. La indipendenza del giudice da sé medesimo: la fiducia nella giustizia e l’“apparenza di imparzialità”. I casi Apostolico e Toti e la necessità di un bilanciamento tra i diversi valori.
Concludo con qualche breve riflessione in ordine al tema che possiamo indicare come quello della indipendenza del magistrato da sé medesimo, il quale parrebbe in qualche misura richiamare la celebre vignetta di Altan raffigurante due Cipputi identici in cui l’uno si rivolge all’altro dicendo: “talvolta mi vengono in mente idee che non condivido”.
La garanzia di indipendenza in parola trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 101 Cost., secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge, la cui finalità, come noto, è quella di rendere il giudice libero da qualsiasi pressione esterna o interna nel momento della decisione. Concetto che si esprime meglio attraverso la nozione di imparzialità e terzietà del giudice.
Questo aspetto con l’entrata in vigore della Costituzione ed il diverso ruolo da questa assegnato alla magistratura ha assunto una importanza ed un rilievo più percepibile e quindi lo ha reso oggetto di maggiore attenzione.
Ormai superato – se mai è esistito – il giudice bocca della legge, meccanico applicatore della volontà del legislatore, si è da tempo preso atto della esistenza, accanto al diritto politico, di un diritto giurisprudenziale e del fatto che anche il giudice “crea” diritto.
Non è certo questa la sede per parlare di un tema così vasto e controverso, mi limito a precisare che, seguendo la terminologia di Luigi Ferrajoli, il riferimento alla creazione del diritto viene fatto non “in senso forte” (creare un diritto che non c’è), ma “in senso debole” (a sottolineare il crescente spazio di discrezionalità che viene riconosciuto, per molte ragioni, al giudice nella sua attività di interpretazione, che sempre e comunque precede quella di applicazione della legge).
È certo che il giudice non è paragonabile ad un legislatore, in considerazione della indubbia differenza di metodo, di limiti e di legittimazione nel sistema costituzionale, nella “creazione” del diritto.
La innegabile valorizzazione del diritto giurisprudenziale, cui abbiamo assistito dall’entrata in vigore della Costituzione ad oggi, sia a livello nazionale che sovranazionale, giustifica la maggiore attenzione al rispetto dei valori della indipendenza ed imparzialità anche sotto il profilo della indipendenza da sé stessi. Ciò in quanto, come già detto, la legittimazione dell’attività del giudice trova fondamento principalmente nella fiducia che i destinatari delle decisioni ripongono nella magistratura.
Una legge, ancorché non condivisa, si rispetta in quanto approvata dai nostri rappresentanti seguendo il procedimento e le maggioranze costituzionalmente previsti, mentre una sentenza, ancorchè non condivisa, si rispetta in quanto pronunciata da un giudice indipendente, imparziale e professionalmente preparato.
Su questa base trova giustificazione l’affermazione, ripetuta un’infinità di volte e in moltissime diverse occasioni, secondo la quale il giudice deve non solamente essere imparziale, ma altresì apparire come tale.
Se non si può non concordare sull’importanza di apparire imparziali (quale fondamento della fiducia), appare altrettanto evidente come la relativa nozione risulta nei suoi contorni assai sfuggente ed il richiamo alla stessa, se non meglio precisata, può risultare pericolosa per i diritti fondamentali del magistrato ed in fondo per la sua stessa serenità di giudizio.
Il d. leg. 109/2006 prevedeva espressamente due ipotesi di illecito disciplinare collegate con la “apparenza di imparzialità”. La prima stabiliva infatti che “il magistrato, anche fuori dall’esercizio delle proprie funzioni, non deve tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio della istituzione giudiziaria” (art. 1.2), la seconda sanzionava, tra gli illeciti commessi fuori dell’esercizio delle funzioni, “ogni altro comportamento tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza” (art. 3). (corsivo aggiunto)
Entrambe queste disposizioni sono state espressamente abrogate, con la chiara finalità di non far rientrare queste ipotesi tra quelle tassative per le quali soltanto è possibile sottoporre un magistrato a procedimento disciplinare (manca infatti, volutamente, una clausola finale di chiusura).
Esclusa la possibilità di ricondurre l’apparenza di imparzialità ad una figura tipica di illecito disciplinare, per dare alla stessa un rilievo ed un significato resta da chiederci quale sia il soggetto più idoneo ad accertarne la violazione, con quali strumenti (controllo di professionalità; codice deontologico) e con quali sanzioni.
Certamente esso non è il governo o per lui il ministro della giustizia, i quali dovrebbero assolutamente astenersi dall’esprimere giudizi, salvo farsi promotori di provvedimenti normativi, qualora ritenuti necessari.
Al proposito vado a terminare ricordando in proposito due casi recenti, uno addirittura proprio di questi giorni (agosto 2024): il caso Apostolico e quello del presidente della regione Liguria Toti.
Il primo caso, assai pubblicizzato, riguarda un provvedimento pronunciato da un magistrato di Catania con cui non veniva convalidato, in quanto ritenuto in contrasto con il diritto dell’Unione europea e con la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo (puntualmente citata), il provvedimento con cui era stato disposto il trattenimento di quattro migranti emesso da questore di Ragusa.
Senza alcun cenno al contenuto della decisione ed alla sua motivazione, la pronuncia viene giudicata “incredibile” (in quanto disapplica una legge dello Stato!) dalla presidente del consiglio dei ministri in carica e la magistrata viene definita da politici aventi anche responsabilità istituzionali, come “scafista in toga”, “nemica della sicurezza sociale” o con un epiteto più classico “toga rossa”.
Tutto ciò quale conseguenza di un video, risalente a cinque anni prima, che ritraeva la partecipazione della magistrata ad una pacifica manifestazione nella quale si chiedeva al governo di far approdare una nave e permettere ai passeggeri, tra i quali minori e donne, di scendere a terra ed essere soccorsi, in quanto alcuni versavano in condizioni di salute precaria,.
Il ministro Nordio ha sostenuto che “la magistrata poteva andare alla manifestazione, ma non doveva” (comportamento quindi legittimo, ma inopportuno?), mentre il ministro Salvini ha scritto che la vicenda mostra chiaramente la necessità ed urgenza di una riforma della giustizia e di una separazione delle carriere (sic!).
Della vicenda si sono occupati in quei giorni giornali e mezzi di comunicazione, dando tutta una serie di notizie, tra le quali quella per cui sulla vicenda il Csm si sarebbe spaccato.
In realtà devo dire, quale componente del Consiglio, di aver firmato una richiesta di pratica a tutela della dottoressa Apostolico, priva al momento di qualsiasi seguito, mentre ho difficoltà a capire su che cosa il Consiglio si sia spaccato, dal momento che né in plenum, né nelle commissioni alle quali partecipo, mai si è aperto un dibattito sulla vicenda. Evidentemente i giornalisti sono più informati.
In questi giorni molta attenzione è rivolta al caso Toti ed al relativo giudizio.
A parte ogni valutazione sulle diverse posizioni assunte in ordine ai rapporti tra giustizia e politica che esula dai limiti di questo intervento, vorrei richiamare il caso solo per sottolineare come i giudici competenti a giudicare sono stati pubblicamente segnalati per violazione della condizione richiesta alla moglie di Cesare. Quello che ha firmato gli arresti e respinto la domanda di revoca, in quanto figlio di un ex consigliere comunale della Margherita e poi del Pd, nonché quello facente parte del collegio giudicante (composto da tre magistrati, ritenuti dal giornalista “al di sopra di ogni sospetto e professionalmente solidi”), in quanto fratello di un già onorevole del M5S, poi uscito e fondatore di un nuovo partito (NOI). (Senaldi, Libero, 6 agosto 2024).
Per il caso della “apparenza di imparzialità” credo sia utile rileggersi quanto affermato dalla Corte costituzionale in una decisione ormai risalente (100/1981), nella quale ebbe a sottolineare come: “deve riconoscersi - e non sono possibili dubbi in proposito - che i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino ma deve del pari ammettersi che le funzioni esercitate e la qualifica da essi rivestita non sono indifferenti e prive di effetto per l'ordinamento costituzionale”, aggiungendo che “i magistrati, per dettato costituzionale, debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità: nell'adempimento del loro compito”.
In quella occasione la Corte fece espressamente riferimento alla necessità di operare un bilanciamento tra i differenti interessi in gioco. Questo, come noto, deve condurre alla individuazione dell’interesse prevalente per poi ridurre al minimo i riflessi negativi sull’altro interesse in gioco, pure espressivo di valori costituzionali e deve necessariamente essere sempre condotto non in astratto una volta per tutte, bensì in concreto, ponendo a confronto le specifiche fattispecie.
Il risultato pertanto può essere che, sulla base delle particolarità di queste ultime, in un caso si ritenga debba prevalere l’uno (l’apparenza di imparzialità), mentre in altro caso il diverso interesse (il diritto fondamentale del magistrato).
Immagine: scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a. C. da un sarcofago.
La dignità della persona.
Gli obiettivi indefettibili della nostra democrazia costituzionale.
di Antonio D’Andrea
Sommario[1]: 1. La democrazia sociale italiana e il valore fondante della dignità della persona. – 2. La stretta connessione tra la dignità sociale e il principio personalista, anche attraverso lo “scudo” della tutela giurisdizionale. – 3. Dalla dignità della persona alla salvaguardia dei suoi nuovi diritti, passando per l’evoluzione della sensibilità sociale.
1. La democrazia sociale italiana e il valore fondante della dignità della persona.
Il valore della dignità – che diviene principio nella complessa trama costituzionale – emerge, com’è noto, in diverse occasioni. Esso è stato più volte richiamato dal Giudice costituzionale per precisare la portata di posizioni giuridiche soggettive anche assai differenti tra loro: dall’aiuto al suicidio (sent. 242/2019) alle “nuove forme” di maternità, in particolare rispetto alle relazioni omosessuali femminili (sent. 32/2021); dal reato di diffamazione a mezzo stampa (ord. 132/2020) al diritto all’affettività per le persone detenute (sent. 10/2024).
La dignità è nondimeno espressamente citata dal Testo costituzionale (articoli 3, primo comma; 36, primo comma; 41, secondo comma) con declinazioni e significati differenti. Sia sufficiente osservare che nella prima delle richiamate disposizioni il Costituente ha qualificato la dignità come “sociale” e l’ha riconosciuta a tutti i cittadini, a prescindere dalle condizioni (lato sensu) personali e sociali di ciascuno. Nelle altre due, invece, essa è calata in un contesto specifico quale è l’attività lavorativa, pur tuttavia con sfumature che ne cambiano profondamente i connotati. Nell’art. 36 Cost. la dignità viene impiegata come criterio per guidare il legislatore nella determinazione del livello minimo della retribuzione; nell’art. 41 Cost., invece, è servente a stabilire i limiti relativi all’esercizio dell’iniziativa economica privata.
Alla luce di tali richiami, si ritiene che il lavoro possa costituire un angolo di osservazione privilegiato per provare a offrire qualche considerazione attorno al principio della dignità umana partendo dal presupposto che la persona è immersa in un contesto profondamente sociale, il che evidenzia come l’attività lavorativa –al pari dell’istruzione del resto – sia imprescindibile per la formazione e lo sviluppo della personalità di ciascuno, realizzandosi attraverso un percorso che consente, e in certa misura impone, a tutti di partecipare al progresso del Paese.
D’altronde, non sarebbe possibile immaginare la collocazione di una persona all’interno della società, dove afferma e/o difende la sua personalità, se non fosse posta nelle condizioni di dare un contributo alle relazioni sociali attraverso lo svolgimento di attività materiali o intellettuali che hanno una utilità, diretta o indiretta, per tutti i consociati. La norma costituzionale non si riferisce esclusivamente ad attività contraddistinte da un riscontro in qualche misura economico, poiché ciò che è valorizzato è il positivo riverbero sociale delle mansioni svolte, che perciò possono compiersi anche nella forma del volontariato (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 75 del 1992).
Va da sé, però, che siccome la grande maggioranza dei membri della comunità ha bisogno di lavorare per assicurarsi una sussistenza, tali attività solo raramente si verificano «per libera e spontanea espressione della profonda socialità che caratterizza la persona» (Corte costituzionale, sentenza n. 75 del 1992, § 2 Cons. dir.). Di norma, infatti, il contributo dei consociati al progresso del Paese si verifica a valle di un calcolo utilitaristico che presuppone un corrispettivo all’esito dello svolgimento di una funzione, sia anche di carattere sociale (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 202 del 1992).
Si ritiene, dunque, che il lavoro – cioè, come detto, qualsiasi opera che abbia un riscontro per lo sviluppo del Paese – sia in grado di veicolare la dignità perché, per dirlo con parole semplici, senza lavoro non c’è dignità; la relazione biunivoca tra i due termini è trattata in maniera specifica dalla Carta del ‘48, la quale precisa che l’imprenditore deve rispettare la salute, la sicurezza, la libertà e la dignità di chi rende possibile l’attività d’impresa (art. 41, secondo comma).
La tutela dei lavoratori è un valore fondante e nient’affatto subalterno alle ragioni dell’attività d’impresa, tanto che il legislatore ordinario dovrebbe insistere convintamente in questa direzione, se dal caso anche rinunciando al rispetto dei vincoli (forse impropriamente chiamati principi) posti dal livello di governo sovranazionale relativi all’equilibrio di bilancio. È noto che la legislazione europea, ponendo al vertice della “piramide dei valori” la tutela dell’economia e del mercato, ha concorso a danneggiare il lavoro e coloro che, per il suo tramite, ottengono quanto necessario per la sussistenza di sé e della propria famiglia.
Per altro verso, l’onere di rispettare la dignità umana impone ai poteri costituiti di porre le condizioni affinché sia vietato lo sfruttamento della persona che versa in una condizione di “inferiorità” economica e sociale; del resto, il compito della Repubblica e di chi organizza il lavoro è anche quello di tutelare e garantire le posizioni giuridiche soggettive dei lavoratori. Ciò si evince chiaramente dal Testo costituzionale, il quale indica al legislatore il compito di assicurare al lavoratore una retribuzione non solo proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto, ma anche in grado di assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma)[2]; di stabilire la durata massima dell’attività lavorativa e di assicurare il diritto al riposo settimanale e annuale (art. 36, secondo e terzo comma). La Carta costituzionale pone, inoltre, precise tutele a favore della donna lavoratrice e dei lavoratori minorenni (art. 37) e, nel solco della nostra forma di Stato sociale, sancisce i diritti al mantenimento e all’assistenza sociale, al sostegno in caso di malattia, infortunio, invalidità, vecchiaia, disoccupazione involontaria (art. 38).
Queste misure rappresentano emblematicamente l’intento del Costituente di attribuire alla Repubblica il dovere di intervenire attivamente al fine di salvaguardare la personalità e la dignità dei lavoratori, a maggior ragione se subordinati.
È verosimilmente per questa ragione che dalla “trama” e dall’“ordito” della c.d. Costituzione economica emerge un quadro preciso all’interno del quale deve essere organizzato il mondo del lavoro.
2. La stretta connessione tra la dignità sociale e il principio personalista, anche attraverso lo “scudo” della tutela giurisdizionale.
A garantire i principi appena richiamati soccorre l’articolo 3 Cost. che, com’è noto, prima di indicare le condizioni rispetto alle quali non possono verificarsi discriminazioni, precisa che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale. In questi termini la dignità prescinde da una specifica collocazione sociale riferibile a una situazione di fatto (il lavoro) poiché la norma enuncia un principio di portata generale, richiamando la necessità che siano gli organi di indirizzo politico a garantire il valore della dignità nei confronti di ogni persona, indipendentemente dalle posizioni di partenza nella “gara della vita”.
Si tratta, pertanto, di un principio che riguarda ai diritti della personalità, cioè a quei diritti che devono essere salvaguardati dai poteri costituiti, se dal caso anche attraverso l’intervento proattivo di rimozione degli ostacoli che possono frapporsi fra il pieno sviluppo della personalità e la partecipazione alla vita della comunità.
La dignità sociale dovrebbe condizionare, dunque, l’azione politica di ogni livello di governo, giocando il ruolo di un “imperativo categorico” nella determinazione di decisioni politiche che restano comunque, quanto alle loro modalità di affermazione, nella libera disponibilità del legislatore. Attraverso le politiche attive volte a promuovere e a salvaguardare la dignità sociale, ciascuno è posto (rectius: dovrebbe essere posto) nella posizione di esplicare i diritti della propria personalità, quelli personalissimi, inalienabili e irrinunciabili (ad esempio, al nome, alla riservatezza, all’identità personale) rispetto ai quali sussiste una certa inerzia del legislatore, cui cerca di sopperire il Giudice costituzionale, invero sempre più frequentemente investito della risoluzione anche delle c.d. questioni eticamente sensibili.
Queste ultime si legano, fra l’altro, alla garanzia del principio personalista, che per essere salvaguardato esige che l’assetto organizzativo della Repubblica sia informato al principio democratico. Il tema è ampio e, anche in considerazione di una delle riforme costituzionali in cantiere – segnatamente quella relativa al Titolo IV, Parte II, della Costituzione – vale la pena tornare a insistere sul fatto che non può essere assicurato il principio sancito dalla prima parte dell’art. 2 Cost. se la Repubblica non garantisce a ogni cittadino la possibilità di rivolgersi a un giudice posto in posizione di indipendenza, terzietà e imparzialità rispetto agli altri poteri dello Stato – specialmente dall’Esecutivo – onde tutelare i propri diritti e interessi legittimi[3].
Il principio democratico richiama, inoltre, la necessità di insistere convintamente sulla stretta interdipendenza tra la Prima e la Seconda parte della Costituzione, dal momento che, per salvaguardare il principio personalista, è necessario cheanzitutto l’organo legislativo sia posto nella condizione di esprimere una decisione politica orientata in questo senso. Ma è altresì fondamentale che l’organizzazione dei poteri sia completata da organi di garanzia in grado di valutare, ancorché con metodi e gradi di incisività profondamente differenti, la conformità ai principi costituzionali delle decisioni politiche espresse dal Parlamento.
Di fronte a evidenti esempi di diseguaglianza e di disattenzione nei confronti delle fondamentali posizioni giuridiche soggettive dell’essere umano va rilevata, nondimeno, una certa inefficienza dell’azione del legislativo e dell’esecutivo, così come delle parti sociali. Si tratta di quel difetto politico, giuridico e sociale che in diverse occasioni induce a denunciare la mancata soddisfazione del principio sancito dall’art. 3, primo comma, Cost., e talvolta anche l’inadempienza dei doveri costituzionali cui è investita la Repubblica ai sensi del secondo comma.
Ciò non toglie che l’eguaglianza sostanziale, il raggiungimento della piena ed effettiva dignità sociale, la capacità di rispondere a qualsiasi forma di discriminazione, la possibilità per ogni consociato di esprimere la propria identità personale, siano obiettivi difficilmente realizzabili; essi, difatti, sono e restano per lo più un traguardo (tecnicamente irraggiungibile se osservati nell’ottica del continuo miglioramento volto al benessere della persona) che, tuttavia, per gli organi investiti del compito di assumere decisioni valide erga omnes rappresentano la rotta da seguire.
3. Dalla dignità della persona alla salvaguardia dei suoi nuovi diritti, passando per l’evoluzione della sensibilità sociale.
Dei diversi esempi che potrebbero essere offerti circa la necessità che il legislatore – ma i poteri costituiti in generale – segua la “stella polare” del principio di eguaglianza, specialmente sostanziale, sembra opportuno porre l’accento sulla differenza di metodo impiegato nel tempo dal potere legislativo per disciplinare questioni senza dubbio rilevanti che vengono attratte nella sfera del diritto pubblico in generale.
L’accostamento può sembrare forzato, eppure si ritiene che esso sia in grado di porre genuinamente in luce le difficoltà, in primis culturali, che stressano la nostra democrazia. Da un lato, la violenza e disparità di genere; dall’altro lato, il fenomeno relativo al cambiamento climatico e alla cura per quelli che vengono definiti beni comuni.
Sotto il primo aspetto, nulla di nuovo nell’affermare che il nostro Paese fatica a soddisfare il valore socioculturale, prima ancora che il principio giuridico, relativo alla eguaglianza e parità di genere, nonostante i “grimaldelli” rappresentati dai principi personalista e di eguaglianza. È forse per questa ragione che il legislatore ha ritenuto di introdurre norme, anche di rango costituzionale, che consentano di soddisfare, perlomeno a livello istituzionale, le pari opportunità tra donne e uomini (art. 51, primo comma, e art. 117, settimo comma).
L’inclusione delle c.d. quote rosa in Costituzione, la cui disciplina concreta è rimessa alla legislazione ordinaria, rappresenta il riconoscimento di una sorta di fallimento antropologico che le diverse maggioranze che si sono succedute in Parlamento insistono ad affrontare con soluzioni temporanee, piuttosto che con politiche a lungo termine capaci di promuovere prima ancora che realizzare un reale cambiamento socioculturale[4] che non dovrebbe essere limitato alle pari opportunità di accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, ma che dovrebbe riguardare l’eguaglianza dei sessi «nella vita sociale, culturale ed economica» (art. 117, settimo comma, Cost.).
Ciò è stato emblematicamente definito “femminismo costituzionale”: attraverso questo metodo si intende andare oltre il “semplice” divieto di discriminazione fondato sul sesso (art. 3, primo comma, Cost.), così da superare ostacoli che, di fatto, finiscono per non consentire in molti casi il pieno sviluppo e rispetto della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.)[5].
L’interpretazione della Carta costituzionale rispetto al tema della violenza e disparità di genere dovrebbe essere “blind”, partendo dalla volontà di incidere con maggiore consapevolezza sulla ridefinizione delle relazioni di potere, a partire da quello economico anche se non solo, all’interno della società. L’obiettivo, pertanto, non dovrebbe essere quello di rimuovere enfaticamente le differenze tra i sessi, bensì la discriminazione di genere che ostacola effettivamente la libertà e l’eguaglianza dei consociati[6].
Come recentemente posto in evidenza da Giuliano Amato e Donatella Stasio, il Testo costituzionale, pur avendo come presupposto dell’intero “viaggio” (Principi fondamentali, Diritti e doveri dei cittadini, Ordinamento della Repubblica) le relazioni sociali, non cita mai il termine “amore”[7]. Del resto, “amore” e “felicità” costituiscono – si potrebbe obiettare – più condizioni dello spirito che dell’ordinamento giuridico, anche se parole così delicate ed evocative non disturberebbero certamente alcun testo normativo, ancor più se di rango costituzionale. Né, si potrebbe aggiungere, le forze politiche che hanno animato le diverse Legislature si sono mai preoccupate di revisionare la Legge fondamentale dello Stato in modo tale da riconoscere espressamente il diritto-dovere più che “di amare” di rispettare e considerare la diversità, non solo di genere, (si potrebbe parlare di fraternità) quale possibile contrafforte verso la pericolosa involuzione dei rapporti interpersonali (si pensi, in primo luogo, al tasso di femminicidi, invero spaventoso, che ogni anno registra il nostro Paese oltre alle note discriminazioni razziali e omofobe).
Diversa sorte è stata invece riservata alla tematica – che presuppone l’adozione di programmi politici orientati a un orizzonte temporale ancora più esteso – relativa al cambiamento climatico, posto che, com’è noto, la Carta costituzionale custodisce oggi all’interno dei “Principi fondamentali” l’ambiente, la biodiversità, l’ecosistema, inclusa la protezione degli animali e le generazioni future e affida alla Repubblica il compito di tutelarli (legge costituzionale n. 1 del 2022).
Se la violenza e la disparità di genere restano una piaga che interessa anzitutto le generazioni presenti e che è stata affrontata – con risultati alquanto insoddisfacenti – attraverso un metodo prevalentemente punitivo (che oltretutto sembra allontanarsi vieppiù dalla stessa finalità rieducativa della pena richiesta dalla normativa costituzionale vigente: art. 27, terzo comma), gli interventi in tema di sostenibilità ambientale finiscono per essere destinati a produrre effetti più significativi sul lungo (o lunghissimo) periodo. Occorre, da questo angolo di visuale, considerare lungimirante e ben ponderata la scelta del legislatore costituzionale; si è in effetti manifestata chiaramente tale volontà politica, rovesciando il paradigma affermato dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale che, come è noto, in verità dagli anni Ottanta riconosce la necessità di riservare spazio alla tutela dell’ambiente (v. Corte costituzionale, sentenza n. 641 del 1987). Invero, a tale riguardo, se per il potere giudiziario e di garanzia la prospettiva era antropocentrica (la tutela dell’ambiente per il benessere della persona; da qui, il diritto all’ambiente salubre), per il revisore costituzionale del 2022 il modello si tramuta in ecocentrico (la tutela dell’ambiente per sé stesso e, solo in conseguenza di ciò, per il benessere degli esseri umani).
Tuttavia, anche in ragione della collocazione sistematica del principio in parola, non sembra possibile individuare un diritto soggettivo alla tutela dell’ambiente lato sensu inteso, quanto piuttosto un “valore” costituzionale che pone in capo alla Repubblica un facere specifico e continuativo. Non trattandosi di una materia (quale è, invece, quella dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.), bensì di un principio, non si pone neppure la questione relativa al riparto di competenze. L’art. 9, terzo comma, Cost. è, infatti, un obiettivo costituzionale che integra e finalizza le competenze di Stato, Regioni ed enti locali che, per quanto di propria spettanza, devono impegnarsi a salvaguardare l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi proprio nell’interesse delle future generazioni.
L’art. 9, terzo comma, primo periodo, Cost. e il Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, con il riferimento a responsabilità e doveri nei confronti degli altri, della comunità umana e delle generazioni future riescono a stabilire, con efficacia anche giuridica, il rapporto di solidarietà tra le generazioni e a estendere oltre i limiti del presente l’efficacia normativa della Costituzione e della Carta di Nizza poiché affermano una responsabilità intra- e inter-generazionale.
Il richiamo all’interesse delle future generazioni tra i Principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico rende, in ogni caso, complesso definire chi sono queste generazioni (o, meglio, “quanto future esse siano”), così come induce a riflettere attorno alla portata giuridica da attribuire all’interesse. Dovendosi escludere la natura di diritto soggettivo perfetto – non foss’altro perché chi non è ancora “presente” non potrebbe farne valere l’eventuale lesione dinanzi all’autorità giudiziaria – si ritiene di configurarlo quale aspettativa dei posteri che, pertanto, si risolve in un dovere per i contemporanei: quello di salvaguardare i c.d. beni comuni.
Diverse “stagioni” hanno attraversato questa categoria, che dovrebbe essere riempita di contenuti meno vaghi – alla stregua di quanto affermato dalla c.d. Commissione Rodotà, costituita con Decreto del Ministro della giustizia il 21 giugno 2007 – sia prevedendosi beni materiali, sia indicando diritti fondamentali spettanti alla collettività così da perseguire con meno incertezza e (spesso) vuota enfasi, politiche economiche e sociali “sostenibili” – sostenibilità, questa l’espressione magicamente utilizzata nel tempo presente della green economy – per le generazioni presenti e per quelle future.
I doveri inderogabili di solidarietà sociale possono avere, in effetti, una portata ultra temporale poiché orientati a«garantire – nel senso di salvaguardare – e promuovere lo sviluppo della comunità», radicando «una sorta di “dovere interiore” perché tutti beneficiano del diritto […] se tutti, doverosamente, vi contribuiscono»[8]. Questo genere di diritti si contraddistingue, del resto, per «una natura relazionale che implica un (soggetto) erogatore e un beneficiario»[9] e talvolta «la presenza di altri beneficiari» rappresenta un plusvalore «per una soddisfacente fruizione del bene»[10].
È probabilmente questa la logica che ha spinto il revisore costituzionale[11] a prevedere gli “equilibri ecologici” come limite alla libertà di iniziativa economica privata (art. 41, secondo e terzo comma, Cost.), la quale deve essere funzionalizzata «a fini sociali e ambientali». La ratio si ritiene assai simile a quella sottesa agli artt. 81 sesto comma, e 97, primo comma, Cost. e cioè la sostenibilità del debito pubblico (legge costituzionale n. 1 del 2012), volta a proteggere proprio le future generazioni dall’accumulo del debito, che potrebbe compromettere inevitabilmente la capacità di determinazione democratica dei Governi che verranno[12].
La tutela dell’ambiente, degli ecosistemi e della biodiversità, insieme al fatto che essi costituiscono un limite per il libero esercizio dell’attività d’impresa, si ritengono veicoli necessari per realizzare quell’obiettivo che condiziona tutto il Testo costituzionale, ovvero l’eguaglianza sostanziale delle e tra le persone. In essa trovano sede, non a caso, i principi supremi della pari dignità sociale e del pieno sviluppo della persona umana, che dovrebbero vincolare anzitutto il legislatore a realizzare precisi indirizzi che favoriscano la salvaguardia dell’ambiente nel quale conduciamo qui e ora la nostra esistenza. Questa attenzione per la “qualità” delle politiche pubbliche resta il presupposto fondamentale affinché altri possano continuare a godere alle stesse condizioni dei contemporanei del contesto favorevole nel quale sono maturati e potranno maturare i diritti che accompagnano una esistenza dignitosa degli appartenenti al genere umano, secondo l’impostazione “presbite” accolta dalla nostra Costituzione democratica.
[1] L’articolo costituisce la rielaborazione dell’intervento tenuto in occasione del Seminario “Parole dedicate: dignità e Costituzione”, svoltosi il 29 aprile 2022 e organizzato dal Centro di Promozione per la Legalità della Provincia di Bergamo. L’intervento è stato rivisto e aggiornato con il contributo della Dott.ssa Alessandra Mazzola.
[2] Nonostante la chiara previsione costituzionale, il nostro ordinamento è da qualche tempo in difficoltà nel soddisfare tale principio. La causa è da rinvenire anzitutto nell’azione politica e sindacale, che non riesce a contrastare (la prima) e che gode di strumenti troppo deboli per farlo (il secondo) il c.d. lavoro sommerso. Eppure, la strada per porre dei vincoli al c.d. decent work, al salario giusto e alla durata della giornata lavorativa è nitidamente tracciata dalla Costituzione agli articoli 36 e 39, quarto comma (cfr. A. Apostoli, Il miraggio dell’esistenza libera e dignitosa, in Costituzionalismo.it, 3/2023, pp. 35-60). Neppure la Direttiva UE 2022/2041 sul salario minimo adeguato è riuscita a smuovere la coscienza politica sul punto, posto che l’attuale maggioranza parlamentare ha omesso di recepirla ritenendo, probabilmente, che l’intervento legislativo in materia fosse alternativo e non complementare alla contrattazione collettiva nazionale (le relative proposte di legge sono invero arenate; la proposta A.C. 1275 “Disposizioni per l’istituzione del salario minimo”, che ha assorbito A.C. 141, A.C. 210, A.C. 216, A.C. 306, A.C. 432, A.C. 1053, A.C. 1328, è stata approvata il 6 dicembre 2023 con modifiche rispetto al testo proponente e con il nuovo titolo “Deleghe al Governo in materia di retribuzione dei lavoratori e di contrattazione collettiva nonché di procedere di controllo e di informazione”, è stato trasmesso al Senato della Repubblica (disegno di legge A.S. 957) e il relativo esame non è ancora iniziato). Vero è che il nostro Paese non è obbligato a recepirla perché non sussistono le condizioni che la Direttiva prevede come obbligatorie per l’introduzione della misura (cioè che la contrattazione collettiva copra meno dell’80% dei lavoratori, art. 4, par. 2 e art. 5, par. 1), posto che il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, Quadro riepilogativo sul Salario minimo, 12 ottobre 2023 dichiara che quasi il 100% dei lavoratori sono garantiti dalla contrattazione nazionale collettiva di lavoro. Va però osservato che, probabilmente, il report del CNEL omette di considerare il lavoro sommerso, viceversa ben diffuso nel nostro Paese, tanto in campagna quanto in città.
[3] Sotto questo aspetto è emblematico il diritto internazionale, che sconta ancora qualche difficoltà nel poter essere considerato una disciplina giuridica tout court. È noto che quando al di fuori dello Stato viene violata o non rispettata una norma è assai difficile rivolgersi a un giudice affinché ne ripristini l’effettività. Per sanzionare i più efferati crimini contro l’umanità è stato, infatti, necessario istituire tribunali militari internazionali ad hoc(a partire dal Tribunale di Norimberga per arrivare, nel 2002, alla Corte penale internazionale). Al di là dei c.d. crimini di guerra, invece, la violazione del diritto internazionale non è sanzionabile e tale situazione rende difficile riconoscere un “diritto” internazionale, ovvero una disciplina giuridica che prevede meccanismi di controllo e, eventualmente, di sanzione da parte di un’autorità terza, imparziale e indipendente. La circostanza che al di fuori dei confini dello Stato-nazione trovino soddisfazione i diritti inscritti negli ordinamenti nazionali solo con estrema difficoltà, è sintomatica del fatto che l’hard law di diritto interno si scontra con soft law di per sé facilmente derogabili. Su di un piano intermedio mi sembra possa essere collocata la Corte europea dei diritti dell’uomo alla quale, dopo aver esperito tutti i gradi di giudizio interni, può rivolgersi anche il singolo che ritiene lesa una propria posizione giuridica soggettiva. Com’è noto, tale Corte può condannare lo Stato per il mancato rispetto dei diritti fondamentali purché, però, lo Stato abbia sottoscritto la Convenzione EDU e, con essa, l’impegno a dare esecuzione alle decisioni della relativa Corte.
[4] In questi termini A. Apostoli, La parità di genere nel campo “minato” della rappresentanza politica, in Rivista AIC, 4/2016 e, forse ancor più limpidamente, Id., Rappresentanza paritaria o duale?, in B. Pezzini, A. Lorenzetti (a cura di), 70 anni dopo tra uguaglianza e differenza. Una riflessione sull’impatto del genere nella Costituzione e nel costituzionalismo, Torino, 2019, spec. pp. 63-64, la quale sostiene che la logica delle quote ha fatto conquistare un’eguale rappresentanza di facciata, non essendo in grado di superare la logica maschilista che contraddistingue i processi decisionali.
[5] Cfr. A. Apostoli, Per un “femminismo costituzionale”, in G. Azzariti (a cura di), Uguaglianza o differenza di genere? Prospettive a confronto, Napoli, 2022, pp. 53-56.
[6] Si veda sul punto B. Pezzini, Costruzione del genere e Costituzione, in Id. (a cura di), La costruzione del genere. Norme e regole, I, Bergamo, 2012, pp. 25-26.
[7] G. Amato, D. Stasio, Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società, Milano, 2023, p. 168.
[8] A. Mazzola, Il diritto alla salute tra dimensione individuale e dovere sociale, in Consulta OnLine, 2021/II, p. 588.
[9] Ivi, pp. 588-589.
[10] A. Morelli, Il carattere inclusivo dei diritti sociali e i paradossi della solidarietà orizzontale, in Rivista del Gruppo di Pisa, 3/2012, p. 6.
[11] Sul punto si vedano i recenti contributi di M. Ladu, Oltre l’intangibilità dei princìpi fondamentali: la revisione “silenziosa” dell’art. 9 Cost., in Federalismi.it, 1/2023, pp. 39-56 e A. Lauro, Dalla tutela ambientale in Costituzione alla responsabilità politica (anche) verso le future generazioni? Detti e non-detti di un principio di origine giurisprudenziale, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2/2022, pp. 115-134.
[12] Cfr. Tribunale costituzionale federale tedesco, BVerfG, Judgment of the Second Senate of 12 September 2012 – 2 BvR 1390/12.
Immagine via Flickr.
Il punto sull’edilizia giudiziaria
di Massimo Orlando
Sommario: 1. Premessa - 2. Compiti della DG Risorse - 3. Struttura organizzativa della DG Risorse - 4. Focus sull’edilizia giudiziaria - 5. Le modalità operative della DG Risorse nel settore dell’edilizia giudiziaria - 6. Dati sull’attività svolta nel triennio 2021/2023 - 7. Focus su alcune iniziative con finalità preventiva - 7.1. Analisi di vulnerabilità sismica - 7.2. Antincendio - 7.3. Controsoffitti - 7.4. Verifica dello stato di impermeabilizzazione delle coperture - 7.5. Efficientamento energetico - 7.6. Barriere architettoniche - 7.7. Legionella - 7.8. Accatastamento - 7.9. Linee guida per la progettazione degli edifici e dei “Parchi della Giustizia” - 8. Interventi edili e/o impiantistici inseriti nel PNRR - 9. Conclusioni.
1. Premessa
Con questi miei appunti mi propongo di condividere alcuni risultati raggiunti all’esito del lavoro svolto in qualità di Direttore generale delle risorse del Ministero della Giustizia.
Tratterò il tema della gestione delle risorse materiali o, per meglio dire, strumentali all’esercizio della funzione giurisdizionale, con particolare riferimento all’edilizia giudiziaria.
Ritengo utile far conoscere i compiti, la struttura organizzativa e le modalità operative della DG Risorse, perché essi hanno una incidenza non solo sull’attività degli uffici giudiziari, ma anche sull’ambiente di lavoro e conseguentemente sul benessere di lavoratori e utenti.
Ho avuto modo di verificare che alcune procedure e alcune nozioni apprese nel corso dello svolgimento di attività di natura tipicamente amministrativa sono state utili anche per migliorare – e non solo indirettamente - l’organizzazione dell’attività giurisdizionale.
2. Compiti della DG Risorse
La mission della Direzione consiste nell’approvvigionamento di tutto ciò che è necessario per il corretto funzionamento degli uffici giudiziari, previa verifica della sua necessità ai fini del funzionamento degli uffici giudiziari. Sono escluse dal campo di intervento della Direzione soltanto le risorse umane (gestite dalla Direzione generale del personale) e quelle informatiche (di competenza della DGSIA).
Rientrano pertanto nell’ambito di operatività della DG Risorse il settore immobiliare, l’acquisizione di ogni tipo di bene mobile, le utenze, i servizi (di vigilanza attiva, di sorveglianza passiva come le telecamere, di facchinaggio, di pulizia, di manutenzione, di Responsabile del servizio di prevenzione e protezione, del Medico competente, ecc.), le locazioni passive.
Nel “nostro” mondo, completamente concentrato sulla funzione giurisdizionale (o, come ritengo preferibile dire, sul “servizio giustizia”) vi è una diffusa tendenza a sottovalutare o addirittura a misconoscere il ruolo della logistica.
Per logistica si deve intendere tutto ciò che è necessario per il funzionamento di una qualsiasi organizzazione attiva, che cioè pone in essere una qualsiasi attività, di qualsiasi tipo (pubblica, amministrativa, imprenditoriale, no profit, ecc.).
Nel corso della mia esperienza presso la DG Risorse ho appreso molte nozioni che mi erano completamente sconosciute.
Tra queste, è stata fondamentale l’acquisizione della consapevolezza che molte innovazioni hanno una diretta e decisiva ricaduta sul piano logistico-organizzativo. Per evitare disagi o fallimenti, ogni iniziativa deve essere pianificata, con razionalità, sulla base di dati oggettivi e con il coinvolgimento di tutti gli interessati.
Un esempio consentirà di uscire da espressioni che possono apparire generiche o di prammatica.
Quando ho preso possesso dell’incarico di direttore generale della DG Risorse, erano già in uno stato molto avanzato le proposte del Ministero della Giustizia per il PNRR. Tra queste, vi era l’ipotesi (poi effettivamente tradotta in realtà) di assumere – sia pure a tempo determinato - non solo 8.250 funzionari addetti all’ufficio per il processo ma, anche, 5.410 tra operatori data entry, tecnici, contabili, analisti di organizzazione.
Non era però stato minimamente affrontato, appunto, il problema logistico, cioè – in pratica – dove e come reperire le postazioni di lavoro per un numero così elevato di dipendenti (13.600 persone sono 1/3 della complessiva dotazione organica del Ministero, incluso cioè anche il personale amministrativo degli edifici giudiziari).
Rappresentato il problema, è stato escluso che gli AUPP e gli altri impiegati che sarebbero stati assunti a tempo determinato svolgessero integralmente le loro prestazioni lavorative da remoto.
Ho quindi avviato (a marzo 2021) una impegnativa attività diretta a verificare, presso tutti gli edifici giudiziari adibiti a sede degli uffici giudiziari che sarebbero stati assegnatari del personale neo-assunto (Corti di appello e Tribunali ordinari), la possibilità di reperire gli spazi necessari per realizzare ulteriori postazioni di lavoro, rispetto a quelle esistenti.
Per conseguire questo obiettivo, ho affidato all’esiguo personale tecnico (15 unità) a disposizione della DG Risorse, l’incarico di sostenere gli uffici giudiziari in questa non agevole attività di ripensamento dell’assetto strutturale ed organizzativo degli edifici.
Questa attività di riorganizzazione degli edifici adibiti a sede di uffici giudiziari è stata resa possibile grazie alla collaborazione dei dirigenti (Presidenti e dirigenti amministrativi) e al supporto costantemente assicurato dai tecnici ministeriali.
Per quanto riguarda la progettazione, sono state emesse 65 determine, per un importo totale (a titolo di compensi ai professionisti incaricati) di circa 900.000 €.
Sono state poi emesse 108 determine per l’aggiudicazione dell’appalto dei lavori, per un importo complessivo di € 4.600.000,00.
Questo intenso lavoro, unitamente alla razionalizzazione degli spazi esistenti, ha consentito di reperire il 91% delle postazioni necessarie.
Sono poi state esperite le procedure necessarie per acquisire 8 locazioni di nuovi immobili, ritenuti indispensabili per reperire gli spazi in cui collocare gli UPP.
Per quanto riguarda l’acquisto degli arredi necessari per allestire le postazioni, sono state emesse 108 determine per un importo complessivo di € 6.977.780,00.
In pratica, l’inserimento nel PNRR dell’assunzione a tempo determinato di oltre 13.000 persone ha comportato un costo aggiuntivo (ulteriore, cioè, rispetto agli esborsi dovuti per retribuzioni e contributi previdenziali) e non preventivato di oltre 12 milioni di euro.
La Direzione ha fronteggiato questa imprevista esigenza finanziaria con risorse proprie, senza alcuna previsione incrementativa negli stanziamenti di bilancio,quindi sottraendola ad altre esigenze manifestate dagli uffici giudiziari.
L’insegnamento che può trarsi da questa mia primissima esperienza in un ruolo apicale di amministrazione attiva consiste nella constatazione del rischio che il Ministero della Giustizia pecchi di improvvisazione e mancanza di capacità prospettica o, nel migliore dei casi, che lavori “a compartimenti stagno”.
Occorre acquisire la capacità di prevedere le conseguenze di ogni innovazione, soprattutto in termini di risorse necessarie per attuare le iniziative che si sono “immaginate”.
Per l’appunto, non è sufficiente avere una intuizione e approvare le modifiche legislative che si reputano necessarie per attuarla. Spesso, infatti, non vi è alcun bisogno di nuove norme, essendo sufficienti quelle già esistenti. Ciò che occorre è il rafforzamento della c.d. “capacità amministrativa”. In pratica, è necessario far sì che la struttura amministrativa sia in grado di adottare i provvedimenti necessari per porre in essere le innovazioni che si ritengono utili.
Le innovazioni legislative non necessarie (perché non prevedono nuovi compiti a carico della pubblica amministrazione, ma ribadiscono quelli già esistenti), infatti, hanno solo la funzione “manifesto”: quella di comunicare ai cittadini ciò che l’Amministrazione ha intenzione di fare. È uno scopo politico, che certamente non deve essere demonizzato, perché l’Amministrazione deve anche tener conto delle esigenze politiche. A patto, però, che l’intervento legislativo non sia considerato come l’atto terminale dell’iniziativa di innovazione ma, al contrario, un impulso per gli organi di amministrazione attiva, a cui spetta la sua realizzazione.
Un ulteriore rischio da evitare è che la norma “manifesto” possa essere utilizzata dalla politica come strumento per scaricare sugli organi di amministrazione attiva le difficoltà o, peggio, l’irrealizzabilità dell’innovazione “immaginata”.
Spetta, quindi, a chi dirige gli uffici incaricati di attuare l’idea innovativa, il compito di analizzare in modo razionale le finalità dell’iniziativa prevista dalla norma, individuare le dotazioni necessarie (personale, competenze dello stesso, risorse strumentali, piattaforme tecnologiche) e pretendere a chiare lettere che esse siano effettivamente messe a disposizione.
È chiaro che ciò richiede un rapporto francamente dialettico tra l’autorità politica e l’organo apicale di amministrazione attiva. Non è facile da realizzare, per l’obiettiva “subordinazione” dell’amministrazione alla politica.
Quando il ruolo di direttore generale o di Capo dipartimento è ricoperto da un magistrato, è naturale attendersi un atteggiamento di maggiore indipendenza, non solo perché il magistrato ha l’indipendenza nel suo DNA istituzionale, ma anche – e soprattutto - per motivi più prosaici, perché l’attività amministrativa è solo una parentesi nella sua “carriera”.
Anche a questo proposito, ritengo utile riportare un episodio significativo.
Quando una commissione ministeriale ha proposto di assegnare alla Direzione delle Risorse una somma considerevole (400/500 milioni di Euro) - in più rispetto alla ordinaria dotazione annuale - da impiegare nel settore dell’edilizia giudiziaria, mi sono opposto in modo netto e intransigente, spiegando che il problema degli interventi edili e impiantistici da realizzare nei quasi 1.000 edifici giudiziari non affondava le sue radici nella penuria di risorse finanziarie.
Ho spiegato cioè che la difficoltà vera riguardava la “capacità di spesa”, cioè la scarsità di personale tecnico in grado di svolgere le complesse procedure di appalto di lavori. Invece di una dotazione finanziaria così ingente, come quella che si voleva assegnare alla DG Risorse, chiesi alla predetta commissione ministeriale di fare in modo che alla Direzione fossero assegnati 50 tecnici già formati e in grado di svolgere le funzioni di RUP (Responsabile Unico del Procedimento), al fine di poter impiegare le somme di cui la Direzione già disponeva. Inutile dire che questa richiesta è rimasta inevasa.
Ecco, questo è un esempio concreto e realmente accaduto di come la carenza di spirito di indipendenza e di pragmatismo possa dar vita a iniziative che, lodevoli nelle intenzioni, si rivelino irrealizzabili.
Questo episodio conferma che molti dei problemi logistici di cui sono afflitti gli edifici adibiti a uffici giudiziari non dipendono dalla scarsità di risorse finanziarie.
Il vero problema è che tutti gli organi della pubblica Amministrazione del Paese (non solo civile, ma anche militare) dispongono di pochissimi funzionari esperti in materia di procedure di appalto e, ovviamente, nessuno è in condizione di “cederli”, neanche in via temporanea. I molteplici tentativi effettuati nel corso del triennio 2021/2023 al fine di ottenere “in prestito” persone esperte nel settore degli appalti hanno sortito effetti modesti (sul piano numerico) ma preziosissimi quanto all’apporto di esperienza e conoscenza.
3. Struttura organizzativa della DG Risorse
La struttura della Direzione generale delle Risorse è disciplinata dal Regolamento di organizzazione (art. 5, comma 2, lett. b), del DPCM 15 giugno 2015, n. 85 e dal DM 14 dicembre 2015.
A livello periferico, in particolare, l’art. 9 del medesimo DPCM disciplina le “funzioni degli uffici periferici dell’organizzazione giudiziaria”.
La sede centrale della DG Risorse si compone di 6 uffici. A ciascuno di essi sono attribuite molteplici e variegate competenze. Ponendo l’accento sui compiti più rilevanti, esse possono essere così schematizzate:
- ufficio I: contenzioso;
- ufficio II: contabilità, programmazione e controllo;
- ufficio III: gare e contratti; locazioni passive; acquisto di beni immobili; Facility Management;
- ufficio IV: servizio di vigilanza e autovetture;
- ufficio V: acquisto di beni mobili e servizi;
- ufficio VI: manutenzione degli edifici.
Nel corso del mandato triennale, è stata compiuta un’intensa attività diretta a rendere pienamente operativa la Direzione.
Nei primi mesi del primo anno, è stato nominato il Direttore dell’ufficio VI, ufficio che era rimasto acefalo da più di due anni. È stato prescelto un ingegnere con pluriennale e comprovata esperienza in materia di edilizia giudiziaria, proveniente dalle file del Provveditorato Opere Pubbliche di Napoli, ma dal 1996 distaccato presso l’Ufficio speciale per la manutenzione degli edifici giudiziari di Napoli.
Si è trattato di una decisione assolutamente fuori dagli schemi, perché mai all’interno del DOG (Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria) era stato conferito l’incarico di dirigente di 2^ fascia ad un funzionario tecnico (appunto, un ingegnere).
La scelta però si è rivelata sin da subito particolarmente appropriata, perché – come si vedrà in seguito - vi era la necessità di offrire ai 15 funzionari tecnici di cui all’epoca disponeva la Direzione (e che erano in servizio da luglio 2019) una guida esperta e sicura.
Nel corso del mandato triennale, sono poi stati nominati il direttore dell’ufficio III e il direttore dell’ufficio II: entrambi questi uffici, sebbene previsti sin dal 2015, non erano mai stati istituiti.
4. Focus sull’edilizia giudiziaria
Il 1^ settembre 2015 è entrata in vigore la legge 23 dicembre 2014, n. 190, che all’art. 1, comma 526, modificando l’art. 1 della legge 24 aprile 1941, n. 392, ha disposto il trasferimento dai Comuni al Ministero della Giustizia delle “spese obbligatorie” enumerate al primo comma dell’art. 1 della predetta legge 392/1941.
Come è noto, questa modifica legislativa ha comportato da un giorno all’altro un vero e proprio stravolgimento dei compiti del Ministero e degli uffici giudiziari. In particolare, questi ultimi non hanno più potuto fare affidamento sulla struttura amministrativa dei Comuni che, normalmente, sono dotati di personale in possesso delle competenze tecniche necessarie per svolgere le procedure disciplinate dal codice degli appalti.
Il problema ha riguardato, soprattutto, i lavori edili di cui abbisognano, continuamente, tutti i fabbricati e, ovviamente, non fanno eccezione gli edifici adibiti a sede di uffici giudiziari.
Gli immobili utilizzati dall’Amministrazione della giustizia sono circa 1.000 e già prima del settembre 2015 versavano in condizioni di certo non ottimali. Tranne rare eccezioni, infatti, anche i Comuni non riponevano particolare cura nella manutenzione “preventiva”, cioè quella effettuata con periodicità e sistematicità al fine di prevenire il degrado dell’edificio (sia sul piano edile che su quello impiantistico). Era infatti diffuso l’approccio dell’intervento “a guasto”, cioè l’intervento sul già verificatosi malfunzionamento degli impianti o sull’incipiente ammaloramento dell’edificio, nell’illusione che intervenire solo “a valle” consentisse un risparmio, sia in termini di risorse finanziarie che di energie amministrative.
La legge 190/2014 ha posto a carico dell’Amministrazione della Giustizia una serie di incombenze in materia edile, senza considerare che sia il Ministero sia gli uffici giudiziari non avevano nelle rispettive dotazioni organiche il personale tecnico indispensabile.
Nei primi anni successivi all’entrata in vigore della legge 190/2014 (e cioè dal 1^ settembre 2015 ai primi mesi del 2021) la soluzione più percorribile è parsa quella di avvalersi del c.d. “Manutentore Unico”. L’art. 12, comma 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, al fine di contenere la spesa pubblica, ha accentrato sull’Agenzia del Demanio le decisioni di spesa, concernenti gli “interventi manutentivi a carattere ordinario e straordinario, effettuati sugli immobili di proprietà dello Stato, …. sentito il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti”.
In pratica, le disposizioni sul Sistema Accentrato delle Manutenzioni (o, anche, “Manutentore Unico”) si propongono l’obiettivo di razionalizzare le decisioni di spesa relative all’attività di manutenzione degli immobili statali, affidandole a due organi amministrativi particolarmente specializzati e cioè:
a) l’Agenzia del Demanio, che riceve le richieste di manutenzione, le valuta e le finanzia (in tutto o in parte);
b) i Provveditorati per le Opere Pubbliche (che fanno capo al Ministero delle Infrastrutture) che, una volta ricevuto lo stanziamento da parte dell’Agenzia del Demanio, e nei limiti delle risorse stanziate, eseguono le procedure di appalto di lavori pubblici.
Dal 1^ gennaio 2013 e fino all’entrata in vigore della legge 190/2014 (1^ settembre 2015), il Sistema Accentrato delle Manutenzioni non ha riguardato affatto gli edifici adibiti a sede di uffici giudiziari, perché la loro manutenzione era, come già detto, affidata dalla legge 392/1941 ai Comuni.
Con il trasferimento delle spese obbligatorie dai Comuni al Ministero, è risultata immediatamente applicabile anche agli edifici giudiziari la disciplina sul Manutentore unico.
Ciò ha comportato un indubbio e non programmato aggravio di lavoro sulle strutture organizzative dei Provveditorati, che hanno dovuto occuparsi di 1.000 edifici (tanti sono, come già detto, i fabbricati adibiti a sede di uffici giudiziari) in più, rispetto a quelli già affidati alle loro cure.
Ovviamente, il mix delle due disposizioni (trasferimento dei compiti in materia edilizia dai Comuni al Ministero e applicabilità dell’istituto del Manutentore unico), senza alcun intervento per rafforzare la struttura organizzativa dei Provveditorati, ha comportato gravissime disfunzioni, sia sul piano dell’individuazione degli interventi da finanziare, sia – e soprattutto – dal punto di vista dei tempi di realizzazione degli interventi medesimi.
I fattori che hanno comportato in breve tempo la diffusa consapevolezza, in capo a molti uffici giudiziari, della incompatibilità del “sistema” del Manutentore unico con la necessità di assicurare condizioni di lavoro conformi al d. lgs. 81/2008, possono molto brevemente essere così riassunti:
1- il numero rilevante di edifici adibiti a uffici giudiziari, che si sono aggiunti agli immobili statali, già ricompresi nella competenza del Manutentore unico;
2- la frequenza delle richieste di intervento formulate dagli uffici giudiziari al Provveditorato delle Opere Pubbliche;
3- i tempi non brevi con cui l’Agenzia del Demanio individuava gli interventi da finanziare.
Infine, l’Agenzia del Demanio in qualità di decisore della spesa ha sempre valutato con particolare oculatezza (o, rectius, parsimonia) le richieste di finanziamento formulate dagli uffici giudiziari (mediante inserimento in una apposita piattaforma informatica, denominata PTIM – Previsione Triennali Interventi Manutentivi).
È sufficiente considerare che fino al 2021, a fronte di 7.262 richieste di intervento formulate da tutti gli uffici giudiziari italiani sin dal 2016, ne erano stati finanziati 3.035 (pari cioè al 42%).
Ma questo dato, che può apparire positivo perché esprime un rapporto del 50% tra richiesto e finanziato, si rivela tuttavia estremamente effimero e da ridimensionare, se si considera l’aspetto veramente rilevante e decisivo e, cioè, quello della dimensione dei lavori finanziati. Infatti, a fronte di una richiesta di realizzare interventi edili e impiantistici del valore complessivo di 3,6 miliardi di Euro, i 3.035 lavori finanziati avevano un “peso specifico finanziario” non superiore a 623 milioni, quindi appena il 17% di quanto era stato richiesto.
Alla parzialità degli interventi finanziati va aggiunta anche la tempistica non particolarmente celere, sia dal punto di vista delle decisioni di finanziamento (di competenza dell’Agenzia del Demanio) sia sul piano della concreta realizzazione (da parte del Provveditorato Opere Pubbliche competente per territorio) delle procedure di appalto.
All’insufficienza del sistema del Manutentore unico si è poi immediatamente aggiunta la consapevolezza che la norma che lo ha istituito (il già citato DL 98/2011) esclude la sua operatività per “gli interventi di piccola manutenzione nonché quelli atti ad assicurare l'adeguamento alle disposizioni di cui al decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81” che, ai sensi dell’art. 12, comma 2, lett. d), del DL 98/2011 “sono curati direttamente dalle amministrazioni utilizzatrici degli immobili, anche se di proprietà di terzi.”.
La ratio di questa previsione legislativa è del tutto evidente: al sistema del c.d. Manutentore unico è affidato il compito di occuparsi degli interventi suscettibili di programmazione, appunto quelli che consistono nella manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili.
Invece, gli interventi necessari per garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro (disciplinati dal d. lgs.. 81/2008) sono di per sé indifferibili e, quindi, rimessi per la loro attuazione direttamente a carico dell’Amministrazione utilizzatrice.
Nel primo periodo di operatività della legge 190/2014 e cioè dal 1^ settembre 2015 ai primi mesi del 2021, il Ministero della Giustizia ha scelto di affidare ai Provveditorati per le Opere Pubbliche anche l’esecuzione dei lavori per la sicurezza dei luoghi di lavoro.
La differenza, rispetto agli interventi manutentivi, consiste nel fatto che i lavori necessari per garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro sono finanziati direttamente dalla Direzione generale delle Risorse, senza attendere le determinazioni e la falcidia dell’Agenzia del Demanio.
La decisione del Ministero di delegare il Provveditorato ad eseguire anche i lavori previsti dal d. lgs. 81/2008 ha certamente ridotto, in misura sensibile, i tempi necessari per il finanziamento, perché – ovviamente – non era necessario le decisioni del Demanio.
Però, la tempestività con cui il Ministero finanziava, con proprie risorse, gli interventi previsti dal d. lgs. 81/2008 ha messo immediatamente a nudo le difficoltà in cui si dibattevano i Provveditorati per le Opere Pubbliche.
La indubbia competenza dei Provveditorati in materia di appalti di lavori pubblici si è rivelata, infatti, insufficiente per far fronte alle centinaia di richieste di interventi che gli oltre 500 uffici giudiziari di tutta Italia hanno cominciato a formulare, per ottenere la realizzazione di opere necessarie per garantire la sicurezza e la salubrità dei luoghi di lavoro.
5. Le modalità operative della DG Risorse nel settore dell’edilizia giudiziaria
Il presente paragrafo, dedicato alle modalità operative della DG Risorse, è incentrato sul settore dell’edilizia giudiziaria che, come è risaputo e come è stato illustrato anche in questi appunti, è quello che presenta le maggiori criticità.
La decisione di accettare l’incarico di direttore generale della Direzione Risorse materiali e delle tecnologie è stata assunta esclusivamente per spirito di servizio, perché la mia pregressa esperienza di presidente di tribunale mi aveva convinto della insostenibilità e dell’estrema pericolosità di una situazione in cui erano sostanzialmente ferme tutte le attività manutentive.
Nel mese di agosto del 2019, il Ministero era riuscito ad assumere 19 funzionari tecnici (ingegneri e architetti), a parziale copertura della dotazione organica stabilita in 200 unità con DM del 30.04.2019.
L’Amministrazione non aveva alcuna “memoria storica” né, tantomeno, alcuna prassi consolidata da seguire in ordine alle procedure di evidenza pubblica per i lavori edili.
Unica eccezione era costituita dal personale dell’Ufficio speciale di Napoli, diretto, a titolo di reggenza, dal Direttore generale delle risorse materiali e delle tecnologie.
Appena preso possesso dell’incarico di Direttore generale, infatti, mi sono reso conto che l’ufficio speciale di Napoli aveva delle professionalità che avevano maturato una notevole esperienza nel settore edile.
Il predetto Ufficio speciale per la gestione e la manutenzione degli edifici giudiziari di Napoli aveva il rango di Direzione generale a sé stante (istituito con decreto-legge 16 dicembre 1993, n. 522, convertito dalla legge 11 febbraio 1994 n. 102) e sin dalla sua istituzione aveva, nella sua pianta organica, “14 unità del ruolo tecnico”.
Per colmare la gravissima carenza di esperienza concreta nel campo dei lavori pubblici, nei primissimi mesi di incarico come Direttore generale, avevo ipotizzato il ricorso all’istituto della committenza ausiliaria (art. 39 d. lgs. 50/2016), al fine di acquisire sul mercato i servizi di assistenza alle molteplici e complesse attività del RUP, del DEC e del Direttore dei lavori. Questa attività di assistenza avrebbe potuto essere prestata sia dalle centrali di committenza previste dall’art. 38 d. lgs. 50/2016 (Consip, Provveditorati, Invitalia e spa Difesa Servizi), sia da imprese private.
Da un confronto con i funzionari dell’Ufficio speciale di Napoli, però, è emerso il convincimento che questa strada – pur legalmente percorribile – non sarebbe stata efficace, per plurime ragioni.
In primo luogo, perchè i tempi necessari per concludere una o più convenzioni con le centrali di committenza previste dall’allora vigente art. 38 codice appalti del 2016 sarebbero stati troppo lunghi. Non tanto perché sarebbe stato necessario acquisire il controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti (ex art. 3 legge 20/1994) ma, soprattutto, perché si sarebbe dovuto chiedere, alla centrale di committenza prescelta, un impegno su scala nazionale con interlocuzioni che non era difficile immaginare estremamente difficoltose, perché avrebbero visto come protagonisti centinaia di dipendenti amministrativi addetti agli uffici acquisti di oltre 500 uffici giudiziari.
Queste perplessità riguardavano anche l’ipotesi – ugualmente analizzata - di acquisire i servizi di committenza ausiliaria non già da una centrale di committenza (cioè da un soggetto in qualche modo rientrante nell’orbita della pubblica Amministrazione) bensì da una o più imprese specializzate in materia di consulenza di appalti di lavori.
Anche questa seconda soluzione è stata ritenuta inidonea, non solo per le ragioni già esaminate con riferimento all’ipotesi di avvalersi di una centrale di committenza, ma anche e soprattutto perché per la stipula di un contratto di servizi di assistenza al RUP, al DEC e al Direttore dei lavori, a favore di tutti gli uffici giudiziari di Italia, sarebbe stato certamente indispensabile svolgere una procedura di valore superiore alla soglia di rilevanza comunitaria (all’epoca, € 139.000,00, per le procedure di appalto di servizi). Ma, non avendo l’Amministrazione alcuna esperienza in materia di “gare europee” (cioè, di valore superiore alla soglia suddetta) ci sarebbe stato il serio rischio di incorrere in errori che avrebbero potuto notevolmente rallentare i tempi, già lunghi, ordinariamente necessari per lo svolgimento di questo tipo di procedura (non meno di 10 mesi).
Vi era poi una considerazione di carattere economico: la prestazione di assistenza on demand, con frequenza pressoché giornaliera e su scala nazionale, avrebbe comportato un esborso notevolissimo che, peraltro, la Direzione non era in grado di quantificare, neppure in via approssimativa, perché non vi erano dati sugli appalti di lavori che avrebbero potuto essere svolti autonomamente dagli uffici giudiziari.
Infine, un ulteriore motivo per cui è stata abbandonata l’ipotesi di far affiancare a tutti gli uffici giudiziari italiani un operatore economico che avrebbe fornito assistenza nello svolgimento delle procedure di evidenza pubblica, è stato ravvisato nel timore che questo servizio di assistenza avrebbe deresponsabilizzato i dipendenti degli uffici giudiziari, che si sarebbero acriticamente adagiati sulle indicazioni che avrebbero ricevuto dall’operatore economico. Infatti, la soluzione dell’attività di committenza ausiliaria sarebbe diventata pressoché permanente, perché nessun dipendente sarebbe stato stimolato ad applicarsi per apprendere, profondendo ovviamente il necessario impegno nello studio e nel confronto, le procedure previste dal codice degli appalti per stipulare contratti di appalto di lavori pubblici e per condurli a regolare esecuzione.
Per tutte queste ragioni, è stata quindi privilegiata la soluzione “interna”.
Pertanto, in meno di 4 mesi dall’inizio dell’incarico di direttore generale, è stato elaborato un procedimento per l’affidamento degli appalti di lavori, tenendo ben presente la peculiarità della situazione in cui versavano gli uffici giudiziari e operando, quindi, sul piano dell’interpretazione del codice degli appalti, al fine di reperire una risposta non ottimale ma comunque efficace.
Il procedimento si poggia sui seguenti capisaldi che riassumono l’iter logico, giuridico ed esperienziale sopra riportato:
a) impossibilità per il Manutentore unico di svolgere tempestivamente tutti i lavori ritenuti necessari dai capi degli uffici giudiziari;
b) obbligo di legge, per tutti gli enti pubblici, di svolgere autonomamente i lavori necessari per garantire sicurezza e salubrità dei luoghi di lavoro (art. 12, comma 2, lett. d), del DL 98/2011), che si sottraggono alla esclusiva competenza del c.d. Manutentore unico;
c) impossibilità per il Ministero di svolgere – centralizzandoli - tutti i lavori previsti dal d. lgs. 81/2008 per tutti gli edifici adibiti a uffici giudiziari, in considerazione dell’elevatissimo numero (quasi 1.000), dell’ancor più elevato numero di interventi richiesti dagli uffici giudiziari (all’epoca, 3.720) e dell’esiguo numero di tecnici di cui disponeva la Direzione (meno di 20);
d) mancata attuazione, all’epoca, della norma istitutiva dei 7 uffici periferici (art. 6 d. lgs. 240/2006);
e) possibilità, prevista dall’art. 31, comma 9, d. lgs. 50/2016, che le funzioni di RUP in materia di lavori pubblici siano svolte da un dipendente amministrativo, quando la stazione appaltante è priva di figure tecniche;
f) molteplicità di stazioni appaltanti (più o meno, 500) perché ai sensi dell’allegato III al codice degli appalti “ogni ufficio giudiziario è una stazione appaltante”: questa previsione offre una opportunità che si è rivelata strategica, perché ha consentito di avvalersi del contributo di una molteplicità di figure professionali e, soprattutto, di svolgere legittimamente procedure sotto soglia, che sono indubbiamente molto più snelle di quelle di valore superiore alla soglia europea;
g) interesse dei Capi degli uffici e/o dei dirigenti amministrativi a migliorare le condizioni di lavoro di magistrati, dipendenti, avvocati e utenti, rendendo gli edifici non solo più sicuri ma anche più decorosi.
I suddetti punti richiedono alcune specificazioni.
In primo luogo, gli uffici giudiziari erano (e in gran parte lo sono ancora) del tutto privi di personale tecnico. L’art. 31, comma 6, d. lgs. 50/2016 prevede(va) la necessità che “per i lavori e i servizi attinenti all'ingegneria e all'architettura il RUP deve essere un tecnico”. Tuttavia, la stessa norma prevede che “ove non sia presente tale figura professionale, le competenze sono attribuite al responsabile del servizio al quale attiene il lavoro da realizzare.”.
Pertanto, per superare questo primo problema (cioè, la penuria o meglio la totale assenza di tecnici negli uffici giudiziari), si è fatto ricorso alla disposizione testè citata, che costituisce una deroga alla regola generale.
Inoltre, per realizzare lo scopo di elaborare un modello procedimentale per lo svolgimento delle procedure di appalto di lavori, adeguato alle problematiche tipiche dell’Amministrazione della Giustizia, si è poi fatto leva sulla norma che prevede che ogni ufficio giudiziario, incluso l’Ufficio del Giudice di Pace, è stazione appaltante.
Questa disposizione consente ad ogni ufficio giudiziario di svolgere le procedure di appalto per l’acquisizione di beni, servizi o lavori, limitatamente alle proprie esigenze di specifica e singola stazione appaltante.
Questa parcellizzazione della qualifica di stazione appaltante ha l’effetto di contenere il valore del fabbisogno di ciascun ufficio giudiziario e, conseguentemente, è stato facile rimanere al di sotto della soglia eurounitaria (pari a € 140.000,00 per beni e servizi e a € 5.382.000,00 per i lavori).
Un altro escamotage escogitato per conseguire l’obiettivo di avviare e concludere le procedure di appalto di lavori è consistito nel ricorso alla più ampia esternalizzazione di tutte le attività previste dal codice degli appalti.
Occorre a questo punto evidenziare una notevole differenza tra le procedure di acquisto di beni e servizi, da un lato, e quelle per l’acquisizione di lavori edili, dall’altro.
Infatti, le procedure per l’acquisizione di beni e servizi di valore inferiore alla soglia sono relativamente snelle, perché si tratta di seguire gli step previsti dalla piattaforma informatica predisposta dalla Consip (denominata “MEPA”). Una volta individuato l’operatore economico, stipulato il contratto ed eseguita la prestazione, il RUP deve redigere il certificato di regolare esecuzione, propedeutico all’emissione della fattura da parte dell’aggiudicatario. Questa procedura era ed è ampiamente nota a tutti gli uffici giudiziari, che dell’acquisto di beni e servizi si sono sempre occupati, maturando quindi un’esperienza pluridecennale.
Invece, le procedure di appalto di lavori sono molto più articolate e oggettivamente complesse.
Innanzitutto, si deve decidere se sia o meno necessario effettuare la progettazione. Nel procedimento ad hoc che è stato concepito e messo a punto, questa valutazione è stata accentrata in capo ai tecnici della Direzione, nel senso che è stata rimessa ai 15 tecnici (di cui alcuni in servizio presso il Ministero e altri assegnati a qualche Corte di appello).
Una volta stabilito che è necessario elaborare un progetto, la Direzione predispone un provvedimento (“determina”) con cui si autorizza l’ufficio giudiziario, che ha sede nell’edificio che deve essere interessato dai lavori, ad espletare la procedura per l’aggiudicazione del servizio di progettazione ad un professionista (ingegnere, architetto, geometra) iscritto sul MEPA. La Direzione ha quindi elaborato uno schema di provvedimento autorizzativo per il conferimento dell’incarico e ha delegato l’ufficio giudiziario a nominare il funzionario che deve svolgere l’attività di RUP.
La esternalizzazione dell’attività di progettazione è funzionale a sopperire alla estrema carenza di tecnici: è evidente che 15 ingegneri e architetti non avrebbero certamente potuto occuparsi della progettazione di centinaia di lavori edili e/o impiantistici.
Al fine di fornire la massima assistenza ai RUP, la Direzione ha anche elaborato degli schemi di documenti tecnici (capitolato tecnico, disciplinare d’oneri, modelli di presentazione dell’offerta e di aggiudicazione), che ha messo a disposizione sulla piattaforma SIGEG, a cui hanno accesso tutti gli uffici giudiziari italiani.
Pertanto, nella fase della progettazione, il ricorso all’esternalizzazione ha consentito di non impegnare i pochissimi tecnici di cui disponeva il Ministero in un’attività impegnativa e assorbente, ma di adibirli al compimento di altre attività non delegabili.
In particolare, i funzionari tecnici dipendenti dell’Amministrazione sono stati incaricati non solo di valutare la indispensabilità o meno della progettazione, ma anche di verificare l’elaborato progettuale.
Infatti, il codice degli appalti (sia quello del 2016, che quello del 2023) richiede che i progetti redatti da un libero professionista, su incarico della pubblica amministrazione, siano sottoposti a controllo da parte dell’amministrazione, prima di corrispondere il compenso al progettista e prima di avviare la procedura per l’appalto del lavoro oggetto della progettazione.
Pertanto, i progetti elaborati dai professionisti esterni all’Amministrazione sono stati verificati dai tecnici ministeriali.
Con il trascorrere dei mesi, una volta messo a punto il procedimento per l’aggiudicazione dell’appalto dei servizi di progettazione, il numero degli elaborati progettuali è talmente aumentato che si è reso necessario ricorrere all’esternalizzazione (sia pure in via eccezionale) anche dell’attività di verifica. L’ufficio giudiziario, cioè, è stato autorizzato ad avvalersi di un tecnico libero professionista, per controllare che il progetto redatto da un altro professionista fosse adeguato e conforme alle normative tecniche di settore.
Inoltre, è stato realizzato un centro di assistenza e consulenza. Per consentire a tutti gli uffici giudiziari di essere assistiti nell’esplorazione di un campo del tutto ignoto (appunto, quello delle procedure di appalto), i funzionari tecnici (sia quelli dell’ufficio VI, che quelli assegnati ad alcune corti di appello) e i dipendenti amministrativi dell’ufficio III sono stati incaricati di ricevere, su una casella di posta elettronica dedicata, i quesiti formulati dagli uffici e di fornire l’ausilio necessario, dopo averne discusso con i dirigenti degli uffici della Direzione (ufficio III e ufficio VI).
In questo modo, oltre a tranquillizzare il personale amministrativo degli uffici giudiziari, si è anche realizzato un flusso di informazioni che ha consentito di avere consapevolezza di errori o lacune nei modelli predisposti e di porvi rimedio con la massima tempestività.
Concludendo, posso dire che l’edilizia giudiziaria è stato il terreno che ha maggiormente caratterizzato la mia esperienza di direttore generale della Direzione Risorse nel triennio 2021/2023.
L’obiettivo di dare una scossa alla paralisi degli interventi edili e impiantistici degli edifici giudiziari è stato pienamente raggiunto. È stato elaborato un procedimento compiuto, superando tutte le difficoltà che si sono inevitabilmente manifestate, dimostrando in tal modo che anche una pubblica amministrazione, qual è l’ufficio giudiziario quando si occupa della gestione delle risorse materiali, priva di competenze tecniche e di memoria storica, può realizzare gli interventi necessari per garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro.
Va inoltre considerato che questo processo di “affrancamento” (nel settore dell’edilizia giudiziaria) degli uffici giudiziari dal Demanio e dai Provveditorati delle Opere Pubbliche, è stato sin dall’inizio pianificato e realizzato di concerto con i loro vertici.
A costoro è stato infatti illustrato, con la massima trasparenza, che alla base dell’intenzione di imparare a realizzare procedure di appalto di lavori non vi era alcun atteggiamento critico nei confronti delle strutture deputate per legge ad eseguirle (appunto, Demanio e Provveditorati), ma la consapevolezza delle oggettive difficoltà in cui esse si dibattevano.
È stato cioè spiegato che l’intenzione era di eseguire in house le procedure di minor difficoltà (individuando convenzionalmente quelle di valore fino a un milione di euro) al fine di consentire che la elevatissima professionalità di Demanio e Provveditorati fosse impiegata per lavori di maggior importanza e complessità (ad esempio: nuove costruzioni, ampliamenti, ristrutturazioni radicali, ecc.).
Questa visione strategica, che in pratica consiste nella ottimizzazione di risorse e competenze, che sono inevitabilmente sempre limitate, ha non solo ricevuto la comprensione delle altre amministrazioni, ma si è rivelata estremamente efficace. Ha infatti consentito al Demanio e ai Provveditorati di concentrarsi su opere particolarmente impegnative, del valore di decine di milioni di euro (cittadelle giudiziarie, ristrutturazioni, ecc.) anche al di fuori e in aggiunta agli impegni assunti con il PNRR.
Infine, il pragmatismo sotteso a questa iniziativa è stato riconosciuto anche dal legislatore che, con la legge di stabilità del 2023 ha sottratto alla competenza del c.d. Manutentore unico gli interventi di manutenzione (ordinaria o straordinaria) di valore inferiore a 100.000,00, prevedendo che di tali lavori si deve occupare la pubblica amministrazione interessata. In altri termini, anche il legislatore ha ritenuto necessario sgravare i Provveditorati alle Opere Pubbliche da procedure di importo relativamente contenuto, per consentire loro di concentrarsi su quelle più impegnative.
Il d. lgs. 31 marzo 2023, n. 36, ha approvato il nuovo Codice degli appalti, entrato in vigore il 1^ luglio 2023.
La Direzione ha quindi proceduto ad adeguare la modulistica; i nuovi format sono stati inseriti nel SIGEG. Conseguentemente è stata emanata una circolare interna per illustrare a tutti i dipendenti dell’ufficio VI i nuovi modelli.
Con nota in data 15.01.2024, rivolta ai dipendenti amministrativi e tecnici dell’ufficio VI e dell’Ufficio periferico di Napoli nonché ai tecnici dislocati presso le Corti di appello, sono state illustrate le più rilevanti novità (rispetto ai format precedenti) e la “filosofia” di fondo.
Non è questa la sede per esaminare in dettaglio le modifiche apportate ai modelli precedenti.
Ciò che preme evidenziare è che fino all’ultimo giorno dell’incarico (appunto, 15 gennaio 2024) la Direzione ha posto in essere tutte le attività necessarie per garantire la continuità dell’azione amministrativa avviata nel 2021.
6. Dati sull’attività svolta nel triennio 2021/2023
I lavori avviati dagli uffici giudiziari in autonomia, cioè su delega della Direzione (senza, cioè, intervento dei Provveditorati Opere Pubbliche) sono 347, di cui:
- 2, nel 2020
- 127, nel 2021
- 140, nel 2022
- 78, nel 2023.
I lavori affidati ai Provveditorati sono, a loro volta, 528.
Il Ministero ha avviato e seguito, direttamente, cioè senza delega agli uffici giudiziari, 205 lavori e/o progetti.
L’importo dei lavori eseguiti o avviati in autonomia dagli uffici giudiziari è pari a € 33.735.092,57.
7. Focus su alcune iniziative con finalità preventiva
Si è già detto che nel triennio 2021/2023 la Direzione ha ideato, messo a punto e diffuso una procedura di attuazione degli affidamenti di servizi di progettazione e di appalto di lavori, studiata ad hoc per gli uffici giudiziari, tenendo cioè in considerazione le notevoli specificità organizzative degli stessi.
A partire dal 2022 si è poi cercato di realizzare una importantissima evoluzione delle modalità di svolgimento delle attività istituzionali nel settore dell’edilizia giudiziaria.
Infatti, da una modalità di intervento puntuale, cioè successiva al verificarsi dell’inconveniente che richiede la riparazione di un impianto o di una struttura ammalorata (c.d. “intervento “a guasto”) si è cercato di inaugurare una stagione di interventi preventivi, diretti cioè ad evitare problematiche il cui verificarsi può generare gravissime conseguenze alla salute e alla vita dei lavoratori e degli utenti che frequentano gli uffici giudiziari.
Di seguito si esamineranno i settori in cui è stata avviata l’attività preventiva.
7.1. Analisi di vulnerabilità sismica
L’Italia è un Paese in cui sono presenti molte zone a rischio sismico elevato e in particolare:
- zona 1 (rischio alto: Regioni Friuli Venezia Giulia, Veneto, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e Sicilia;
- zona 2 (rischio medio alto): Regioni Emilia Romagna, Lazio, Marche, Puglia e Basilicata;
- zona 2 (rischio medio basso): Regioni Lombardia, Toscana., Liguria e Piemonte.
La Direzione ha quindi ritenuto indispensabile avviare una campagna di analisi di vulnerabilità sismica degli edifici adibiti a uffici giudiziari.
Considerato che l’Agenzia del Demanio ha avviato da tempo, su scala nazionale, una analoga iniziativa su tutti i beni demaniali, la Direzione ha deciso di concentrare le proprie energie amministrative e le proprie risorse finanziarie sugli immobili di proprietà comunale e oggetto di comodato ex lege (ai sensi della legge 190/2014).
Sono state quindi emesse tra il 2022 e il 2023 22 determine per l’affidamento dell’attività di analisi della vulnerabilità sismica, per un valore complessivo di3.742.324,00 di euro.
Le determine riguardano 22 edifici, siti in 20 diversi Comuni, tutti facenti parte di Regioni incluse nella zona 1 ad alto rischio sismico.
L’attuazione delle determine è stata affidata agli uffici giudiziari interessati.
7.2. Antincendio
Un’altra attività di tipo preventivo ha riguardato quella diretta a salvaguardare gli edifici giudiziari dal rischio incendio.
La Direzione ha avviato, preliminarmente, un censimento diretto a verificare lo stato delle pratiche di prevenzione incendi e, soprattutto, la presenza e il buon funzionamento degli impianti di rivelazione incendi.
A questa determinazione si è pervenuti considerando vari fattori di rischio e, segnatamente, la presenza di numerosi apparecchi elettrici ed elettronici, la vetustà degli impianti elettrici, la notevole mole di documentazione cartacea presente negli uffici.
Da tale censimento è emerso che:
- in 581 edifici, manca il Certificato Prevenzione Incendi (CPI);
- in 85 edifici, il CPI è scaduto.
Inoltre, per 203 immobili sono state avviate delle procedure di adeguamento e l’ufficio VI è stato incaricato di monitorare lo stato di attuazione delle determine.
Parallelamente all’attività di censimento, sono state avviate ulteriori procedure per l’avvio di servizi di progettazione e per lavori di manutenzione straordinaria degli impianti antincendio e finalizzati all’ottenimento dei CPI. Sono stati quindi predisposti i format per la redazione degli studi di fattibilità finalizzati ai lavori di installazione, rifacimento o manutenzione straordinaria degli impianti di rivelazione incendi.
Ancora, sono stati predisposti i capitolati per l’affidamento del servizio di progettazione (quando necessario) o, in alternativa, per l’affidamento dell’appalto dei lavori di realizzazione dell’impianto o di manutenzione di quello esistente.
Il censimento ha permesso alla Direzione di assegnare dei livelli di criticità, necessari per stabilire un ordine di priorità e per effettuare una programmazione specifica per ciascun intervento.
Relativamente al censimento antincendio, nel corso dell’anno 2023 sono state quindi emesse 13 determine, di cui;
- 9 di servizi di progettazione, per un corrispettivo a base di gara pari complessivamente a € 353.994,71;
- 4 di lavori, per un corrispettivo a base di gara pari complessivamente a € 1.430.067,90.
Per accelerare la soluzione del problema, il capitolato dei lavori è stato redatto in maniera tale da fare a meno della progettazione. Si prevede però, sempre, la nomina del direttore dei lavori, a tutela dell’amministrazione.
Relativamente alle attività di adeguamento o manutenzione straordinaria degli impianti antincendio, nel corso dell’anno 2023 sono state emesse 19 determine, di cui:
- 17 di servizi di progettazione/DL-CSE, per un corrispettivo a base di gara pari complessivamente a € 559.304,80;
- 2 di lavori, per un corrispettivo a base di gara pari complessivamente a € 344.016.04.
In conclusione, si può dire che l’attività svolta per prevenire i rischi di incendio rientra a buon diritto nell’ambito di applicazione del decreto legislativo 81/2008, diretto a far sì che i luoghi di lavoro siano sicuri e funzionali.
7.3. Controsoffitti
Come è noto, numerosi edifici adibiti a uffici giudiziari sono stati interessati, nel corso degli anni, da eventi di cedimento strutturale di controsoffitti.
La Direzione ha effettuato un censimento che ha consentito di verificare che:
- i controsoffitti sono presenti in 938 edifici;
- gli edifici con presenza di controsoffitti a rischio elevato (“rosso”) sono 48;
- gli edifici con presenza di controsoffitti a rischio medio (“giallo”) sono 30.
È stato predisposto un format per l’esecuzione delle prove qualitative di valutazione dei controsoffitti e delle strutture portanti (c.d. “pendini”).
È stato inoltre messo a disposizione degli uffici giudiziari un capitolato per l’affidamento del servizio di messa in sicurezza, con eventuale rafforzamento delle strutture portanti e/o di sostituzione dei controsoffitti.
Ad oggi sono state emesse 23 determine, per altrettanti edifici, per un valore complessivo di € 1.770.382,92; una parte di esse (per un controvalore di € 1.256.210,06) riguardano la sostituzione e/o rimozione dei controsoffitti; la parte restante (per € 514.172,86) prevedono la sola messa in sicurezza.
Il censimento dello stato dei controsoffitti è, ovviamente, diretto a prevenire cedimenti, per evitare gravi conseguenze per la incolumità delle persone.
7.4. Verifica dello stato di impermeabilizzazione delle coperture
La Direzione Generale, dopo aver avviato l’attività di monitoraggio diretta a verificare lo stato di manutenzione dei controsoffitti, ha intrapreso un’ulteriore attività d’indagine in qualche modo connessa alla prima.
È stato considerato, infatti, che la causa dell’ammaloramento dei controsoffitti (con conseguente rischio di distacco dei pannelli e delle sottostrutture della controsoffittatura) può in alcuni casi essere ricondotta ad un cattivo stato di conservazione delle coperture degli edifici.
In particolare, un manto di copertura in avanzato stato di degrado consente l’infiltrazione dell’acqua piovana che, conseguentemente, provoca l’ammaloramento di porzioni di solaio causando, nei casi più gravi, il distaccamento dell’intonaco e delle pendinature dei controsoffitti che possono cedere e schiantarsi sugli ambienti sottostanti.
Il censimento svolto sullo stato manutentivo delle coperture piane ha consentito l’emersione di 200 casi di infiltrazioni con criticità elevate.
Il dato è oltremodo preoccupante, se si considera che è pari al 20% circa del totale degli immobili in uso agli uffici giudiziari.
Nel 2022 sono state quindi emesse:
- 7 determine per l’affidamento del servizio di progettazione, per un valore totale di € 420.928,65;
- 3 determine per l’affidamento dell’appalto di lavori di ripristino della impermeabilizzazione, per un valore totale di € 1.735.269,09.
L’attività è proseguita nel 2023, con la emissione di:
- 17 determine per l’affidamento del servizio di progettazione, per un valore totale di € 958.995,81 (oltre a quattro progettazioni effettuate dai tecnici del Ministero);
- 18 determine per l’affidamento dell’appalto di lavori di ripristino della impermeabilizzazione, per un valore totale di € 2.230.908,39.
7.5 Efficientamento energetico
Ad ogni stagione estiva, da numerosi uffici giudiziari provenivano lamentele per il cattivo funzionamento degli impianti di raffrescamento.
È stato così predisposto un modello di determina per l’acquisizione del servizio di:
- analisi dello stato di funzionamento degli impianti di riscaldamento e raffrescamento
- programma di manutenzione
- progetto esecutivo per assicurare il corretto funzionamento degli impianti stessi
- attestato di prestazione energetica
- valutazione sugli interventi edili e/o impiantistici che possano ridurre il fabbisogno di energia,
al fine di rendere la gestione dell’edificio più sostenibile sul piano economico ed ambientale.
Sono state emesse 80 determine con cui sono stati delegati altrettanti uffici giudiziari.
Ad oggi lo stato di attuazione delle predette determine è il seguente:
- sono stati redatti 36 progetti, per un costo complessivo (cioè, compenso, spese e iva spettanti ai progettisti) pari a € 884.097,88;
- sono in corso 10 progetti, per un costo di € 253.397,67.
Dei nr. 36 progetti ricevuti:
- sono stati verificati nr. 20 progetti;
- per i quali sono state emesse nr. 13 determine per l’affidamento dell’appalto di lavori, per un costo complessivo di € 7.939.411,94;
- nr. 9 delle predette termine per l’appalto dei lavori sono state eseguite, con l’individuazione dell’operatore economico aggiudicatario;
- nr. 13 progetti sono in fase di verifica preliminare, assegnati a società esterne qualificate;
- nr. 3 progetti sono in fase di verifica interna (a cura del RUP e DEC titolari della procedura).
Inoltre, sono state revocate:
- nr. 14 determine, per quegli uffici che nel tempo, non hanno proceduto all’attuazione del provvedimento con richiesta motivata dagli stessi;
- nr. 3 determine, per quegli immobili interessati ai provvedimenti, inseriti, successivamente alla data di emissione della determina, nel piano PNRR della regione di competenza.
Nel corso del 2023 è poi emerso che un sistema alternativo (rispetto a quello sopra illustrato) perché più rapido e più economico, per risolvere il problema del cattivo funzionamento degli impianti di raffrescamento e/o di riscaldamento, è rappresentato dal noleggio a lungo termine delle macchine frigo (chiller e/o pompe di calore).
La Società affidataria del servizio si occupa di tutto ciò che occorre per il ripristino della funzionalità dell’impianto termico: dalla verifica del suo stato di funzionamento, al posizionamento della nuova macchina con i nuovi collegamenti idrici ed elettrici necessari, alla rimozione, trasporto e conferimento in discarica autorizzata sia dell’unità termica obsoleta, che dei componenti ed accessori sostituiti, alla messa in esercizio della nuova macchina, al rilascio delle certificazioni di legge e dichiarazioni attestanti la conformità nella posa in opera.
Inoltre, la Società si obbliga ad assicurare l’utilizzo dell’unità termica fornita in condizioni di perfetta efficienza per tutta la durata contrattuale, garantendo: le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria; il cambio dell’unità termica in caso di guasto grave; la garanzia su tutti i componenti dell’unità termica; il pronto intervento (a tutte le ore e per 365 giorni all’anno); eventuali adeguamenti, presenti e futuri, alle normative tecniche; la possibilità di sostituzione della macchina impiantata con macchina più performante, presente nel catalogo della Società affidataria, entro il periodo di noleggio.
Nell’ambito del servizio del noleggio a lungo termine (con durata media del noleggio di 60 mesi), questa Direzione Generale, durante l’anno 2023, ha emesso nr. 39 atti di autorizzazione alla spesa, delegando gli Uffici Giudiziari all’attuazione delle relative determine, per il noleggio a lungo termine di nr. 62 unità termiche (di cui: nr. 47 chiller, nr. 13 pompe di calore e nr. 2 gruppi rooftop, di varia potenza termica) a servizio di nr. 39 immobili interessati dal servizio, per un costo complessivo lordo di € 4.274.277,96 (ovvero, per un costo medio annuo lordo di € 854.855, 59).
Come già accennato, il ricorso al noleggio a lungo termine si è dimostrato una soluzione molto più celere ed efficace dell’appalto dei lavori per il soddisfacimento dell’obiettivo iniziale e, cioè, far sì che l’impianto (di riscaldamento o di raffrescamento) funzioni adeguatamente, al fine di garantire la salubrità dei luoghi di lavoro.
Rimane invece ferma la necessità che gli edifici adibiti a uffici giudiziari siano interessati da una profonda azione di efficientamento energetico, per ridurre l’elevatissimo consumo di energia (elettrica e gas), che nel 2023 è stato pari a:
- € 45.929.029,34, per la elettricità;
- € 13.519.748,94, per il gas.
Va infatti considerato che solo 59 edifici (su 1.000) sono stati inseriti nei progetti di intervento di efficientamento energetico, previsti dal PNRR.
Si tratta però di un’attività molto impegnativa, sia sul piano delle risorse finanziarie necessarie che su quello delle energie lavorative da investire.
L’attuale struttura del Ministero non consente di avviare attività così complesse.
Proprio in considerazione dell’importanza strategica della riduzione del fabbisogno energetico (non solo per ragioni finanziarie ma anche, e soprattutto, per considerazioni di natura ambientale), spetta alla magistratura associata chiedere che l’Amministrazione si munisca di una struttura efficiente, in grado di conseguire questo fondamentale obiettivo.
7.6. Barriere architettoniche
È stato costituito un gruppo di lavoro per l’analisi della normativa in materia di barriere architettoniche.
Sono stati individuati 5 progetti pilota e cioè:
• Centro Direzionale di Napoli
• Tribunale di Viterbo
• Cittadella di Salerno
• Tribunale di Isernia
• Tribunale di Lamezia Terme.
L’attività concretamente svolta e quella che dovrà essere proseguita consiste in:
• Ricerca e studio delle normative vigenti: L. n. 13/89, D.M. n. 236/89, DPR. n. 503/1996;
• Predisposizione di linee guida (Vademecum) per l’abbattimento delle barriere architettoniche;
• Redazione di una check list, finalizzata al censimento degli edifici oggetto di adeguamento normativo sul territorio nazionale;
• Partecipazione ad incontri con il presidente dell’associazione «T.D.D.S. Guardiamo Avanti» per discutere dell’adeguamento normativo degli Uffici Giudiziari;
• Confronto con i tecnici sul territorio per il reperimento del materiale inerente interventi, in corso d’opera o già realizzati;
• Redazione di tavole e/o relazioni necessarie da porre a base di offerta per gli Operatori Economici interessati;
• Indagini di mercato ed individuazione degli operatori economici per gli inviti a partecipare ai lavori necessari agli adeguamenti;
• Proposta alle conferenze permanenti per gli adeguamenti necessari all’abbattimento delle barriere architettoniche.
7.7. Legionella
Nel 2022, a seguito del manifestarsi di un fenomeno di legionella nelle tubazioni degli edifici giudiziari di Roma, la Direzione ha emesso, d’ufficio, 1 determina, per un valore complessivo di € 396.180,13 oltre Iva, per lavori di installazione dell’impianto di iperclorazione continua, a servizio dell’impianto idricosanitario esistente, ad uso della sede ministeriale di via Arenula 70 e di tutti gli uffici giudiziari di Roma Capitale.
7.8. Accatastamento
È poi emerso che quasi tutti gli edifici adibiti a uffici giudiziari non sono accatastati.
Sebbene sia una situazione che, di per sé, non comporta rischi per la sicurezza dei luoghi di lavoro, la Direzione ha comunque svolto un’intensa attività diretta a:
- censire lo stato catastale di tutti i fabbricati;
- reperire (ove esistenti) le planimetrie catastali;
- verificare la necessità dell’allineamento catastale o di un nuovo accatastamento;
- predisporre un format di determina per l’affidamento dell’incarico di accatastamento ad un professionista esterno.
Ad oggi sono state emesse 3 determine.
7.9. Linee guida per la progettazione degli edifici e dei “Parchi della Giustizia”:
Nel 1988 il Ministero della Giustizia ha approvato gli “Indirizzi tecnici per la Progettazione e il Dimensionamento degli Uffici giudiziari”.
Tale documento era ormai superato, quantomeno in considerazione delle seguenti innovazioni normative:
- d. lgs. 51/98 sul Giudice unico;
- legge 374/1991 sull’Ufficio del Giudice di Pace
- art. 2 comma 222 legge 191/2009 sul rapporto mq./addetto per gli edifici pubblici.
La Direzione ha quindi articolato una serie di istruzioni all’Agenzia del Demanio, indicando le specifiche esigenze e i locali che, essendo destinati a soddisfare specifiche esigenze degli uffici giudiziari, non dovevano essere considerati nel predetto parametro mq./addetto.
L’Agenzia del Demanio ha commissionato uno studio al Politecnico di Milano.
È stato costituito un gruppo di lavoro da tecnici della Direzione, del Demanio e dell’Università, che ha prodotto un articolato studio.
Il capitolo 3, che riguarda specificamente “criteri per la progettazione degli uffici giudiziari”, con le integrazioni di cui alla nota della Direzione 06.10.2023 nr. 217290 e a quella di risposta del Demanio 24.11.2023 prot. nr. 0251906, riprende totalmente l’elaborato redatto dal sottoscritto e contenente una serie di criteri per calcolare la superficie che può essere assegnata a un ufficio giudiziario, giudicante o requirente, a seconda della pianta organica del personale di magistratura e amministrativo.
Le linee guida sono state approvate e rese definitive l’11 gennaio 2024.
8. Interventi edili e/o impiantistici inseriti nel PNRR
Il Ministero della Giustizia ha ottenuto l’inserimento nel PNRR di 48 interventi edili e/o impiantistici, finalizzati a realizzarne l’efficientamento energetico.
La loro attuazione è stata affidata dal Ministero ai Provveditorati Opere Pubbliche, all’Agenzia del Demanio e al Comune di Venezia.
Tutte le “milestone”, cioè le tappe intermedie, sono state conseguite.
In particolare, sono state rispettate le seguenti scadenze:
a) pubblicazione dei bandi di gara:
1) entro il 31.12.2022: il 20%;
2) entro il 30.06.2023: il 50%;
b) aggiudicazione delle gare per i lavori:
1) entro il 31.12.2023: il 100%;
c) inizio dei lavori:
1) entro il 30.09.2023: il 20%;
2) entro il 31.03.2024: il 50%;
3) entro il 31.03.2025: il 100%.
Ciò è stato possibile perché prima ancora che il PNRR fosse ufficialmente approvato, la Direzione ha autorizzato tutti i soggetti attuatori (Provveditorati, Agenzia del Demanio e Comune di Venezia) ad avviare le procedure per l’affidamento dei servizi di progettazione, assicurando la copertura finanziaria dei relativi costi.
Questa decisione ha consentito di guadagnare almeno 6-8 mesi sulla tabella di marcia prevista dal PNRR, la cui scadenza improrogabile è, come noto, il 31 marzo 2026.
Entro il 31.03.2026 devono infatti essere redatti i collaudi.
L’importo massimo finanziato è pari a € 411.739.000,00.
Tale somma sarà erogata dall’Unione europea solo se sarà conseguito l’obiettivo di realizzare interventi di riduzione del fabbisogno energetico per una superficie minima di 289.000 mq.
Se sarà centrato questo obiettivo relativo alla superficie da “efficientare”, la somma di € 411.739.000,00 sarà erogata integralmente, indipendentemente da quanto il Ministero avrà speso per portare a compimento i suddetti lavori.
Proprio perché l’unico obiettivo (target) da realizzare è quello della superficie minima di 289.000,00 mq., nel 2023 è stata ottenuta una rilevante modifica al PNRR.
In particolare, il numero degli edifici su cui realizzare l’efficientamento è stato aumentato (da 48 a 58).
Dopo aver constatato che due interventi dei 48 originariamente previsti non potevano essere ultimati entro la scadenza del PNRR, sono stati rimpiazzati da altri 2 lavori.
La superficie totale dei 58 immobili inclusi nel PNRR è pari a 485.959,38 mq., cioè il 68% in più di quella originariamente prevista (289.000 mq.) e che il PNRR considera obiettivo (target) indefettibile per poter conseguire il finanziamento europeo.
Dal punto di vista dei costi degli appalti, è interessante notare che le procedure di gara hanno consentito di conseguire notevoli risparmi di spesa.
Infatti, rispetto agli originari € 411.739.000,00 previsti per l’efficientamento energetico di 289.000,00 mq., sono stati conclusi contratti di appalto che riguardano una superficie molto più estesa (mq. 485.959,38) per un importo complessivo di € 515.518.240,86 e, quindi, solo il 25% in più rispetto a quanto verrà finanziato dall’Unione europea.
La decisione di aumentare sensibilmente il numero degli interventi (da 48 a 58) con conseguente incremento della superficie complessiva interessata, è stata presa al fine di creare una “zona cuscinetto” che consenta di mettersi al riparo da eventuali ritardi o altri imprevisti nella fase di esecuzione dei lavori.
Si può quindi ragionevolmente ritenere – salvo smentita – che nel settore dell’edilizia giudiziaria gli obiettivi di efficientamento energetico previsti dal PNRR saranno agevolmente conseguiti entro la scadenza del 31 marzo 2026.
Va poi aggiunto che la scelta di aumentare il numero di edifici e la loro superficie consentirà di raggiungere anche un altro risultato e, cioè, quello di conseguire un efficientamento energetico (sia pure, in minima parte, con risorse statali e non eurounitarie) di dimensioni considerevoli, molto superiori al progetto originario, con intuibili vantaggi in termini di riduzione del fabbisogno energetico e, soprattutto, sotto il profilo dell’ambiente.
9. Conclusioni
L’esperienza di direttore generale delle risorse materiali e delle tecnologie del Ministero della Giustizia è stata intensa e per me molto istruttiva.
L’insegnamento che ne ho tratto è che nell’amministrazione attiva non ci sono settori per i quali è preclusa o necessaria una specifica qualifica.
Per dirigere adeguatamente una Direzione non è indispensabile rivestire la qualifica di magistrato, così come non è necessario essere un dirigente amministrativo o un tecnico del settore (ingegnere, informatico, ecc.).
Le qualità necessarie sono altre: conoscenza e consapevolezza dei problemi e quindi capacità di analisi; volontà di risolverli; individuazione degli obiettivi da perseguire; capacità di elaborare il percorso normativo e organizzativo necessario; abilità nella lettura delle norme che regolano il settore ed individuazione delle disposizioni che più si attagliano alla specificità del settore; coinvolgimento di tutti i soggetti (interni ed esterni alla Direzione); coraggio e intraprendenza nella elaborazione delle soluzioni organizzative mai sperimentate prima.
Recensione di Dino Petralia a Il cognome delle donne di Aurora Tamigio, Feltrinelli 2024.
Un romanzo del tempo. Dove il tempo ha la stessa dimensione del luogo ed entrambi la forza inebriante e agghiacciante dell’eternità.
Si, perché in questa storia di donne lo scorrere del tempo nel minuscolo paese dell’entroterra siciliano, tra stenti, sogni e vittorie, è solo un pretesto, un artifizio descrittivo per celebrare un’immanente sovranità esistenziale: il coraggio vitale di Rosa, inventatasi oste generosa e insieme medico al bisogno, capace di parlare ai morti e predire il futuro, l’industriosa pazienza di Selma e le sue tre figlie, Patrizia, Lavinia e Marinella, un trio familiare tutto al femminile in perfetta simbiosi d’energia, in cui la grinta sfidante della prima ha la stessa potenza vivificante della candida curiosità del mondo di Lavinia e così pure dell’ardore della più piccola, al cospetto di una modernità che incalza.
Cinque donne, attorno alle quali, in un girotondo di figure maschili in servizio permanente effettivo di comparse, soffia leggero l’alito di una paesanità struggente e tormentata. E al tempo stesso attraente e magica.
Un romanzo lungo di pagine ma breve di lettura, senza l’enfasi della saga o la retorica del tema, dal tratto semplice e raffinato insieme di un’intimità sapiente di antica sicilianità.
I crediti di lavoro e gli interessi dopo l'intervento delle Sezioni Unite
di Luigi Cavallaro
Relazione all’incontro di studio organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura sul tema “I crediti di lavoro e gli interessi: l’intervento delle Sezioni Unite” (Napoli, Castel Capuano, 12 luglio 2024).
Sommario: 1. Le Sezioni Unite sugli interessi maggiorati ex art. 1284, comma 4°, c.c. - 2. Gli interessi legali sui debiti di valore e su debiti di valuta - 3. La retribuzione: debito di valore o debito di valuta? - 4. I debiti retributivi come obbligazioni pecuniarie speciali e gli interessi maggiorati ex art. 1284, comma 4° c.c. -
1. Le Sezioni Unite sugli interessi maggiorati ex art. 1284, comma 4°, c.c.
La questione degli interessi legali dovuti in caso di ritardo nell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria è stata recentemente oggetto di un duplice intervento delle Sezioni Unite della Cassazione, a seguito di due distinte rimessioni pregiudiziali ex art. 363-bis c.p.c. da parte del Tribunale di Milano e del Tribunale di Parma.
Entrambe le rimessioni avevano tratto origine da altrettanti processi esecutivi: nel caso del Tribunale di Milano, la parte opponente si era doluta che, a fronte di una statuizione di condanna del giudice civile, che recava il pagamento della sorte e degli interessi legali, la parte creditrice avesse precettato a titolo d’interessi un importo comprensivo non solo degli interessi legali per come calcolati ai sensi del 1° comma dell’art. 1284 c.c., ma anche di quelli determinati a norma del successivo 4° comma dell’art. cit., che – com’è noto – prevede che “se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”; e la stessa cosa era accaduta nel caso del Tribunale di Parma, salvo che, trattandosi di un’opposizione all’esecuzione in materia di lavoro, la parte opponente aveva più radicalmente contestato che il 4° comma dell’art. 1284 sia applicabile ai crediti di lavoro.
I due quesiti rivolti alle Sezioni Unite concernevano, perciò, anzitutto, la possibilità che, quando il giudice della cognizione non abbia specificato gli interessi al cui pagamento ha condannato il debitore, limitandosi a dire “interessi legali” o “di legge”, il giudice dell’esecuzione possa ritenere che a partire dalla data di proposizione della domanda possano considerarsi liquidati anche quelli di cui al 4° comma dell’art. 1284; in secondo luogo, se l’art. 429, comma 3°, c.p.c., nella parte in cui stabilisce che alla condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro debbano aggiungersi “gli interessi nella misura legale” (oltre che il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito), costituisca norma speciale rispetto all’art. 1284, comma 4°, c.c., con conseguente inapplicabilità di quest’ultimo ai crediti di lavoro, oppure se, al contrario, il rinvio che l’art. 429 c.p.c. opera nei confronti dell’art. 1284 c.c. debba valere nella sua interezza, includendo cioè anche il 4° comma e gli interessi legali maggiorati a far data dalla domanda giudiziale.
A dire il vero, il quesito rivolto dal Tribunale di Parma alle Sezioni Unite concerneva anche una questione ulteriore, se cioè il 4° comma dell’art. 1284 dovesse applicarsi ai soli crediti da rapporto contrattuale o anche a quelli di fonte extracontrattuale, come i danni da risarcimento da fatto illecito. Ma la curiosità del Tribunale parmense (come anche la nostra) è andata delusa, perché le Sezioni Unite, con la sentenza n. 12449 del 2024, hanno risposto negativamente al primo dei due quesiti pregiudiziali (quello del Tribunale di Milano) e, una volta affermato che, se il titolo esecutivo giudiziale dispone il pagamento di “interessi legali” senz’altra indicazione, la misura degli interessi maturati dopo la domanda resta fissata nel saggio previsto dall’art. 1284, comma 1°, c.c., hanno ovviamente dovuto dichiarare inammissibile il duplice quesito posto dal nostro collega: e per la banale e troncante ragione che il titolo esecutivo, nel suo caso, recava condanna al pagamento della somma “oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo effettivo”, senza altro specificare (si veda Cass. S.U. n. 12974 del 2024).
Mi spiace solo dovervi dire che questo sfortunato esito del rinvio pregiudiziale che più ci interessava non mi permette di chiudere qui il mio intervento e andarci a bere un buon caffè e chiacchierare d’altro: perché le Sezioni Unite, decidendo nel merito il rinvio pregiudiziale di Milano, hanno comunque svolto alcune considerazioni che potrebbero tornare utili nell’affrontare la questione che aveva posto il Tribunale di Parma: che riguarda, certo, l’applicabilità dell’art. 1284, comma 4°, c.p.c. ai crediti di lavoro privato, ma appena più oltre anche l’applicabilità degli interessi maggiorati ai crediti di lavoro pubblico e di previdenza e assistenza sociale.
Il passaggio argomentativo delle Sezioni Unite che più interessa ai nostri fini è contenuto nel terzo paragrafo della motivazione, lì dove si legge che “il quarto comma dell’art. 1284 non integra un mero effetto legale della fattispecie costitutiva degli interessi (cui la legge collega la relativa misura), ma rinvia ad una fattispecie, i cui elementi sono per una parte certamente rinvenibili in quelli cui la legge in generale collega l’effetto della spettanza degli interessi legali, ma per l’altra è integrata da ulteriori presupposti, suscettibili di autonoma valutazione rispetto al mero apprezzamento della spettanza degli interessi nella misura legale”: ciò infatti equivale a dire che, ai fini dell’applicazione del tasso maggiorato di cui al 4° comma dell’art. 1284, è richiesto l’accertamento della sussistenza di presupposti ulteriori rispetto all’inadempimento di un’obbligazione pecuniaria, che le Sezioni Unite individuano rispettivamente nell’assenza di una determinazione negoziale della misura degli interessi, nell’individuazione del momento di proposizione della domanda giudiziale e, soprattutto, nella “natura della fonte dell’obbligazione”: che, dicono le Sezioni Unite, può essere “la più varia” e richiede perciò uno “specifico accertamento da parte del giudice della cognizione”, che concerne “la compiuta qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio” e può condurre ad esiti differenti a seconda che si tratti di “obbligazioni contrattuali” o “derivanti da responsabilità extracontrattuale” o ancora “crediti di lavoro”, per i quali, ricordano ancora le Sezioni Unite, vale la “specifica disciplina” di cui all’art. 429, comma 3°, c.p.c.-
Il messaggio, insomma, pare piuttosto chiaro: non basta che il ritardo nell’adempimento di un’obbligazione sia sanzionato con gli interessi legali perché possa automaticamente scattare, a far data dalla domanda giudiziale, l’obbligo di pagamento degli interessi maggiorati di cui al 4° comma dell’art. 1284 c.c.; è necessario, piuttosto, indagare anzitutto quale sia la “natura” dell’obbligazione di cui si discute e verificare se l’attribuzione degli interessi maggiorati sia con essa compatibile.
2. Gli interessi legali sui debiti di valore e su debiti di valuta
Quando abbiamo studiato il diritto privato, ci siamo imbattuti tutti in una distinzione che inizialmente ci è parsa a dir poco astrusa: quella tra debiti di valore e debiti di valuta. Ricordate? I debiti di valuta sono quelli che hanno per oggetto una somma di denaro e sono perciò soggetti al principio nominalistico di cui all’art. 1277 c.c., con la conseguenza che – come leggiamo ad es. nel Manuale di diritto privato di Galgano – l’obbligazione di pagare mille euro, sorta dieci anni or sono e con scadenza ad oggi, resta obbligazione di pagare mille euro, anche se nel frattempo il potere d’acquisto della moneta, ossia la quantità di beni che si possono acquistare con quei mille euro, dovesse essere diminuita per effetto dell’inflazione o, al contrario, dovesse essersi accresciuta in conseguenza di una deflazione.
“Debiti di valore” sono invece quei debiti in cui la somma di denaro è dovuta non come bene in sé, ma in quanto valore di un altro bene, come ad es. il valore del bene danneggiato o distrutto a causa di un fatto illecito: e ciò perché qui il denaro viene in rilievo semplicemente in quanto equivalente economico del bene danneggiato o distrutto, il cui valore dev’essere stimato dal giudice per quel che è al momento della liquidazione. Vale a dire che, se è pronunciata oggi la condanna al risarcimento di un danno cagionato dieci anni or sono, il giudice liquiderà una somma pari al valore odierno (e non al valore di dieci anni fa) del bene distrutto dal danneggiante o pari al costo odierno, (e non al costo di dieci anni fa) delle riparazioni necessarie per eliminare le conseguenze dannose del fatto illecito altrui. “Il concetto – spiega ancora Galgano – è che al danneggiato dovrà essere corrisposta a una somma che gli permetta di riacquistare un bene equivalente alle odierne condizioni di mercato o che gli permetta di affrontare ai costi odierni le spese di riparazione”.
Perché ho riesumato questa antica (e per molti, prima ancora che astrusa, inutile) distinzione? Semplicemente perché è assai diversa la disciplina degli interessi legali a seconda che ci si trovi in presenza di un debito di valore o di un debito di valuta.
Per la costante giurisprudenza di legittimità, infatti, i debiti di valuta sono assoggettati al regime dell’art. 1224 c.c., che, in caso di inadempimento, prevede per il creditore il diritto al risarcimento del danno in misura pari almeno al saggio legale d’interesse di cui all’art. 1284, salva la prova del maggior danno da svalutazione monetaria, che può ritenersi presunto in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali (Cass. S.U. n. 19499 del 2008); in questi casi, l’obbligazione d’interessi ha natura accessoria e soprattutto autonoma rispetto a quella concernente il capitale, tant’è che deve formare oggetto di apposita domanda giudiziale, in assenza della quale è precluso al giudice liquidarli d’ufficio (così già Cass. n. 977 del 1999).
Affatto diversa è la regola per ciò che concerne i debiti di valore: qui, infatti, gli interessi legali non costituiscono oggetto di un autonomo diritto del creditore, ma svolgono piuttosto una funzione “compensativa”, tendente a reintegrare il patrimonio del danneggiato per com’era all’epoca del prodursi del danno, di modo che la loro attribuzione costituisce, unitamente alla rivalutazione monetaria, una mera tecnica liquidatoria del valore perduto a causa dell’illecito (Cass. S.U. n. 8520 del 2007); e ciò non soltanto comporta che essi debbano essere liquidati anche d’ufficio, cioè indipendentemente da un’apposita domanda della parte creditrice, ma soprattutto che la misura in cui vengono attribuiti può (e anzi deve) prescindere dal saggio legale tutte le volte in cui la loro attribuzione si risolva in una inammissibile locupletazione del creditore. Prova ne sia che, in una vicenda in cui era stata invocata proprio l’applicazione dell’art. 1284 comma 4° c.c. a far data dalla proposizione di una domanda giudiziale di risarcimento dei danni da illecito extracontrattuale, la Cassazione ha affermato che, a tal fine, è necessario dedurre e dimostrare che il maggior saggio degli interessi di cui al 4° comma dell’art. 1284 sia più adeguato all’entità effettiva del danno subito: gli interessi “compensativi”, infatti, hanno fondamento e natura differenti da quelli moratori regolati dall’art. 1224 c.c., giacché valgono a reintegrare il pregiudizio derivante dalla mancata disponibilità della somma equivalente al danno subito nel tempo intercorso tra l’evento lesivo e la liquidazione, e la loro corresponsione non è in alcun modo automatica o presunta iuris et de iure, occorrendo invece che il danneggiato provi, anche in via presuntiva, il mancato guadagno derivatogli dal ritardato pagamento (Cass. n. 19063 del 2023).
Detto altrimenti, la disciplina degli interessi legali è completamente differente a seconda che ci si trovi davanti ad un debito di valore o ad un debito di valuta, il che retroagisce significativamente sulla possibilità che il ritardo nell’adempimento possa essere sanzionato con gli interessi legali maggiorati di cui all’art. 1284, comma 4° c.c. La qual cosa, finalmente, ci porta alla questione che più propriamente ci riguarda: i crediti di lavoro sono debiti di valore o sono debiti di valuta?
3. La retribuzione: debito di valore o debito di valuta?
Se andiamo a vedere i lavori parlamentari da cui trasse origine l’art. 429 comma 3° c.p.c., ci accorgiamo subito di quale fosse l’intento del legislatore: la sua formulazione attuale, secondo cui, quando pronuncia sentenza di condanna a favore del lavoratore, il giudice deve determinare, oltre agli interessi nella misura legale, il maggior danno subito dal lavoratore per la diminuzione di valore dei suo credito, si deve ad un emendamento proposto, nella seduta del 22 giugno 1971, dal deputato comunista Franco Coccia, il quale spiegò la sua proposta emendativa (che fu poi accolta dalla maggioranza) con l’intento di introdurre nel nostro sistema il principio che la retribuzione costituisce “credito di valore e non di valuta” e di sganciare in tal modo la liquidazione del danno da ritardo dalla disciplina dell’art. 1224 c.c.
Proprio per ciò, i primissimi (e più acuti) commentatori della riforma scorsero nitidamente nella norma non solo il principio secondo cui la rivalutazione monetaria veniva ad essere liquidata a prescindere dalla prova in concreto di qualunque danno, ma altresì la regola che tale liquidazione doveva prescindere dalla costituzione in mora del debitore: il che non era meno importante, sol che pensiamo che la mora, per i crediti di lavoro, non consegue affatto alla scadenza del termine per l’adempimento, com’è invece per la maggior parte delle obbligazioni pecuniarie in grazia del combinato disposto degli artt. 1182, comma 3°, e 1219, comma 2°, n. 3, c.c., giacché il luogo dell’adempimento dell’obbligazione retributiva era (e ancora è) costituito di regola non già dal domicilio del creditore, ma dal luogo di esecuzione della prestazione lavorativa.
D’altra parte, questa marcata differenziazione della disciplina dei crediti di lavoro rispetto a quella delle altre obbligazioni pecuniarie non mancò di suscitare subito dubbi di costituzionalità per violazione del principio di parità di trattamento, né di riproporne nei trent’anni successivi, via via che, a causa delle complesse vicende storiche e sociali che ha attraversato il nostro Paese, mutava il tessuto ordinamentale di riferimento. Ed è proprio nelle risposte che diede la Corte costituzionale a questi dubbi (mi riferisco soprattutto alle sentenze nn. 13 del 1977, 207 del 1994 e 459 del 2000) che possiamo provare a rinvenire qualche elemento di risposta al quesito circa la natura dei crediti di lavoro.
Se volessimo ricapitolare il significato di queste tre pronunce, potremmo dire che il meccanismo dell’art. 429 comma 3° c.p.c. possiede per la Corte costituzionale una triplice funzione: anzitutto, di conservazione del valore della prestazione dovuta al lavoratore, allo scopo di ripristinarne il potere di acquisto in termini di beni reali; in secondo luogo, di recupero dell’arricchimento illegittimamente conseguito dal datore di lavoro mediante l’inadempimento; in terzo luogo, di “remora” all’inadempimento stesso. Tutte e tre, dice la Corte, concorrono a configurare una forma speciale di tutela, che è costituzionalmente necessitata e si riflette sulla stessa natura dell’obbligazione retributiva.
Ora, che la norma in esame recasse una regolamentazione sostanziale di carattere speciale rispetto all’art. 1224 c.c. fu colto già nel corso della discussione parlamentare, sebbene all’indomani della sua adozione un nutrito gruppo di processualisti, capitanato da Elio Fazzalari, ancora sostenesse che il giudice non avrebbe potuto condannare alla rivalutazione monetaria in assenza di specifica domanda e in mancanza di prova del maggior danno. E che il significato sostanziale della previsione fosse quello di parificare i crediti di lavoro ai crediti di valore fu colto da un civilista (e lavorista) del calibro di Francesco Santoro-Passarelli, il quale, già nella ventiseiesima edizione delle sue Nozioni di diritto del lavoro (1973), scrisse limpidamente che il debito di retribuzione non si poteva più considerare come “un debito di moneta o pecuniario, al quale trovi applicazione il principio nominalistico”, ma aveva assunto “natura di debito di valoreanche se espresso in termini pecuniari”: più o meno, potremmo aggiungere, come il debito degli alimenti, il cui oggetto, dovendo proporzionarsi alle necessità del creditore alimentando e dunque necessariamente in relazione alle variazioni del potere d’acquisto della moneta, non è – nella notissima ricostruzione ascarelliana – propriamente costituito da una determinata somma di denaro, ma da un “valore”, che può corrispondere, in momenti diversi, a somme di denaro diverse.
È nondimeno risaputo che la tesi dell’avvenuta trasformazione del debito retributivo in debito di valore non ha incontrato il consenso maggioritario né della dottrina né della giurisprudenza: e ciò indipendentemente dal fatto che, specie nella giurisprudenza di legittimità, la nozione di “debito di valore” ha assunto un significato affatto differente da quello che intendeva ascrivergli Tullio Ascarelli, finendo per identificarsi con quei debiti in cui l’oggetto originario della prestazione non è costituito da una somma di denaro, sebbene poi l’obbligazione possa essere adempiuta mediante la prestazione di una somma di denaro.
È però singolare, e se si vuole perfino sintomatico, che l’applicazione pratica dell’art. 429 comma 3° c.p.c. abbia finito per equiparare quoad effectum il debito retributivo ai debiti di valore, precisamente sul rilievo che il meccanismo di adeguamento previsto dalla norma avrebbe fatto sì che la rivalutazione e gli interessi costituiscano “componenti essenziali” della prestazione retributiva, che spettano per il solo fatto oggettivo del ritardo nell’adempimento e indipendentemente dalla colpa dell’obbligato: ciò, infatti, equivaleva in sostanza a riconoscere che, prendendo a prestito proprio parole di Ascarelli, la svalutazione della moneta non viene in questo caso in considerazione come “danno” da risarcire, ma solo per permettere al lavoratore di conseguire quel “valore” che costituisce oggetto del debito (e di qui la regola secondo cui il lavoratore non deve dare alcuna dimostrazione del “maggior danno” che la svalutazione stessa ha comportato).
Si deve semmai ricordare che le stesse Sezioni Unite della Corte di cassazione, chiamate a dirimere il contrasto nuovamente insorto nella Sezione Lavoro sulle modalità di calcolo della rivalutazione monetaria e degli interessi, pur non mancando di rilevare che il debito di valore costituisce “categoria non legale, comunemente accettata per decenni nella pratica del foro ma ultimamente da qualcuno contestata”, hanno deciso di comporlo affermando che gli interessi debbono calcolarsi sulla somma via via rivalutata (Cass. S.U. n. 38 del 2001): che è, com’è noto (e come le stesse Sezioni Unite non hanno mancato di ricordare), la modalità tipica con cui si procede al risarcimento del danno nelle obbligazioni da illecito extracontrattuale, che dei debiti di valore costituiscono esempio paradigmatico.
La questione, ai nostri fini, potrebbe essere tutt’altro che irrilevante. Come abbiamo già ricordato, nei debiti di valore gli interessi legali non costituiscono oggetto di un autonomo diritto del creditore, come invece nei debiti di valuta, ma svolgono piuttosto una funzione “compensativa”, tendente a reintegrare il patrimonio del danneggiato per com’era all’epoca del prodursi del danno, di modo che la loro attribuzione costituisce, unitamente alla rivalutazione monetaria, una mera tecnica liquidatoria del valore perduto a causa dell’illecito; ed è proprio per ciò che, come abbiamo pure ricordato, la Cassazione ha recentemente escluso che, quando si verte in materia di risarcimento del danno da illecito extracontrattuale, gli interessi maggiorati di cui al 4° comma dell’art. 1284 c.c. possano essere riconosciuti indipendentemente dalla prova che la loro attribuzione valga ad adeguare il risarcimento dovuto all’entità effettiva del danno subito.
Trasferendo questi principi nel campo dei debiti retributivi, si potrebbe allora sostenere che, dal momento che il cumulo della rivalutazione monetaria e degli interessi previsto dall’art. 429 comma 3° c.p.c. costituisce semplicemente una tecnica liquidatoria della prestazione retributiva corrisposta in ritardo, il maggior saggio degli interessi legali di cui all’art. 1284 comma 4° c.c. non potrebbe essere rivendicato se non sul presupposto – da provarsi in concreto – che il minor saggio di cui al comma 1° è insufficiente, unitamente alla rivalutazione monetaria, a ricostituire il “valore” della retribuzione non corrisposta; ed è evidente che, se hanno ragione le Sezioni Unite (mi riferisco qui a Cass. S.U. n. 38/2001, cit.) a sostenere che il cumulo di rivalutazione monetaria e interessi assolve ex se al compito di coprire integralmente il danno emergente e il lucro cessante derivante dall’inadempimento (ovvero, secondo l’ottica qui prospettata, di restaurare il “valore” della retribuzione inadempiuta), la disposizione in esame, salvo casi di specie veramente eccezionali, resterebbe praticamente estranea alla materia dei crediti di lavoro.
4. I debiti retributivi come obbligazioni pecuniarie speciali e gli interessi maggiorati ex art. 1284, comma 4° c.c.
Naturalmente, si può revocare in dubbio la stessa distinzione tra debiti di valuta e debiti di valore o comunque perorare il suo abbandono come relitto d’un tempo che fu: in passato è stato fatto da giuristi della statura di Rosario Nicolò e Giuseppe Ferri e più recentemente da altri studiosi che vi hanno volto la riflessione.
Si potrebbe per contro argomentare che, se non s’intende abbandonare quella distinzione, ben difficilmente si può continuare a sostenere che il debito retributivo non debba appartenere ai debiti di valore, ma è discussione che ci porterebbe troppo lontano. Preferisco dunque esplorare l’ipotesi che quanto abbiamo detto fin qui sia del tutto implausibile e che i crediti di lavoro debbano considerarsi alla stregua di normali obbligazioni pecuniarie, ad onta del caveat delle Sezioni Unite del maggio scorso. Significa forse che si apre la strada (e anzi un’autostrada) per un’applicazione pura e semplice del saggio d’interesse previsto dal 4° comma dell’art. 1284?
È perfino ovvio rilevare che nulla osterebbe, sul piano meramente letterale, a che il rinvio agli interessi legali, che leggiamo nel terzo comma dell’art. 429 c.p.c, debba riferirsi all’intero contenuto dell’art. 1284 c.c., e dunque anche alla previsione del suo 4° comma.
Tuttavia, se è vero che la lettera di una disposizione normativa non esime l’interprete dal compito di inquadrare i singoli istituti nella sistematica giuridica (lo hanno detto le Sezioni Unite in una memorabile pronuncia, la n. 5379 del 1988), è altrettanto ovvio che, quand’anche si vogliano considerare i debiti di lavoro come normali debiti pecuniari, non si può prescindere dal fatto che di essi il legislatore ha dettato una disciplina per più aspetti derogatoria rispetto a quella dell’art. 1224 c.c.; e la caratteristica tipica delle discipline derogatorie è, notoriamente, quella di resistere ad innovazioni legislative extratestuali, quand’anche concernano norme generali in esse eventualmente richiamate: anzi, la loro attitudine a regolare in via esclusiva la classe di fattispecie che disciplinano è tale che, in talune circostanze, può far sì che la norma generale richiamata resti addirittura cristallizzata nel testo antecedente a successive modifiche che l’abbiano riguardata, quasi si trattasse di un rinvio recettizio. Lo abbiamo visto nella vicenda dell’art. 18 St. lav., le cui modifiche ad opera della legge n. 92/2012 sono state ritenute non applicabili ai rapporti di pubblico impiego.
Ora, è risaputo che la ratio che ispirò il frettoloso legislatore a introdurre il 4° comma dell’art. 1284 c.c. risiedeva nell’esigenza di “evitare che i tempi del processo civile diventino una forma di finanziamento al ribasso (in ragione dell’applicazione del tasso legale di interesse) e dunque che il processo stesso venga a tal fine strumentalizzato”. E perfino banale è constatare che lo strumento approntato a tal fine ha una veste smaccatamente sanzionatoria: se è vero che, da due secoli e mezzo a questa parte, il sistema della responsabilità civile si è faticosamente costruito sul principio secondo cui il necessario ripristino dell’equilibrio patrimoniale del creditore vittima dell’illecito non può giustificare alcun suo indebito arricchimento, mi pare francamente difficile sostenere che un saggio d’interesse pari al tasso di riferimento della Banca centrale europea maggiorato di otto punti percentuali sia volto semplicemente a “ripristinare” il patrimonio del creditore; più realistico mi pare supporre che si sia voluto introdurre una vera e propria pena privata a carico del debitore, sull’assunto che la misura prevedibile del risarcimento, essendo prima ancorata al (solo) saggio d’interesse legale, non costituisse una ragione sufficiente per indurlo ad astenersi dall’inadempimento, in quanto – per ipotesi – inferiore al lucro ritraibile dall’inadempimento stesso.
Sennonché, è proprio tale funzione sanzionatoria ad entrare in tensione con la speciale disciplina approntata per la tutela dei crediti retributivi da lavoro privato: basterà qui ricordare che, nel risolvere il contrasto relativo alle modalità di calcolo della rivalutazione monetaria e degli interessi, le Sezioni Unite della Cassazione, nella sentenza n. 38/2001, hanno espressamente affermato che già il calcolo degli interessi sul capitale via via rivalutato impone al datore di lavoro un aggravio rispetto alla mera ricostituzione del “valore” della retribuzione non corrisposta, che può giustificarsi solo in relazione a quella funzione di “remora” (ossia di pena privata) che abbiamo visto essere tipica del 3° comma dell’art. 429 c.p.c.; ed è evidente che, sommando indiscriminatamente a questa anche gli interessi “punitivi” previsti dal comma 4° dell’art. 1284 c.c., ci troveremmo di fronte ad un cumulo sproporzionato di pene private, che potrebbe essere sospettabile di incostituzionalità per irrazionalità manifesta.
Ragioni di tempo mi impediscono anche solo di accennare ad una questione intimamente connessa con quella di cui qui abbiamo discusso, vale a dire se la disciplina dell’art. 1284 comma 4° sia applicabile ai crediti da lavoro pubblico e a quelli di previdenza e assistenza, per i quali – come sappiamo – non opera il meccanismo di liquidazione del danno di cui all’art. 429, 3° comma, c.p.c., ma il diverso regime di cui all’art. 16, comma 6, l. n. 412/1991: su questo non posso che rinviarvi ad uno scritto che dovrebbe essere già stato messo a vostra disposizione (https://accademiaassociazionecivilisti.it/il-valore-del-lavoro-la-disciplina-dei-crediti-retributivi-tra-rivalutazione-monetaria-interessi-legali-e-interessi-punitivi/), nel quale anche gli argomenti qui sommariamente trattati hanno trovato più completa esposizione. Non senza, naturalmente, ringraziarvi per l’attenzione.
Immagine: Victor Dubreuil, The Eye of the Artist, ca. 1898 — Source.
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