ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’Idea dentro di me. Giacomo Matteotti per le nuove generazioni.
di Paola Filippi
Sommario: 1. Il progetto della Fondazione Circolo Rosselli. - 2. Il vizio della memoria. - 3. Il pensiero di Matteotti come strumento per educare i giovani alla partecipazione politica. - 4. Conclusioni.
1.Il progetto della Fondazione Circolo Rosselli.
Concludiamo il 2024, dedicato dalla Rivista al ricordo di Giacomo Matteotti[1], con la recensione del saggio “L’idea dentro di me. Giacomo Matteotti per le nuove generazioni. Una proposta didattica orientativa” scritto dalla professoressa Francesca Tramonti, con la collaborazione delle docenti Cristiana Ciari, Laura Noccioli e Claudia Ortenzi, della studentessa Martina Meoli e degli studenti Davide Binetti, Lorenzo Luconi e Gregorio Rasi.
Il saggio è stato pubblicato nell’ambito di un progetto più ampio, sviluppato della Fondazione Circolo Rosselli – dedicata a Carlo e Nello Rosselli, giornalisti e politici, entrambi motivati alla lotta e alla militanza politica dal sacrificio di Giacomo Matteotti, uccisi a Parigi nel 1937. Nell’ambito del medesimo progetto la fondazione ha dato corso, tra l’altro, anche all’iniziativa didattica “Da grande voto anche io, chi voglio! Giacomo Matteotti per le nuove generazioni”, per ricordare ai giovani l’importanza della partecipazione politica, come scrive, nella prefazione, Valdo Spini Presidente della Fondazione.
Il testo, pubblicato in occasione della celebrazione del centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti, contiene una proposta didattica orientativa estremamente interessante, diretta agli studenti delle quinte superiori, finalizzata a far conoscere il pensiero e le opere di Matteotti e, per tale via, avvicinare gli studenti al confronto politico e alla partecipazione.
Lo scopo del testo non è dunque solo quello di raccontare, con tecnica sistematica e contestualizzata, la vicenda dell’Uomo, né quello di puntualizzare – nei limiti dello spazio di un libro didattico – le linee essenziali del pensiero del genio Matteotti, l’eroe del secolo breve, ma l’obiettivo, che possiamo senz’altro asseverare come raggiunto, è quello di rendere la vicenda umana, i discorsi e gli scritti di Giacomo Matteotti strumenti atti a stimolare l’attitudine all’elaborazione collettiva di idee politiche (secondo una nozione di politica rispettosa del senso etimologico della parola ovvero quale etica della polis), a educarli all’utilizzo del metodo del confronto, alla formulazione dell’argomento e, infine, all’uso del ragionamento critico per la costruzione del pensiero proprio.
Il tratto peculiare del libro è quello di concentrare l’attenzione attorno alle idee di Matteotti su temi politici sempre attuali, quali l’istruzione universale e l’apprendimento, il lavoro e i diritti dei lavoratori, la democrazia e il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e infine la pace e la solidarietà tra i popoli.
Attraverso l’approfondimento della dottrina di Matteotti gli studenti vengono sollecitati all’approfondimento e all’elaborazione, collettiva e individuale, del pensiero alla sua [2] concettualizzazione e infine all’esposizione dell’idea propria così come se la sono formata. Sotto questo profilo è significativo e, al tempo stesso tempo, evocativo il titolo dell’opera: “L’idea dentro di me”.
È colto nel saggio, in modo innovativo, il valore inestimabile dell’eredità di pensiero di uno dei più grandi studiosi del ‘900, eredità conservata nelle pubblicazioni scientifiche, negli articoli, nei discorsi, nelle lettere alla moglie Velia Titta e all’amico Filippo Turati. Eredità rimasta per troppo tempo nell’ombra dell’enormità del sacrificio dell’Uomo. Martirio che, dopo l’occultamento del corpo, si è perpetuato con la sigillazione della tomba con piombo e cemento, con le restrizioni imposte alla famiglia e alle persone a lui devote. Martirio proseguito, anche dopo la caduta del regime fascista, attraverso l’oblio rassegnato alle opere intellettuali e all’idea di socialismo riformista propugnata da Giacomo Matteotti.
Dopo la liberazione dal regime fascista, nei programmi scolastici, la figura di Matteotti è stata trattata solo superficialmente come se la storia e il pensiero dell’uomo fosse tutta contenibile nella narrazione del rapimento e dell’assassinio, come se ricordarlo per il delitto fosse osservanza sufficiente ad adempiere al dovere della memoria. Al tempo stesso, come se, con il fermarsi nel particolare del martirio, si volesse contenere la grandezza senza limiti del grande politico e pensatore; come se ancora si temesse la lucidità delle sue idee precorritrici e l’attitudine a combattere al prezzo della vita per senso di responsabilità verso l’umanità.
2. Il vizio della memoria.
La vicenda Matteotti, forse più di altre persecuzioni del regime, offre una plastica testimonianza di quanto gli italiani non abbiano voluto, o saputo, fare i conti con il fascismo. Il tentativo di Renzo De Felice degli ultimi anni del secolo scorso di aprire il dibattito sul fascismo a un pubblico non di soli specialisti non ha avuto seguito e, come ha scritto Salvatore Lupo, “il fascismo è l'argomento più studiato della nostra storia novecentesca, in Italia e nel mondo. Ma i risultati di queste ricerche restano fuori dagli spazi del dibattito pubblico”. Utile l’apertura del dibattito stimolata da Antonio Scurati con i romanzi storici, M. Il figlio del secolo, M. L’uomo della Provvidenza, M. L’ora del destino e gli ultimo giorni dell’Europa. [3]
Di questo non sapere fare i conti con il passato, in una sorta di orda iconoclasta contro l’argomento potenzialmente divisivo, ne ha fatto le spese non solo la dottrina del socialismo riformista elaborata da Matteotti ma anche il suo pensiero, ad esempio, in materia di fiscalità (già propugnava il principio della contribuzione fiscale proporzionale al reddito), di diritti fondamentali, di giustizia e pena (antesignano del principio della finalità rieducativa della pena) e in materia di pace e unione degli Stati Europei (già europeista).
L’esiguità delle celebrazioni nazionali pubbliche per i cento anni dalla sua morte costituisce una chiara manifestazione del perpetuarsi del vizio della memoria.
Peraltro proprio in occasione della celebrazioni per il centenario dell'ultimo discorso pronunciato da Giacomo Matteotti, tenutosi alla Camera il 30 maggio 2024, in ricordo del famoso discorso del 30 maggio 1924, abbiamo assistito all’ennesimo tentativo di distorsione della memoria.
Il 30 maggio 2024 alla commemorazione tenutasi alla Camera dei deputati con consacrazione dello scranno dal quale parlò per l’ultima volta, avremmo voluto sentire “Oggi siamo qui a commemorare Matteotti, Deputato del Regno d’Italia e Segretario del partito socialista unitario ucciso dai sicari di Mussolini per la sua opposizione al regime fascista” invece la frase della Presidente del Consiglio è stata “Oggi siamo qui a commemorare un uomo libero e coraggioso ucciso da squadristi fascisti per le sue idee". Questa frase offende la memoria di Giacomo Matteotti sotto tre distinti profili.
Il primo: Matteotti, Deputato del Regno d’Italia e Segretario del partito socialista unitario all’epoca dell’omicidio, è stato un pensatore cosmopolita, un politico e un giurista eccelso, oltre che un eroe. Definirlo , semplicemente, “un uomo libero e coraggioso” svilisce il ruolo rivestito al momento dell’omicidio e la sua straordinarietà, lo decontestualizza rispetto al Partito socialista, e tacendone le peculiarità finisce per ridurre drammaticamente la portata della lesione subìta dall’umanità a causa dell’omicidio (v. Giacomo Matteotti. Il giurista di Giovanni Canzio, Note su Giacomo Matteotti ed il penale costituzionale: la legalità dalla crisi dello Stato liberale alla «dominazione fascista» di Floriana Colao, Un Matteotti poco conosciuto di Enrico Manzon, Il metodo per la riforma fiscale, preziosissima eredità di Giacomo Matteotti di Francesco Tundo).
Il secondo: Matteotti non è stato, semplicemente, ucciso per le sue idee ma perché era il più strenuo degli oppositori del fascismo [4].
La “causale politica, consistente nell’interesse, ed anzi nella necessità, di eliminare nel Matteotti il più formidabile avversario del fascismo è così evidente che ogni altra causale non può che apparire infondata” come si legge nella sentenza della Corte d’Assise speciale del 4 aprile 1947 [5].
Il terzo, strettamente collegato al secondo: Matteotti non è stato, banalmente, vittima di squadristi fascisti ma fu rapito e ucciso dalla Ceka, corpo speciale di polizia segreta del regime fascista agli esordi, che agì per ordine di Mussolini.
Dire che Matteotti fu “ucciso da squadristi fascisti” è un’ affermazione che, ancora una volta, dopo cento anni, piega la testa all’ordine di depistaggio impartito da Mussolini e avalla, inopinatamente, la sentenza del Tribunale di Chieti, emessa all’esito del famoso processo farsa che si concluse con la condanna degli esecutori materiali per omicidio preterintenzionale – dopo l’amnistia per il reato di sequestro di persona – così separando gli autori materiali dal loro mandante Mussolini (v. La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli; A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio; , "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio)
Nonostante la legge 10 luglio 2023, n. 92, intitolata “Celebrazioni per il centesimo anniversario della morte di Giacomo Matteotti”, abbia indetto la celebrazione nazionale della “figura di Giacomo Matteotti nella ricorrenza dei cento anni dalla sua morte” anche attraverso la promozione e la valorizzazione della conoscenza e dello studio della sua opera e del suo pensiero, in ambito nazionale e internazionale, le iniziative celebrative di rilievo sono state promosse e gestite da associazioni privati e non dal governo, a parte quella del 10 giugno 2024 alla Camera dei Deputati di cui si è detto.
3. Il pensiero di Matteotti come strumento per educare i giovani alla partecipazione politica.
La proposta didattica sviluppata nel saggio L’idea dentro di me ha il grande pregio di far conoscere Giacomo Matteotti alle giovani generazioni e, al tempo stesso, far conoscere la sua dottrina.
Il saggio rende giustizia alla memoria di Matteotti e lo consacra come esempio di uomo straordinario che con fermezza portò avanti le proprie battaglie a difesa dei diritti fondamentali dell’uomo, quegli stessi diritti che nel ’48, a ventiquattro anni dalla sua morte, sarebbero stati consacrati nella nostra Costituzione.
L’Idea dentro di me restituisce Matteotti agli studenti “tutto intero” un uomo, un politico, uno studioso, un giurista, un cittadino al servizio della democrazia, e lo consacra al ruolo di pensatore simbolo senza tempo.
Nell’introduzione alla menzione del sondaggio da quale emerge la desolante constatazione che gli italiani conoscono Matteotti soltanto in quanto martire (e così la profonda ignoranza delle opere dell’Uomo) segue l’esposizione dell’obiettivo della proposta didattica che costituisce il filo conduttore delle tematiche affrontate nel saggio.
Il primo paragrafo intitolato “Una vita”, contiene la narrazione dei punti salienti della vita di Matteotti. È tratteggiata la famiglia di origine, il percorso di studi, la particolare metodologia di approfondimento, il rapporto con la moglie Velia Titta, il rapporto con l’amico Filippo Turati e infine le ragioni sottese alla scelta dell’impegno politico che lo sottrasse alla carriera accademica, alla quale, forse, se non fosse stato ucciso sarebbe tornato. Seguono le proposte didattiche che stimolano all’approfondimento delle vicende che lo portano alla maturazione del pensiero politico, ai rapporti con la moglie Velia, al ruolo dell’amico Filippo Turati, all’impatto dell’omicidio nei suoi contemporanei.
Significativa e stimolante la lettera di Sandro Pertini a Matteotti, simbolica, perché scritta al compagno già morto per chiedergli l’iscrizione al Partito socialista unitario.
Il secondo capitolo si intitola il diritto di apprendere. Contiene, in nuce, l’illustrazione della dottrina di Giacomo Matteotti in tema di istruzione.
Si tratta di uno degli aspetti più significativi dell’impegno politico-sociale di Giacomo Matteotti, nella piena consapevolezza che “favorire l’alfabetizzazione e l’istruzione di tutti significa dare vita a una società realmente libera, uguale e socialista”.
Interessante il passaggio sulla scuola dell’intervento di Giacomo Matteotti del 1919 al Congresso dei Comuni: “Deve essere qualcosa per cui almeno per quattro o cinque anni la gente del popolo non pensi alla propria preparazione del lavoro manuale. Impari qualche cosa che sia fuori dal lavoro immediato. Impari anche delle attrazioni. Non dobbiamo essere quelli che vogliono la preparazione del ragazzo all'abilità tecnica, vogliamo che questo insegnamento sia libero, poetico, astratto, perché ne godano per una piccola parte di tempo e ne portino con sé il ricordo”. Nelle direttive del PSU del 1923 Matteotti scrive: “Il socialismo parte dalla realtà dolorosa del lavoratore che giace nell’abiezione e nella servitù materiale e morale. Intende e opera a sollevarlo, a condurlo a miglioramenti economici e intellettuali. A libertà sociale e libertà spirituale sempre più alte. Vuole cioè formare e realizzare in lui l'uomo che vive fratello e non lupo con gli uomini in una umanità migliore per solidarietà e giustizia”.
Le proposte didattiche correlate al tema del diritto di apprendere sono particolarmente interessanti, attraverso le proposte di lavoro viene stimolata la riflessione degli studenti sul tema dell’attuale livello di istruzione in Italia, dei rischi derivanti dal cosiddetto analfabetismo di ritorno; viene stimolata la riflessione in ordine ai reali bisogni degli studenti e all’utilità di percorsi formativi personalizzati; viene sollecitato il dibattito in ordine all’adeguatezza dell’attuale formazione scolastica nonché sull’opportunità del coinvolgimento degli stakeholder.
Il terzo capitolo è dedicato al lavoro. L’analisi ha ad oggetto gli scritti e i discorsi su un tema focale dell’azione del socialismo riformatore propugnata da Giacomo Matteotti. Secondo il suo pensiero era fondamentale che i lavoratori acquistassero coscienza in ordine alle effettive possibilità di cambiamento, sempre nell’ottica che è indispensabile garantire una società pacifica nella quale vi sia l'uguaglianza di tutti. Matteotti ha ben chiara l’idea che la lotta – mai guerra – di classe “non deve essere finalizzata a distruggere, in un'eterna contesa, le fonti della produzione, ma per aumentare la produzione regolandola nell'interesse della collettività operosa e non di un'oligarchia sfruttatrice dei lavoratori e dei consumatori. Lotta di classe non per emancipare una classe opprimere un'altra, ma perché tutti i privilegi di classe siano aboliti e tutti i cittadini siano uguali di fronte all'obbligo di cooperare alla produzione della ricchezza e al maggior interesse economico”.
Le idee e l’aspirazione di Matteotti e, soprattutto, l’essenzialità per lo Ζῷον πολιτικὸν della solidarietà sociale si scontrarono – e non poteva essere diversamente – con la politica autoritaria, fascista, una politica che dalla marcia su Roma mirava a negare in misura crescente libertà di parola, opinione e associazione. Nel suo libro Un anno di dominazione fascista, con la lucidità e il rigore che gli erano propri il Segretario del partito socialista unitario mise in evidenza quanto era divenuta difficile la condizione dei lavoratori in quanto il regime fascista negava loro voce e possibilità ogni chance di rivendicazione (v. L'ultimo articolo di Giacomo Matteotti - cento anni dopo di Margherita Occhilupo).
Le proposte didattiche, con riferimento a tale tematica, sono mirate a stimolare la riflessione degli studenti in ordine alle attuali sfide del mondo del lavoro ai fini della realizzazione di una società equa, libera e democratica. Viene richiamata l’attenzione sul tema dei proletari di oggi; vengono sollecitate ricerche in ordine alla storia dei sindacati italiani. È poi estremante interessante e utile la posposta diretta all’organizzazione della discussione, delle questioni, più concretamente, collegate al lavoro. Viene proposta la divisione della classe in due gruppi, uno che rappresenti gli interessi dei datori di lavoro, l’altro che rappresenti gli interessi dei lavoratori, chiamati a discutere in ordine ai contrapposti interessi attraverso un confronto destinato a concludersi con accordo su orario di lavoro e salari.
Interessante, infine, l’invito a individuare negli attuali conflitti sindacali i punti nodali, le questioni chiave, le strategie e le possibili soluzioni.
Come si legge nel quarto paragrafo intitolato “Sulla pace e sulla guerra”. il pacifismo di Giacomo Matteotti è un elemento fondamentale e un tratto che contraddistingue la dimensione politica e umana di Matteotti, un europeista ante litteram che aveva ben chiara l’idea che la pace tra gli stati può essere preservata solo attraverso l’unione nell’ottica del bene comune. Era contrario alla guerra di Libia “perché unico guadagno per chi ad essa tiene è la gloria militare della quale certo non si nutrirà il proletariato d’Italia”. All’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale, con estrema lucidità, cercò, inutilmente, di convincere i contemporanei dell’irreversibilità del danno cagionato dai conflitti tra i popoli “gli egoismi patriottici nazionalisti non consentiranno di togliere il piede dal collo dei popoli vinti militarmente o soggetti economicamente. Se non fosse, quando l'abisso sarà irrimediabilmente aperto”[6].
Le proposte di didattiche riguardano l’esame dei conflitti e le ragioni degli stessi, con l’analisi storica delle condizioni che portarono al primo conflitto mondiale, e poi al secondo conflitto mondiale; contengono altresì l’invito a discutere in ordine alle ragioni in base alle quali la pace va sempre anteposta a qualsiasi scelta di politica estera e in quest’ottica immaginata la visione di Matteotti sul futuro dell’Italia.
Il quinto paragrafo riguarda il tema della “democrazia e dei diritti”. Per Matteotti il fascismo è un fenomeno che corrompe la società, ne produce un regresso e distrugge l'idea stessa di libertà. Egli non considerava il regime solo dal punto di vista del metodo di governo, ma come un elemento che minava le basi morali ed etiche del paese.
Secondo Matteotti “Politiche e morali non sono aspetti separati del vivere civile (come era stato teorizzato da grande filosofo Benedetto Croce) ma costituiscono una coppia inscindibile, impossibile quando una delle due componenti viene meno”.[7].
La prima delle attività didattiche in tema Democrazia e libertà, secondo l’idea di Matteotti, invita gli studenti alla riflessione su un passaggio del discorso tenuto dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione 97° anniversario dell’uccisione dei Giacomo Matteotti.
“La Resistenza e la Liberazione che hanno conquistato libertà e democrazia al paese, affondano le proprie radici proprio nella testimonianza di personalità come Giacomo Matteotti. I valori che la Costituzione è riuscita a portare nelle nostre vite erano per lui ideali ai quali dedicare ogni impegno ed energia. Questo rende Matteotti un esempio che ancora parla ai giovani e sprona a tutti i cittadini ad avere cura della nostra Repubblica”. Attraverso la lettura di tale passaggio del discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella viene stimolata la riflessione sul significato del concetto di democrazia e di quanto sia importante la sua strenua difesa.
La seconda proposta riguarda l’approfondimento della Repubblica di Weimar e dei motivi della caduta, il contesto politico della salita al potere di Hitler. Dopo l’analisi delle ragioni storiche che portarono all’affermazione del Terzo Reich, come in what if, gli studenti sono invitati a immaginare come sarebbe stato possibile evitare la salita al potere di Hitler. Nell’ambito della trattazione di tale tematica è interessante la sollecitazione a passare in rassegna i sistemi democratici in vari paesi, per coglierne le differenze.
Il sesto paragrafo è dedicato all’ultimo discorso di Giacomo Matteotti, tenuto alla Camera del 30 maggio 1924 (v. Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti). Come ha scritto Sandro Pertini egli aveva ben compreso il giro di boa che l’Italia aveva compiuto con le elezioni del 1924 e di qui l’ardimento nella richiesta dell’annullamento delle elezioni. “costante fu la sua esaltazione del Parlamento, cui si meditava di infliggere il colpo mortale […] quando le tenebre della tremenda notte di schiavitù diventarono irrimediabilmente più fitte, Giacomo Matteotti si era sentito sempre più attratto dalla luce non ancora spenta del Parlamento, e in quel bagliore di tramonto ebbe a concludere la sua vita di combattente della libertà”.
La proposta didattica correlata al discorso del 30 maggio 1924 stimola un’approfondita analisi del testo, con riflessioni mirate, riferite ai singoli passaggi menzionati nel discorso, alla quale viene fatta seguire l’elaborazione di confronti e paragoni con altre occasioni in cui, con discorsi pubblici, sono state denunciate violazioni dei diritti umani, viene infine sollecitata l’individuazione e l’approfondimento di analoghe testimonianze storiche.
Interessante la proposta di redigere un discorso contro le violenze e le irregolarità del regime fascista, incentrare su fatti realmente accaduti come se fosse Matteotti a scriverlo.
Utile a far calare gli studenti nello snodo storico e nei ruoli dei parlamentari presenti in aula il 30 maggio del 1924 la proposta di drammatizzazione del discorso.
Il settimo capitolo costituisce un approfondimento rivolto alla stampa; il capitolo si intitola Breaking news. Lo studio si incentra sulle notizie dei giornali dell’epoca pubblicate la sera del rapimento e, successivamente, al momento del ritrovamento della salma. Viene dato rilievo al fatto che le notizie dei quotidiani non risultano univoche e come emerga, con evidenza, la difformità, nell’interpretazioni dei fatti, quanto alle ragioni della scomparsa di Matteotti in ragione dell’orientamento politico del giornale.
Lo spoglio delle principali testate giornalistiche dell’epoca, a partire dal rapimento fino al rinvenimento del corpo, si rileva particolarmente significativo al fine di evidenziare le diverse, e opposte, posizioni politiche dei giornali e l’effetto del differente orientamento politico sulla formazione dell'opinione pubblica. I punti chiave delle diverse informazioni, i sistemi moderni di comunicazione che hanno sostituito la stampa, la storia delle principali testate giornalistiche italiane, l’analisi dei cambiamenti nel mondo dell’informazione sono i temi dei quali è suggerita la trattazione in collettivo.
L’ultimo capito è dedicato ai luoghi del ricordo. Il manuale si conclude con foto e unità didattiche interdisciplinari in lingua inglese, francese e spagnola.
4.Conclusioni
Ci auguriamo che il saggio di Francesca Tramonti, professoressa di letteratura e storia presso l’Istituto di istruzione Superiore Salvemini Duca d’Aosta, autrice, tra l’altro, del romanzo La danza della vita per Porto Seguro editore, nonché curatrice del volume Vite fuori non rimanga uno strumento di nicchia ma che invece venga diffusamente adottato nelle scuole secondarie superiori nazionali, affinché la dottrina di Matteotti sia divulgata tra i giovani e da questa i giovani apprendano l’utilità del confronto politico e l’importanza della partecipazione.
Come ha scritto Primo Levi bisogna ricordare perché quello che accaduto una volta può accedere ancora. “Tutto ciò che è accaduto può ripetersi, e i meccanismi del genere umano non mutano con il passare del tempo” in quanto “I sistemi democratici non nascono una volta e per sempre, vanno costruiti e ricostruiti ogni giorno” come ha scritto Licia Fierro in Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo.
La partecipazione, “il fare politica”, dei giovani è fondamentale per assicurare il rispetto della Nostra carta costituzionale, la res publica non può essere lasciata nelle mani di pochi perché la storia ci insegna che le oligarchie degenerano.
Come ci ha insegnato Matteotti l’istruzione è il passaggio fondamentale e imprescindibile perché l'uomo viva fratello e non da lupo “per una umanità migliore per solidarietà e giustizia”.
[1] Il IV convegno di Giustizia Insieme, "La magistratura e l'indipendenza", Roma 12 aprile 2024
[2] L’opera La recidiva di Matteotti è menzionata solo in una nota dell’Antolisei. In quella nota il nome di Matteotti è vicino a quello di Manzini, giurista di sicura fede fascista, che scrisse la prefazione per la pubblicazione dell’arringa di Farinacci in difesa di Dumini, e degli altri sicari, davanti al Tribunale di Chieti. Nella prefazione Manzini spiegava le ragioni dell'omicidio nel senso che era stato lo stesso Matteotti, con le sue idee rivoluzionarie, a renderlo ineluttabile.
[3] "M." di Scurati: il fascino discreto del fascismo (di ieri e di oggi) di Andrea Apollonio.
[4] Questo è il termine utilizzato nel libro “Il nemico di Mussolini” di Marzio Breda e Stefano Caretti, ed. Solferino.
[5] Archivio di Stato di Roma, Corte d'Appello di Roma, Corte d'Assise Speciale, Procedimento contro Giunta ed altri, Atti del secondo processo Matteotti [1944-1947], sentenza 4 aprile 1947 copia dattiloscritta, pp. 163-164.
[6] L’Avanti XXIV, 6 marzo 1920, p.1.
[7] Democrazia e fascismo, a cura di Caretti e Makuc.
Francesca Tramonti, L’idea dentro di me. Giacomo Matteotti per le giovani generazioni. Una proposta di didattica orientativa, Pacini, 2023.
Nell'immagine, l'installazione luminosa che il Comune di Bologna ha dedicato a Giacomo Matteotti in occasione del centinario del suo assassinio, collocata in via Matteotti a Bologna.
Crimini di guerra ed esecuzione civile [1]
di Franco De Stefano
L’effettività della tutela dei diritti fondamentali, non solo di quello - processuale - di un accesso al giudice, ma pure di quelli - sostanziali - alla vita ed alla dignità umana, diviene un’esigenza insopprimibile quando la prima sia stata conseguita almeno in una modalità secondaria e, cioè, risarcitoria: sicché la congruità della risposta dell’ordinamento al portatore di un titolo ricognitivo di un risarcimento per i danni arrecati da quelli che comunemente possono ormai definirsi delicta imperii incide direttamente sulla misura dell’effettività di quella tutela. In un’annosa disputa bilaterale, stretta tra rinvigorita valutazione di cogenza di impegni internazionali ed esigenza di assicurare effettività alla tutela di principi cardinali del suo ordinamento, la Repubblica ha scelto un bilanciamento mediante sostanziale accollo dei debiti di uno Stato estero, successore di uno dei primi e maggiori regimi condannati dalla giustizia internazionale, ma con modalità tali da indurre il rischio di una sostanziale amara negazione concreta dell’idonea riparazione di quegli orrendi misfatti.
SOMMARIO: 1. Premessa metodologica. - 2. I principi rilevanti in tema di giurisdizione esecutiva. - 3. La giurisdizione esecutiva nei confronti degli Stati esteri. - 4. La sentenza n. 159/2023 della Consulta e il processo esecutivo. - 5. Il fondo ristori quale alternativa stragiudiziale coattiva all’esecuzione. - 6. Immunità ed eccezione umanitaria nella giurisdizione esecutiva. - 7. Una conclusione in chiaroscuro.
1. Premessa metodologica.
Per “eccezione umanitaria” può definirsi la deroga al principio generale della immunità di uno Stato sovrano per gli atti, compiuti dai suoi agenti nell’esercizio di poteri pubblicistici (acta imperii), che, corrispondendo generalmente a delitti contro la persona, abbiano arrecato danni a terzi in violazione di diritti fondamentali quali la vita, l’incolumità personale e la dignità dell’individuo, trasmodando in autentici delicta imperii.
Sono dati per acquisiti - e restano, pertanto, estranei al presente intervento - gli sviluppi dell’amplissimo dibattito sulla tutela cognitiva dell’eccezione umanitaria: del resto, ancora suscettibili di un’evoluzione che, data per plausibile ed auspicata con la celeberrima sentenza n. 238/2014, pare comunque ancora stentare a decollare.
Infatti, altissima è l’attenzione degli interpreti al diretto impatto della sentenza 159/23 sul giudizio di cognizione, inquadrata nel contesto inaugurato dalla precedente sentenza 238/14. Dichiaratamente, pertanto, non si prende posizione al riguardo, rinviando alla cospicua, ampia ed approfondita disamina in altra sede compiuta. Certo è che, dopo la coraggiosa e meritoria qualificazione di recessività di principi generali del diritto internazionale (quale l’immunità giurisdizionale degli Stati per gli acta imperii) rispetto a principi cardinali (o autentici metavalori) dell’ordinamento nazionale (quale il diritto di accesso al giudice; e, verrebbe da aggiungere, a maggior ragione quando si tratta di accesso volto a tutelare diritti fondamentali, quali il diritto alla vita e alla dignità umana, sia pure sotto il solo profilo risarcitorio), la scelta del 2023 ha ritenuto di bilanciare, escludendone quindi una qualunque recessività, con questi ultimi un altro principio di diritto internazionale, quale il rispetto dei patti, evidentemente in modo indipendente dal contenuto di questi e pure quando comportino la violazione di quei metavalori o principi cardinali dell’ordinamento.
E, però, non si tratta di tematica storica, esclusivamente de praeteritu e riferita a gravissimi e orrendi episodi di una o più guerre lontane nel tempo, nonostante i casi più eclatanti siano stati riferiti, almeno finora, a odiosi misfatti collocati temporalmente nel secondo conflitto mondiale: come dimostra la più recente esperienza del contenzioso seguito agli attentati alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 e - ancor prima - della guerra nell’ex Jugoslavia, l’epoca contemporanea è, da un lato, caratterizzata da una sempre maggiore sensibilità di ripudio dei crimini contro l’umanità, ma pure, dall’altro, da una molto più intensa microconflittualità, occasione e teatro di una riproposizione di quegli stessi scenari e di commissione di quei crimini che pure si predica di ripudiare, come episodi anche recentissimi (quando non perfino tuttora in corso) malauguratamente dimostrano.
È per questo che le riflessioni su queste tematiche potranno contribuire non soltanto a comporre i contenziosi, dolenti e amari, per vicende remote e lontane dall’attualità se non per i diretti interessati e i loro eredi, ma anche da guida in tutti quelli futuri e potenziali, relativi alla sconsiderata ripresa di azioni da parte di comunità statali che, al termine del secondo conflitto mondiale, era parso fossero universalmente e concordemente bandite dal novero delle condotte anche solo in astratto concepibili.
Sempre in via generale, la tematica della tutela esecutiva dei diritti risarcitori per crimini contro l’umanità commessi dagli Stati sarà qui esaminata su due piani: uno, generale, relativo a tutte le potenziali serie di controversie e di tutele che fossero via via instaurate e richieste; uno, particolare, relativo al contenzioso tra la Repubblica italiana e la Repubblica federale tedesca in relazione ai danni per crimini commessi dal Terzo Reich nel periodo del secondo conflitto mondiale.
2. I principi rilevanti in tema di giurisdizione esecutiva.
Va premessa ad ogni approfondimento la constatazione dell’accettazione, ormai generalizzata, dell’indefettibilità della tutela giurisdizionale esecutiva[2], riconosciuta dalla stessa Consulta come cardine dell’effettività della tutela del diritto[3] pure in alcune importanti pronunce di incostituzionalità di alcuni eccessi della normativa dettata per l’emergenza pandemica[4].
Il processo esecutivo, dopo la stasi dei primi cinquantacinque anni di vigenza del codice del 1942, che ne aveva comportato la sopraffazione dall’evoluzione del sistema economico e la conseguente inadeguatezza ad una risposta di effettività ed efficacia nella tutela dei diritti, ha visto un fervore riformatore notevole, quando non un’autentica bulimia normativa: a partire dai primi interventi riformatori della fine del millennio con l’introduzione della delega ad alcuni professionisti, dalla Riforma del 2005-6, che investì una gran parte del libro III del codice di rito recependo anche in buona parte le “prassi virtuose” poste in essere in alcuni uffici giudiziari italiani, si sono susseguiti numerosi interventi riformatori, di minore ma sempre varia - e non sempre univoca[5] - portata.
Altra decisiva premessa è la conferma del valore insuperabile del titolo esecutivo, soprattutto se giudiziale e se definitivo, sia pure - in tale ultimo caso - con alcuni correttivi recenti in tema di tutela dei diritti del consumatore[6], restando coessenziale allo stesso concetto di ordinamento che ai comandi impartiti dall’autorità e nelle forme di legge sia garantita l’attuazione od esecuzione: e, tra questi, vi sono appunto le condanne pronunciate dai tribunali, che sono per definizione titoli esecutivi.
Completa la serie di premesse la specificazione dell’impossibilità, in sede esecutiva, di rimettere in discussione il merito di un titolo esecutivo giudiziale: non si può giammai addurre alcuna contestazione su fatti anteriori alla sua formazione o alla sua definitività, poiché quelle avrebbero dovuto dedursi esclusivamente coi mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento contro di quello[7], mentre quelle per fatti posteriori alla definitività o alla maturazione delle preclusioni per farli in quella sede valere non integrano, a stretto rigore, un’impugnazione del titolo, ma appunto l’articolazione di fatti di cui quello non ha legittimamente potuto tener conto e per la cui omessa considerazione non potrebbe mai considerarsi inficiato: ed in entrambi i casi non può tecnicamente impugnarsi un titolo per un vizio non suo proprio. Fa eccezione esclusivamente il venir meno definitivo del titolo esecutivo, unico a potere, anche di ufficio, essere rilevato perfino di ufficio[8].
3. La giurisdizione esecutiva nei confronti degli Stati esteri.
Questa ampia premessa conduce ad una conclusione fondamentale per affrontare il discorso della declinazione della giurisdizione esecutiva in caso di coinvolgimento, quale debitore, di uno Stato estero.
Si vuol dire che il giudice del processo esecutivo - che già di per sé non risolve mai questioni di diritto, se non quando sia investito, nella diversa veste di relativo giudice istruttore, delle parentesi propriamente cognitive del processo esecutivo stesso (opposizioni esecutive e divisioni endoesecutive; non anche i subprocedimenti di accertamento dell’obbligo del terzo o di risoluzione delle controversie distributive, di cui agli artt. 549 e 512 cod. proc. civ., che restano fasi incidentali eventuali del processo esecutivo e concluse con provvedimenti privi di qualunque attitudine al giudicato) - non affronta mai questioni di giurisdizione in relazione alla pretesa consacrata nel titolo esecutivo, né allo sviluppo del processo esecutivo in sé e per sé solo considerato.
Pertanto, involgendo semmai le contestazioni del titolo anche giudiziale non la giurisdizione, ma la legittimità dell’azione esecutiva, ogni mutamento delle condizioni di legittimità del titolo va fatto previamente valere nelle sedi cognitive proprie a tanto deputate: ne consegue che ciò che vincola il giudice dell’esecuzione è solamente il titolo esecutivo e, quando giudiziale, se ritualmente reso tale in forza di provvedimenti giurisdizionali che ancora non siano stati inficiati nelle forme di rito previste.
Di conseguenza, l’improcedibilità non può essere dichiarata per vicende eventuali del merito dei titoli, da farsi valere in separata sede cognitiva, in applicazione del principio di diritto per il quale in caso di titolo esecutivo giudiziale, costituendo questo di per sé solo presupposto necessario e sufficiente del processo esecutivo, non possono in questo direttamente venire in considerazione, né spiegare alcuna efficacia, fatti o vicende successivi relativi alla proponibilità dell’azione conclusa col titolo, quand’anche per difetto di giurisdizione in capo al giudice che ha emesso il titolo, finché questo non sia stato riformato nelle sedi cognitive proprie ancora eventualmente esperibili[9].
E, tuttavia, quando debitore è uno Stato estero, in applicazione - al campo dell’esecuzione civile - del generalissimo principio dell’eguaglianza sovrana tra gli Stati, rimontante all’assetto della modernità disegnato dalla pace di Vestfalia di quasi quattrocento anni fa, in suo favore vige il principio dell’immunità, sia pure ristretta.
Questo vale non già ad escludere la giurisdizione del giudice nazionale, bensì a limitare i beni suscettibili di pignoramento e di esecuzione forzata, restando la potestà di amministrarla riconosciuta come funzionale al giudice del foro, cioè del luogo dove quella deve realizzarsi. Con la conseguenza che il diritto al giudice e alla tutela giurisdizionale, in tal caso mediante promovimento dell’esecuzione forzata, è comunque garantito, benché modulato - e, spesso, significativamente temperato - dall’operatività della norma consuetudinaria di diritto internazionale. In altri termini, la dottrina dell’immunità degli Stati non scherma affatto la giurisdizione del giudice in sede esecutiva, ma incide sui beni dello Stato suscettibili di espropriazione forzata: se questi sono riferibili ad una funzione in senso lato pubblicistica, ossia ad attività iure imperii, vi è l’immunità (quella cosiddetta ristretta) e quindi essi non sono pignorabili nel contesto di una procedura di espropriazione forzata; se, invece, si tratta di beni, che attengono all’attività iure gestionis dello Stato, essi sono pignorabili normalmente[10], sia pure con alcune sensibili limitazioni variamente apposte da talune norme speciali.
Il principio da ultimo richiamato è stato da tempo recepito in alcune legislazioni nazionali e, di recente, dalla stessa Convenzione di New York del 2004 sulle immunità giurisdizionali degli Stati (UNCSI)[11], ratificata dall’Italia, ma non ancora entrata in vigore[12] ed espressamente autodefinitasi non retroattiva. Il suo art. 12 introduce una deroga alla regola generale sull’immunità giurisdizionale dello Stato estero in ragione della c.d. tort exception: essa giustifica la giurisdizione dello Stato del foro per controversie con lo Stato estero in tema di illeciti civili per danni materiali a persone o beni attribuibili alla condotta posta in essere nello Stato del foro da un individuo che sia organo dello Stato estero; tuttavia, come ha rilevato la Corte internazionale di giustizia e sottolineato l’Italia nella dichiarazione formulata aderendo alla Convenzione del 2004, questa disciplina convenzionale non si applica al significativo caso dell’attività di forze armate straniere nello svolgimento delle loro funzioni ufficiali.
Sebbene si dubiti della corrispondenza tra UNCSI e consuetudine, che è molto discussa in dottrina e nelle giurisprudenze nazionali[13], la giurisprudenza nazionale può dirsi sufficientemente consolidata in tal senso[14].
In linea generale, quindi, una volta riscontrata la presenza di un titolo esecutivo (che può essere o una sentenza nazionale, oppure una sentenza straniera munita di exequatur, oppure ancora una sentenza eurounitaria alle condizioni previste dalle vigenti discipline sul riconoscimento e l’esecuzione dei singoli Stati membri (tra cui, tra l’altro, proprio la Repubblica federale di Germania), la tematica si focalizza sulla concreta possibilità di porre in esecuzione il titolo stesso e, cioè, di individuare i beni utilmente aggredibili, in testa allo Stato estero debitore, affinché questi ne risponda per soddisfare le obbligazioni a suo carico poste dal titolo esecutivo.
Sue ulteriori applicazioni possono individuarsi:
- nella disciplina sull’impignorabilità delle somme ex art. 19-bis del d.l. n. 132/2014[15], che, applicabile alle esecuzioni presso terzi iniziate (o, meglio, nell’ambito delle quali l’atto di pignoramento sia stato notificato) dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 132 del 2014, cioè l’11 novembre 2014, è stato introdotto in sede di conversione del decreto-legge recante “Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile”; e che, rubricato “Crediti delle rappresentanze diplomatiche e consolari straniere”, si colloca immediatamente dopo la disposizione recante l’introduzione di “Misure per l’efficienza e la semplificazione del processo esecutivo”, prevedendo: “1. Non sono soggette ad esecuzione forzata, a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio, le somme a disposizione dei soggetti di cui all’articolo 21, comma 1, lettera a), della Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, fatta a New York il 2 dicembre 2004, di cui alla legge 14 gennaio 2013, n. 5, depositate su conti correnti bancari o postali, in relazione ai quali il capo della rappresentanza, del posto consolare o il direttore, comunque denominato, dell’organizzazione internazionale in Italia, con atto preventivamente comunicato al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale e all’impresa autorizzata all’esercizio dell’attività bancaria presso cui le medesime somme sono depositate, ha dichiarato che il conto contiene esclusivamente somme destinate all’espletamento delle funzioni dei soggetti di cui al presente comma. 2. Effettuate le comunicazioni di cui al comma 1 non possono eseguirsi pagamenti per titoli diversi da quelli per cui le somme sono vincolate. 3. Il pignoramento non determina a carico dell’impresa depositaria l’obbligo di accantonamento delle somme di cui al comma 1, ivi comprese quelle successivamente accreditate, e i soggetti di cui al comma 1 mantengono la piena disponibilità delle stesse.”;
- nella ancor più recente disposizione dell’art. 11 d.l. 04/07/2024, n. 92, conv. con mod. dalla l. 08/08/2024, n. 112, a mente del quale: “1. Non possono essere sottoposti a sequestro né pignorati il denaro, i titoli e gli altri valori che costituiscono riserve valutarie di Stati esteri che le banche centrali o le autorità monetarie estere detengono o gestiscono per conto proprio o dello Stato a cui appartengono e che sono depositati presso la Banca d’Italia in appositi conti. Il sequestro e il pignoramento eseguiti sui beni di cui al primo periodo sono inefficaci e non sussiste l’obbligo di accantonamento da parte della Banca d’Italia. 2. L’inefficacia di cui al comma 1 è rilevata dal giudice dell’esecuzione anche d’ufficio. 3. I procedimenti esecutivi sui beni di cui al comma 1, pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, sono estinti»[16].
L’individuazione dei concreti ambiti di operatività di tali meccanismi (il primo dei quali caratterizzato da una singolare attribuzione di facoltà potestativa al debitore di scegliere unilateralmente ed insindacabilmente su quali beni consentire un’eventuale esecuzione e, quindi, di sottrarsi ad libitum alla regola generale della responsabilità patrimoniale) esula dai ristretti limiti di questo intervento: basti allora concludere che, sulla carta almeno, la tutela dei creditori degli Stati esteri, riconosciuti tali in titoli esecutivi, non soffre limitazione se non alla pari di quella di qualunque creditore che si trovi ad affrontare i rischi e le difficoltà di un’esecuzione su beni del debitore che potrebbero essere assistiti, per un interesse generale evidentemente equiordinato a quello del procedente, da uno speciale regime di esenzione dall’assoggettabilità alla procedura di espropriazione.
Ora, è evidente che l’introduzione di tali vincoli a valle del conseguimento di un titolo esecutivo giudiziale può indurre a dubitare dell’effettività della tutela giurisdizionale: e non è mancato, in dottrina, chi ha concluso nel senso che tale complesso di interventi ha reso largamente «fittizia» la tutela giurisdizionale che pure la Corte costituzionale aveva inteso assicurare [17].
Non è, del resto, la prima volta che, il legislatore, quando non può - in generale, perché astretto da non più eludibili vincoli sovranazionali - esimersi dal riconoscere un diritto, soprattutto se tanto implica gravosi oneri a carico dell’erario, non di rado finisce - si spera, in modo non consapevole - con il renderne impervia ed incerta la concreta e materiale attuazione, talvolta rimettendola ad atti latamente discrezionali del debitore medesimo o destinandola ai meandri di barocche ed intricate procedure di concreta liquidazione: lo dimostra, del resto, il precedente della concreta applicazione della disciplina sugli indennizzi per l’irragionevole durata del processo ai sensi della legge n. 89/01[18], per la quale il nostro Paese è stato a più riprese riconosciuto inadempiente dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo agli obblighi ad esso derivanti dalla Convenzione e, segnatamente, da quello di garantire i diritti fondamentali - tra cui l’accesso alla giustizia e il conseguimento di una risposta effettiva in tempi ragionevoli - e di apprestare rimedi congrui ed effettivi, facendosi carico di superare le disfunzioni di sistema.
4. La sentenza n. 159/2023 della Consulta e il processo esecutivo.
Una delle premesse della sentenza n. 159/2023 è stata l’interpretazione autentica del proprio precedente, cioè la fondamentale sentenza n. 238/2014, nel senso di circoscriverne l’applicazione.
Ogni conclusione in quella sede raggiunta - sulla sussistenza della giurisdizione del giudice comune italiano in ordine alla particolare fattispecie dei giudizi aventi ad oggetto il risarcimento dei danni subiti dalle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità per la lesione di diritti inviolabili della persona, quali quelli compiuti sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani dalle forze del Terzo Reich nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945 - è stata reputata, nella più recente pronuncia, limitata appunto al giudizio di cognizione: con espressa esclusione, invece, per il processo esecutivo dell’operatività della deroga alla regola consuetudinaria dell’immunità, costituita dall’operatività dei controlimiti di cui alla sentenza n. 238/14.
L’affermazione si basa sulla constatazione, secca e categorica, che nel processo esecutivo la prospettiva è diversa rispetto al giudizio di cognizione: in sostanza, la Consulta esclude la sensibilità della giurisdizione esecutiva all’applicazione di ogni controlimite, evidentemente qualificando il regime dell’immunità giurisdizionale ristretta speciale ed al contempo esaustivo, né in grado di impattare con i metavalori riconosciuti a fondamento del precedente del 2014.
La considerazione, che costituisce il fulcro dell’esenzione della giurisdizione esecutiva dall’eccezione umanitaria, suscita qualche perplessità.
In primo luogo, da un punto di vista testuale la stessa sentenza n. 238/14 non prevedeva affatto una tale limitazione; anzi, la coraggiosa ampiezza delle affermazioni, ivi contenute, sul rifiuto da parte dell’ordinamento di una applicazione di norme consuetudinarie internazionali che implicassero il sacrificio di valori fondanti dell’ordinamento nazionale medesimo pareva (ma, per la verità, tuttora parrebbe) tale da non soffrire eccezioni e da non legittimare l’idea che la tutela di quei valori fosse consentita solo in alcune delle estrinsecazioni della sovranità statale e non in altre.
In secondo luogo, è lo stesso carattere indefettibile della tutela giurisdizionale esecutiva, riconosciuto dalla stessa Consulta come cardine dell’effettività della tutela del diritto[19] perfino in alcune importanti pronunce di incostituzionalità di alcuni eccessi della normativa emergenziale pandemica[20], a non giustificare un regime differenziato in minus a danno del creditore: del resto, se a colui che allega di essere tale è riconosciuta la cognizione su una pretesa ancora da accertare, pare incongruo negarla poi negli stessi termini una volta che quella pretesa sia stata perfino accertata e consacrata in un titolo esecutivo (che, se giudiziale e definitivo, è ormai - per diritto vivente - equiparato ad un elemento normativo[21]).
In terzo luogo, la giurisdizione esecutiva è indissolubilmente connessa al luogo dove l’esecuzione va posta in essere (in relazione, quindi, ai beni che a quella andranno assoggettati), sicché, in applicazione di principi che possono definirsi di ordine generale (per essere recepiti costantemente negli strumenti internazionali e sovranazionali), essa compete al giudice nazionale di quel luogo[22]: e, per di più, qualunque sia l’origine del credito, perché presupposto - necessario e sufficiente - del processo di esecuzione civile è l’esistenza di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile, senza che possano venire in rilievo profili cognitori[23].
In quarto luogo, l’operatività delle regole sulla limitazione della possibilità di sottoporre ad esecuzione forzata alcuni dei beni nella titolarità del debitore attiene ai limiti oggettivi dell’esecuzione stessa, ma non alla giurisdizione del giudice (o, in generale, dell’ufficio giudiziario) investito della relativa richiesta del creditore: in altri termini, si tratta di norme a valle dell’esercizio della funzione giurisdizionale, a tutela del debitore in deroga alla regola generalissima della sua responsabilità con tutti i cespiti del suo patrimonio, ma non tali da incidere sulla potestà giurisdizionale di assicurare comunque, in via sostitutiva del debitore inadempiente, la coattiva realizzazione del relativo interesse del creditore, consacrato nel titolo esecutivo.
Pertanto, anche a rimarcare il differente ambito di operatività dell’immunità ristretta dello Stato estero su cognizione ed esecuzione, vale a dire - rispettivamente - sulla giurisdizione e sulla pignorabilità dei beni, l’eccezione al jus cogens ricostruita dalla Sentenza n. 238/14 a tutela del metavalore della garanzia di accesso al giudice (e, per di più, nel caso peculiare e delicato dell’unica tutela residua possibile, cioè quella in forma risarcitoria, di diritti fondamentali quali la vita e la dignità della persona) ben poteva dirsi operare sulla disciplina propria del processo esecutivo e, così, appunto su quella della impignorabilità.
Invece, se prima del d.l. 36/22 l’esecuzione poteva perfino dirsi ammessa in modo indistinto (in forza dell’estensione dei principi della sent. 238/14) su tutti i beni dello Stato estero (o, almeno, poteva dirsi ancora possibile su quelli non destinati ad attività pubblicistiche, ove fosse stata reputata la persistenza del limite dell’impignorabilità di quelli in ragione della destinazione a tali attività), con il sistema così introdotto è preclusa qualsiasi esecuzione a chiunque agisca in forza di titoli per risarcimento di danni subiti dalle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità nello specifico caso della lesione di diritti inviolabili della persona, compiuti sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani dalle forze del Terzo Reich nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945. La tutela giurisdizionale esecutiva è, quindi, soppressa e negata.
5. Il fondo ristori quale alternativa stragiudiziale coattiva all’esecuzione.
Il fulcro dell’esclusione dell’incostituzionalità della soppressione della tutela giurisdizionale esecutiva sta nella promozione del meccanismo apprestato dalla Repubblica italiana alla vigilia della pronuncia, da parte della Corte internazionale di giustizia, sulla domanda della Repubblica federale tedesca di misure cautelari per inibire lo sviluppo delle procedure esecutive intraprese o riprese in esito alla sentenza n. 238/14 della Corte costituzionale.
L’istituto è noto[24] e la stessa sentenza n. 159/23 si preoccupa di analizzarlo compiutamente, concludendo nel senso della sua piena equipollenza alla tutela esecutiva invece negata con la previsione dell’estinzione delle procedure pendenti e della radicale preclusione di quelle future e, pertanto, per l’equivalenza del sistema disegnato dall’art. 43, comma 3, del decreto-legge 30 aprile 2022, n. 36 (convertito, con modificazioni, nella legge 29 giugno 2022, n. 79).
Questo è il meccanismo (che è stato, evidentemente, reputato preferibile a più lineari soluzioni: quale poteva dirsi, ad esempio, un dichiarato accollo ex lege, con assunzione diretta, da parte della Repubblica italiana, del debito della Repubblica federale tedesca consacrato nelle condanne nei confronti di questa):
- le azioni di cognizione introdotte successivamente all’entrata in vigore della norma (ma pur sempre entro il termine decadenziale fissato, infine elasso il 31/12/2023) per l’accertamento e liquidazione dei danni subiti dalle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità per la lesione di diritti inviolabili della persona, compiuti sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani dalle forze del Terzo Reich nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945, si propongono con notifica all’Avvocatura dello Stato, sia pure senza specificazione del soggetto passivamente legittimato;
- le procedure esecutive basate sui titoli aventi ad oggetto la liquidazione dei danni di cui al comma 1 (di riconoscimento di risarcimenti per danni subiti dalle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità per la lesione di diritti inviolabili della persona, compiuti sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani dalle forze del Terzo Reich nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945) o derivanti da sentenze straniere recanti la condanna della Germania per il risarcimento di danni provocati dalle forze del Terzo Reich nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945”, invece, non sono proponibili, ovvero, se già proposte, non possono proseguire e sono dichiarate estinte.
La Consulta lo qualifica:
- istitutivo di una sorta di espromissione ex lege (art. 1272 cod. civ.), eccezionalmente a contenuto liberatorio nella misura in cui è contestualmente estinta la procedura esecutiva in corso nei confronti del debitore (la Germania) e non ne sarebbe più proponibile una nuova;
- “in continuità” con l’art. 2 dell’Accordo di Bonn del 2 giugno 1961, ratificato con d.P.R. 14 aprile 1962, n. 1263 (Esecuzione dell’Accordo tra la Repubblica Italiana e la Repubblica federale di Germania per il regolamento di alcune questioni di carattere patrimoniale, economico e finanziario con scambi di Note, concluso a Bonn il 2 giugno 1961);
- integralmente e sicuramente satisfattivo per l’identificazione dello Stato italiano come destinatario delle richieste di tutela (benché sia poi stata sollevata la non secondaria questione dell’identificazione del soggetto titolare del relativo debito, tanto da indurre la presentazione di un disegno di legge, attualmente pendente al Senato col n. AS 733, per l’interpretazione autentica proprio dell’art. 43 del d.l. in esame) e, in quanto tale, più favorevole per il creditore rispetto all’alea di ogni procedura esecutiva ordinaria, oltretutto aggravata dalla limitazione dell’eseguibilità del titolo sui beni di proprietà dello Stato estero, collegata alla loro eventuale destinazione ad attività pubblicistiche.
Non sono presi in considerazione né la relatività storica degli Accordi di Bonn (e i dubbi di estensibilità di quelli ai risarcimenti richiesti iure proprio dai cittadini), né la decadenza dalle azioni future entro termini contenuti, né il travolgimento delle attività già espletate in sede esecutiva, né (sulla quale questione la Corte declina la possibilità di una autorimessione) l’esclusione dell’accesso al Fondo per i titoli esteri riconosciuti in danno di cittadini non italiani, né ancora la limitazione della dotazione.
Di tale articolata qualificazione del fondo, quale non irragionevole soluzione di bilanciamento del diritto al risarcimento del danno con il dovere internazionalistico di rispettare i patti e i trattati (evidentemente, anche quando questi abbiano come conseguenza la violazione di metavalori dell’ordinamento, ciò che era stato escluso dalla sentenza del 2014 perfino per l’adesione all’ONU), occorre prendere atto, salvo a riconsiderare almeno alcuni di questi profili e di saggiarne la conformità ai principi eurounitari, costituzionali o convenzionali.
Bisogna, intanto, prendere atto che è stata riconosciuta la costituzionalità di un tale sistema. In pratica, mentre la giurisdizione cognitiva ha vissuto un’ulteriore, ma contenuta e definitiva, stagione di esperibilità (e comunque nella prospettiva di esitare nella forzosa procedura di accesso al fondo), la giurisdizione esecutiva è stata invece radicalmente esclusa a prescindere dalla valutazione della pignorabilità o meno del bene concretamente aggredito e, per di più, in relazione a qualunque titolo nei confronti dello Stato estero ed a favore di chicchessia (quindi, senza neppure la possibilità, in tali casi, di accedere al fondo): in sostanza, la improponibilità viene collocata a monte del processo esecutivo, anziché a valle, quella essendo prevista in ragione del contenuto del titolo esecutivo. La giurisdizione esecutiva per quei titoli di condanna è esclusa e, quale unica alternativa praticabile, si impone l’adizione di un fondo ad hoc gestito dallo Stato.
In altri termini, si ha ora una sentenza di condanna, il cui regime di esecutorietà è oltretutto differito in via di ulteriore eccezione al momento della sua definitività, che non è idonea - per definizione normativa - ad integrare un titolo esecutivo, in dipendenza ed a causa del suo stesso oggetto: cioè, un diritto al risarcimento del danno non è suscettibile di tutela esecutiva e, per di più, a prescindere dal soggetto individuato come debitore (rilevando, appunto, solo l’oggettiva circostanza della causa petendi azionata e riconosciuta). E, poiché tale oggetto è pur sempre la tutela secondaria, unica residua, di un diritto altrimenti fondamentale o inviolabile della persona umana, si ha un caso in cui tale tutela è negata in radice in via esecutiva e, così, nel momento invece indefettibile della garanzia, da parte dell’ordinamento, della sua effettività.
Simili titoli, privati della loro naturale esecutività, sono degradati al rango di presupposti per accedere al fondo speciale, la cui piena satisfattività è ottimisticamente presa dalla Consulta a base della valutazione di totale equipollenza alla tutela esecutiva ordinaria e diretta: se è vero che la relativa posizione giuridica soggettiva dei vittoriosi attori in cognizione è configurata come diritto soggettivo, costoro sono esposti al rischio di dovere poi intentare ulteriore azione giudiziale nei confronti del fondo per conseguirne il pagamento. Se è vero che, al riguardo, dovrebbe quanto meno essere garantita la giurisdizione del giudice ordinario, per l’espressa qualificazione di diritto soggettivo perfetto della relativa situazione giuridica in capo al beneficiario della condanna, è altrettanto vero che tanto si tradurrebbe in un’ordinaria azione giudiziale, coi suoi due gradi di merito e il giudizio di legittimità, seguita poi da un’esecuzione in base al diverso e rinnovato titolo che il malcapitato attore pure avesse la ventura di conseguire all’esito del giudizio di cognizione. Non secondaria, poi e da un punto di vista pratico o di effettività della misura, è la questione relativa alla copertura del fondo, che non pare aver tenuto conto neppure dell’ulteriore - e presupposta evidentemente quale ultimativa - riapertura dei termini (fatta salva la prescrizione[25]) per la proposizione delle azioni risarcitorie.
Il rischio non marginale di una concreta - e davvero amara - ineffettività del sistema parrebbe davvero concreto.
6. Immunità ed eccezione umanitaria nella giurisdizione esecutiva.
Può, a questo punto, tentarsi una sintesi dell’elaborazione fin qui tratteggiata e valutare le modalità di estrinsecazione e l’impatto dell’eccezione umanitaria all’immunità giurisdizionale degli Stati esteri nel processo esecutivo.
A) Prima ipotesi, ovvero fattispecie generale: il titolo azionato dal creditore del risarcimento del danno da violazione di norme sui diritti umani (crimini di guerra o contro l’umanità) non riguarda i crimini commessi dal Terzo Reich nel periodo del secondo conflitto mondiale.
A.1. In applicazione di regole generalissime, non è consentito al debitore Stato estero - tale consacrato nel titolo - di contestare il diritto al risarcimento, se non nel giudizio in cui il relativo titolo è stato formato, ma non è ancora definitivo; se il titolo fosse definitivo, non potrebbe utilmente dedursi alcun fatto impeditivo, modificativo o estintivo, né contestarsi alcun fatto costitutivo, che l’interessato avrebbe potuto - e, così, dovuto - far valere prima che il titolo giudiziale acquistasse l’autorità di cosa giudicata ed esclusivamente nel giudizio in cui quello era in discussione.
A.2. Tra i fatti successivi ammessi quale motivo di opposizione all’esecuzione (ma almeno minacciata, sicché difetta l’interesse ad addurli prima della notifica di un precetto o, in ogni modo, di qualunque univoca manifestazione di volontà del creditore di agire per il soddisfacimento del credito) c’è ogni vicenda estintiva del credito avvenuta o maturata in tempo successivo alla formazione del titolo: prima fra tutte, la prescrizione, ove non si acceda alla tesi dell’imprescrittibilità dei delitti contro l’umanità e dei crimini di guerra (il cui termine iniziale non può collocarsi prima del 2004).
A.3. Non essendo previsto alcuno strumento alternativo alla tutela giurisdizionale esecutiva ordinaria, il titolo può essere posto in esecuzione sui beni (mobili, immobili e crediti) dello Stato estero.
A.4. Nulla pare ostare all’applicabilità, alla fattispecie, dell’art. 492-bis cod. proc. civ. e, quindi, ad una ricerca ufficiosa dei beni suscettibili di pignoramento in testa allo Stato estero, sebbene possa dubitarsi la concreta possibilità di un loro rinvenimento nelle banche dati l’accesso alle quali è consentito dalla disciplina vigente.
A.5. Anteriormente al primo atto del singolo processo esecutivo, come disegnato dal codice di rito, non è tecnicamente possibile dedurre l’impignorabilità di beni, proprio perché questi non sono stati ancora assoggettati ad esecuzione.
A.6. Subito dopo il primo atto del processo esecutivo, invece, è data al debitore la facoltà di proporre un’opposizione esecutiva, sussumibile pacificamente nella fattispecie dell’art. 615 cod. proc. civ. (e, quindi, soggetta al solo termine finale di proponibilità della disposizione della vendita).
A.7. Una prima alternativa è ritenere il limite generale dell’impignorabilità dei beni destinati a funzioni pubblicistiche recessivo dinanzi alla prevalenza della tutela anche solo risarcitoria dei diritti offesi dai crimini di guerra e contro l’umanità, con la conseguenza che l’immunità, quand’anche ristretta, non potrebbe utilmente essere opposta al creditore (e la relativa eventuale opposizione ex art. 615 cod. proc. civ. andrebbe rigettata).
A.8. Va, però, riconosciuto che la sentenza 159/23 della Consulta pare chiaramente orientata nel senso della non operatività del controlimite della garanzia dell’accesso al giudice, applicato dalla sentenza 238/14 in via generale, in sede esecutiva, tanto da impostare su tale presupposto la ricostruzione di costituzionalità del meccanismo del fondo ristori. Ad accedere a tale soluzione, la pignorabilità andrebbe esclusa: resta dubbio se sia necessaria un’eccezione di parte, ove manchino specifiche disposizioni che abilitino il giudice dell’esecuzione a rilevare di ufficio tale qualità, oppure se la ragione dell’imposizione del vincolo abiliti, eccezionalmente, il giudice a tale rilievo.
A.9. In relazione alla soluzione prescelta quanto alle ipotesi sub A.7 e A.8, sarà rispettivamente ammessa o esclusa l’iscrizione di ipoteca sui beni immobili anche destinati ad attività pubblicistiche, mentre quella è sempre ammessa ove nei medesimi non siano espletate tali attività (donde la condivisibilità, una volta ammessa quale premessa l’opzione sub A.8, della scelta della Cassazione di escludere la legittimità di una consimile iscrizione su di un bene la cui destinazione ad attività pubblicistiche è stata reputata non più discutibile).
B) Seconda ipotesi, ovvero fattispecie speciale: il titolo azionato dal creditore del risarcimento del danno da violazione di norme sui diritti umani riguarda i crimini commessi dal Terzo Reich nel periodo del secondo conflitto mondiale.
B.1. La peculiare struttura del meccanismo processuale disegnato dall’art. 43 del d.l. 36/22 non solo consente, ma esige che il giudice dell’esecuzione verifichi se il titolo si riferisca per avventura a tali ragioni di credito, in deroga all’istituzionale insensibilità del processo esecutivo alle vicende ed ai fatti oggetto del titolo esecutivo giudiziale. Unica rilevanza è attribuita all’oggetto ed alla ragione del credito. Il mantenimento di una alterità soggettiva tra debitore originario ed espromittente ex lege (stando a come la Consulta ha qualificato il meccanismo) esclude l’azionabilità (ultra partes) del titolo conseguito contro la Repubblica federale tedesca anche nei confronti della Repubblica italiana: questa, a prescindere che neppure potrebbe dirsi essersi riconosciuta debitrice nei confronti del creditore, ha sì promesso l’adempimento in luogo della debitrice diretta, ma ha privato il creditore della possibilità di agire immediatamente in via esecutiva contro l’espromittente in base al titolo originario.
B.2. La radicale esclusione di una tutela giurisdizionale esecutiva, in caso si tratti di tali titoli, preclude in radice qualsiasi questione sul merito, ma pure sul processo esecutivo, che può solo essere dichiarato estinto: il richiamo all’istituto tipico dell’estinzione dovrebbe implicare l’applicazione della disciplina sui termini e sui modi del rilievo di questa e, con essa, anche il regime delle spese e quello di impugnazione del provvedimento che la dichiara. Questo dovrebbe identificarsi nel reclamo (previsto, per consolidata giurisprudenza di legittimità, in tutte le ipotesi di estinzione c.d. tipica, cioè nominativamente indicata come tale dalla norma: qual è il caso in esame, parrebbe) ai sensi dell’art. 630 cod. proc. civ. e non nell’opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 cod. proc. civ.
B.3. La preclusione in radice di qualunque tutela giurisdizionale esecutiva e la immediatezza dell’esito dell’estinzione rendono inattuali e, tecnicamente, non sorrette da interesse ad agire le doglianze circa la pignorabilità del bene, sia prima dell’inizio di qualunque procedimento esecutivo, sia dopo.
B.4. Come accennato, il creditore potrà utilizzare il titolo, altrimenti esecutivo, esclusivamente quale presupposto per accedere al fondo ristori, con le modalità del decreto ministeriale richiamato dalla norma. In caso di rifiuto o di ritardo, dovrebbe rimanere impregiudicato il suo diritto di agire in giudizio, cioè in sede cognitiva, per farsi riconoscere creditore del relativo importo nei confronti del fondo stesso, ma rimane ancora inesplorata (e rimessa ad opportuni approfondimenti successivi) la questione della legittimazione passiva e dell’individuazione di quella, tra le differenti articolazioni dello Stato, da coinvolgere in uno, a fianco o in sostituzione del fondo stesso; come pure quello delle modalità dell’esecuzione del nuovo titolo esecutivo che il creditore fosse in grado di conseguire all’esito di una tale ulteriore iniziativa giudiziaria cognitiva.
7. Una conclusione in chiaroscuro.
Dal punto di vista della tutela dei diritti e, tra questi, in special modo di quelli fondamentali della vita e della dignità della persona, la vicenda dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione offre un quadro in chiaroscuro.
Il contenzioso tra Italia e Germania, relativo ancora oggi (dopo quasi ottant’anni dalla sua conclusione) alle tematiche dell’evento storicamente più traumatico del secolo scorso, poteva costituire un’occasione per un decisivo passo avanti verso l’effettività quanto meno della tutela secondaria e, cioè, di quella risarcitoria. Il coraggio dimostrato con la sentenza 238/14, che si era spinta a negare la conformità col sistema costituzionale di qualunque norma - compresa quella che ci ha inserito stabilmente nella comunità internazionale che si riconosce nei valori delle Nazioni Unite o, a maggior ragione, di qualsiasi patto bilaterale o multilaterale - che impedisse l’accesso al giudice e soprattutto quando si trattava di crimini di guerra e contro l’umanità, non è stato seguito da una rimeditazione a livello di ordinamento internazionale, essendo restati sporadici gli interventi nella stessa direzione.
Tanto, purtroppo, non dovrebbe stupire, visto che già alla metà del decennio scorso (e quindi nella stessa temperie in cui era maturata la 238/14) i nazionalismi avevano ripreso un vigore insospettato, foriero di evoluzioni impensabili fino a poco tempo prima, come la Brexit o l’elezione al vertice di importanti democrazie di campioni di un’esasperata attenzione agli interessi della singola Nazione. In questo clima, il superamento di un plurisecolare rispetto sacrale della sovranità del singolo Stato è diventato sempre più arduo anche solo da immaginare: e, perciò, può preconizzarsi un arroccamento ancora più sostenuto sulle posizioni tradizionali di ripudio di eccezioni al principio di intangibilità della sovranità del singolo Stato, viepiù se ha agito iure imperii.
La sentenza n. 238/14 aveva consegnato ai giudici nazionali un importante strumento per garantire la massima tutela possibile, anche soltanto secondaria poiché risarcitoria, di quei diritti fondamentali, ammettendo la possibilità del privato danneggiato (cioè, di colui che aveva visto calpestati e mortificati quei diritti fondamentali, oppure dei loro eredi, che nel relativo diritto risarcitorio erano succeduti) di adire un giudice nonostante qualunque contrario verdetto internazionale e nonostante qualunque patto tra Nazioni.
Si trattava di un traguardo importante, soprattutto di un traguardo che travalicava i pur sempre circoscritti limiti e confini della vicenda del risarcimento dei danni da crimini del Terzo Reich, poiché era suscettibile di una generalizzazione utilissima, soprattutto in tempi di sempre più marcata diffusione di meste occasioni di violazioni terribili dei medesimi diritti umani calpestati nel secondo conflitto mondiale.
Per potere mantenere i suoi impegni a livello internazionale, bilaterali e multilaterali, la Repubblica ha scelto, però, in un autentico bagno di realismo dopo la coraggiosa fuga in avanti del 2014, una soluzione di compromesso, caratterizzata anch’essa da una spiccata attitudine ad una generalizzazione: ma, stavolta, nel senso di una anche maggiore limitazione della concreta effettività di una tutela risarcitoria.
Da una parte, è vero che la compressione del diritto di accesso alla giurisdizione cognitiva poteva dirsi compensata da una sorta di definitiva riapertura dei termini e che la soppressione tout court del diritto di accesso alla giurisdizione esecutiva poteva dirsi, a sua volta, compensata dalla prospettiva di un approdo ad un fondo appositamente istituito quale meccanismo alternativo coattivamente imposto e prospettato fiduciosamente come del tutto e di certo satisfattivo. Insomma, quanto al contenzioso tra Italia e Germania per le risarcitorie dei crimini del Terzo Reich l’immunità ristretta degli Stati è divenuta immunità assoluta: con un’eccezione temporale per la giurisdizione cognitiva, ma totale per quella esecutiva.
D’altra parte, è altrettanto vero che, per fare questo, la via scelta dal Giudice delle Leggi è stata quella di predicare la persistente vitalità del principio dell’immunità ristretta degli Stati esteri in materia di giurisdizione civile, nonostante tanto non fosse stato affatto postulato dal precedente intervento del 2014 e sebbene l’accesso al giudice dell’esecuzione fosse stato da sempre riconosciuto come ineliminabile e inscindibile complemento del diritto dell’accesso al giudice della cognizione: con la conseguenza che, al di fuori del contenzioso cognitivo ancora possibile o in corso (e che, del resto, per la riconosciuta costituzionalità della decadenza dalle relative azioni entro termini oggi ormai elassi o per il rischio della consumazione del termine prescrizionale massimo applicabile, ove non si acceda alla tesi dell’imprescrittibilità, dovrebbe qualificarsi ormai storicamente circoscritto o in via di naturale esaurimento), la conclusione della persistenza della immunità ristretta declinata in campo esecutivo (e, quindi, della impignorabilità della totalità dei beni dello Stato estero destinati ad attività pubblicistiche, la cui individuazione è spesso - per di più - rimessa al diretto interessato, abilitato con questo a stabilire se e quando si degnerà magnanimamente di ottemperare ai suoi obblighi), con conseguente significativa compressione della possibilità di effettivo soddisfo, potrà valere per tutte le eventuali future azioni a tutela risarcitoria della violazione di diritti fondamentali da crimini di guerra o contro l’umanità.
La vicenda rende chiaro come l’attribuzione ai vecchi schemi e strumenti della responsabilità civile (e, tra questi, a quelli della ultrabimillenaria lex Aquilia) di compiti di riparazione di torti storici è pur sempre l’ultima risorsa del danneggiato, quando la risposta della società e del decisore politico è mancata o è sentita insufficiente: benché fenomeni di questa portata storica richiedano, per la verità, una presa di coscienza matura e consapevole, fino a quel momento il giurista e, in un ruolo forse inedito, perfino il processualcivilista non dovrebbero sottrarsi a quest’ulteriore sfida, per tentare di attingere una minima effettività della tutela almeno risarcitoria di quei fondamentali diritti conculcati con crimini esecrabili.
[1] Testo dell’intervento tenuto il 6 novembre 2024 a Scandicci, Villa Castel Pulci, al Corso organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura su “Giudicare la storia: crimini di guerra, immunità giurisdizionale degli stati, diritti fondamentali. Il complesso compito del magistrato tra fonti internazionali e fonti interne” (cod.: P24074), alla tavola rotonda finale sul tema “immunità, violazione dei diritti umani ed eccezione umanitaria”. Una preponderante parte del corso è stata dedicata alle implicazioni squisitamente costituzionali ed internazionalistiche, anche dal punto di vista del diritto comparato, ma con prevalente attenzione al diritto sostanziale al risarcimento ed alle azioni di cognizione volte al suo riconoscimento: per tale ragione il presente intervento non si occupa di tale, pure assai cospicuo, aspetto della tematica.
[2] Anche il Piano nazionale di ripresa e di resilienza si occupa di esecuzione civile: dopo l’attenzione che infine anche la giurisprudenza pare avere accordato ad un momento essenziale per l’effettività della tutela dei diritti e l’evidente centralità assunta negli interventi di riforma del processo civile, il Piano ricorda come già nelle Country Specific Recommendations indirizzate al nostro Paese negli anni 2019 e 2020 la Commissione Europea, pur dando atto dei progressi compiuti negli ultimi anni, abbia invitato l’Italia ad aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile e a velocizzare i procedimenti di esecuzione forzata e di escussione delle garanzie; e rimarca come la relazione dell’anno 2020 della Commissione Europea sottolinei la particolare rilevanza di questi fattori di criticità nel contesto dell’emergenza pandemica.
[3] Sul carattere indefettibile della tutela giurisdizionale esecutiva si è pronunciata a più riprese anche la Corte di cassazione: per tutte, basti un richiamo, a Cass. Sez. U. 14/12/2020, n. 28387, punti 36 e seg. delle ragioni della decisione, anche per il rinvio alla giurisprudenza sovranazionale pertinente.
[4] Corte cost. n. 225/18.
[5] Su alcuni di essi, di più immediato impatto sul tessuto sociale ed economico, si è anzi assistito ad un’oscillazione normativa a seconda della maggiore o minore effettività in concreto conseguita e delle conseguenze sui valori e sui principi di volta in volta ritenuti prevalenti, con conseguente stratificazione di interventi talvolta tra loro in contraddizione, in proiezione dell’ondivaga sensibilità del legislatore alla tematica coinvolta (quella dell’esecuzione sulla casa di abitazione), con una mutevolezza che ricorda quella che, nel processo penale e per la delicatezza e la rilevanza anche mediatica (quando non demagogica) degli interessi coinvolti, ha a lungo connotato la disciplina della custodia cautelare. Al riguardo ci si permette un rinvio a F. De Stefano, Le modifiche al processo esecutivo, in R. Masoni (a cura di), Commentario Sistematico al Nuovo Processo Civile, Milano, 2023, pp. 487 ss.
[6] A seguito della giurisprudenza eurounitaria, come interpretata da Cass., Sez. U., 06/04/2023, n. 9479, sul tema delle notissime sentenze del 17 maggio 2022 della Grande Camera della Corte di Giustizia dell’Unione europea.
[7] Per tutte: Cass. 17/02/2011, n. 3850; Cass. 25/02/2016, n. 3712; Cass. Sez. U. 23/01/2015, n. 1238; Cass. ord. 21/09/2017, n. 21954; Cass., Sez. U., 23/07/2019, n. 19889.
[8] Per Cass., Sez. U, 14/12/2020, n. 28387, in motivazione; Cass., Sez. U, 21/09/2021, n. 25478; nello stesso senso, tra moltissime: anche Cass., ord. 06/04/2022, n. 11237; Cass., ord. 16/02/2023, n. 4873.
[9] In tali esatti termini Cass. 03/09/2019, n. 21995.
[10] Viene al riguardo richiamata Corte cost. n. 329/92, indicata come seguita da Cass., Sez. U., 05/07/1997, n. 5888. In precedenza, peraltro, v. già: Cass., Sez. U., 04/05/1989, n. 2085; Cass., Sez. U., 04/04/1986, n. 2316. Nella giurisprudenza delle sezioni semplici, da ultimo: Cass. 29/01/2010, n. 2041; Cass. 08/06/2018, n. 14885. Tale interessante ultima sentenza, richiamata pure nella sentenza della Consulta, così si esprime: “la dichiarazione di inefficacia del titolo esecutivo, oggetto del dispositivo della decisione della Corte territoriale, non è coerente con la motivazione. Il vizio risiede nel fatto che l’immobile non è assoggettabile a procedura esecutiva, ma questo non significa anche che il titolo è inefficace. Tale titolo, al contrario, mantiene la propria efficacia, da esercitare eventualmente su beni diversi da quelli aventi le caratteristiche di Villa Vigoni. Infatti, dichiarando in dispositivo l’inefficacia esecutiva della sentenza greca n. 137/97, la Corte d’Appello di Milano ha adottato una decisione che non si fonda sulla motivazione come sopra decritta. Il nucleo centrale di tale statuizione risiede nella considerazione giuridica secondo cui, sulla base del diritto internazionale consuetudinario, non è consentita un’azione esecutiva avente ad oggetto beni di proprietà di Stati stranieri ove ricorra l’ulteriore presupposto della destinazione a fini pubblicistici. Secondo la Corte territoriale, per quanto in precedenza illustrato, l’immobile Villa Vigoni costituisce un bene di proprietà di uno Stato estero avente destinazione e fini pubblicistici. Per tale motivo, e non per l’inidoneità del titolo, lo stesso non può essere oggetto di azione esecutiva o cautelare. Da tale ragionevole premessa giuridica, quindi, la Corte territoriale fa discendere l’ulteriore ed errata conseguenza della conferma integrale della sentenza dei Tribunale di Como del 5 settembre 2013, che al contrario dichiarava l’inefficacia del titolo esecutivo in base al quale era stata iscritta l’ipoteca giudiziale di cui alla nota del 17 giugno 2007. La statuizione della Corte territoriale, invece, avrebbe dovuto rimanere nel perimetro della premessa giuridica e fattuale, correttamente espressa a pag. 6; per cui, all’esito di una valutazione ragionevole del compendio probatorio, affermare la destinazione pubblicistica di Villa Vigoni e, da tale circostanza, fare discendere il principio per cui tale immobile (per le sue peculiari caratteristiche e non per l’inidoneità in astratto del titolo) non può essere oggetto di azioni esecutive o cautelari. Mentre l’ulteriore affermazione secondo cui, sulla base di tali premesse, ‘deve essere confermata integralmente la sentenza impugnata’, costituisce una statuizione non coerente la motivazione.”. In sostanza, l’errore del giudice del merito era consistito proprio nella confusione del piano della impignorabilità del bene con quello della caducazione del titolo esecutivo.
[11] Su cui, tra gli altri, A. jr Golia, Dopo la disaggregazione. La sent. n. 159/2023 come “amministrazione diplomatica” tra argomentazione giuridica e giustizia costituzionale, in Nomos, n. 3/2023, specialmente p. 5. Per la Convenzione si veda General Assembly resolution 59/38, annex, Official Records of the General Assembly, Fifty-ninth Session, Supplement No. 49 (A/59/49). In essa si enuncia l’immunità quale regola generale (art. 5) e si prevede poi una serie di eccezioni (artt. 10 ss.). Nella parte IV (artt. 18-21) della Convenzione, relativa all’immunità dello Stato straniero da misure di esecuzione e cautelari, l’art. 21 individua alcune categorie di beni che devono essere necessariamente considerati come utilizzati per scopi di servizio pubblico non commerciali e che, pertanto, non possono essere oggetto di una destinazione a scopi diversi da parte dello Stato. In particolare, sono esenti da misure coercitive da parte dello Stato del foro anche: i beni di proprietà delle banche centrali o altre istituzioni bancarie dello Stato; i beni necessari allo svolgimento delle funzioni doganali; i beni parte del patrimonio culturale dello Stato e dei suoi archivi; i beni di rilevanza scientifica, culturale o storica e non suscettibili di alienazione.
[12] Con l. 14 gennaio 2013, n. 5 (Adesione della Repubblica italiana alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, fatta a New York il 2 dicembre 2004, nonché norme di adeguamento all’ordinamento interno). La dottrina internazionalistica reputa che, sebbene la Convenzione non sia ancora entrata in vigore, questa ratifica non sia priva di effetti giuridici, in applicazione dell’art. 18, lett. b, della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati: «Uno Stato deve astenersi dal compiere atti suscettibili di privare un trattato del suo oggetto e del suo scopo: […] quando ha espresso il proprio consenso ad essere vincolato da un trattato, nel periodo che precede l’entrata in vigore del trattato e a condizione che questa non sia indebitamente ritardata».
[13] A. jr Golia, op. cit., p. 6, ove ulteriori riferimenti.
[14] Sul principio di immunità ristretta ci si permette, anche per riferimenti, un rinvio a F. De Stefano, L’immunità giurisdizionale ristretta degli Stati ed il rapporto di lavoro dipendente (in margine a Cass. Sez. U. 27/12/2019, n. 34474), in www.giustiziainsieme.it.
[15] Al riguardo, tra gli altri, si veda M. Morgese, L’esecuzione forzata nei confronti di Stati esteri: etc., in www.judicium.it, dal 16/03/2022.
[16] Su cui v. G. Costantino, Sulla sottrazione di beni di stati esteri alla esecuzione forzata, in www.inexecutivis.it dal 15/07/2024.
[17] In tal senso G. Boggero, Ancora sul seguito della sentenza n. 238/2014: una recente pronuncia del Tribunale di Sulmona, in Diritti comparati, 20 novembre 2017, 2. Per la prassi dei tribunali italiani in sede esecutiva, v. in generale L. Baiada-E. Carpanelli-A. Lau-J. Lau-T. Scovazzi, La giustizia civile italiana nei confronti di Stati esteri per il risarcimento dei crimini di guerra e contro l’umanità, Napoli, 2023, passim.
[18] Ci si permette un rinvio a F. De Stefano, La cronica anomalia della via italiana dei rimedi ai tempi della Giustizia (in margine a Cass. Sez. U. 23/07/2019, n. 19883): il “Pinto al cubo”, in www.giustiziainsieme.it dal 19/09/2019.
[19] Sul carattere indefettibile della tutela giurisdizionale esecutiva si è pronunciata a più riprese anche la Corte di cassazione: vedi sopra, pag. 3 e nota 3.
[20] Corte cost. n. 225/18.
[21] Cass., Sez. U., 21/02/2022, n. 5633.
[22] In tal senso v. già la remota Cass., Sez. U., 12/07/1993, n. 7631. Sull’estraneità del tema della pignorabilità di un qualsiasi bene alla questione di giurisdizione v. pure la ancora più risalente Cass., Sez. U., 19/05/1988 n. 3474 (preceduta, tra le altre, da Cass. 14/01/1981, n. 383), a superamento dell’originario opposto orientamento.
[23] Tra molte: Cass., Sez. U., 07/01/2016, n. 65.
[24] Si riporta, per comodità, il testo dell’art. 43 del d.l. 30 aprile 2022, n. 36, convertito, con modificazioni, nella legge 29 giugno 2022, n. 79.
“Art. 43. Istituzione del Fondo per il ristoro dei danni subiti dalle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità per la lesione di diritti inviolabili della persona, compiuti sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani dalle forze del Terzo Reich nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945
1. Presso il Ministero dell’economia e delle finanze è istituito il Fondo per il ristoro dei danni subiti dalle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità per la lesione di diritti inviolabili della persona, compiuti sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani dalle forze del Terzo Reich nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945, assicurando continuità all’Accordo tra la Repubblica italiana e la Repubblica Federale di Germania reso esecutivo con decreto del Presidente della Repubblica 14 aprile 1962, n. 1263, con una dotazione di euro 20.000.000 per l’anno 2023 e di euro 13.655.467 per ciascuno degli anni dal 2024 al 2026.
2. Hanno diritto all’accesso al Fondo, alle condizioni e secondo le modalità previste dal presente articolo e dal decreto di cui al comma 4, coloro che hanno ottenuto un titolo costituito da sentenza passata in giudicato avente ad oggetto l’accertamento e la liquidazione dei danni di cui al comma 1, a seguito di azioni giudiziarie avviate alla data di entrata in vigore del presente decreto, ovvero entro il termine di cui al comma 6. È a carico del Fondo il pagamento delle spese processuali liquidate nelle sentenze di cui al primo periodo. Resta ferma, in relazione ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto e a quelli instaurati successivamente, sentita l’Avvocatura dello Stato, la facoltà di definizione mediante transazione, che costituisce titolo per l’accesso al Fondo.
3. In deroga all’articolo 282 del codice di procedura civile, anche nei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, le sentenze aventi ad oggetto l’accertamento e la liquidazione dei danni di cui al comma 1 acquistano efficacia esecutiva al momento del passaggio in giudicato e sono eseguite esclusivamente a valere sul Fondo di cui al medesimo comma 1. Le procedure esecutive basate sui titoli aventi ad oggetto la liquidazione dei danni di cui al comma 1 o derivanti da sentenze straniere recanti la condanna della Germania per il risarcimento di danni provocati dalle forze del Terzo Reich nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945 non possono essere iniziate o proseguite e i giudizi di esecuzione eventualmente intrapresi sono estinti.
4. Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale e con il Ministro della giustizia, da emanare non oltre centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono stabilite:
a) la procedura di accesso al Fondo;
b) le modalità di erogazione degli importi agli aventi diritto, detratte le somme eventualmente già ricevute dalla Repubblica italiana a titoli di benefici o indennizzi ai sensi della legge 10 marzo 1955, n. 96, del decreto del Presidente della Repubblica 6 ottobre 1963, n. 2043, della legge 18 novembre 1980, n. 791, e della legge 29 gennaio 1994, n. 94;
c) le ulteriori disposizioni per l’attuazione del presente articolo.
5. Il pagamento effettuato con le procedure previste al comma 4 estingue ogni diritto o ragione di credito correlata alle pretese risarcitorie per i fatti di cui al comma 1.
6. Fatta salva la decorrenza degli ordinari termini di prescrizione, le azioni di accertamento e liquidazione dei danni di cui al comma 1 non ancora iniziate alla data di entrata in vigore del presente decreto sono esercitate, a pena di decadenza, entro centottanta giorni dalla medesima data. La decadenza è dichiarata d’ufficio dal giudice. Gli atti introduttivi relativi a tali giudizi sono notificati presso gli uffici dell’Avvocatura dello Stato, nel rispetto dell’articolo 144 del codice di procedura civile. Se tale notifica è omessa, il giudice assegna un termine perentorio alla parte attrice per l’esecuzione di tale incombente.
7. Agli oneri derivanti dal presente articolo, valutati in euro 20.000.000 per l’anno 2023 ed euro 11.808.000 per ciascuno degli anni dal 2024 al 2026, si provvede quanto a euro 10.000.000 per l’anno 2023 ed euro 5.904.000 per ciascuno degli anni dal 2024 al 2026 mediante corrispondente riduzione del Fondo per far fronte ad esigenze indifferibili di cui all’articolo 1, comma 200, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, e quanto a euro 10.000.000 per l’anno 2023 ed euro 5.904.000 per ciascuno degli anni dal 2024 al 2026 mediante corrispondente riduzione del Fondo per interventi strutturali di politica economica, di cui all’articolo 10, comma 5, del decreto-legge 29 novembre 2004, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 dicembre 2004, n. 307.”
Da ultimo con l’art. 8, comma 11-ter, del d.l. 29 settembre 2023, n. 132, convertito con modificazioni dalla L. 27 novembre 2023, n. 170, i termini decadenziali per l’esercizio delle azioni di accertamento e liquidazione dei danni, indicati al comma 6 dello stesso articolo, sono prorogati sino al 31 dicembre 2023.
[25] Per Cass. 08/02/2024, n. 3642, “Il dies a quo del termine di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni conseguenti ai crimini contro l’umanità commessi dal regime nazista nei confronti di cittadini italiani durante la Seconda guerra mondiale non può essere individuato in una data anteriore al 2004, dal momento che solo a partire dalla sentenza delle Sezioni unite della S.C. n. 5044 del 2004 può considerarsi rispondente al ‘diritto vivente’ l’esclusione dell’immunità dalla giurisdizione civile degli Stati esteri rispetto agli atti posti in essere in violazione dei diritti fondamentali dell’individuo”. Non rileva in sede di esecuzione la diversa - e qui lasciata impregiudicata, rinviandosi agli approfondimenti tematici specifici -questione dell’imprescrittibilità dei crimini di guerra, anche a fini risarcitori: se è vero che, ad oggi, la Repubblica italiana non figura tra gli Stati che hanno ratificato la Convenzione ONU sull’imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità del 26 novembre 1968, la prescrizione utilmente deducibile in sede di opposizione ad esecuzione sarebbe pur sempre e soltanto quella maturata dopo la pronuncia del titolo di condanna e prima dell’avvio dell’esecuzione.
Uso e abuso della parola libertà
di Licia Fierro
Se penso a tutte le discussioni, ai libri, ai saggi, ai dibattiti sulla libertà, mi rendo conto e, credo anche voi, di quanto sia difficile costruire una riflessione sul tema senza pretendere né di esaurirne i significati, né di fornire nuove definizioni. Il fatto è che in ogni momento storico gli uomini avvertono quasi naturalmente il bisogno di interrogarsi sul loro modo “attuale” di essere liberi. Certo il termine è in sé stesso equivoco: se filosoficamente è libero chi non è soggetto ad alcuna determinazione causale, politicamente è libero chi ha per legge la possibilità di esercitare i suoi diritti. Senza parlare della complessità delle implicazioni psicologiche dove la libertà si configura come capacità consapevole di dominare i propri impulsi assumendo comportamenti conseguenti e responsabili. La libertà, dunque, esclude ogni forma di subordinazione alla necessità causale, ogni schiavitù ad un qualsivoglia sistema politico che non si configuri come stato di diritto, infine essa esige la responsabilità. Penso che su queste premesse tutti possano concordare e ritenere che, a parte le componenti psicologiche oggetto di studi in tutt’altri ambiti, nel mondo occidentale si siano create nel tempo le condizioni di una libertà stabile e duratura. Specie a partire dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, anche dal punto di vista etico si è configurato con caratteri nettissimi il baratro esistente tra la libertà e la schiavitù. Non a caso il processo ultimo da cui è nato il nostro paese lo si chiama con termine appropriato guerra di Liberazione. Ritengo che sia necessario tener presente questa origine della nostra Repubblica proprio perché anche i giovani imparino a rispettare e difendere il valore della libertà non nella dimensione individualistica sterile, ma nel contesto della comune convivenza. Kant identificava la libertà col motto latino sapere aude ovvero “abbi il coraggio di usare la tua ragione”, perché solo alla luce di essa è possibile eliminare le paure, l’ignoranza, i pregiudizi; Hegel affermava che la libertà non può che nascere dal riconoscimento di sé nell’altro; Marx replicava, tuonando contro le astrazioni, che senza distruggere le discriminazioni economico-sociali non può esistere alcuna libertà. Tutte belle definizioni comprensibili ad un pubblico acculturato, ad una élite consapevole del travaglio ideologico che tra Ottocento e Novecento ha determinato scuole di pensiero antitetiche sul tema in questione: mi riferisco alle grandi costruzioni teoriche del liberalismo e del socialismo. Ma al di là dei massimi sistemi che cosa ci colpisce oggi? Da una parte la mancanza di ogni impedimento all’azione di chi, in qualunque modo, si accaparra i beni primari con la giustificazione del principio di libera iniziativa economica, dall’altra per dirla con Berlin non si capisce “che cosa o chi sia la fonte del controllo o dell’ingerenza che può indurre qualcuno a fare o ad essere questo invece di quello”. Dove comincia e dove trova il suo limite la libertà privata? Ha ancora ragion d’essere il controllo e come viene esercitato? Con quali leggi? Che cosa mette propriamente in crisi il modello occidentale di libertà quanto più essa sembrava sicura e ben fondata? Io credo che la maggior parte degli adulti come me abbia difficoltà a rispondere e perciò quando queste domande le propongono i giovani, le nostre argomentazioni risultano sempre più deboli. Un mio allievo un giorno mi disse “ma nell’era di Internet non c’è più senso a porsi il problema della libertà, ci sono modi di esercitarla in assoluto evitando pure i possibili controlli…” Questa affermazione mi ha sempre più indotta nel tempo a spostare la riflessione nei termini più ampi della questione morale. Mi sovviene e faccio mia la tesi di Sylos Labini quando, a proposito della vita sociale e politica, dice che se non se ne riconosce la rilevanza morale tutto diventa niente più che una lotta selvaggia. La conflittualità è immanente ad una società sempre più logorata dalla religione dell’individuo potente e affermato, l’individuo “di successo” non importa come, non importa a quale prezzo. È questa carenza sostanziale di eticità a rendere anche lo stato quasi impotente nei suoi mezzi di controllo e se possibile di coercizione. Prima di stupirci di tante forme di libertinaggio e di arbitrio, dovremmo interrogarci sulle nostre scelte etiche e di come esse si trasformino in modelli di comportamento per gli altri. Sappiamo ancora dimostrare coi fatti che abbiamo compreso il valore morale della libertà? In questi ultimi tempi l’occidente e il mondo intero sono stati chiamati ad esprimersi sulla necessità morale di adottare provvedimenti comuni e solidali di fronte ad una rivoluzione climatica che rischia di mettere in discussione la vita stessa dell’umanità. Ritornano utili le belle pagine di Bobbio sul concetto negativo e quello positivo di libertà.
Adesso che tutti siamo in bilico, perché inermi, quali forme di intervento prevediamo per renderci liberi da un pericolo comune? Un nemico che uccide senza guardare colore o continente, che mette in crisi la stessa sopravvivenza delle istituzioni democratiche ancor più delle guerre? È sui grandi temi, oltre che sulle questioni interne, piccole o grandi esse siano nei vari paesi, che si gioca la sopravvivenza o la disfatta di tutti quei modelli consolidati di libertà che sembravano inattaccabili e che oggi vacillano proprio nell’occidente che a lungo ne ha rivendicato origine e primato.
Immagine: Pablo Picasso, Due donne che corrono sulla spiaggia, olio su tela, 1922, Musée National Picasso, Paris.
Ciao Enrico,
siamo un gruppo di tuoi colleghi della Procura di Milano.
Siamo quelli che, da quando abbiamo saputo che ci avevi lasciato, hanno iniziato ad incontrarsi, telefonarsi e scriversi.
Alcuni di noi li conosci bene e hanno lavorato con te negli anni. Altri li conosci ma non si è mai lavorato assieme. Molti non lavorano più in Procura ed altri ancora non ti hanno mai conosciuto ma hanno saputo di te lavorando in quelle stanze, facendo quelle scale, percorrendo quei corridoi e aprendo quelle porte del quarto piano del Palazzo di Giustizia di Milano dove hai svolto tutta la tua vita professionale come Pubblico Ministero. O meglio, quando hai iniziato tu c’era solo il quarto piano e adesso ci siamo allargati fino al quinto ed al sesto, ma la consapevolezza della funzione che ognuno di noi svolge o ha svolto è presente in ogni centimetro quadrato dell’Ufficio.
Potremmo dire che è agli atti della storia della nostra Repubblica quello che è stato il tuo lavoro, e in questi giorni - anche sulla stampa – molti lo stanno ricordando in un paese dove occorre coltivare il vizio della memoria. O la virtù della memoria.
Quello che vogliamo aggiungere è che per noi è stato ed è esempio il tuo essere magistrato, la tua consapevolezza del ruolo di Pubblico Ministero appartenente ad un’unica giurisdizione, consapevolezza che si è aggiunta alle capacità professionali ed umane che tutti possono testimoniare.
Hai avuto il dovere e la possibilità di sopportare sulle tue spalle enormi responsabilità, a tratti anche drammatiche, potendo decidere autonomamente in base alla tua scienza e coscienza, ed in modo indipendente da altri poteri, rispondendo solo alla Costituzione e alle leggi.
Scusa se ce lo diciamo, ma oggi ci serve ancora ricordare il tuo insegnamento.
E allora è esemplare l’essenza di come tu sei stato Pubblico Ministero utilizzando parole lucide, ferme e serene, alzandoti nell’aula di udienza dove celebravate un procedimento nel quale era stato opposto un segreto di Stato che pregiudicava l’accertamento dei fatti e delle relative responsabilità. Spiegasti: «Se fossi del tutto indifferente alla vita della comunità italiana, mi verrebbe da ridere. Poiché sono tenacemente attaccato a questo paese sono a disagio». E poi aggiungesti: «Se non avessi a cuore i diritti e gli interessi della collettività potrei comodamente adeguarmi alle scelte del presidente del Consiglio. Ma a quei diritti e interessi io ci penso».
In un’altra occasione, quando a Brescia ti toccò difenderti da accuse nefande strumentalmente mosse da chi aveva ricoperto altissime cariche istituzionali, avanti al giudice che ti giudicava chiudesti le tue dichiarazioni impugnando e alzando un codice: «Questo testo, signor giudice, è l’unica nostra guida. E non è un caso che esso inizi con la Costituzione della nostra Repubblica”.
Ti penseremo spesso.
Saluto di Armando Spataro del 25 dicembre 2015 a Ferdinando Enrico Pomarici (dopo la festa del 15 dicembre 2015)
In questi giorni sono stati comprensibilmente diffusi nelle mailing list di magistrati ed in quelle “aperte” molti messaggi di saluto ed augurio a tanti validi colleghi di prossima “collocazione a riposo per raggiunti limiti di età” (dizione tecnica). O destinati a chi quella “collocazione” aveva già da poco scelto.
Personalmente, ho atteso quasi la fine del giorno di Natale per salutare Enrico Pomarici, il fratello maggiore che non ho mai avuto: spero così non solo di rafforzare gli auguri a lui diretti, ma anche – a liste in questo giorno meno affollate ed in giornate di auspicabile riposo – di meglio richiamare l’attenzione dei lettori. Maggior attenzione a lui, naturalmente, sia pure attraverso le mie parole.
Qualche anno fa ho scritto un libro sulla mia esperienza professionale (scusate l’autocitazione) in cui Pomarici è citato almeno 80 volte (senza contare le due/tre citazioni per pagina che spesso vi compaiono): ciò spiega cosa Enrico ha rappresentato per me e – senza enfasi aggiungo – per la storia della magistratura italiana. Ripercorrerò alcune dei fatti oggetto di quelle citazioni.
Il nome
Intanto, il suo primo nome è Ferdinando, il secondo – in ricordo di un suo caro zio – è Enrico: accade così che gli amici lo chiamino «Enrico», gli estranei «Ferdinando» mentre quelli che cercano di apparire suoi amici lo chiamano «Nando», un diminutivo che lui non ha mai usato.
I sequestri di persona
Ho conosciuto Enrico Pomarici appena arrivato a Milano, dopo il tirocinio, nel settembre 1976 (cioè quasi 40 anni fa): da sostituto in una grande Procura, come a molti accade, mi trovai immediatamente catapultato in un lavoro molto impegnativo, per mole e qualità. Mi capitò di venire subito assegnato al settore dei sequestri di persona, un fenomeno in quegli anni ancora molto diffuso. Ebbi subito un modello: Pomarici, che se ne occupava a tempo pieno ed era stato colui che, sin dal 1976, con una scelta molto sofferta e criticata, aveva ideato il cosiddetto «blocco dei beni»: grazie ai suoi provvedimenti giudiziari, i beni di famiglia dei rapiti venivano congelati per impedire il pagamento del riscatto e così rendere il sequestro non remunerativo. Tutto l’ufficio seguì quella sua scelta, pur tra polemiche e «scomuniche» di chi sosteneva che, con cinismo, si impediva ai familiari di attivarsi per la liberazione dei loro cari. Ma fu una linea che alla fine risultò vincente, tanto che il blocco dei beni fu poi recepito anche nella normativa sui rapimenti. E quel fenomeno criminale si esaurì.
La mia prima esperienza si consumò, dunque, all’ombra di Pomarici. Ma anche le altre.
Gli anni di piombo
Nella primavera avanzata del 1977 mi fu affidato il primo incarico importante: pubblico ministero nella fase dibattimentale del processo al cosiddetto nucleo storico delle Brigate Rosse. Imputati: Renato Curcio, Nadia Mantovani e altri. Il tragico antefatto era stato l’omicidio a Torino dell’avvocato Fulvio Croce del 28 aprile 1977: incaricato di sostenere l’accusa in dibattimento, ebbi due tutor pazienti, Emilio Alessandrini e Enrico Pomarici, da cui molto imparai in quei mesi. A cavallo del sequestro Moro, nacquero nelle Procure e negli uffici istruzione dei Tribunali più importanti i pool antiterrorismo (ne esisteva uno solo nell’ufficio istruzione di Torino). Il pool antiterrorismo della Procura di Milano registrò una rapida crescita fino alla 6 unità: Pomarici ne era il componente più anziano (già da tempo si occupava delle Brigate Rosse) insieme ad un altro grande maestro, Corrado Carnevali ora Procuratore a Monza, e ad altri quattro sostituti.
Nel 1980 il pool stava per raggiungere le sette unità. Sapete perché? Perché Guido Galli aveva chiesto ed ottenuto il trasferimento in Procura solo dopo avere ricevuto dal Procuratore Gresti l’assicurazione che – sia pure senza alcuna esenzione da altri impegni – avrebbe fatto parte di quel gruppo. E sapete perché Galli fece quella richiesta? Perché voleva la certezza di poter lavorare con Pomarici: ciò che avvenne il 19 marzo del 1980 gli impedì purtroppo di realizzare quel suo desiderio.
Impossibile citare, sia pur sommariamente, tutte le indagini condotte da Pomarici nel settore del terrorismo, ma per due di esse faccio un’eccezione per una semplice ragione: furono casi che lo esposero ad incredibili attacchi da parte di esponenti del mondo politico.
La scoperta del “covo” di via Monte Nevoso
La prima vicenda che qui voglio citare è quella relativa alla scoperta della base delle BR – Colonna W. Alasia di via Monte Nevoso a Milano (1° ottobre 1978): una indagine storica che portò all’azzeramento della Colonna Walter Alasia delle BR. Pomarici arrivò in quella base un’ora dopo l’intervento dei CC., mentre ancora nella città risuonavano gli spari di via Pallanza ove, in un altro covo, erano stati arrestati altri brigatisti. Nonostante proprio i brigatisti Azzolini e Bonisoli avessero successivamente e pubblicamente smentito l’esistenza di qualsiasi mistero, Pomarici fu destinatario di accuse di ogni tipo, da quella di incapacità a quella di connivenza: una campagna segnata da ingiustificato livore di chi sosteneva l’esistenza di inconfessabili retroscena sia nella scoperta della base, sia nella asserita (e in realtà mai avvenuta) sparizione di documenti che lì sarebbero stati custoditi. Circa dodici anni dopo la scoperta del covo, un politico, all’epoca membro della segreteria del Pci, chiese che la nuova inchiesta (quella scaturita dal rinvenimento di un doppio fondo in un muro dell’appartamento) fosse tolta a Pomarici e affidata ad altri magistrati. Il procuratore della Repubblica Borrelli gli rispose con un secco comunicato e io stesso ne diffusi uno di solidarietà al collega e ai carabinieri, denunciando «gli atteggiamenti di una classe politica che, salvo poche encomiabili eccezioni, strumentalizza a fini di parte ferite ancora aperte nella coscienza della gente». Il 27 gennaio 2000, a distanza di poco più di vent’anni dalla scoperta della base, un consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e sulle stragi presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino depositò una relazione che alimentava vecchi e nuovi misteri e immetteva sul “mercato” altre bufale. Io e Pomarici chiedemmo ed ottenemmo di essere sentiti dalla Commissione per smentirle e, dopo l’audizione svoltasi tra non poche tensioni, scrivemmo una lettera aperta al «Corriere della Sera» che, pubblicata il 16 marzo 2000, ne riassumeva i contenuti. Lo facemmo per rendere onore ai Carabinieri ed a chi all’epoca della scoperta li dirigeva: il gen. dalla Chiesa.
Il presidente Pellegrino, intanto, aveva inviato alla presidenza del Consiglio superiore della magistratura il verbale della seduta del 14 marzo 2000 della sua Commissione in cui si affermava che io e Pomarici avremmo mostrato «arroganza» (dichiarazioni di Bielli), così evidentemente alludendo al nostro sforzo di offrire alla politica elementi certi e non falsi misteri. Per inciso: falsi misteri e balle di ogni tipo circolano ancora. In altra futura occasione magari racconterò di alcune domande postemi nella seduta del 7 luglio di quest’anno dinanzi alla ennesima Commissione sul terrorismo e sul sequestro Moro.
L’omicidio Calabresi
La seconda indagine di Pomarici nel campo del terrorismo che qui voglio citare è quella relativa all’omicidio Calabresi: anche in quell’occasione, invettive e polemiche accompagnarono tutta l’indagine, dalle confessioni di Leonardo Marino ai molti dibattimenti celebrati, fino alla sentenza definitiva di condanna di Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani. Dopo la sentenza di primo grado, emessa nel 1990 da una Corte d’Assise presieduta da Manlio Minale, ricordo che giudici e pubblico ministero si ritrovarono a loro volta «sotto processo». Il vicepresidente del Consiglio dei ministri, Claudio Martelli, si dichiarò allibito per la sentenza. Marco Boato, ex leader di Lotta Continua e senatore della Repubblica, presenziando alla Casa della Cultura di Milano a un controprocesso organizzato dagli amici dei condannati, disse: I magistrati? «Mi fanno tutti un po’ schifo qui a Milano». «Ed il pm Pomarici», aggiunse «è un killer del diritto, questa è la mia sensazione a pelle» (Corriere della Sera, 6 maggio 1990). Presi posizione a favore di Enrico in mille pubbliche dichiarazioni, anche se sapevo che non ne aveva bisogno. Di certo era stata fatta giustizia: erano stati individuati e condannati gli assassini di Calabresi, cioè i responsabili del primo omicidio della storia del terrorismo italiano, checché ne dica Sofri, il quale, in un incredibile articolo pubblicato sul «Foglio» l’11 settembre del 2008, tentò di spiegare perché quell’omicidio non sarebbe stato in realtà un atto di terrorismo. Qualcuno gli diede anche ragione (Erri De Luca parlando a Marco Imarisio, Corriere della Sera12 sett. 2008).
Ed Enrico? Nulla, nessuna parola, solo silenzio e qualche inconfessato fastidio anche per le manifestazioni di solidarietà (poche) degli amici.
La fine degli anni di piombo
Gli storici anni di piombo si chiudono nel 1988 poiché quelli successivi – segnati dagli omicidi D’Antona nel ’99, Biagi nel 2002 e Petri nel 2003 – fanno parte di altra storia, una storia di idioti che combattevano nella giungla delle Isole del Pacifico convinti che oltre il mare vi fosse ancora la guerra. Su una parete del mio ufficio, vi sono alcune vecchie foto incorniciate. Una è del giugno 1988 e vi sono raffigurato insieme a Pomarici: eravamo a una conferenza stampa tenuta dai carabinieri, in via Moscova, dopo la scoperta dell’ultimo covo delle B.R. Forse quella è stata l’unica conferenza stampa cui Pomarici ha partecipato in vita sua, ma ce ne stavamo in piedi ed in disparte, come la foto dimostra, quasi garanti dinanzi ai giornalisti della attendibilità della ricostruzione di un’operazione decisamente «storica» loro offerta dalla polizia giudiziaria.
Un giornale della cosiddetta sinistra antagonista – «Autonomen» – pubblicò la stessa foto sotto forma di fumetto, accompagnata, cioè, da un colloquio immaginario tra me e Pomarici: ci rallegravamo reciprocamente perché l’operazione di via Dogali, a Milano, ci aveva ridato un certo lustro proprio mentre eravamo ormai avviati alla «pensione». Pomarici chiudeva il fumetto dicendomi: «Non ti preoccupare. Sono tornati i bei tempi; bevono tutto, ma proprio tutto...».
L’Antimafia in Lombardia
Ma la pensione per Pomarici era ancora lontana: chiusi gli anni di piombo, in capo a pochissimi anni ci ritrovammo in tanti nelle DDA o nella Direzione nazionale: Pomarici, pur continuando a coordinare il settore anti-terrorismo, diventerà - dopo la nomina di Manlio Minale a Procuratore di Milano - il coordinatore per lunghi anni delle indagini della DDA di Milano, le stesse indagini che porteranno, all’atto della loro conclusione, alla gran parte dei successi più recenti.
Sobrietà e lavoro di squadra saranno ancora una volta la ragione dei successi del gruppo di Pomarici. Illuminanti le sue approfondite relazioni ed analisi sulla presenza della mafia al Nord e sulle modalità di contrasto di quel fenomeno.
Il terrorismo internazionale ed il sequestro Abu Omar
Ci avviciniamo alla fine del racconto: Pomarici coordinò anche il settore delle indagini in tema di terrorismo internazionale, finché – nel 2003 inoltrato – assunsi io stesso quel ruolo. Numerose le condanne che i colleghi, da lui “diretti”, ottennero in quel difficile settore. Insieme a Pomarici, però, sono stato co-assegnatario delle indagini sul sequestro di Abu Omar (Milano, 17 febbraio 2003): tranquilli, non vi farò del male riproponendovelo di nuovo!
Voglio solo, ed ancora una volta, parlare di Pomarici, della sua incredulità e della sua reazione di fronte agli ostacoli frapposti alla indagine stessa dall’opposizione del segreto di Stato e dai conseguenti conflitti dinanzi alla Corte Costituzionale sollevati da ben quattro Governi in successione (Prodi, Berlusconi, Monti e Letta). Enrico è tuttora forse più incredulo e stupefatto di me per quello che ci è toccato di vivere e vedere, ma è stato forse anche più capace di elaborarlo.
Ma siamo stati entrambi capaci di sorridere in qualche passaggio della vicenda, come ad esempio per quanto avvenne il 22 maggio del 2006 nel mio ufficio, documentato attraverso le intercettazioni riportate nella sentenza di primo grado: il tutto degno di una pièce teatrale se non riguardasse il Servizio segreto militare italiano dell’epoca e una gravissima violazione dei diritti umani come il sequestro di Abu Omar.
Un giornalista, all’epoca vicedirettore di «Libero», venne incaricato di intervistarci per comprendere se le nostre indagini si orientassero verso funzionari del SISMi, quali sospetti complici della CIA. Nello stesso tempo, chi gli illustrò l’incarico gli raccomandò di non farci capire la ragione della visita.
Dunque, la mia scrivania è microfonata, il giornalista arriva puntuale nel mio ufficio, e trova anche Pomarici ad aspettarlo nel mio ufficio:
«Piacere...», «Piacere mio». Gli presento Pomarici e parte la conversazione in cui il giornalista manifesta subito un interesse meramente professionale e noi fingiamo di credergli. Ma egli dimentica le raccomandazioni impartitegli e ci dice senza troppi giri di parole: «La domanda che sarà più interessante è se c’è di mezzo il Sismi o no?». A questo punto, nella trascrizione ufficiale della conversazione registrata si legge: «Risate in sottofondo». Il fatto è che né io, né Pomarici ci aspettavamo un simile incipit e scoppiamo a ridere all’unisono, senza alcun accordo. Io osservo, sorridendo: «Ah così, una cosa così...!», e Pomarici aggiunge: «Volete anche la sentenza della Cassazione?». Il giornalista si scusa per l’approccio forse troppo diretto e spiega che in realtà egli è mosso, da cattolico, da sincera stima per il vertice del SISMi.
Tralascio la sintesi dell’incontro, ma alle 18:52, il giornalista ne riferisce a chi gli ha dato istruzione:
giornalista: «Allora... loro mi hanno fatto... mi hanno fatto trovare lì anche Pomarici».
Interlocutore: «Ammazza...».
giornalista «È stata un’ora di confronto durissimo...».
Interlocutore: «Minchia...».
giornalista: «Per cui sono anche un po’...».
Interlocutore: «Stanco...».
giornalista: «No, no, no sono...... ma io ho retto il colpo ed ho replicato… Cioè è stata una specie di imboscata...io ho retto benissimo il confronto... anche perché loro cercavano di umiliarmi…la cosa impressionante è che ha voluto che ci fosse lì Pomarici, che non era previsto...».
Interlocutore: «Senti, ma per noi? a naso tuo?».
giornalista: «Ma a naso mio non c’è un cazzo sul Sismi...! Pomarici era una sfinge,... cioè è veramente una sfinge.».
E qui il giornalista aveva ragione: Pomarici è sempre stato una sfinge.
In una successiva telefonata, il giornalista comunicava al suo interlocutore di avergli inviato un rapporto sull’incontro. Ribadiva di essere molto provato dopo che noi avevamo cercato di intimidirlo. Ma alla fine – precisava il giornalista – «ho vinto io!».
Abbiamo sorriso anche – io e Pomarici – ma un po’ meno e con una certa tristezza che accompagnava il sorriso, nelle fasi successive della inchiesta quando siamo stati accusati di avere voluto cercare la verità a qualsiasi prezzo, anche a costo di violare supposti segreti di Stato. Anche contro – aggiungo io – una ragion di Stato ambigua e contraddittoria
L’11 luglio del 2006, sei giorni dopo l’incriminazione di alti esponenti del Sismi, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga ci denunciava per vari reati, quali «atti ostili verso uno Stato estero che espongono lo Stato italiano al pericolo di guerra», «spionaggio politico o militare», «spionaggio di notizie di cui è stata vietata la divulgazione», «introduzione clandestina in luoghi militari e possesso ingiustificato di mezzi di spionaggio», «infedeltà in affari di Stato», «cognizione, interruzione o impedimento illeciti di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche», «falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche» e «rivelazione del contenuto di corrispondenza». Con la stessa denuncia ci attribuiva le aggravanti «di avere agito nell’esercizio e con l’abuso delle loro funzioni ed al fine di agevolare il terrorismo». La denuncia verrà archiviata dal GIP di Brescia che respingeva anche la richiesta di proroga dei termini delle indagini preliminari formulata dai PM: non dimenticherò le parole ferme, lucide e serene insieme di Pomarici quando – presa la parola nella udienza camerale dinanzi al GIP – illustrò le ragioni per cui la istanza di proroga di quei termini non era da accogliersi. Il nostro avvocato di fiducia non ritenne di dover aggiungere alcuna altra considerazione. Nel richiedere l’archiviazione del procedimento a nostro carico, i p.m. di Brescia affermavano comunque che, «stante la denegata proroga delle indagini», permanevano «alcuni concreti elementi di sospetto e di perplessità» a nostro carico. E va beh!
Ma rammento ancor più le parole che il 3 dicembre 2008 Pomarici, in relazione al segreto di Stato “in espansione”, pronunciò in dibattimento dinanzi al Giudice Monocratico Oscar Magi, commuovendo me e – credo – molti dei presenti: «Se fossi del tutto indifferente alla vita della comunità italiana – egli disse – mi verrebbe da ridere. Poiché sono tenacemente attaccato a questo paese sono a disagio». Ed ancora: «Se non avessi a cuore i diritti e gli interessi della collettività potrei comodamente adeguarmi alle scelte del presidente del Consiglio. Ma a quei diritti e interessi io ci penso». Mi tornarono alla mente le parole del gennaio 1926 di Vincenzo Chieppa, segretario dell’Associazione magistrati che annunciava la decisione di autoscioglimento dell’Associazione, contestuale al rifiuto dei suoi dirigenti di trasformarla in un sindacato fascista: «Forse con un po’ più di comprensione – come eufemisticamente suol dirsi – non ci sarebbe stato impossibile organizzarsi una piccola vita senza gravi dilemmi e senza rischi, una piccola vita soffusa di tepide aurette, al sicuro dalle intemperie e protetta dalla nobiltà di qualche satrapia [...]. La mezzafede non è il nostro forte: la ‘vita a comodo’ è troppo semplice per spiriti semplici come i nostri».
Pomarici ricordò poi una interpellanza parlamentare di Cossiga sui gruppi terroristici che avremmo inteso favorire, affermando che, se essa tendeva a intimidirci, evidentemente le nostre storie personali non dovevano essere note all’interpellante. «Siamo in un paese serio?», chiedeva Pomarici con voce ferma in un’aula silenziosa e attenta. E chiudeva il suo intervento, impugnando e alzando un codice: «Questo testo, signor giudice, è l’unica nostra guida. E non è un caso che esso inizi con la Costituzione della nostra Repubblica».
Ed all’udienza del 24 giugno 2009, riferendosi ai nuovi ostacoli frapposti all’accertamento della verità dalla Legge di riforma del segreto di Stato del 2007, trasversalmente votata, Pomarici, prospettando una eccezione di illegittimità costituzionale, aggiunse di sentire il dovere di quella scelta “non solo e non tanto ai fini della valutazione e decisione di questo procedimento, ma per una questione ancor più vasta di carattere generale relativa all’ordinamento in senso ampio e alla corretta attribuzione a organi e poteri dello Stato delle sfere di rispettiva competenza. Sarò forse allarmista, sarò forse esagerato, sarà l’età, ma a me sembra che l’esito di questo procedimento [...] possa aprire uno scenario veramente inquietante!”. Si riferiva a quello di una democrazia che mette in discussione alcuni dei principi su cui si fonda.
L’esito definitivo della vicenda (per il sequestro, tralasciando le condanne per favoreggiamento: condanna di 26 americani, di cui 25 della CIA, e di un maresciallo dei CC. reo confesso, ma sentenza di ndp a causa del segreto di Stato nei confronti di cinque funzionari del SISMi condannati in secondo grado) sembra confermare le preoccupazioni di Pomarici.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, comunque, il 23 febbraio 2016, su ricorso di Abu Omar e della moglie, condannò all’unanimità il Governo Italiano a versare ai ricorrenti un cospicuo risarcimento per l’uso del segreto di Stato [1] formulando anche molti apprezzamenti per i magistrati italiani (le cui conclusioni giuridiche e ricostruzione dei fatti faceva proprie senza riserve ). La Corte, in particolare, rendeva «omaggio al lavoro dei magistrati nazionali che hanno fatto tutto il possibile per stabilire la verità»
L’impegno umile e fondamentale nel campo della esecuzione penale
Non posso non ricordare infine che, durante tutti gli anni di cui ho parlato e con rari e brevi periodi di interruzione o esenzione, Pomarici ha diretto l’ufficio esecuzione della Procura. Si è occupato silenziosamente, cioè, di un settore centrale e difficile, ma anche irrinunciabile, per il funzionamento della giustizia penale, un settore di cui non a caso molti colleghi – me incluso – conoscono poco e da cui preferiscono stare lontani. Ma lui – che ama ogni settore del nostro lavoro – ha svolto anche attività di formazione dei colleghi di volta in volta assegnati all’Ufficio Esecuzione penale, riuscendo persino a farli innamorare di cumuli e connessi calcoli [2].
Questo è Enrico Pomarici. Uomo e magistrato leale, che crede nel lavoro di squadra (quello vero, ben diverso da quello solo declamato), lontano dai riflettori e dalle conferenze stampa; che mai ha recitato il mantra sui “poteri forti” e sulla “solitudine” del magistrato; che ride, prima di strapparle, delle lettere anonime minacciose che riceve e che pure servono alla costruzione di ben note ed adorate icone. Pubblico Ministero dalla mente libera, che non conosce la politica dei passi felpati e che proprio questo ha pagato, nonostante tutta una vita da P.M. trascorsa nella Procura di Milano e nonostante quello che ha dato alla storia di questo Paese. Ma a lui va bene così: meglio guardarsi allo specchio e, pur cogliendo il segno degli anni che passano, non sentire la necessità di abbassare lo sguardo.
Penso che Enrico mi rimprovererà aspramente quando leggerà queste mie parole che sgorgano da tutto ciò che sento dentro. Ma anche questa volta gli dirò – mentendo – “scusa hai ragione tu, ho sbagliato io”. Cioè, esattamente quello che gli dicevo quando giocavamo a calcio insieme nella squadra della Procura di Milano o nella Nazionale magistrati: la sua autorevolezza era tale, avendo lui giocato in “Serie A” nel Napoli, che quando lanciava una palla troppo lunga per me – modesto attaccante di II categoria – sentivo il bisogno di girarmi subito e, per evitare di farlo incazzare, gridavo: “Scusa Enrico, ho sbagliato io!”, pur se quella palla non l’avrebbe raggiunta neppure Giggirriva!
16 dicembre 2015: alcune colleghe e colleghi a lui particolarmente legati hanno organizzato, per salutarlo, un brindisi nella sua cancelleria. Ciò in assoluto segreto: altrimenti lui non lo avrebbe in alcun modo autorizzato. Il nuovo Primo Presidente della Corte di Cassazione, Gianni Canzio, ne è venuto a conoscenza ed ha voluto assolutamente esserci per porgere il suo “grazie” ad Enrico, magistrato che ha sempre stimato ed ammirato.
È tutto molto bello: tra panettoni e spumante, giovani colleghe gli regalano tre foto incorniciate di quand’era splendido quarantenne o altrettanto splendido quasi cinquantenne (o poco più o poco meno): una mentre parlava in toga in aula, una mentre scendeva da un’auto e poi quella che ho citato, scattata dopo la scoperta del covo di via Dogali, a Milano nell’88.
A nome di tutti, gli porgo una piccola targa che dice soltanto: “Ad Enrico Pomarici.. grazie di tutto, grazie per sempre! Gli amici e colleghi della Procura della Repubblica di Milano”, l’ufficio dove, ripeto, ha sempre esercitato le sue funzioni!
Lui guarda tutti sorridendo e ringraziando, rispondendo con battuta propria alle battute altrui! Grato a tutti, ma con visibile desiderio di riprendere a lavorare. Commozione? Penso di sì, ma chi lo può dire? I veri duri son fatti così, anche se Raymond Chandler, parlando di Philip Marlowe (l’investigatore protagonista dei suoi gialli hard boiled) li descrive non come mastini dalla mascella quadrata, ma come romantici senza speranze. Che sanno sorridere, provare emozioni e, dunque, sanno anche piangere.
Ho personalmente tentato di dire qualche parola, ma ho preferito fermarmi. Il 16 dicembre era anche il mio compleanno e mi sembrava strano festeggiarlo salutando Enrico.
Forse oggi ci sono riuscito con questo lungo messaggio che dice solo una parte, per di più minima, di ciò che sento dentro.
A tutti Buon Natale; a tutti l’augurio di un 2016 felice. Ai giovani colleghi dico: avrete capito il modello di magistrato che spero possa per voi rappresentare la stella polare del vostro cammino professionale!
Saluto di Armando Spataro del 20 dicembre 2024 a Ferdinando Enrico POMARICI (nella Basilica di S. Matria della Passione)
È difficile “aggiornare” quanto in passato ho già scritto e detto su Enrico Pomarici, ma – come ho risposto a chi me lo ha chiesto – provo a farlo con poche parole che riguardano soprattutto la persona e non il magistrato: sono sostanzialmente quelle che ho pronunciato nella gremita Basilica di S. Maria della Passione, a Milano, il pomeriggio del 20 dicembre, quando in tanti abbiamo voluto salutarlo.
Enrico è sempre stato uomo di correttezza e coerenza uniche: leale nella interlocuzione e rispetto dell’avvocatura, anche quando la dialettica processuale – come ben può avvenire – si manifestava accesa.
È stato attento nel ruolo di direzione della polizia giudiziaria, che l’ordinamento attribuisce al PM, un ruolo mai esercitato in senso gerarchico, ma sempre determinando un arricchimento reciproco al solo fine di rafforzare la solidità delle prove in vista del giudizio finale.
È stato cortese e sempre rispettoso nei confronti del personale amministrativo della Procura e degli Uffici Giudicanti, ben consapevole di quanto quel ruolo sia fondamentale per il funzionamento della giustizia.
Ed ovviamente è stato sempre disponibile al confronto con i colleghi della Procura che a lui si rivolgevano, non solo per consigli sul piano giuridico, ma anche e soprattutto per indicazioni sulle più utili prassi organizzative ed investigative da attuare nel proprio lavoro. Io per primo, anche da pm ormai anziano, ho sempre a lui fatto riferimento per ogni questione delicata da affrontare: non potrò mai dimenticare, nell’ultimo periodo in cui siamo stati insieme in Procura a Milano, i suggerimenti che a lui chiesi e da lui ottenni per organizzare il lavoro della “Sezione Immigrazione” dell’Ufficio, che si occupava innanzitutto di domande di asilo e di problematiche connesse, come la materia dell’espulsione e dei reati nel campo dell’immigrazione illegale. Le sue indicazioni furono sempre ispirate al dovere di rispettare i diritti fondamentali – affermati innanzitutto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dalla nostra Costituzione – di chi lascia la propria terra per la speranza di una vita dignitosa. Enrico era in questo la reincarnazione della figura raccontata da Bertolt Brecht nella sua poesia, Il giudice democratico.
Anche in questo campo, se avesse svolto oggi il suo lavoro, sarebbe stato del tutto indifferente alle opzioni della maggioranza politica di turno, sempre impugnando la Costituzione come una bandiera.
Voglio passare ad altro…
Il 18 dicembre scorso, al mattino, sono stato svegliato da Vittorio, figlio di Enrico, che mi ha voluto subito comunicare, anche su indicazione della mamma Maria Rosaria, che il padre ci aveva lasciato da poche ore.
Oltre al dolore indescrivibile, ciò ha generato in me un senso di colpa che mi porterò sempre appresso, quello derivante dal fatto che negli ultimissimi anni lo avevo visto e gli avevo parlato poche volte. Perché queste omissioni? Continuo a chiedermelo e non basta ricordare che una volta era stato schivo e riservato anche in questo, al punto da dirmi che gli bastava sapermi e sentirmi vicino.
Ricorderò sempre il suo volto e tante altre sue parole: fu il primo a telefonarmi quando seppe che mio figlio Andrea aveva subito un delicato intervento chirurgico per una malattia che risultò poi incurabile e fu tra i primi ad aderire, nella primavera del 2018, all’Associazione Amici di Andrea che era stata costituita ed opera, in memoria di mio figlio e con oltre 200 soci, a scopo di beneficienza e per sostegno alla ricerca per la cura delle malattie gravi e ad attività culturali.
Insieme, a proposito di figli, abbiamo spesso parlato della loro scelta – anche di Annalisa, sorella di Vittorio – di intraprendere la professione di avvocato… Ne eravamo talmente orgogliosi da scambiarci una battuta: andato in pensione anche io, sarebbe stato bello aiutarli con discrezione, all’interno di un ipotetico studio legale denominato “Pomarici e Spataro, fathers & sons”. Era una battuta, credetemi: non avremmo mai voluto pesare sui nostri figli, il che sarebbe stato inevitabile anche se lo studio si fosse chiamato: “…sons & fathers”.
Quando Vittorio mi ha detto che la messa in onore di Enrico si sarebbe tenuta il 20 dicembre nella Basilica di Santa Maria della Passione, sono stato colto da un’altra emozione: nella stessa Chiesa, l’11 settembre del 2017, si era tenuta quella per mio figlio… ed in quella Chiesa l’Associazione ha contribuito a restaurare una storica cappella…Enrico ci sarebbe passato davanti mentre tutti lo avremmo salutato commossi. E così è stato.
Ho già detto che Enrico è stato il mio fratello maggiore e lui, del resto, mi chiamava spesso “fratellino”. Ho avuto altri due fratelli maggiori che pure sono stati miei maestri, due grandi magistrati uccisi dai terroristi di Prima Linea: Emilio Alessandrini (il 29.1.1979) e Guido Galli (il 19.3.1980). Ma il mio rapporto con loro è stato purtroppo ben più breve di quello con Emilio.
Vorrei che quei miei fratelli stessero tutti insieme…
Ho ricevuto decine di messaggi per telefono e lettere in posta elettronica in cui moltissimi amici (non solo colleghi), tra cui tanti che non avevano neppure conosciuto di persona Enrico ma che egualmente lo consideravano uno dei magistrati che hanno contribuito a scrivere la storia del nostro Paese, non solo mi pregavano di abbracciare Maria Rosaria, Vittorio ed Annalisa, ma mi manifestavano espressamente le loro “condoglianze”…
Come mai? La risposta è una sola: tutti coloro che lo hanno fatto sapevano che io ed Enrico eravamo fratelli! Non c’è altra spiegazione…e mi scuso con moglie e figli di Enrico se questa affermazione possa loro apparire intrusiva.
E forse lo è ancora di più una mia speranza: che Andrea possa incontrare questo suo grande zio di cui tanto ha sentito parlare!
Caro Enrico, ti abbraccio, come abbraccio tutta la tua bella famiglia…
Non perdiamoci di vista.
A te dedico le parole che lo scrittore spagnolo Javier Cercas ha scritto nel suo stupendo libro del 2002, “I soldati di Salamina”, a proposito dell’eroico protagonista, un uomo, giunto al termine dei suoi anni, limpido, coraggioso e puro, un "soldato solo che tiene alta la bandiera negata, che cammina in avanti, senza sapere dove stia andando, né con chi né perché, senza che gliene importi tanto, purché sia in avanti, avanti, avanti, sempre avanti".
[1] Periodo aggiunto, al pari di questa nota in data 21 dicembre 2024.
La condanna riguardava la violazione degli artt. 3, 5, 8, 13 della CEDU che rispettivamente prevedono: divieto di tortura e trattamenti disumani e degradanti; diritto alla libertà e alla sicurezza; diritto al rispetto della vita privata e familiare; diritto alla tutela giurisdizionale effettiva. La sentenza contiene, da un lato, dure critiche al Governo, a due Presidenti della Repubblica (per le grazie concesse) ed alla Corte Costituzionale: vi si legge, in sostanza, che le autorità italiane sapevano della extraordinary rendition di Abu Omar organizzata dalla Cia e che ben quattro Governi hanno abusato del segreto di Stato impedendo di far luce sulle gravi violazioni dei diritti dell’uomo di cui Abu Omar è stato vittima e di punirne i responsabili; dall’altro, ma tutto è stato vanificato dal segreto di Stato concesso dalla Corte costituzionale: In tal modo, l’abuso del segreto di Stato opposto da ben 4 Governi, certo non funzionale a tenere coperti i fatti, ben noti anche grazie alla stampa, ha determinato l’impunità degli agenti del Sismi.
[2] Nota aggiunta in data 21 dicembre 2024: Pomarici, su sua richiesta, ha continuato a svolgere gratuitamente e senza oneri previdenziali questa attività di formazione anche dopo il pensionamento finché il CSM gli negò il consenso. Commentò in serata Pomarici: «Si accusano i magistrati di lavorare poco, ma se si trova uno che si rende disponibile a mettere gratuitamente la propria esperienza a beneficio dell’ufficio, e gli si risponde che non lo può fare. Prendo atto».
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