ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I doveri dei magistrati di oggi
Relazione introduttiva
Comitato direttivo centrale 16-17 novembre 2024
Presidente ANM Giuseppe Santalucia
La Giunta esecutiva, nel documento varato il 1° novembre scorso all’indomani dell’aspra polemica politico-mediatica contro la sezione immigrazione del Tribunale di Bologna, e in specie del collega Marco Gattuso, ha denunciato l’aria pesante che da qualche tempo si respira nella e intorno alla giurisdizione.
Quell’aria, nelle due settimane e poco più da quel documento, è divenuta ancora più pesante.
È proprio per questa ragione che, a mio giudizio, oggi il Comitato direttivo centrale dovrà in risposta impegnarsi affinché l’aria si faccia più respirabile, leggera, perché si allenti la morsa polemica e il clima delle relazioni istituzionali torni al sereno.
So bene!
L’obiettivo è facile a dirsi ma per nulla a raggiungersi, anche e soprattutto perché non dipende da noi, non sono nella nostra disponibilità gli strumenti per sedare un conflitto a cui non abbiamo dato causa.
Eppure, non possiamo muoverci altrimenti.
Il tema oggi è cosa e come fare.
Su questo dobbiamo interrogarci nella nostra discussione sui molti punti all’ordine del giorno, in gran parte aspetti e profili di un’unica grande questione.
Nella speranza di introdurre utilmente la discussione, indico con la necessaria sintesi le tessere del mosaico che, secondo la prospettiva che vi propongo, dovremo caparbiamente cercar di comporre o di ricomporre.
Ciò farò utilizzando copiosamente la categoria del dovere, che mi sembra la più adeguata a sostanziare quel che ritengo per noi magistrati un passaggio ineludibile:
una chiara presa di posizione all’interno della cornice dei principi democratici e liberali che ci devono guidare con forza ancora maggiore per venir fuori dalla canea da cui siamo circondati.
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In questo difficile scenario, con piena consapevolezza del ruolo che ci spetta.
Abbiamo il dovere di non arrenderci alla fatica di spiegare quali sono i termini della questione dei trattenimenti dei richiedenti asilo, anche quando i nostri interlocutori del momento sviliscono con ostentato fastidio le ragioni del diritto a pretesti da azzeccagarbugli, mostrando di non voler ascoltare, arroccati sulla formula propagandistica della magistratura politicizzata.
Abbiamo il dovere di ribadire che la magistratura italiana non è in nessuna sua parte attraversata da faziosità politica e non avversa i programmi di chi oggi è maggioranza politica di governo.
Abbiamo il dovere di ricordare, sulla scia del bel documento sottoscritto da oltre 250 magistrati in pensione (e che ci è stato trasmesso qualche giorno fa), quale sia la missione di una magistratura autonoma ed indipendente in una democrazia liberale la cui Carta fondamentale pone al centro la persona e i suoi diritti fondamentali, che si sottraggono, e se del caso si oppongono, alle volontà dispositive delle maggioranze, pur quando estese e pur se democraticamente elette.
Abbiamo il dovere di non cedere alla stanchezza e allo sconforto, trovando la forza di contrastare, con la ragione e il diritto, la coltre di maliziose accuse che ci piovono addosso, che confondono, sconcertano, disorientano, sporcano l’immagine di una fondamentale Istituzione, presidio di libertà e di uguaglianza, quale è, è stata nella storia di questo Paese e, per mezzo di noi tutti e di quanti verranno, sarà ancora la magistratura italiana.
Abbiamo il dovere di riaffermare che la soggezione è alla legge e non al legislatore del momento, che la legge vive all’interno di un reticolo sistematico che vede un concorso di fonti al cui interno la relazione gerarchica non è la sola direttrice ordinante e che, in ogni caso, in quella relazione il vertice è assegnato alla Costituzione e, in alcune materie, alla normativa eurounitaria.
Lungo questo tracciato, che non ha alternative, che si impone a noi con forza pari soltanto alla sensibilità costituzionale che ci anima, al contempo e in parallelo
Abbiamo il dovere di evitare che la paura, il timore di essere osservati, in qualche modo sorvegliati, si insinuino e si conquistino uno spazio tra noi, quando assistiamo a fatti inquietanti, al venir fuori, dopo esser stato evidentemente conservato per anni alla bisogna, lo screenshot di qualche nostro stato whatsapp, reso noto al tempo soltanto ai nostri pochi contatti telefonici (mi riferisco ai recenti articoli di stampa che hanno riguardato la collega Antonella Marrone).
Un giudizio critico su un messaggio social di un personaggio pubblico che al tempo non era al Governo serve oggi, trascorsi due anni e più, per definire l’immagine di un magistrato politicamente antagonista, schierato, pregiudizialmente ostile, ora che quel personaggio pubblico è al Governo del Paese e soprattutto ora che il magistrato autore di quello stato whatsapp ha preso un provvedimento sgradito al Potere, peraltro occupando un posto ed esercitando una funzione tutt’affatto diversi da quelli del tempo.
Abbiamo il dovere di conservare integra la serenità nello svolgimento dei nostri compiti, pur se recandoci in ufficio, accomodandoci alla scrivania, sapremo che il provvedimento che ci toccherà assumere, secondo linee consolidate della giurisprudenza e orientamenti interpretativi della nostra sezione formati nelle apposite riunioni indette per assicurare uniformità di indirizzo, ci consegnerà sia al pericolo di essere additati come magistrati comunisti (termine che si carica di significato spregiativo ben oltre i confini della sua naturale semantica) e nemici del popolo; sia al pericolo di veder violata la nostra sfera di riservatezza con la pubblicazione di fotografie attinenti a momenti di vita privata e con notizie sulle nostre relazioni affettive.
Abbiamo il dovere di non cadere nel tranello di individuare la causa del vortice di polemiche, in cui il nostro ufficio viene risucchiato, nel collega, vicino di stanza, per aver questi preso parte giorni prima, settimane prima, mesi prima, anni prima, ad un convegno su temi giuridici divenuti politicamente scottanti, per aver questi espresso opinioni nell’esercizio del diritto, fino a qualche tempo fa incontestato, di esser presente nel dibattito interno alla comunità dei giuristi su aspetti dell’ordinamento che ora ci proiettano prepotentemente e nostro malgrado sulla scena pubblica.
Abbiamo il dovere di non attardarci nella domanda se sia ancora il caso, visti gli attacchi ripetuti nei confronti di sempre più colleghi, di prender parola ad un convegno, ad una pubblica riunione, in cui, con lo strumento dell’argomentazione composta e rispettosa delle Istituzioni tutte, potremmo assentire o dissentire su una qualche interpretazione o su qualche disegno di legge, pur di iniziativa governativa, o potremmo svolgere addirittura critiche, che so, sulle linee della politica penale della maggioranza di Governo, per il timore che l’indomani quelle nostre opinioni potranno formare il banco di accusa della nostra faziosità e il banco di prova della nostra parzialità.
Abbiamo il dovere di scongiurare il rischio che la giusta pretesa di imparzialità e di apparenza di imparzialità non si confonda in taluno con la volontà di ridurci al silenzio, di mettere i magistrati all’angolo, nell’angolo buio di un funzionariato pre-costituzionale.
Tutto ciò lo dobbiamo, prima che a noi stessi, alle persone della cui vicende di vita saremo chiamati ad occuparci tenendo fede, senza arretramenti, al mandato costituzionale di autonomia e di indipendenza, di indipendenza anche dalle nostre comprensibili personali preoccupazioni, rinnovando con la consapevolezza del ruolo un dovere di resilienza, il cui adempimento pone al riparo la funzione del giudicare dalle temperie che possono turbare le nostre vite.
Lo dobbiamo anche ai tanti giovani magistrati che si apprestano in questi giorni a muovere i primi passi nel nostro difficile eppure appassionante mondo professionale, perché anche col nostro esempio possano apprendere e rafforzarsi nella virtù forse più importante per un magistrato: la fermezza nella decisione temprata dal dubbio che innerva lo studio e l’esame delle contrapposte ragioni e che si dissolve nel momento in cui la decisione matura, senza che pressioni esterne o interne possano influenzarla.
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Il contesto che genera inquietudine si è da ultimo arricchito della proposizione di un emendamento in sede di conversione del decreto-legge (n. 145 del 2024) sui flussi migratori e sulla protezione internazionale, diretto a spogliare le sezioni specializzate “immigrazione” dei Tribunali della competenza sulla convalida dei trattenimenti, con soave e sorprendente indifferenza per le ragioni dell’organizzazione giudiziaria.
Così, con un colpo di penna si vorrebbe stravolgere l’ordinario assetto delle competenze e la Corte di appello, già gravata da importanti carichi di lavoro che ci hanno fatto dubitare della possibilità di centrare gli ambiziosi obiettivi del PNRR, dovrebbe occuparsi delle procedure di convalida, se non ho letto male con le sue sezioni penali.
È assai difficile rinvenire un principio di razionalità in questo stravolgimento dell’ordine delle competenze; si percepisce piuttosto la voglia di rappresentare nel modo più plateale, appunto: con la sottrazione di competenza, la sfiducia nella giurisdizione, movendo dalla fantasiosa convinzione che i magistrati comunisti si siano collocati proditoriamente nelle sezioni specializzate “immigrazione” dei Tribunali per attuare il sabotaggio delle politiche governative.
Nell’impossibilità di degiurisdizionalizzare le procedure di convalida dei trattenimenti dei richiedenti asilo, si vorrebbe svilire il senso della specializzazione, si vorrebbe sostituire il giudice perché le sue pronunce non sono state gradite.
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E mentre cresce l’insofferenza per la giurisdizione, il lavoro parlamentare per la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere, o meglio sulla separazione della magistratura, viene accelerato.
Una riforma che, stando agli irenici propositi di chi se ne fa sostenitore, non dovrebbe nutrirsi delle ragioni che stanno a fondamento delle attuali tensioni e che pure, a dispetto di qualche dotta argomentazione, in più di un’occasione autorevoli esponenti politici della maggioranza hanno presentato, con indubbia sincerità, come la risposta ad una magistratura con troppa indipendenza, che non si rassegna, come dovrebbe, ad applicare la legge senza interpretarla.
A mio giudizio si scorge, senza particolare difficoltà, la coerenza tra quel che accade oggi in materia di diritto di asilo e quel che matura in Parlamento sulla riforma costituzionale.
È un’idea di giurisdizione diversa da quella che ci ha guidato per molti e molti anni, che abbiamo per tutto questo tempo condiviso con l’avvocatura.
La giurisdizione è un bene comune e sono convinto in maniera radicata che gli avvocati italiani non possono che dissentire da un progetto volto al ridimensionamento del giudiziario, che non potrebbe che restringere i loro spazi di azione come promotori della difesa dei diritti.
Per questa ragione faccio fatica a comprendere la posizione di una parte dell’avvocatura, mi riferisco all’Unione delle camere penali che, da un lato, non lesina parole di sferzante critica alle politiche governative in materia penale e penitenziaria e avverte il bisogno di affermare, in uno per il vero con altre autorevoli voci (v., ad esempio, l’Associazione degli studiosi di diritto dell’Unione europea), che le recenti decisioni giudiziarie in tema di convalida di trattenimenti sono tutt’altro che abnormi; e dall’altro, è riluttante a considerare la riforma costituzionale per quel che è e non per quello che vorrebbe che fosse.
Siccome non ho alcun intento polemico e non ho alcuna voglia di ribattere con la stizza che pure si dovrebbe ad un recente deliberato dell’Unione, in cui si legge, stanco refrain, di politicizzazione della magistratura, di violazione del principio della separazione dei poteri (dall’Unione vista come conseguenza dell’espansione indebita del potere giudiziario), rivolgo alle camere penali l’invito sincero a rinnovare la loro riflessione critica sul disegno di legge sulla separazione della magistratura, ad osservare quel che accade e ad essere conseguenti alle premesse di quel liberalismo penale di cui si fanno in molte occasioni interpreti.
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Concludo infine con un auspicio, che potrà pure sembrare poca cosa ma che mi sta a cuore per una ragione ideale tutt’altro che banale.
Sarebbe bene, penso, che quanti partecipano al dibattito pubblico, doverosamente allargato, sulla riforma costituzionale, si astengano, una volta che scoprono di essere privi di buoni argomenti per sostenerla, dal discutibile espediente di usare il nome e la figura di Giovanni Falcone per elevare tono, qualità e contenuti della riforma.
La memoria di un eroe, di un martire della Repubblica, va onorata astenendosi dall’usare il suo nome nel confronto, a volte anche acceso, su una riforma che matura a oltre trent’anni dal suo estremo sacrificio.
Questa riforma, se e quando sarà varata, non potrà portare il nome di Giovanni Falcone; non gli appartiene, non potrebbe appartenergli, appartiene ad altri.
Almeno questo sia concesso alla verità dei fatti e sia sottratto alla mistificante opera della propaganda.
Buon lavoro!
Parthenope
Perla di mare e fiamma di vulcano, Napoli si sveste e si riveste d’incanto e d’obbrobrio allo sguardo di un occhio galleggiante tra acqua di sale e sangue, che scruta con scandaglio estetico e fuori da ogni spoglio morale le incrostazioni antropologiche di un popolo frastagliato di identità e diversità, tradizione e trasgressione, godimento e afflizione. E se, come si dice, è vero che ogni singolo napoletano come la geometria dei frattali replica allo stesso modo su scala diversa l’originale complessivo di cui è parte, incarnando ciascuno un’icona del tutto, è anche vero che Parthenope, col suo mito universale di bellezza e seduzione, è la migliore candidata a rappresentarne l’archetipo più espressivo, l’emblema sinottico, il florilegio di vizi e virtù in cui l’intera città si rispecchia con l’orgoglio di rivedersi ogni volta così mutante e così uguale.
La rassegna dei suoi simboli diventa allora la vera trama di un film incarnato da una Parthenope ricomposta in un prodotto di sfolgorante ma sfuggente bellezza e di assoluta inafferrabilità.
Dal grande armatore all’oro e al sangue di San Gennaro, dal divismo estenuato e polemico dell’attrice napoletana emigrata al nord al rigido contesto universitario e fino ai rituali di superstizione e di camorra, è proprio tra aristocratiche sontuosità, isole del bel mondo e caverne suburbane che si snoda l’itinerario antropologico in cui si muove l’occhio curioso di Sorrentino in cerca di risposte a domande che non sa fare, ma che sente impellenti; quesiti che puntualmente ricorrono come incubi di un irrisolto rapporto con la città natale, come un intimo grumo ossessivo non si sa se sedotto dal mistero o abbindolato dalla truffa di un popolo che sopravvive illeso; e tuttavia immenso come il suo mare e carico di fascino come il suo vulcano quiescente.
“Com’è enorme la vita, ci si perde dappertutto” recita Céline in esordio al film; ed è proprio questa enormità che deve indurci a “vederla” la vita e non a giudicarla; questi i termini del sintomatico patto siglato da Parthenope e dal prof. Marotta, che li condurrà ad un idillio professionale foriero di successo per la donna. La medesima enormità del mostro umano generato dall’accademico, da questi poi mostrato a Parthenope, che col suo sorriso beffardo, candido e non sofferente riassume dall’inizio alla fine l’orrenda grandiosità di una Napoli opaca e indimenticata.
Il vigore espressivo del film, superbamente sostenuto nel suo contorno recitativo da un Silvio Orlando assolutamente perfetto e da maschere vibranti di solida teatralità, impersonate da Luisa Ranieri (Greta Cool), Isabella Ferrari (Flora Malva) e Peppe Lanzetta (il vescovo Tesorone), emerge in tutta la sua forza estetica nel debutto della sfavillante Celeste Della Porta (Parthenope giovane) e in una sempre efficace Stefania Sandrelli (Parthenope adulta), ma risalta alla pari da una felice e coerente scelta musicale, non a caso incentrata sulla splendida “Era già tutto previsto” di Cocciante e ancor di più nel battito sincrono ed ossessivo dell’iniziale Exodus (Excerpt No. 1) della Polish Radio National Symphony Orchestra, sinonimo timbrico della fobica pulsazione di vitalità di una città comunque eterna.
Le conseguenze per le giurisdizioni nazionali della recente riforma dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea
di Massimo Francesco Orzan
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Le principali novità apportate dalla recente riforma dello statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea. – 3. Il trasferimento della competenza pregiudiziale in alcune materie dalla Corte al Tribunale. – 3.1. I meccanismi preposti al controllo della corretta applicazione del trasferimento. – 3.1.1. Il controllo ex ante: lo sportello unico. – 3.1.2. Il controllo in itinere: il rinvio di una domanda pregiudiziale dal Tribunale alla Corte – 3.1.3. Il controllo ex post: la procedura di riesame. – 3.2. La specializzazione del Tribunale in materia pregiudiziale. – 4. Osservazioni conclusive.
1. Introduzione.
Con il regolamento (UE, Euratom) 2024/2019 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 aprile 2024 che modifica il protocollo n. 3 sullo statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea[1] (reg. 2024/2019) è stata approvata una riforma particolarmente significativa di questa Istituzione (CGUE), che è entrata in vigore il 1° settembre 2024[2]. Parallelamente all’approvazione di questa modifica, la Corte di giustizia (Corte) e il Tribunale dell’Unione europea (Tribunale) hanno emendato i propri regolamenti di procedura (di seguito, rispettivamente, RP Corte[3] e RP Trib.[4]) nonchè le proprie norme pratiche di esecuzione[5], in larga misura per dotarsi della normativa di dettaglio necessaria per garantirne la corretta attuazione[6]. Inoltre, la Corte ha aggiornato le proprie Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale[7]. Il RP Corte è entrato in vigore il 1° ottobre 2024[8], mentre quello del Tribunale il 1° novembre 2024[9].
Nel presente contributo, dopo avere brevemente illustrato i tratti essenziali di questa riforma, l’attenzione si concentrerà sull’aspetto indubbiamente più rilevante relativo al trasferimento della competenza pregiudiziale in alcune materie dalla Corte al Tribunale, aspetto che modifica la relazione tra le due giurisdizioni del Kirchberg ed è sucettibile di incidere sull’attività delle giurisdizioni nazionali. Seguono alcune considerazioni conclusive, che cercano di delineare i possibili scenari di sviluppo futuro della CGUE.
2. Le principali novità apportate dalla recente riforma dello statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea.
La recente riforma dello statuto della CGUE è il risultato di una procedura avviata dalla Corte il 22 ottobre 2022 conformemente all’art. 281 TFUE, attraverso la presentazione di una domanda volta alla modifica dello Statuto della CGUE. Giustificata largamente, come nelle precedenti occasioni, dalla necessità di fare fronte a un aumento costante del carico di lavoro dell’Istituzione[10], in questo caso particolare quello della Corte[11], ma anche dalla volontà di sfruttare al meglio le potenzialità del Tribunale a seguito del raddoppio dei suoi membri[12], in tale domanda, la Corte proponeva di trasferire la competenza a conoscere le domande pregiudiziali in alcune materie al Tribunale e di estendere il meccanismo di ammissione preventiva delle impugnazioni, in vigore dal 1° maggio 2019 (il meccanismo di filtro)[13], previsto per alcune categorie di decisioni del Tribunale a talune altre[14]. Nel corso della discussione interistituzionale che ne è scaturita, a queste proposte se ne sono aggiunte altre riguardanti l’estensione, sottoposta a certe condizioni, del novero delle Istituzioni titolari del diritto di depositare memorie od osservazioni nell’ambito della procedura pregiudiziale ai sensi dell’art. 23 statuto[15], il regime della pubblicità delle memorie o delle osservazioni depositate in tale ambito nonché il coinvolgimento preventivo della società civile in vista di futuri interventi sullo statuto attraverso una consultazione pubblica, precedente all’adozione da parte della Corte di una domanda legislativa.
All’esito dell’iter approvativo, tanto le proposte della Corte che quelle sorte nel corso del dibattito interistituzionale che ne è seguito sono confluite, con alcune modifiche, nel reg. 2024/2019.
Per quanto riguarda il trasferimento di alcune domande pregiudiziali al Tribunale, in primo luogo, è stato convenuto l’inserimento dell’art. 49 bis statuto consacrato alla disciplina della designazione dell’Avvocato generale dinanzi a questa giurisdizione[16]. In secondo luogo, l’art. 50 statuto è stato modificato con la sostituzione dei 2° e 3° commi e l’aggiunta, rispetto alla proposta della Corte, di un 4° comma[17]. Peraltro, va rilevato che in questo contesto è stata decisa la creazione di una nuova sezione, la Sezione Intermedia, che in realtà sarà una formazione dei collegi del Tribunale non solo nell’ambito delle domande pregiudiziali ma anche nel contenzioso diretto[18]. In terzo luogo, è stato inserito l’art. 50 ter, il quale identifica le materie trasferite dalla Corte al Tribunale, che sono le seguenti: il sistema comune di imposta sul valore aggiunto, i diritti di accisa, il codice doganale, la classificazione tariffaria delle merci nella nomenclatura combinata, la compensazione pecuniaria e l’assistenza dei passeggeri e il sistema di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra[19].
L’articolo in parola ruota intorno ad alcuni principi fondamentali. Da un lato, il Tribunale è competente a conoscere le domande pregiudiziali che rientrano esclusivamente in una o più delle sei materie sopraccitate. Dall’altro, il trasferimento è escluso nell’ipotesi di domande che, pur riconducibili a siffatte materie, sollevano questioni indipendenti relative al diritto primario, al diritto internazionale pubblico, ai principi generali del diritto dell’Unione o alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CdfUE)[20]. La determinazione della trasferibilità o meno di una domanda rientrante in una di queste materie è rimessa dall’art. 50 ter, 3° c. statuto, a un meccanismo di contollo ex ante, il cd. sportello unico, esaminato nel par. 3.1. del presente contributo. Infine, il 4° comma di tale articolo impone al Tribunale la specializzazione in materia pregiudiziale, così da assicurare alle domande rivolte dalle giurisdizioni nazionali, lo stesso trattamento previsto dinanzi alla Corte, come si avrà modo di illustare nel par. 3.2. In quarto luogo, è stata introdotta una modifica all’art. 54 statuto, al fine di estendere alle domande pregiudiziali la logica soggiacente il rinvio tra Corte e Tribunale previsto da detto articolo per i ricorsi diretti[21].
Per quanto riguarda l’estensione del meccanismo di filtro la domanda della Corte relativa all’art. 58 bis statuto è stata sostanzialmente accolta, salvo modifiche testuali minori[22]. È utile osservare che questa modifica non è priva di importanza rispetto ai possibili sviluppi della CGUE. In particolare, al di là dell’estensione a tutte le commissioni di ricorso del meccanismo di filtro, l’inclusione delle pronunce rese dal Tribunale nei ricorsi introdotti sulla base di una clausola compromissoria conformemente all’art. 272 TFUE costituisce un passaggio particolarmente rilevante. In effetti, è opportuno ricordare che la creazione del meccanismo del filtro era stata sostanzialmente giustificata dal fatto che esso avrebbe riguardato contenziosi in cui esistevano meccanismi di revisione previsti a livello delle agenzie dell’Unione, che potevano ammettere che fosse il solo Tribunale a conoscere il ricorso avverso una decisione adottata da tali agenzie all’esito di una procedura complessa. Ora, se è vero che nella domanda legislativa la Corte ha spiegato le ragioni per estendere il meccanismo del filtro alle pronunce rese dal Tribunale nei ricorsi introdotti sulla base dell’art. 272 TFUE[23], resta il fatto che per la prima volta tale meccanismo si applica a un ricorso diretto, che non presenta le specificità di quello originato dalle decisioni delle commissioni di ricorso[24]. In definitiva, il contenzioso fondato su una clausola compromissoria potrebbe essere un’“apripista” per altre categorie di ricorsi diretti in futuro.
Per quanto riguarda il novero delle Istituzioni competenti a depositare memorie od osservazioni nell’ambito di una domanda pregiudiziale, l’art. 23 statuto è stato modificato, riconoscendo tale possibilità al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Banca centrale, i quali potranno depositarle nel caso in cui considerino di avere un “particolare interesse” rispetto alla suddetta domanda[25].
Con riferimento al regime di pubblicità degli atti processuali, contariamente alla proposta iniziale del Parlamento europeo[26], esso è stata ridimensionato e riformulato. Da un lato, tale regime è stato circoscritto alle sole domande pregiudiziali e, dall’altro, l’art. 23, 4° c., statuto prevede, diversamente da quanto proposto del Parlamento europeo, non un diritto di domandare l’accesso alle memorie o osservazioni, ma un obbligo in capo alla Corte e al Tribunale di pubblicarle sul sito della CGUE, entro un termine ragionevole dalla pronuncia della sentenza, salvo opposizione dei loro autori[27].
Infine, con riguardo alla partecipazione della società civile rispetto a future modifiche dello statuto della CGUE, è stato introdotto l’art. 62 quinquies statuto, il quale stabilisce che «[p]rima di presentare una domanda o una proposta di modifica del presente statuto, la Corte di giustizia o, se del caso, la Commissione procede ad ampie consultazioni”. Questo vuol dire che per l’avvenire, eventuali interventi sullo statuto dovranno essere proposti coinvolgendo preliminarmente soggetti esterni per rafforzare la trasparenza e l’apertura del processo giudiziario.
3. Il trasferimento della competenza pregiudiziale in alcune materie dalla Corte al Tribunale
Dopo avere delineato le diverse modifiche statutarie introdotte dal reg. 2024/2019, è ora opportuno approfondire quella relativa al traferimento delle competenze pregiudiziali in alcune materie dalla Corte al Tribunale. Questo trasferimento costituisce un passaggio di rilevanza epocale, tenuto conto della funzione fondamentale assolta dal meccanismo pregiudiziale nel processo di integrazione[28]. In una prima parte del paragrafo, sono illustrati i meccanismi previsti per garantire il corretto riparto di competenze tra Corte e Tribunale. In una seconda parte, sono esaminate le norme di cui il Tribunale si è dotato per assicurare che le domande pregiudiziali trasferite dalla Corte siano trattate alle stesse condizioni garantite da quest’ultima. Questa scelta metodologica riposa sulla convinzione della necessità di mettere in evidenza le modifiche dello statuto che più sono suscettibili di avere un impatto sull’attività dei giudici nazionali, i quali svolgono dagli albori del processo d’integrazione un ruolo centrale per il suo corretto funzionamento.
3.1. I meccanismi preposti al controllo della corretta applicazione del trasferimento.
La corretta attuazione della riforma è ancorata a tre meccanismi di controllo, che operano ex ante, il sopraccitato sportello unico, in itinere, attraverso la possibilità riconosciuta al Tribunale di rinviare alla Corte una domanda pregiudiziale nell’ipotesi in cui essa sollevi una questione che richiede una decisione di principio suscettibile di compromettere l’unità e la coerenza del diritto dell’Unione europea, ed ex post, per mezzo della facoltà accordata alla Corte di riesaminare le decisioni rese dal Tribunale. Il primo meccanismo è stato introdotto con il reg. 2014/2019, il secondo e il terzo, invece, erano già previsti nel diritto primario dal Trattato di Nizza, che aveva prefigurato la possibilità che il Tribunale fosse competente a conoscere le domande pregiudiziali.
3.1.1. Il controllo ex ante: lo sportello unico.
Lo sportello unico, il meccanismo, prefigurato in termini generali all’art. 50 ter, 3° c., statuto, trova la sua disciplina di dettaglio all’art. 93 bis RP Corte. Tale articolo prevede che una domanda pregiudiziale sia immediatamente trasmessa dal cancelliere al presidente, al vicepresidente e al primo avvocato generale, ipotizzando due scenari: il primo, nel quale, sentiti il vicepresidente e il primo avvocato generale, il presidente conclude che la domanda pregiudiziale riguarda esclusivamente una delle sei materie individuate all’art. 50 ter, 1° c., statuto e quindi ne informa la cancelleria perché la trasferisca al Tribunale; il secondo, nel quale, sentiti gli altri due membri, il presidente può ritenere che la domanda pregiudiziale riguardi anche altre materie o sollevi questioni indipendenti di interpretazione del diritto primario, del diritto internazionale pubblico, dei principi generali del diritto dell’Unione o della CdfUE. In questa ipotesi, senza indugio, il presidente deferisce la questione alla Riunione Generale. Se quest’ultima conferma l’impressione del presidente, la domanda è trattata dalla Corte, in caso contrario, essa è trasmessa al Tribunale. L’articolo precisa poi che in caso di trasferimento al Tribunale, la cancelleria della Corte informa il giudice del rinvio della decisione.
Rispetto allo sportello unico, disciplinato dall’art. 93 bis RP Corte, il cui fondamento[29] e composizione[30] non ha mancato di alimentare il dibattito della dottrina, due questioni meritano in questa sede di essere esaminate relative alle modalità concrete delle sue valutazioni e alla percezione che le giurisdizioni nazionali potrebbero avere del suo funzionamento.
In primo luogo, è lecito interrogarsi sulle modalità concrete della valutazione che lo sportello unico è chiamato a svolgere. Innanzitutto, va rilevato che l’art. 50 ter statuto individua due criteri: un primo, oggettivo, desumibile dal 1° comma – in virtù del quale solo le domande che rientrano nelle sei materie enumerate nell’articolo in parola possono essere trasferite, con la conseguenza che devono essere trattenute quelle che riguardano anche altre materie – e, un secondo, previsto al 2° comma dello stesso articolo, che può prestarsi a valutazioni più ampie nell’ambito del meccanismo di trasferimento, in base al quale non possono essere trasferite domande che rilevino del diritto primario, del diritto internazionale pubblico, dei principi generali del diritto dell’Unione o della CdfUE.
Il primo criterio non dovrebbe sollevare particolari difficoltà interpretative. Una domanda pregiudiziale che, esulando dal perimentro delle sei materie sopraccitate, sconfini in altre materie, che restano di competenza della Corte, non deve essere trasferita. Il secondo criterio, invece, potrebbe risultare più problematico, poiché al netto di riferimenti al diritto primario, al diritto internazionale pubblico, ai principi generali del diritto dell’Unione o alla CdfUE, effettuati dal giudice a quo, il meccanismo di cui all’art. 94 bis RP Corte dovrebbe valutarne l’effettiva pertinenza per la soluzione del quesito pregiudiziale rivolto alla Corte. In termini generali, e per non pregiudicare l’obiettivo della riforma stessa, sarebbe auspicabile che la Corte effettuasse un’interpretazione che, nel rispetto del dettato statutario, garantisca il trasferimento del maggior numero di domande al Tribunale.
Ad ogni buon conto, le prime risposte a questo profilo potenzialmente problematico dovrebbero aversi entro un anno dall’entrata in vigore della riforma, tenuto conto che l’art. 3, par. 1, reg. 2024/2019 prevede che, a partire da tale termine, la Corte pubblicherà e aggiornerà un elenco di esempi relativi all’applicazione dell’applicazione dell’art. 50 ter statuto. Queste pubblicazioni consentiranno quindi di avere un riscontro sul funzionamento dello sportello unico.
In secondo luogo, l’analisi dello sportello unico consente di svolgere qualche considerazione su una problematica individuata dalla dottrina legata alla possibile “reazione” delle giurisdizioni nazionali rispetto al meccanismo in parola. In effetti, alcuni autori hanno osservato che il trasferimento delle domande dalla Corte al Tribunale potrebbe essere percepito dalla giurisdizione remittente come, in sostanza, un declassamento del rilievo del suo quesito, che avrebbe per effetto di disincentivare il ricorso a questo strumento vitale per l’ordinamento giuridico dell’Unione[31]. Ora, benchè la questione non sia stricto sensu giuridica, è innegabile che essa non sia priva di interesse. In proposito, solo la prassi potrà chiarire se, in concreto, il timore si rivelerà fondato o meno. Resta il fatto che nella valutazione effettuata dal giudice a quo sull’opportunità di rivolgersi a quelli del Kirchberg non dovrebbero rilevare considerazioni extra‑giuridiche, nella misura in cui il rinvio pregiudiziale risponde alla necessità di ottenere una risposta per la soluzione concreta di una causa pendente[32]. Peraltro, non va dimenticato che tutte le giurisdizioni sono tenute ad agire nel rispetto del principio di leale cooperazione, con la conseguenza che il sottrarsi a questo esercizio di diaologo in ragione della pretesa mancanza di attrattività di un rinvio pregiudiziale trasmesso al Tribunale non sarebbe conforme agli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione[33]. Inoltre, la capacità predittiva della giurisdizione remittente circa la decisione della Corte di trasferire o meno la domanda pregiudiziale al Tribunale va relativizzata. Infatti, se è vero che il criterio desumibile dall’art. 50 ter, 1° c., statuto – in virtù del quale solo le domande che rientrano nelle sei materie enumerate nell’articolo in parola possono essere trasferite, con la conseguenza che devono essere trattenute quelle che riguardano anche altre materie – è oggettivo, quello previsto al 2° comma dello stesso articolo – in base al quale non possono essere trasferite domande che rilevino del diritto primario, del diritto internazionale pubblico, dei principi generali del diritto dell’Unione o della CdfUE – può prestarsi a valutazioni più ampie nell’ambito del meccanismo di trasferimento. In definitiva, rispetto a questo secondo criterio, il giudice a quo, che decidesse di rivolgere un quesito pregiudiziale alla Corte non saprà necessariamente quale giurisdizione lo tratterà, con la conseguenza che i timori espressi potrebbero risultare in concreto infondati.
Ad ogni buon conto, al netto delle due questioni appena esaminate, è auspicabile che lo sportello unico possa funzionare con una certa celerità. In effetti, chi scrive è dell’avviso che per essere considerato soddisfacente, esso dovrebbe essere capace di garantire il trasferimento della domanda pregiudiziale non più tardi entro un mese dal suo deposito presso la cancelleria della Corte.
3.1.2. Il controllo in itinere: il rinvio di una domanda pregiudiziale dal Tribunale alla Corte.
Per quanto riguarda il meccanismo di controllo in itinere, esso trova fondamento all’art. 256, par. 3, seconda frase, TFUE, il quale dispone che «[i]l Tribunale, ove ritenga che la causa richieda una decisione di principio che potrebbe compromettere l'unità o la coerenza del diritto dell’Unione, può rinviare la causa dinanzi alla Corte di giustizia affinché si pronunci” Anche in questo caso, questa previsione di carattere generale è dettagliata all’art. 207 RP Trib., dedicato ai Rinvii dinanzi alla Corte[34] e, segnatamente ai parr. 3 e 4 di tale articolo, dai quali si evince che, la sezione investita della causa, in qualsiasi momento del procedimento, e il presidente o il vicepresidente[35], sentito l’avvocato generale, possono proporre alla Conferenza Plenaria il rinvio previsto dall’art. 256, par. 3, seconda frase, TFUE, che decide, se rinviarla alla Corte. In proposito, è interessante rilevare che tanto l’art. 256, par. 3, seconda frase, TFUE che l’art. 207, par. 3, RP Trib. sembrano conferire alla Conferenza Plenaria una semplice facoltà di rinviare la causa alla Corte[36]. In realtà, se la Conferenza Plenaria dispone di un’assoluta discrezionalità nel valutare se le condizioni individuate all’art. 256, par. 3, seconda frase, TFUE sono soddisfatte, qualora concluda in tal senso, malgrado il fatto che l’articolo in parola si limiti a prevedere la facoltà di trasferire la causa alla Corte, il rinvio a quest’ultima appare essere la soluzione più coerente con l’impianto complessivo della riforma.
3.1.3. Il controllo ex post: la procedura di riesame.
Infine, il controllo ex post sulle decisioni che il Tribunale renderà nell’ambito delle domande pregiudiziali trasferitegli si realizza attraverso la procedura di riesame. In proposito, è utile ricordare che il RP Corte già prevedeva un titolo, il Sesto, relativo a questo rimedio eccezionale che, fino alla dissoluzione del Tribunale della funzione pubblica (TFP) trovava applicazione nell’ipotesi di pronunce del Tribunale rese nell’ambito dell’impugnazione avverso le decisioni adottate da questa giurisdizione specializzata, conformemente all’art. 193 RP Corte[37]. L’ipotesi di riesame di una decisione resa dal Tribunale era (e resta), invece, disciplinata all’art. 194 RP Corte[38].
Malgrado la disciplina del riesame delle pronunce pregiudiziali fosse già contemplata nel RP Corte, la Corte ha ritenuto necessario apportare un’integrazione, inserendo l’art. 193 bis, consacrato all’Assenza di una proposta di riesame. La disposizione in parola prevede che allo scadere del mese previsto dall’art. 62, 2° c., statuto, se il Primo avvocato generale non formula alcuna proposta di riesame, il cancelliere ne informa immediatamente il Tribunale, che a sua volta lo comunica al giudice del rinvio e agli interessati menzionati dall’art. 23 statuto. Questa precisazione risponde ad esigenze di celerità e di buona amministrazione della giustizia, poiché le decisioni rese dal Tribunale spiegano i loro effetti solo alla scadenza del termine contenuto all’art. 62, 2° c., statuto, con la conseguenza che appare utile informare il prima possibile le parti dinanzi al Tribunale del carattere assunto dalla decisione adottata da quest’ultimo. Su questo aspetto, si ritornerà in conclusione del presente paragrafo.
A parte l’inserimento di questa disposizione integrativa, due aspetti del riesame nell’ambito del rinvio pregiudiziale meritano di essere segnalati. Innanzitutto, a differenza del riesame di una decisione del Tribunale in qualità di giudice delle impugnazioni avverso una pronuncia del TFP, in cui, dopo avere annullato siffatta decisione, la Corte poteva decidere di rinviare la causa al Tribunale, in materia pregiudiziale, per espressa previsione dell’art. 62 ter, 2° c., statuto, il procedimento si conclude con la sentenza della Corte che si sostituisce a quella del Tribunale. La ratio di questa differenza è senza dubbio da ricercare nella diversa natura del rinvio pregiudiziale rispetto ai ricorsi diretti, che si riverbera sul riesame. Nella prima ipotesi, la Corte sarà chiamata a “correggere” la decisione del Tribunale e, per evitare di contribuire all’eccessivo allungamento della procedura dinanzi al giudice a quo, si pronuncerà direttamente sulla domanda rivolta da quest’ultimo. Nella seconda ipotesi, invece, la Corte interveniva annullando una sentenza resa dal Tribunale in qualità di giudice delle impugnazioni, con la conseguenza che, nella logica del ricorso diretto in cui tale annullamento si inseriva, era naturale che essa rinviasse la causa al Tribunale perché la risolvesse, applicando i principi stabiliti nel riesame.
Inoltre, sarà interessante valutare l’approccio che la Corte adotterà rispetto alla proposta del Primo Avvocato generale di avviare la procedura di riesame in presenza di «rischi per la coerenza e l’unità del diritto dell’Unione europea». Alcuni elementi di comparazione esistono. In primo luogo, con riguardo al riesame delle decisioni del Tribunale adottate da quest’ultimo in qualità di giudice delle impugnazioni, in una decisione di principio, Petrilli c. Commissione, la Corte aveva definito in termini piuttosto restrittivi i limiti del proprio intervento rispetto alle pronunce del Tribunale[39]. In secondo luogo, sebbene con le cautele dovute in ragione della diversa natura del procedimento che si instaura, qualche spunto può essere offerto anche dalla prassi relativa al meccanismo di filtro, nell’ambito del quale l’impugnazione è ammessa se «solleva una questione importante per l’unità, la coerenza o lo sviluppo del diritto dell’Unione»[40]. Malgrado questi possibili elementi di comparazione, è lecito supporre che, tenendo conto della funzione del rinvio pregiudiziale[41], la Corte valuterà con una particolare attenzione eventuali proposte di riesame del Primo avvocato generale. In effetti, a differenza del riesame delle decisioni rese dal Tribunale avverso pronunce adottate dal TFP e dell’ammissione preventiva delle impugnazioni che rilevano del contenzioso diretto, nel caso di una sentenza pregiudiziale, a causa degli effetti da essa prodotti[42], si impone all’evidenza la necessità di intervenire per evitare che “circolino” nell’ordinamento giuridico dell’Unione decisioni suscettibili di arrecare pregiudizio alla coerenza e unità di tale ordinamento[43].
L’analisi di questi tre meccanismi consente di svolgere alcune considerazioni sulla potenziale incidenza che essi avranno sui giudici nazionali. Per quanto riguarda il primo meccanismo, è utile osservare che per il giudice a quo, nulla cambia in termini procedurali. In effetti, la domanda pregiudiziale continua a essere depositata presso la cancelleria della Corte. Nondimeno, lo sportello unico non può essere considerato neutro, nella misura in cui dalla valutazione che esso effettuerà, dipenderà la determinazione della giurisdizione competente a trattare la domanda.
Lo stesso può dirsi, in sostanza, per il secondo meccanismo, poiché l’iniziale attribuzione di una domanda pregiudiziale al Tribunale può essere rimessa in discussione da quest’ultimo, qualora le condizioni previste dall’art. 256, par. 3, seconda frase, TFUE risultino soddisfatte.
Infine, è sicuramente il terzo meccanismo consistente nella procedura di riesame a essere potenzialmente lo strumento suscettibile di impattare maggiormente sul giudice del rinvio. Quest’ultimo, che al momento della pronuncia di una sentenza pregiudiziale resa dalla Corte, può immediatamente applicarne gli insegnamenti al giudizio pendente, dovrà “famigliarizzare” con una situazione nuova. La sentenza del Tribunale, infatti, come già sopraosservato non produce effetti immediatamente. Il giudice nazionale dovrà quindi attendere la reazione del Primo Avvocato Generale. Qualora quest’ultimo decida di non proporre il riesame, la sentenza del Tribunale potrà spiegare i suoi effetti. Nel caso in cui il Primo avvocato generale proponga il riesame, sarà necessario attendere la decisione della Corte. Se ques’ultima dovesse decidere di riesaminare la decisione, il giudice nazionale dovrà attendere la conclusione di tale procedimento. In proposito, va peraltro ricordato che dall’art. 194 RP Corte si evince che nel caso in cui il Tribunale abbia fornito più risposte, il riesame può vertere solo su alcune di esse. Se poi, all’esito del riesame, integrale o parziale della decisione del Tribunale, la Corte dovesse concludere che essa pregiudica l’unità o la coerenza dell’Unione europea, la soluzione formulata dalla Corte in merito alle questioni oggetto di riesame si sostituirà a quella del Tribunale.
3.2. La specializzazione del Tribunale in materia pregiudiziale.
Un altro asse fondamentale della riforma relativa al trasferimento della competenza pregiudiziale in alcune materie dalla Corte al Tribunale riguarda la garanzia che dinanzi a quest’ultimo le questioni sollevate dai giudici nazionali ottengano lo stesso trattamento di quello offerto davanti alla Corte. Questa necessità, fin dall’inizio considerata imprescndibile dalla Corte nella sua proposta, è stata accolta favorevolmente[44]. Per raggiungere questo obiettivo di « specularità » sono state apportate una serie di modifiche statutarie, da un lato, al fine di dotare il Tribunale della figura dell’Avvocato generale per default nell’ambito dei procedimenti pregiudiziali, visto che tale figura dinanzi a questa giurisdizione è prevista solo come facoltativa nei ricorsi diretti, attraverso l’inserimento dell’art. 49 bis statuto. Tale articolo prevede che, in primo luogo, un giudice può essere eletto A.G. le per un periodo di tre anni, rinnovabile una sola volta, e, in secondo luogo, nel corso del suo mandato di A.G., questo giudice continua a partecipare ai collegi giudicanti nel contenzioso diretto della sezione di appartenenza, ma non può integrare i collegi competenti a decidere le domande pregiudiziali. Dall’altro, il già citato art. 50 ter, 4° c., statuto impone l’obbligo in capo al Tribunale di dotarsi di sezioni specializzate per il trattamento delle domande pregiudiziali, disponendo che «[tali domande] di cui il Tribunale conosce ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea sono attribuite a sezioni designate a tale scopo secondo le modalità previste nel suo regolamento di procedura».
Queste due modifiche hanno naturalmente necessitato un intervento significativo sul RP Trib. in precedenza in vigore del quale si da conto di seguito, dopo avere offerto qualche elemento di comprensione quanto al tema della specializzazione del Tribunale.
In proposito, è utile ricordare che la specializzazione non è una novità per il Tribunale[45]. In effetti, oltre ad alcune esperienze pregresse[46], dal 2019, data di conclusione della riforma che ha visto il raddoppio dei suoi membri e la dissoluzione del TFP, il Tribunale è composto da dieci sezioni, di cui sei specializzate in proprietà intellettuale e quattro in funzione pubblica[47]. Questa specializzazione trova fondamento nell’art. 25, par. 1, seconda frase, RP Trib.[48], una norma abilitante, che consente al Tribunale di decidere se e come specializzarsi in determinate materie. Diversamente, in ossequio alla previsione contenuta all’art. 50 ter, 4° c., statuto, l’art. 25, par. 2, terza frase, RP Trib.[49] impone, come appena evidenziato, la specializzazione in materia pregiudiziale come un obbligo e non come una facoltà.
Per quanto riguarda le modalità concrete della specializzazione in ambito pregiudiziale, in primo luogo, sebbene in via transitoria, fino al settembre 2025, data di rinnovo parziale del Tribunale, esso ha optato per la creazione di una sezione ad hoc[50], presieduta dal vicepresidente e composta da dieci membri, che si riunisce, in linea di principio, con cinque giudici, designati secondo un sistema di rotazione[51]. In secondo luogo, contrariamente ai ricorsi diretti, per i quali la sezione standard del Tribunale è fissata a tre giudici, al pari di quanto previsto dinanzi alla Corte, l’art. 26, par. 1, reg. proc. Trib. prevede che le domande pregiudiziali siano attribuite per default a una sezione composta da cinque membri. In terzo luogo, in ragione, da un lato, della specularità del procedimento garantito dinanzi al Tribunale nell’ambito del trattamento delle domande pregiudiziali in virtù del quale il collegio per default è fissato a cinque membri e, dall’altro, della volontà di assicurare, anche in tale ambito, agli Stati membri e alle Istituzioni il diritto riconosciuto loro nel quadro del contenzioso diretto di richiedere che una causa sia conosciuta da una formazione composta da almeno cinque membri in luogo di quella standard costituita da tre giudici, il RP Trib. prevede che, se una richiesta in tal senso è presentata dagli Stati membri e dalle Istituzioni, la sopraccitata Sezione Intermedia deve essere automaticamente investita di una domanda pregiudiziale[52]. In quarto luogo, in applicazione del principio contenuto al testé citato art. 49 bis statuto, è stato inserito l’art. 31 bis reg. proc. Trib., il quale stabilisce che i giudici eleggono, tra loro, quelli chiamati a svolgere la funzione di Avvocato generale. Anche per l’elezione degli Avvocati generali per il trattamento delle domande pregiudiziali, il Tribunale ha optato per una fase transitoria. Infatti, conformemente all’art. 246, par. 7, reg. proc. Trib., il quale stabilisce che i primi giudici che esercitano le funzioni di A.G. sono eletti subito dopo il 1° settembre 2024 e il loro mandato scade in occasione del sopraccitato rinnovo parziale previsto nel settembre 2025, il Tribunale ha adottato una decisione in tal senso[53].
4. Osservazioni conclusive.
Alla luce dell’analisi effettuata, è possibile svolgere alcune brevi riflessioni finali, da un lato, sulle prospettive future di evoluzione della CGUE e, dall’altro, sull’impatto della riforma appena entrata in vigore sulle giurisdizioni nazionali.
Con riguardo al primo tema, vari autori considerano che il trasferimento di alcune domande pregiudiziali al Tribunale segni una tappa fondamentale del processo di costituzionalizzazione della Corte[54]. In realtà, il trasferimento, anche se parziale, della “chiave di volta” del sistema[55], del backbone dell’ordinamento giuridico dell’Unione[56], avrebbe potuto essere considerato una tendenza opposta alla costituzionalizzazione di questa giurisdizione[57]. Ciò che invece consente di considerare la riforma appena entrata in vigore un punto di svolta in questo processo è la circostanza che, oltre a realizzarsi in base a dei controlli in itinere ed ex post, già previsti nel diritto primario, consistenti, rispettivamente, nella possibilità per il Tribunale di rinviare una domanda pregiudiziale nell’ipotesi in cui essa sollevi una questione di principio suscettibile di compromettere l’unità e la coerenza del diritto dell’Unione europea e nella facoltà di riesaminare le decisioni del Tribunale, tale trasferimento è stato ancorato a un controllo ex ante, attraverso il meccanismo dello sportello unico. Questo “Cortecentrismo”[58], da un lato, è stato la precondizione per l’accoglimento della proposta e, dall’altro, esprime il ruolo che la Corte si avvia ad assumere[59].
Questa ultima considerazione offre altresì l’occasione per mettere la presente riforma in prospettiva rispetto alle due precedenti del 2015 e del 2018, che risultano strumentali ad essa. Nel raddoppiare il numero dei membri del Tribunale, la riforma del 2015 ha potenziato le sue capacità di funzionamento ben al di là della necessità di alleviare il suo carico di lavoro e intervenire sui suoi ritardi, creando quindi le condizioni per un progressivo alleggerimento della Corte. A sua volta, la proposta di riforma del 2018 perseguiva, nel complesso, l’obiettivo di alleviare il carico di lavoro della Corte nell’ambito nei ricorsi diretti, peraltro già in larga parte di competenza del Tribunale. Infatti, a questo rispondeva la logica di introdurre il meccanismo di filtro per limitare la funzione della Corte in qualità di giudice delle impugnazioni e di devolvere al Tribunale il trattamento di alcuni procedimenti d’infrazione[60]. Com’è noto, questo secondo asse della proposta di riforma non è stato accettato, ma non è inverosimile ipotizzare che se lo fosse stato, la devoluzione dei ricorsi in infrazione sarebbe stata estesa negli anni a venire. Ora, il mancato accoglimento di questa parte della proposta del 2018 spiega, in parte, il trasferimento al Tribunale di alcune competenze pregiudiziali, che risponde indubbiamente a un approccio pragmatico[61].
In linea con questo approccio, è possibile immaginare che nel breve/medio periodo potrebbero avere luogo, da un lato, l’ulteriore estensione del meccanismo del filtro e, dall’altro, il trasferimento di nuove materie dalla Corte al Tribunale nell’ambito della competenza pregiudiziale, come preconizza l’art. 3, par. 2, reg. 2024/2019[62]. Se così fosse, sarebbe sviluppato un modello che rientrerà (ancora) nel perimetro stabilito dal diritto primario, ma che proietterebbe la CGUE sempre più verso i limiti stabiliti dai trattati. In effetti, ad oggi, tanto il meccanismo di filtro, peraltro non previsto esplicitamente dai trattati, che il trasferimento di una parte delle domande pregiudiziali, sono da considerarsi eccezioni alla regola. Nel momento in cui il paradigma si rovesciasse, e queste eccezioni diventassero la norma, i limiti definiti dal diritto primario sarebbero sorpassati e la necessità di intervenire con una revisione ex art. 48 TUE delle regole previste nel diritto primario sarebbe indispensabile[63].
Con riguardo all’impatto che la riforma appena entrata in vigore avrà sulle giurisdizioni nazionali, due ordini di considerazioni si impongono. In primo luogo, è innegabile che, in termini strutturali, il fatto che la Corte, la quale ha da sempre detenuto il monopolio della competenza pregiudiziale, la condivida ora con il Tribunale, può essere fonte, a vario titolo, di perplessità per il giudice nazionale. Tuttavia, l’analisi svolta ha evidenziato che in ragione della rilevanza strutturale del trasferimento di alcune competenze pregiudiziali al Tribunale, il trasferimento in parola è stato assicurato attraverso la predisposizione di meccanismi di controllo ad ogni livello e la garanzia che dinanzi al Tribunale le domande pregiudiziali avranno lo stesso trattamento di quelle davanti alla Corte. In questo contesto è quindi auspicabile che i timori espressi da taluni sul fatto che le giurisdizioni nazionali potrebbero ridurre il ricorso allo strumento pregiudiziale nelle sei materie trasferite al Tribunale non trovino seguito nell’attività quotidiana di tali giurisdizioni.
In secondo luogo, da un punto di vista strettamente giuridico in relazione alla gestione delle cause che hanno originato la domanda alla Corte e, più in generale, in virtù del carattere erga omnes[64] delle pronunce dei giudici del Kirchberg, il trasferimento della competenza pregiudiziale in alcune materie apre a una nuova fase delle relazioni tra CGUE e giurisdizioni nazionali. Come osservato nel par. 3.1.3. supra, infatti, a differenza delle decisioni rese dalla Corte, quelle del Tribunale non spiegano i propri effetti il giorno della pronuncia, poiché tali decisioni possono essere oggetto di riesame. Anche in questa ipotesi, sebbene sia auspicabile che negli anni a venire la Corte adoperi questo strumento eccezionalmente[65], lo statuto disciplina in modo esaustivo tutti i possibili scenari in modo da garantire che non sussistano lacune o dubbi sugli effetti delle sentenze pregiudiziali, in ragione della loro funzione fondamentale nell’ordinamento giuridico dell’Unione.
In definitiva, il successo della riforma appena entrata in vigore dipenderà, da un lato, dalla capacità della Corte di fare una corretta applicazione dello sportello unico e laddove necessario della procedura di riesame e, dall’altro, da quella del Tribunale nel calarsi nell’esercizio di questa nuova competenza. Nondimeno, per entrambe le giurisdizioni sarà fondamentale che i giudici nazionali non facciano mancare il loro apporto, continuando a ricorrere al rinvio pregiudiziale, uno strumento vitale per l’integrazione degli ordinamenti giuridici degli Stati membri.
L’autore si esprime a titolo strettamente personale e non impegna l’Istituzione di appartenenza.
[1] GUUE L, 2024/2019, 12.08.2024, pp. 1-8.
[2] Per un primo commento a questa riforma v. M. Condinanzi, C. Amalfitano, Il Tribunale oltre il pregiudizio: le pregiudiziali al Tribunale, in Rivista del Contenzioso Europeo, fasc. spec. 2024; R. Mastroianni, Il trasferimento delle questioni pregiudiziali al Tribunale: una riforma epocale o un salto nel buio?, in Quaderni AISDUE, 2024, pp. 1-28; M.F. Orzan, Un’ulteriore applicazione delle “legge di Hooke”? Riflessioni a margine dell’entrata in vigore della recente riforma dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, cit., fasc. spec. 2024, pp. 20-74; D. Sarmiento, Gaps and ‘Known Unknowns’ in the Transfer of Preliminary References to the General Court, ivi; The 2024 Reform of the Statute of the Court of Justice of the EU. October 2024, consultabile su EULawLive.
[3] GUUE L, 2024/2094, 12.08.2024, pp. 1-7.
[4] GUUE L, 2024/2095, 12.08.2024, pp. 1-22.
[5] Rispettivamente in GUUE L, 2024/2173, 30.08.2024 e GUUE L, 2024/2097, 12.08.2024. Per un primo commento delle Istruzioni pratiche alle parti dinanzi alla Corte v. M. Puglia, Istruzioni pratiche alle parti relative alle cause proposte dinanzi alla Corte: le principali novità, in Rivista del Contenzioso Europeo, fasc. spec. 2024.
[6] In proposito, sia consentito di rinviare a M.F. Orzan, Un’ulteriore applicazione delle “legge di Hooke”? Riflessioni a margine dell’entrata in vigore della recente riforma dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, cit., fasc. spec. 2024, pp. 20-74. In effetti, i regolamenti di procedura delle due giurisdizioni sono stati modificati innanzitutto per dare esecuzione agli emendamenti apportati allo Statuto concernenti il trasferimento delle competenze pregiudiziali in alcune materie. Sono stati effettuati, poi, degli interventi comuni sui due regolamenti di procedura, debitori della discussione sorta a seguito della domanda legislativa, relativi agli interessati che possono depositare memorie od osservazioni ai sensi dell’art. 23 Statuto e al loro regime di pubblicità. Infine, la Corte e dal Tribunale hanno apportato modifiche ai loro regolamenti di procedura indipendentemente da tale domanda e dal dibattito che ne è scaturito. In definitiva, le due giurisdizioni hanno sfruttato l’occasione rappresentata dalla riforma, da un lato, per inserire una nuova disposizione, comune, avente ad oggetto la trasmissione delle udienze e, dall’altro, per integrare, precisare e chiarire la portata di altre disposizioni, alla luce della loro prassi applicativa.
[7] Per un primo commento di tale documento v. G. Grasso, La riforma del rinvio pregiudiziale e le nuove raccomandazioni ai giudici nazionali, in Rivista del Contenzioso Europeo, fasc. spec. 2024.
[8] Cfr. art. 210 RP Corte.
[9] Cfr. art. 246, par. 2 RP Trib.
[10] Sulle ragioni soggiacenti la creazione del Tribunale di prima istanza (poi Tribunale), v. M. Jaeger, 25 Years of the General Court – Looking Back and Forward, cit., pp. 3-38.
[11] Cfr. la Domanda presentata dalla Corte di giustizia, ai sensi dell’articolo 281, secondo comma, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, al fine di modificare il Protocollo n. 3 sullo Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, p. 3 (https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-15936-2022-INIT/it/pdf).
[12] Ibid., pp. 3 e 4.
[13] Sul cd. meccanismo di filtro delle impugnazioni v. C. Amalfitano, Note critiche sulla recente riforma dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, in DUE, 2019, p. 29 ss.; M.A. Gaudissart, L’admission préalable des pourvois: une nouvelle procédure pour la Cour de justice, in CDE, 2020, p. 177 ss.; A. Gentile, One Year of Filtering before the Court of Justice of the European Union, in Journal of Intellectual Property Law & Practice, 2020, p. 807 ss.; M.F. Orzan, Some Remarks on the First Applications of the Filtering of Certain Categories of Appeals before the Court of Justice, in European Intellectual Property Review, 2020, p. 426 ss.; P. Iannuccelli, L’ammissione preventiva delle impugnazioni contro le decisioni del Tribunale dell’Unione europea ex art. 58 bis dello Statuto: una prima valutazione e le eventuali applicazioni future, in C. Amalfitano, M. Condinanzi (a cura di), Il giudice dell’Unione europea alla ricerca di un assetto efficiente e (in)stabile: dall’incremento della composizione alla modifica delle competenze, Milano, 2022, pp. 117-142; C. Oró Martínez, The Filtering of Appeals by the Court of Justice: Taking Stock of the Two First Orders Allowing an Appeal to Proceed, in Weekend EU Law Live Edition, 2022, n. 112; L. De Lucia, New Developments Concerning Article 58a of the Statute of the Court of Justice of the European Union, in EU Law Live, 21/03/2023; K. Bradley, The Court of Justice Appeal Filter Mechanism and Effective Judicial Protection: Throwing Out the Baby With the Bathwater?, in EU Law Live, 1/07/2024; R. Torresan, Filtering Appeals over Decisions Originally Taken by Boards of Appeal: Rationale, Impact and Possible Evolution of Article 58a of the CJEU Statute, 2024.
[14] La Corte ha proposto di estendere il meccanismo in parola alle pronunce del Tribunale avverso le decisioni adottate da commissioni di ricorso che già esistevano al momento dell’entrata in vigore al 1° maggio 2019, ma che non figuravano nella lista dell’art. 58 bis, e a quelle rese nei ricorsi introdotti conformemente a una clausola compromissoria sulla base dell’art. 272 TFUE.
[15] In prima battuta, la proposta riguardava solo il Parlamento europeo. Di seguito, è stata estesa al Consiglio e alla Banca Centrale europea.
[16] Cfr. l’art. 49 bis statuto secondo il quale «[i]l Tribunale è assistito da uno o più avvocati generali nel trattamento delle domande di pronuncia pregiudiziale che gli sono trasmesse a norma dell’articolo 50 ter.
I giudici del Tribunale eleggono tra loro, conformemente al regolamento di procedura del Tribunale, i membri chiamati a svolgere le funzioni di avvocato generale. Durante il periodo in cui tali membri esercitano le funzioni di avvocato generale, essi non fanno parte del collegio giudicante nelle domande di pronuncia pregiudiziale.
Per ciascuna domanda di pronuncia pregiudiziale, l’avvocato generale è scelto tra i giudici eletti per esercitare tale funzione che appartengono a una sezione diversa da quella alla quale la domanda in questione è stata attribuita.
I giudici chiamati a esercitare le funzioni di cui al secondo comma sono eletti per un periodo di tre anni. Il loro mandato è rinnovabile una volta».
[17] Cfr. l’art. 50 statuto, il quale prevede che «[i]l Tribunale si riunisce in sezioni, composte di tre o cinque giudici. I giudici eleggono nel loro ambito i presidenti delle sezioni. I presidenti delle sezioni di cinque giudici sono eletti per una durata di tre anni. Il loro mandato è rinnovabile una volta.
Il Tribunale può altresì riunirsi in grande sezione, in sezione intermedia tra le sezioni di cinque giudici e la grande sezione o statuire nella persona di un giudice unico.
Il regolamento di procedura determina la composizione delle sezioni nonché i casi e le condizioni in cui il Tribunale si riunisce in tali diversi organi giudicanti.
Il Tribunale, quando è adito ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, si riunisce in sezione intermedia su richiesta di uno Stato membro o di un’istituzione dell’Unione che è parte nel procedimento».
[18] Per la composizione di tale Sezione, costituita dal vicepresidente del Tribunale, che la presiede, ed altri otto membri v. Composizione della Grande Sezione e della Sezione Intermedia (2024/6452), in GUUE serie C, 28.10.2024.
[19] La Corte ha individuato le sei materie in base a quattro caratteristiche: la loro identificabilità e distinguibilità; la sostanziale assenza di questioni di principio; l’esistenza di una giurisprudenza consolidata; infine, il fatto che, prese nel loro insieme, tali materie garantivano un volume significativo di quesiti pregiudiziali capace di alleggerire in concreto il carico della Corte. In effetti, la Corte ha evidenziato che sommate tra loro queste sei materie costituivano circa il 20% delle domande pregiudiziali mediamente introdotte. La scelta delle materie non ha mancato di alimentare il dibattito della dottrina. Per una ricostruzione completa delle discussioni sulle materie trasferibili dalla Corte al Tribunale precedenti alla riforma attuale v. C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale, cit., p. 518, nota 55. Quanto alle materie individuate dalla Corte nella sua proposta, alcuni autori considerano, in sostanza, giustificabile l’approccio della Corte (S. Iglesias Sánchez, Preliminary Rulings, cit., pp. 6-8), mentre altri, in termini più (M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court: What Judicial Architecture for the European Union?, in CMLR, 2023, p. 1521) o meno critici (C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale, cit., pp. 528-530) hanno mosso dei rilievi alla scelta della Corte.
[20] Cfr. l’art. 50 ter statuto, il quale prevede che «[i]l Tribunale è competente a conoscere delle domande di pronuncia pregiudiziale, sottoposte ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che rientrino esclusivamente in una o più delle seguenti materie specifiche:
a) il sistema comune di imposta sul valore aggiunto;
b) i diritti di accisa;
c) il codice doganale;
d) la classificazione tariffaria delle merci nella nomenclatura combinata;
e) la compensazione pecuniaria e l’assistenza dei passeggeri in caso di negato imbarco o
di ritardo o cancellazione di servizi di trasporto;
f) il sistema di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra.
In deroga al primo comma, la Corte di giustizia conserva la competenza a conoscere delle domande di pronuncia pregiudiziale che sollevano questioni indipendenti di interpretazione del diritto primario, del diritto internazionale pubblico, dei principi generali del diritto o della C[dfUE].
Ogni domanda sottoposta ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea è presentata dinanzi alla Corte di giustizia. Dopo aver verificato, quanto prima possibile e secondo le modalità previste nel suo regolamento di procedura, che la domanda di pronuncia pregiudiziale rientri esclusivamente in una o più materie di cui al primo comma del presente articolo, la Corte di giustizia trasmette tale domanda al Tribunale.
Le domande di pronuncia pregiudiziale di cui il Tribunale conosce ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea sono attribuite a sezioni designate a tale scopo secondo le modalità previste nel suo regolamento di procedura».
[21] Cfr. l’art. 54, 2° c., statuto, il quale dispone che «[q]uando il Tribunale constata di essere incompetente a conoscere di un ricorso o di una domanda di pronuncia pregiudiziale che rientri nella competenza della Corte di giustizia, rinvia tale ricorso o domanda a quest’ultima. Allo stesso modo, quando la Corte di giustizia constata che un ricorso o una domanda di pronuncia pregiudiziale rientra nella competenza del Tribunale, rinvia tale ricorso o domanda a quest’ultimo, che non può in tal caso declinare la propria competenza».
[22] Cfr. l’art. 58 bis statuto in forza del quale «[l]’esame delle impugnazioni proposte contro le decisioni del Tribunale aventi a oggetto una decisione di una commissione di ricorso indipendente di uno dei seguenti organi e organismi dell’Unione è subordinato alla loro ammissione preventiva da parte della Corte di giustizia:
a) Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale;
b) Ufficio comunitario delle varietà vegetali;
c) Agenzia europea per le sostanze chimiche;
d) Agenzia dell’Unione europea per la sicurezza aerea;
e) Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia;
f) Comitato di risoluzione unico;
g) Autorità bancaria europea;
h) Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati;
i) Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali;
j) Agenzia dell’Unione europea per le ferrovie.
La procedura di cui al primo comma si applica altresì alle impugnazioni proposte contro:
a) le decisioni del Tribunale aventi a oggetto una decisione di una commissione di ricorso indipendente, istituita dopo il 1º maggio 2019 in seno ad ogni altro organo o organismo dell’Unione, che deve essere adita prima di poter proporre un ricorso dinanzi al Tribunale;
b) le decisioni del Tribunale relative all’esecuzione di un contratto contenente una clausola compromissoria, ai sensi dell’articolo 272 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
L’impugnazione è ammessa, in tutto o in parte, in osservanza delle modalità precisate nel regolamento di procedura, quando essa solleva una questione importante per l’unità, la coerenza o lo sviluppo del diritto dell’Unione.
La decisione relativa all’ammissione o meno dell’impugnazione deve essere motivata ed è pubblicata».
[23] Nella proposta legislativa, la Corte ha osservato che le cause promosse dinanzi al Tribunale in forza di una clausola compromissoria contenuta in un contratto di diritto pubblico o di diritto privato stipulato a nome o per conto dell’Unione richiedono al Tribunale di applicare al merito della controversia il diritto nazionale al quale fa riferimento la clausola compromissoria e non di applicare il diritto dell’Unione. Partendo da questa constatazione, la Corte ha concluso che le impugnazioni proposte in tale ambito non sollevano, in linea di principio, questioni importanti per l’unità, la coerenza o lo sviluppo del diritto dell’Unione, con la conseguenza che alle pronunce che mettono fine all’istanza decise dal Tribunale per questa tipologia di ricorsi può essere applicata alla procedura di ammissione preventiva delle impugnazioni di cui all’art. 58 bis statuto.
[24] Peraltro, va osservato che, sebbene subordinata alla creazione di commissioni di ricorso sul modello di quelle esistenti, la dottrina ha già individuato nel contenzioso della funzione pubblica e in quello dell’accesso ai documenti due materie che in futuro potrebbero fare l’oggetto del meccanismo di filtro. Sul punto v. M. van der Woude, The Place of the General Court in the Institutional Framework of the Union, in Weekend EU Law Live Edition, 2021, n. 81, pp. 25 e 26.
[25] In proposito, va osservato che, in primo luogo, al netto di questo riferimento all’“interesse particolare” che Parlamento europeo, BCE e Consiglio devono avere per depositare memorie od osservazioni scritte, è lecito supporre che la dimostrazione di tale interesse non sarà una vera e propria condizione sottoposta al vaglio della Corte e del Tribunale. Al contrario, è immaginabile che entrambe le giurisdizioni valuteranno questo interesse in termini piuttosto favorevoli nei confronti delle tre Istituzioni. In secondo luogo, non può tacersi la circostanza che, aumentando il volume dei documenti processuali che dovranno essere esaminati dalle due giurisdizioni, l’apertura al Parlamento europeo, alla BCE e al Consiglio della possibilità di depositare memorie od osservazioni potrebbe determinare un allungamento della durata dei procedimenti. Tuttavia, quanto all’effettiva incidenza di questa estensione sulla durata dei procedimenti, soltanto la prassi applicativa di queste disposizioni fornirà utili elementi per trarne le conseguenze.
[26] Inizialmente, la proposta del Parlamento europeo, non era limitata al procedimento pregiudiziale e configurava un diritto all’accesso dei documenti processauli. Sebbene nella proposta il Parlamento europeo avesse espresso la convinzione della necessità di garantire l’accesso ai documenti senza sacrificare la confidenzialità e la segretezza degli atti processuali, in concreto, sarebbe stato molto complesso e problematico garantirne l’esecuzione, in particolare nell’ambito del contenzioso diretto. Innanzitutto, non può tacersi che questo accesso agli atti processuali, tanto di procedimenti conclusi ma ancor più di procedimenti pendenti, avrebbe sollevato delicati problemi di coordinamento con l’art. 15, par. 3, quarta frase, TFUE, secondo il quale «[l]a Corte di giustizia dell’Unione europea, la Banca centrale europea e la Banca europea per gli investimenti sono soggette al [principio di trasparenza] soltanto allorché esercitano funzioni amministrative». Inoltre, l’accesso preconizzato dal Parlamento europeo avrebbe creato difficoltà anche rispetto ai principi stabiliti dalla Corte, la quale ha giudicato che «le limitazioni all’applicazione del principio di trasparenza per quanto concerne l’attività giurisdizionale perseguono la medesima finalità, vale a dire quella di garantire che il diritto d’accesso ai documenti delle istituzioni sia esercitato senza arrecare pregiudizio alla tutela delle procedure giurisdizionali [… rilevando] in proposito che la tutela di tali procedure implica, segnatamente, che sia garantita l’osservanza dei principi della parità delle armi nonché della buona amministrazione della giustizia». Cfr. Corte giust., 21 settembre 2010, cause riunite C 514/07 P, C 528/07 P e C 532/07 P, Svezia e a. c. API e Commissione, ECLI:EU:C:2010:541, punti 84 e 85.
[27] Con riguardo alla disciplina in concreto del regime di pubblicità, essa rappresenta un non facile equilibrio tra la ragione del suo inserimento, ossia l’accesso rapido e semplice all’insieme dei documenti depositati nell’ambito del procedimento pregiudiziale e il rispetto della manifestazione di volontà degli interessati menzionati all’art. 23 Statuto di non vedere pubblicate le loro memorie od osservazioni. È inutile nascondere che l’equilibrio raggiunto sembra prediligere il secondo rispetto al primo. Certo, l’opposizione deve essere introdotta entro un termine di tre mesi dall’adozione della decisione, tuttavia, essa non deve essere motivata e non è impugnabile. Di conseguenza, la disposizione conferisce agli interessati menzionati all’art. 23 Statuto di esercitare, in sostanza, un diritto di veto alla pubblicazione degli atti di cui sono autori. Resta il fatto che la disposizione in parola rappresenta un’apertura importante rispetto all’applicazione, per quanto possibile, alle procedure giudiziarie del principio di trasparenza.
[28] In generale, sulla funzione del rinvio pregiudiziale si vedano L. Daniele, Articolo 267 TFUE, in A. Tizzano (a cura di), op. cit., pp. 2013-2021; M. Puglia, Finalità e oggetto del rinvio pregiudiziale, in C. Iannone, F. Ferraro (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020, pp. 1-17; C. Lacchi, Preliminary References to the Court of Justice of the European Union and Effective Judicial Protection, Bruxelles, 2020; J. Alberti, G. De Cristofaro (a cura di), Il rinvio pregiudiziale come strumento di sviluppo degli ordinamenti, Pisa, 2023; M. Puglia, Les finalités et l’objet de la procédure du renvoi préjudiciel, in C. Iannone, F. Ferraro (sous la direction de), Le renvoi préjudiciel, Bruxelles, 2023, pp. 35-52; B. Nascimbene, P. De Pasquale, Il diritto dell’Unione europea e il sistema giurisdizionale. La Corte di giustizia e il giudice nazionale, in Eurojus, 2023, pp. 15-20 e U. Villani, Istituzioni di Diritto dell’Unione europea, 2024, Bari, VII ed., pp. 450-461. Per un esame delle principali caratteristiche del procedimento pregiudiziale dinanzi alla Corte v. R. Mastroianni, A. Maffeo, Articolo 23 Statuto, cit., pp. 125-136; Aa. Vv., Articoli 93-104 RP Corte, ivi, pp. 578-653; S. Iglesias Sánchez, C. Oró Martnez, La cuestión prejudicial, in J.I. Signes de Mesa (dir.), Derecho procesal europeo, Madrid, 2019, pp. 135-168; J. Pertek, Le renvoi préjudiciel: droit, liberté ou obligation de coopération des juridictions nationales avec la CJUE, Bruxelles, II ed., 2021, pp. 174-212; K. Lenaerts, K. Gutman, J.T. Nowak, EU Procedural Law, Oxford, II ed., 2023, pp. 49-116; R. Mastroianni F. Ferraro, Il rinvio pregiudiziale, in R. Mastroianni (a cura di), Il diritto processuale dell’Unione europea, Torino, in corso di pubblicazione.
[29] Ad esempio, M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court, cit., p. 1524, esprime riserve sul meccanismo, domandando retoricamente «why then does [Court’s Request] add a third element of additional “ex-ante” control into that scheme, which if used to maximum effect, can indeed be very selective? The conundrum of “transferring without letting go” that permeates the entire proposal of the Court starts clearly coming to the surface. Why then would one even start transferring any jurisdiction when there is such a low level of trust in the capacity of the other body to handle that workload?». Ancora, J. Alberti, Il trasferimento del rinvio pregiudiziale al Tribunale, all’alba della sua entrata in vigore, in Quaderni AISDUE, 2024, pp. 8-11, dopo avere osservato che «la proposta aggiunge un nuovo meccanismo di controllo, che si aggiunge a quelli previsti dai trattati […] », rileva che «[s]ulla legittimità di tale approccio pare lecito porsi qualche dubbio» e, a seguito di dell’analisi di alcune norme del diritto primario conclude che «le competenze che i trattati attribuiscono [al Tribunale] dovrebbero poter essere assorbite [dalla Corte] solo nei limiti previsti dai trattati stessi [e] i trattati non mettono limiti nel filtrare, ex ante, quali pronunce debbano andare al Tribunale, ma solo chiedendo a quest’ultimo di rimettere la causa alla Corte, se si rende conto di dover adottare una “decisione di principio”». Infine, R. Alonso García, The Persian Jurist in Luxembourg. On the Decentralisation of the Preliminary Ruling Procedure, in EU Law Live Edition, 2024, p. 10, n. 195, osserva che «the one-stop shop system, under the reform, does not reflect the will of the Member States as materialised in the Treaty of Nice, as it is clearly more favorable to the introduction of the one stop-shop mechanisms in the Registry of the General Court, not of the Court of Justice». Indubbiamente, i trattati non fanno riferimento al meccanismo in parola, tuttavia, chi scrive è dell’avviso che nella misura in cui, da un lato, l’art. 256, par. 3, prima frase, TFUE si limita a circoscrivere la competenza del Tribunale a conoscere le questioni pregiudiziali individuate dallo statuto e, dall’altro, l’art. 50 ter, 3° c., statuto dispone che la Corte deve stabilire se siffatte questioni rientrino in tale competenza, il meccanismo in parola risulta conforme ai trattati (in questo senso v. C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale, cit., p. 533). Peraltro, anche ragioni pratiche sembrano deporre in favore della sua esistenza. In effetti, come si avrà modo di osservare in seguito, la valutazione in concreto della permanenza alla Corte o del trasferimento al Tribunale di una domanda pregiudiziale rientrante esclusivamente nelle sei materie individuate nello statuto potrebbe sollevare alcune difficoltà, con la conseguenza che la Corte, la giurisdizione che dall’origine delle Comunità fino ad oggi è stata la sola competente a conoscere le domande sollevate dai giudici nazionali, potrebbe beneficiare del proprio expertise nell’adottare la decisione più consona allo spirito della modifica statutaria appena intervenuta.
[30] La dottrina non ha mancato di interrogarsi sull’opportunità di dare a questo meccanismo un tratto intergiurisidzionale, inserendovi tanto membri della Corte che del Tribunale (C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale, cit., p. 534) o, addirittura, di demandare questa funzione al solo Tribunale (J. Alberti, Il trasferimento del rinvio pregiudiziale al Tribunale, cit., p. 27). Indubbiamente, nella logica di condivisione della funzione pregiudiziale che sottende il trasferimento al Tribunale di alcune materie specifiche, un sistema di valutazione “misto” avrebbe sublimato questa logica. Tuttavia, la Corte, che è la giurisdizione con una consuetudine nel trattamento delle domande pregiudiziali, forte di questa abitudine, dovrebbe assolvere questa funzione di “smistamento” con una certa rapidità. Inoltre, nell’ipotesi di un meccanismo misto si sarebbe potuto porre un problema di accordo al suo interno quanto alla trasferibilità o meno di una domanda. Certo, alcune procedure avrebbero potuto essere immaginate per superare eventuali impasses, ma già la loro stessa prefigurazione avrebbe portato detrimento alla celerità del procedimento. Quanto all’ipotesi di uno sportello unico gestito dal Tribunale, seppure intellettualmente stimolante, essa sarebbe risultata poco praticabile in concreto. In particolare, è molto difficile immaginare che le Istituzioni e gli Stati membri avrebbero accettato un simile meccanismo. In effetti, fin dall’inizio, la Corte ha indicato che il Tribunale avrebbe garantito le stesse procedure da essa offerte nel trattamento delle domande pregiudiziali, così da rassicurare i diversi attori istituzionali sulla sostanziale corrispondenza dell’esame di tali domande dinanzi alle due giurisdizioni. In questo contesto, l’attribuzione al Tribunale della competenza a decidere quali domande trasferire e quali trattenere avrebbe rappresentato un elemento di novità poco conciliabile con lo spirito della proposta.
[31] Sul punto v. M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court, cit., pp. 1536 e 1537, il quale si interroga su «what sort of moral high ground does one have for insisting there is a duty to make a reference, and then even potentially enforcing it, while simultaneously insisting that the area of law is so clear and by implication unimportant that one does not need to deal with it oneself?»; C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale, cit., pp. 538 e 539; J. Alberti, Il trasferimento del rinvio pregiudiziale al Tribunale, cit., pp. 20-22. In particolare, il primo autore citato (p. 1537), si domanda se «[w]ill all that generate a tendency of national courts to include horizontal, broader issues in their references, so their case will be kept “upstairs”? Will there be an inclination to withdraw a request for a preliminary ruling if the individual case has been transferred “downstairs”?». In sostanza, il timore non celato consiste nel fatto che le giurisdizioni nazionali potrebbero collegare artificialmente le domande pregiudiziali alle deroghe previste all’art. 50 ter, 2° c., statuto, in modo così da garantire il loro trattenimento alla Corte.
[32] In questo senso v. F. Viganò, La proposta di riforma dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, il quale ha osservato che per un giudice tutte le cause sono uguali perché tutte indicative di una sete di giustizia. Si veda anche il contributo di C. Wissels, T. Boekestein, The Proof is in the Pudding’: Some Thoughts on the 2024 Reform of the Statute of the Court of Justice from a Highest National Court, in EU Law Live, 09/07/2024, i quali sono membri del Consiglio di Stato olandese e osservano che «[w]hether or not national courts will receive the transfer of jurisdiction to the General Court positively and refer questions to it, will depend on how the reform plays out in practice. […] the national court’s appreciation of the preliminary reference procedure is mostly dependent on three factors (in no particular order). Firstly, the time it takes the CJEU to answer the preliminary reference and the corresponding delay caused in the domestic procedure. Secondly, the coherence of the Court’s case law and the unity of EU law. Thirdly, the quality of the reply: the Court’s answer should be clear and easy to apply in the case before the national court. Ideally, it should also be formulated in such a way that it can be applied in related cases with relative ease».
[33] Sul punto v. D. Petríc, The Preliminary Ruling, cit., p. 38, il quale osserva che «the principle of sincere cooperation from art. 4(3) TEU […] should guide not only national courts in their interaction with the General Court, but should also guide the two EU courts in determining their respective jurisdictions and allocation of preliminary references between themselves. Their engagement should be respectful, and they should be doing everything to ensure the smooth functioning of the preliminary ruling procedure, and, by extension, the effectiveness of EU law and the attainment of the Union’s goals. All courts in the EU have a stake in this, and there is no way around cooperation, no matter how difficult it may be» e che «the entire system depends on the bona fide behaviour of all the judicial actors involved».
[34] L’art. 207, parr. 1 e 2, RP Trib. disciplina le ipotesi di rinvio alla Corte qualora un quesito pregiudiziale sia erroneamente depositato dinanzi al Tribunale e nei casi previsti all’art. 54, 2° c., Statuto, relativi all’incompetenza del Tribunale.
[35] Per quanto riguarda il presidente e il vicepresidente, questa facoltà è riconosciuta loro fino alla chiusura della fase orale del procedimento e, se sono state presentate conclusioni, non oltre una settimana dopo la presentazione di queste ultime, o prima della decisione di statuire senza fase orale.
[36] Sul problema della natura facoltativa od obbligatoria del rinvio di una causa dal Tribunale alla Corte v. D. Düsterhaus, Referring Cases Back to the Court of Justice: Faculty or Duty?, in EU Law Live, 04/07/2024).
[37] Sul riesame delle decisioni del Tribunale in qualità di giudice delle impugnazioni v. P. Iannuccelli, A. Tizzano, Premières applications de la procédure de “réexamen” devant a Cour de justice de l’Union européenne, in N. Parisi (a cura di), Scritti in onore di Ugo Draetta, Napoli, 2011, p. 733 ss.; M. Brkan, La procédure de réexamen devant la Cour de justice: vers une efficacité accrue du nouveau règlement de procédure, in S. Mahieu (dir.), Contentieux de l’Union européenne. Questions choisies, Bruxelles, 2014, pp. 489-513; R. Rousselot, La procédure de réexamen en droit de l’Union européenne, in Cahiers de droit européen, 2014, p. 594 ss.; B. Cortese, Articoli 62, 62 bis e 62 ter Statuto, in C. Amalfitano, M. Condinanzi, P. Iannuccelli (a cura di), op. cit., pp. 322 e 323; M.F. Orzan, Some Remarks on the First Applications of the Filtering, cit., p. 428; K.P.E. Lasok, Lasok’s European Court Practice and Procedure, London, New York, Dublin, IV ed., 2022, pp. 1234-1241.
[38] L’art. 194 RP Corte prevede che “1. La proposta del primo avvocato generale di riesaminare una decisione del Tribunale adottata ai sensi dell’articolo 256, paragrafo 3, TFUE è trasmessa al presidente della Corte e al presidente della sezione del riesame. Contemporaneamente, il cancelliere è informato di tale trasmissione.
2. Non appena viene informato dell’esistenza di una proposta di riesame, il cancelliere trasmette il fascicolo del procedimento svoltosi dinanzi al Tribunale ai membri della sezione del riesame.
3. Il cancelliere informa parimenti il Tribunale, il giudice del rinvio, le parti nel procedimento principale, nonché gli altri interessati menzionati dall’articolo 62 bis, secondo comma, dello statuto, dell’esistenza di una proposta di riesame.
4. Non appena ricevuta la proposta di riesame, il presidente della Corte designa il giudice relatore tra i giudici della sezione del riesame, su proposta del presidente di questa sezione. La composizione del collegio giudicante è determinata, conformemente all’articolo 28, paragrafo 2, del presente regolamento, il giorno dell’attribuzione della causa al giudice relatore.
5. Tale sezione decide, su proposta del giudice relatore, se occorra riesaminare la decisione del Tribunale. Nella decisione di riesaminare la decisione del Tribunale sono indicate solo le questioni oggetto del riesame.
6. Il Tribunale e il giudice del rinvio, le parti nel procedimento principale nonché gli altri interessati menzionati dall’articolo 62 bis, secondo comma, dello statuto, sono subito avvisati dal cancelliere della decisione della Corte di riesaminare o di non riesaminare la decisione del Tribunale.
7. Un avviso contenente la data della decisione di riesaminare la decisione del Tribunale e le questioni oggetto di riesame è pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea”.
[39] Cfr. Corte giust., 8 febbraio 2011, causa C-17/11 RX, Commissione c. Petrilli, ECLI:EU:C:2011:55, punto 4, in cui la Corte ha affermato «che non [le] spetta, in sede di procedura di riesame, pronunciarsi sulla fondatezza di un’evoluzione giurisprudenziale del Tribunale, operata da quest’ultimo in veste di giudice d’appello […] in quanto spetta ormai unicamente al [TFP] e al [Tribunale] far evolvere la giurisprudenza in materia di funzione pubblica; [essa] è competente solo ad evitare che le pronunce del Tribunale non compromettano l’unità e la coerenza del diritto dell’Unione». In questo contesto va rilevato che, in effetti, la Corte ha riesaminato solo sei delle oltre quattrocento pronunce rese dal Tribunale nella sua qualità di giudice delle impugnazioni, limitandosi a intervenire in cause in cui si ponevano questioni trasversali: Corte giust., 17 dicembre 2009, causa C-197/09 RX-II, M c. EMEA, ECLI:EU:C:2009:804, punto 66 (diritto al contraddittorio); 28 febbraio 2013, causa C-334/12 RX-II, Arango Jaramillo e.a. c. BEI, ECLI:EU:C:2013:134, punto 54 (termine ragionevole per il deposito di un ricorso); 19 settembre 2013, causa C-579/12 RX-II, Commissione c. Strack, ECLI:EU:C:2013:570, punto 58 (relazione tra statuto e CdfUE); 10 settembre 2015, causa C-417/14 RX-II, Missir Mamachi di Lusignano c. Commissione, ECLI:EU:C:2015:588, punto 53 (riparto di competenze tra Tribunale e TFP in materia risarcitoria); 26 marzo 2020, cause riunite C-542/18 RX-II e C-543/18 RX-II, Simpson c. Consiglio e HG c. Commissione, ECLI:EU:C:2020:232, punto 87 (principio del giudice precostituito per legge).
[40] Ad oggi, la quasi totalità delle domande di ammissione sono state rigettate e, a differenza della procedura di riesame, la Corte non ha assunto una posizione di principio, ma piuttosto un case by case approach nel pronunciarsi sull’ammissibilità dell’impugnazione. Per un’analisi di questo approccio casistico sia consentito di rinviare a M.F. Orzan, Some Remarks on the First Applications of the Filtering, cit., p. 429.
[41] In generale, sulla funzione del rinvio pregiudiziale si vedano L. Daniele, Articolo 267 TFUE, in A. Tizzano (a cura di), op. cit., pp. 2013-2021; M. Puglia, Finalità e oggetto del rinvio pregiudiziale, in C. Iannone, F. Ferraro (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020, pp. 1-17; C. Lacchi, Preliminary References to the Court of Justice of the European Union and Effective Judicial Protection, Bruxelles, 2020; J. Alberti, G. De Cristofaro (a cura di), Il rinvio pregiudiziale come strumento di sviluppo degli ordinamenti, Pisa, 2023; M. Puglia, Les finalités et l’objet de la procédure du renvoi préjudiciel, in C. Iannone, F. Ferraro (sous la direction de), Le renvoi préjudiciel, Bruxelles, 2023, pp. 35-52; B. Nascimbene, P. De Pasquale, Il diritto dell’Unione europea e il sistema giurisdizionale. La Corte di giustizia e il giudice nazionale, in Eurojus, 2023, pp. 15-20 e U. Villani, Istituzioni di Diritto dell’Unione europea, 2024, Bari, VII ed., pp. 450-461. Per un esame delle principali caratteristiche del procedimento pregiudiziale dinanzi alla Corte v. R. Mastroianni, A. Maffeo, Articolo 23 Statuto, cit., pp. 125-136; Aa. Vv., Articoli 93-104 RP Corte, ivi, pp. 578-653; S. Iglesias Sánchez, C. Oró Martnez, La cuestión prejudicial, in J.I. Signes de Mesa (dir.), Derecho procesal europeo, Madrid, 2019, pp. 135-168; J. Pertek, Le renvoi préjudiciel: droit, liberté ou obligation de coopération des juridictions nationales avec la CJUE, Bruxelles, II ed., 2021, pp. 174-212; K. Lenaerts, K. Gutman, J.T. Nowak, EU Procedural Law, Oxford, II ed., 2023, pp. 49-116; R. Mastroianni F. Ferraro, Il rinvio pregiudiziale, in R. Mastroianni (a cura di), Il diritto processuale dell’Unione europea, Torino, in corso di pubblicazione.
[42] Sugli effetti delle sentenze pregiudiziali v. M. Broberg, N. Fenger, Preliminary Reference to the European Court of Justice, Oxford, 2010; A. Maffeo, Gli effetti della sentenza pregiudiziale, in C. Iannone, F. Ferraro (a cura di), op. cit., pp. 199-212; Id., Les effets de la décision préjudicielle, in C. Iannone, F. Ferraro (sous la direction de), op. cit., pp. 279-294.
[43] In questo senso si pronuncia anche M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court, cit., pp. 1526 e 1527, il quale, da un lato, rileva che «[t]he unknown relates nonetheless to how a procedure used previously only rarely in staff cases would operate in the context of preliminary rulings. The reason for those doubts is simple: the type of procedure is radically different, and so are the stakes. The likelihood of “a serious risk of the unity or consistency of Union law being affected” is arguably somewhat less acute in circumscribed direct disputes involving EU staff than it is in diffuse and a multi-polar preliminary ruling procedure. Within the latter kind of procedure, by definition, the risk is bound to arise far more often» e, dall’altro, osserva che «[i]f the up-to-date experience of the Court in the filtration of appeals pursuant to Article 58a of the Statute of the Court could serve as a parallel, that could indeed be the case. There, too, similarly worded conditions have so far generated only few occasions on which it was found that a decision of the GC should be allowed to proceed to full review on merits. However, it is again fair to question the comparability of the data, as it comes from different types of proceedings, with different scope and impact».
[44] Non è questa la sede per un’analisi diffusa della correttezza della presunzione secondo la quale la specializzazione implichi necessariamente una migliore amministrazione della giustizia. Di conseguenza, nel presente lavoro la si considererà come avverata. Per un’analisi problematica della questione, sia consentito di rinviare a M.F. Orzan, La specializzazione del Tribunale dell’Unione europea tra realtà e prospettive: ieri, oggi, domani(?), in C. Amalfitano, M. Condinanzi (a cura di), Il giudice dell’Unione alla ricerca di un equilibrio efficiente e (in)stabile, op. cit., pp. 89-116.
[45] Sulla specializzazione del Tribunale v. U. Öberg, A. Mohamed, P. Sabouret, On Specialisation of Chambers at the General Court, in M. Derlén, J. Lindholm (eds.), The Court of Justice of the European Union: Multidisciplinary Perspectives, Oxford, 2018, p. 211 ss.; F. Clausen, Quelle place pour la spécialisation au sein des juridictions de l’UE, in D. Dero-Bugny, A. Cartier Bresson (sous la direction de), Les réformes de la Cour de justice de l’Union européenne. Bilan et perspectives, Bruxelles, 2020, p. 131 ss.
[46] All’indomani della creazione del(l’allora) marchio comunitario (oggi dell’Unione europea) e del conferimento della relativa competenza al Tribunale di conoscere i ricorsi avverso le decisioni adottate dall’UAMI (oggi EUIPO), una prima forma di specializzazione era consistita nell'istituzione, per un periodo circoscritto, di due sezioni specializzate in tale materia. Una seconda applicazione della specializzazione ha avuto luogo a seguito della creazione del TFP. In questa occasione, il Tribunale, competente a conoscere i ricorsi avverso le pronunce del TFP in base all’art. 11 dell’allegato I dello statuto, ha istituito la sezione delle impugnazioni, organizzata in sotto-formazioni, e costituita dal presidente, dal vicepresidente (dopo la creazione di questa funzione nel 2013) e dai presidenti di sezione del Tribunale.
[47] Per quanto riguarda il contenzioso dei ricorsi diretti, in primo luogo, le cause in materia di funzione pubblica e di proprietà intellettuale sono ripartite, rispettivamente, tra le quattro e le sei sezioni specificamente designate a tal fine nella decisione di assegnazione dei giudici alle sezioni, in base a un turno stabilito in relazione all’ordine di registrazione delle cause in cancelleria. In secondo luogo, le cause riguardanti, da un lato, la concorrenza, gli aiuti di Stato e le misure di difesa commerciale, le norme relative alle sovvenzioni estere distorsive del mercato interno nonché le norme relative ai mercati e ai servizi digitali e, dall’altro, le materie rimanenti, sono ripartite tra le dieci sezioni. In terzo luogo, al presidente la possibilità di derogare al turno per tutte le materie in ragione della connessione tra le cause e del carico di lavoro delle sezioni. Tutte queste regole di attribuzione dei ricorsi sono contenute nella decisione relativa ai Criteri di attribuzione delle cause alle sezioni (2024/6453), in GUUE serie C, 28.10.2024.
[48] La seconda frase della disposizione in parola prevede che “[i]l Tribunale può incaricare una o più sezioni di conoscere di cause in materie specifiche ».
[49] La terza frase di tale disposizione indica che «[i]l Tribunale designa una o più sezioni incaricate del trattamento delle domande di pronuncia pregiudiziale».
[50] In proposito, oltre alla soluzione adottata in via transitoria dal Tribunale, la dottrina ne ha discusse altre, prefigurando la possilità che, ferma restando l’organizzazione attuale in dieci sezioni, la specializzazione in materia pregiudiziale fosse assorbita nell’ambito delle sezioni esistenti, dando così luogo ad una sottospecializzazione, o attraverso la creazione di sezioni autonome. In questa seconda ipotesi, di conseguenza, stante il numero di dieci sezioni, una modifica del numero delle sezioni specializzate in materia di proprietà intellettuale e funzione pubblica sarebbe necessaria. Quanto al numero di queste sezioni, il dato normativo non consente di determinarlo, tuttavia, tenuto conto delle domande pregiudiziali che dovrebbero essere mediamente trasferite al Tribunale, la dottrina ha ventilato la possibilità che esse saranno due. Così J. Alberti, Il trasferimento del rinvio pregiudiziale al Tribunale, cit., p. 12.
[51] Cfr. Costituzione delle sezioni e assegnazione dei giudici alle sezioni, GUUE C, 2024/6456, 28.10.2024, p. 4.
[52] Cfr. art. 28, par. 8, RP Trib.
[53] Cfr. Elezioni degli avvocati generali per il trattamento delle domande di pronuncia pregiudiziale e di un giudice chiamato a sostituirli in caso di impedimento (2024/6455), in GUUE serie C, 28.10.2024.
[54] V. S. Iglesias Sánchez, D. Sarmiento, A New Model for the EU Judiciary: Decentralising Preliminary Rulings as a Paradoxical Move towards the Constitutionalisation of the Court of Justice, in EU Law Live, 08/04/2024.
[55] V. A. Tizzano, Il trasferimento di alcune questioni pregiudiziali, cit., p. 4.
[56] In questo senso si esprime M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court, cit., p. 1517.
[57] In questo contesto, rispetto al ruolo costituzionale della Corte, è opportuno distinguere tra una nozione funzionale e una strutturale. In termini funzionali, come osservato in dottrina (D. Gallo, L’efficacia diretta del diritto dell’Unione europea negli ordinamenti nazionali, Milano, 2018, p. 48; Id., Direct Effect in EU Law, Oxford, in corso di pubblicazione), la costituzionalizzazione della Corte comincia ben prima delle modifiche di Nizza, quando «[l]a Corte di giustizia […], a partire da Van Gend & Loos, dà avvio al processo di costituzionalizzazione di se stessa e della propria funzione nell’ordinamento comunitario», ferma restando, beninteso, la peculiarità di una siffatta costituzionalizzazione nell’ambito di tale ordinamento [T. Tridimas, Bifurcated Justice: The Dual Character of Judicial Protection in EU Law, in A. Rosas, E. Levits, Y. Bot (eds.), The Court of Justice and the Construction of Europe: Analyses and Perspectives on Sixty Years of Case-Law, The Hague, 2013, pp. 367-379]. In termini strutturali, invece, la costituzionalizzazione della Corte si traduce nella cristallizzazione nel diritto primario di un riparto di competenze tra essa, da un lato, e il Tribunale (e le eventuali giurisdizioni specializzate), dall’altro, che la proietta a diventare la giurisdizione cui è conferito il trattamento delle sole cause suscettibili di avere, a vario titolo, una valenza fondamentale per il funzionamento dell’ordinamento dell’Unione. Nel presente contributo a questa nozione ci si riferisce.
[58] Così J. Alberti, Il trasferimento del rinvio pregiudiziale al Tribunale, cit., p. 20.
[59] V. T. Tridimas, Breaking with Tradition: Preliminary Reference Reform and the New Judicial Architecture, in EU Law Live, 26/06/2024, il quale osserva che «[t]his amendment is more likely to be the opening shot rather than the end of the road».
[60] Per un’analisi critica di questa proposta v. R. Adam, La recente proposta della Corte di trasferire i ricorsi per inadempimento al Tribunale dell’Unione, in Federalismi.it, fasc. 3, 2018, pp. 2-16.
[61] Sul punto v. M. van der Woude, The Place of the General Court, cit., p. 24, il quale osserva che «pragmatism has its limits [and a]s any building, the judicial architecture of the Union must obey certain rules and stay within the limits set by the Treaties». Lo stesso autore distingue, peraltro, tra un modello giudiziario ispirato, appunto, a pragmatismo, riconducibile alla riforma contenuta nel reg. 2024/2019 e un modello concettuale nel quale la Corte dovrebbe assumere il ruolo di una Corte costituzionale e il Tribunale quello di un Consiglio di Stato. Su tali modelli si tornerà di seguito.
[62] Anche la dottrina, pur dando conto delle preoccupazioni e delle inquietudini legate al trasferimento delle competenze pregiudiziali al Tribunale, osserva che «[g]razie, infatti, al diffondersi della prassi delle decisioni del Tribunale in materia pregiudiziale e alla conseguente assuefazione a questa prassi, ma soprattutto a seguito della crescita inarrestabile del contenzioso innanzi alla Corte, non è difficile prevedere che tra qualche anno si finirà inevitabilmente per sollecitare un ulteriore trasferimento di “materie specifiche” e poi ancora di altre fino ad un limite oggi imprevedibile. E questo avverrà, con ogni probabilità, con molte minori reticenze e perplessità di quante ne siano state espresse in occasione di questo primo passaggio». Così A. Tizzano, Il trasferimento di alcune questioni pregiudiziali, cit., p. 4. Altri autori non mancano, invece, di esprimere riserve, a monte, considerando il trasferimento al Tribunale delle competenze in alcune materie uno «short-term palliative» con la conseguenza che ulteriori interventi rappresenteranno soluzioni estemporanee per tamponare bisogni immediati, ma non avranno carattere strutturale. V. M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court, cit., p. 1543.
[63] Sulla circostanza che l’estensione del filtro generalizzato potrebbe sollevare problemi di conformità rispetto all’art. 256, par 1, 2° c. TFUE, v. M. Condinanzi, Corte di giustizia e Tribunale dell’Unione europea: storia e prospettive di una “tribolata” ripartizione di competenze, in Federalismi.it, fasc. 3, 2018, p. 11.
[64] Sugli effetti delle sentenze pregiudiziali v. M. Broberg, N. Fenger, Preliminary Reference to the European Court of Justice, Oxford, 2010; A. Maffeo, Gli effetti della sentenza pregiudiziale, in C. Iannone, F. Ferraro (a cura di), op. cit., pp. 199-212; Id., Les effets de la décision préjudicielle, in C. Iannone, F. Ferraro (sous la direction de), op. cit., pp. 279-294.
[65] In questo contesto va rilevato che, la Corte ha riesaminato solo sei delle oltre quattrocento pronunce rese dal Tribunale nella sua qualità di giudice delle impugnazioni, limitandosi a intervenire in cause in cui si ponevano questioni trasversali: Corte giust., 17 dicembre 2009, causa C-197/09 RX-II, M c. EMEA, ECLI:EU:C:2009:804, punto 66 (diritto al contraddittorio); 28 febbraio 2013, causa C-334/12 RX-II, Arango Jaramillo e.a. c. BEI, ECLI:EU:C:2013:134, punto 54 (termine ragionevole per il deposito di un ricorso); 19 settembre 2013, causa C-579/12 RX-II, Commissione c. Strack, ECLI:EU:C:2013:570, punto 58 (relazione tra Statuto e CdfUE); 10 settembre 2015, causa C-417/14 RX-II, Missir Mamachi di Lusignano c. Commissione, ECLI:EU:C:2015:588, punto 53 (riparto di competenze tra Tribunale e TFP in materia risarcitoria); 26 marzo 2020, cause riunite C-542/18 RX-II e C-543/18 RX-II, Simpson c. Consiglio e HG c. Commissione, ECLI:EU:C:2020:232, punto 87 (principio del giudice precostituito per legge).
Dagli uomini d’onore agli uomini d’amore
di Lia Sava
Il titolo del nostro momento di confronto è suggestivo e, ad un tempo, bellissimo. “Uomini d’onore e uomini d’amore” sono espressioni che richiamano due categorie concettuali nettamente distinte perché non c’è nulla di più distante dalla declinazione dell’amore rispetto all’appartenenza al sodalizio di stampo mafioso impastato di un malsano concetto di “onore”. Ed è proprio la potenza evocativa dell’antitesi fra “l’onore e l’amore” (consentitemi la semplificazione) che permette di avviare una riflessione sul ruolo del cristiano nel tempo che viviamo e che impone, al battezzato, di individuare la sua strada per essere “uomo d’amore” nel contesto in cui opera e nel suo rapporto con i doveri che gli derivano dal suo essere cittadino, in un panorama che vede gli stati occidentali, ad un tempo, laici e multiculturali. In prima battuta mi sovviene una considerazione semplice ma, mi consta, non scontata. Invero, il Cristianesimo ha segnato una sorta di sostanziale rivoluzione nei rapporti fra essere credenti e società. Nel Vangelo Gesù insegna: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Ma cosa significa davvero questa espressione e qual è il corretto rapporto che un cristiano, che vuole essere “uomo d’amore”, deve avere rispetto alla cosa pubblica? In prima battuta occorre evidenziare che Gesù è stato ben chiaro: la laicità dello Stato (al di là delle fuorvianti interpretazioni dei secoli bui della storia della Chiesa) si fonda, a ben vedere, proprio su questa espressione. E torniamo alla nostra domanda, che richiede una risposta ancora più complessa nel momento in cui quello stesso cristiano che la pone a sé stesso riveste un ruolo pubblico. Ed io mi chiedo (io che questa domanda me la sono posta e continuo a pormela): se il mio essere cristiano deve plasmare nell’ essenza profonda la mia vita, come posso, rispettando i doveri e gli oneri connessi al mio lavoro, essere autenticamene “soldato di Cristo”, prestando così ossequio a quello che sono diventata nel momento in cui sono stata cresimata? Non è facile rispondere a tutti gli interrogativi sopra esposti. Ma occorre provarci perché l’unicità dell’essere umano non può scindersi con riguardo ad un aspetto così delicato. Invero, un dato costituisce la precondizione per un approccio corretto alle questioni. Un cristiano vive all’interno di un contesto sociale ove lavora e si relaziona e, se è vero che percorre un cammino personale, però, l’itinerario si costruisce in relazione con l’altro. In questo cammino nel lavoro, in famiglia, all’interno dei gruppi sociali ove opera un cristiano deve improntare il suo agire alla luce dei valori della sua religione. Questo significa essere cristiano. Ciò implica accoglienza e rispetto anche dei non cristiani e sforzo massimo per offrire un contributo etico alla società. Quindi una prima risposta può essere questa, per essere “un uomo d’amore” devo applicare il principio di uguaglianza fra tutte le fedi e fra tutte le etnie e cioè devo praticare la via del dialogo anche con il “diverso da me” perché per un cristiano la relazione autentica con l’altro è uno dei pilastri della sua fede. “Un uomo d’amore” sa dialogare perché il dialogo consente di combattere l’indifferenza verso la povertà, verso la miseria, verso gli ultimi. Un secondo aspetto da considerare riguarda il rapporto fra il cristiano e le regole statali. Qualcuno ha usato l’espressione “laicizzazione del cristianesimo”. In realtà, come ho già sopra evidenziato, la laicità è insita nel messaggio evangelico, come diceva Don Bosco: occorre essere buoni cristiani ed onesti cittadini e non si può essere cristiani autentici senza essere, nel contempo, onesti cittadini. A maggior ragione un cristiano che esercita una funzione pubblica deve guardare ai laici (a chi non crede, a chi appartiene ad altre religioni, a chi è indifferente ad ogni profilo spirituale) con uno sguardo scrupoloso, rivolto all’incontro utilizzando la lente di ingrandimento di quei valori evangelici dei quali egli è portatore. Al cristiano autentico, soprattutto nell’ambito lavorativo nel quale opera, non sono consentite “chiusure autoreferenziali”, ma deve “aprirsi” all’altro facendo il proprio dovere con assoluto scrupolo. Se il cristiano non fa il proprio dovere con scrupolo, umiltà, attenzione e disponibilità al confronto “con l’altro e verso l’altro”, non può dirsi cristiano autentico. Ma cosa significa essere cristiani e coniugare i valori di una fede autentica nel messaggio evangelico con lo svolgimento del proprio lavoro? Io mi sono data una risposta che chiaramente è declinata sulla mia professione (essere magistrato in una terra peculiare come quella siciliana). Ebbene io devo, in particolare, rendere un servizio giustizia rapido, efficace, essere sempre vigile per il rispetto del principio di uguaglianza fra tutti gli uomini ed individuare strumenti per la tutela degli ultimi, il tutto volto a creare un’uniformità nel trattamento fra situazioni analoghe, ancora una volta in piena attuazione dell’art. 3 della Costituzione. Quindi “l’uomo d’amore”, è scrupoloso ed attento al rispetto delle regole nello svolgimento del suo lavoro. Inoltre, credo sia molto importante sottolineare che il messaggio evangelico pone l’accento sull’apertura di Gesù a tutti gli uomini, a prescindere dal loro essere credenti, peccatori, appartenenti ad altre religioni perché il messaggio d’amore è rivolto ad ogni creatura ed ecco che mi appaiono inconsistenti le obiezioni che pure qualcuno muove nel momento in cui si afferma che nelle professioni “l’essere cristiano” potrebbe pregiudicare l’attuazione del principio di uguaglianza rispetto ad esempio ai musulmani, agli induisti o agli ebrei. In realtà è esattamente il contrario, in quanto essere autenticamente testimoni del messaggio evangelico all’interno del proprio percorso lavorativo senza nessuna ostentazione del proprio credo, implica l’accoglienza ed il rispetto (e l’amore) per tutti a prescindere dalla loro formazione politica o religiosa. Un cristiano inteso come “colui che segue il messaggio di Gesù” si deve impegnare in ogni ambito professionale, sociale, politico per contribuire alla realizzazione della giustizia, della pace, della libertà e dei diritti di tutti gli uomini. E vado oltre. Un cristiano deve essere fiero della sua fede e pienamente consapevole dell’apporto che può dare a tutela dei valori volti alla promozione del benessere individuale di ciascuno. Il rispetto del principio di uguaglianza è, dunque, la precondizione attraverso la quale comprendere come un cristiano può effettivamente dare il suo contributo per “il salto etico” indispensabile per la realizzazione di un mondo migliore. Dobbiamo, inoltre, chiederci se sono sufficienti il rispetto del principio di uguaglianza, la capacità di dialogo, lo scrupolo nell’osservanza delle regole e l’umiltà nell’approccio relazionale per essere definiti “uomini d’amore” e, ad un tempo, buoni cristiani nel momento in cui svolgiamo la delicata professione di magistrato o, comunque, allorché si esercita un qualsiasi incarico pubblico. Come mi è capitato di dire più volte, sono affascinata dalla figura del beato Giudice Rosario Livatino perché in maniera limpida ha tracciato, ormai 40 anni fa, una sorta di impianto culturale del cristiano che esercita non solo il delicato compito del giudicare, ma che si relaziona, fra l’altro, in senso più ampio, con la gestione della cosa pubblica. Un approccio sobrio, rigoroso, coerente, efficace. Invero, se esiste, ed è valore fondamentale, l’autonomia fra Chiesa e Stato, va riconosciuto al cristiano il diritto di testimoniare, sempre nel sacrosanto rispetto del principio di laicità, i valori della sua religione nel contesto in cui opera e svolge la sua attività: questo Livatino l’ha fatto. Procediamo con alcuni esempi. Pensiamo ad una controversia civile che vede contrapposti un attore ed un convenuto che cercano, attraverso l’operato del giudice, la tutela dei loro diritti ed il magistrato che applica con scrupolo e rigore le norme del Codice civile, saprà studiare e leggere, con scrupolo, ogni carta di quel fascicolo processuale consapevole che dietro quelle pagine c’è una vicenda umana, una sofferenza, una disuguaglianza da colmare. Questa è un’operazione ermeneutica che ogni giudice (cristiano o non cristiano) deve compiere, ma un cristiano lo farà anche con un punto di vista peculiare che si ricollega al suo essere cristiano. E mi spiego, se un magistrato, che si dice cristiano, non studia con massima attenzione le carte processuali, se non è disponibile all’ascolto delle parti, se è sprezzante e si sente gonfio del suo potere, quel magistrato, oltre ad essere un pessimo magistrato, non è cristiano nel senso autentico del termine. Un cristiano guarda l’individuo cercando di percepire l’altro che ha di fronte come soggetto da rispettare, da tutelare, a prescindere dalla sua fede, dalla sua appartenenza etnica, dalla sua classe sociale. I problemi si complicano quando ci troviamo di fronte ad un reato. Un magistrato che si occupa di penale ogni giorno si confronta: “con un fatto umano sporco di terra” e deve cercare di dargli dignità giuridica. In ambito penale ci troviamo di fronte ad un uomo che ha violato la sfera di altri uomini, creando un danno ingiusto e, in alcuni casi, come accade per i reati di criminalità organizzata, seminando morte. Rispetto ad un reato da accertare, il magistrato autenticamente cristiano oltre allo studio scrupoloso delle carte ed al rispetto per tutte le parti processuali, saprà non assumere posizioni preconcette, saprà (specialmente se fa il pubblico ministero) tener conto anche degli elementi di prova a favore degli indagati, rifuggirà da ogni tentazione mass mediatica, non si sentirà “investito da una missione”, ma avrà sempre presente che, in base al principio di uguaglianza, deve ricercare la verità per ripristinare l’equilibrio che il reato stesso ha compromesso. Anche in questo caso, un magistrato che si dice cristiano e che pone al centro dello svolgimento della sua attività il proprio ego invece che il servizio per l’altro non può ritenersi autenticamente portatore, nel suo quotidiano, del messaggio di Gesù e, ad un tempo, non realizza quello che è il fine ultimo della giustizia penale e cioè ricostruire e ricomporre in chiave equilibratrice e rieducativa le conseguenze di una lesione di valori fondamentali. Al contrario, un magistrato non cristiano che si pone nello svolgimento della sua professione realizzando, in concreto, lo studio del fascicolo, il rispetto dell’altro, la sobrietà e l’umiltà nella consapevolezza di poter sbagliare, realizza in pieno il messaggio evangelico anche se, per ipotesi, non è battezzato. Ciò che mi pare assolutamente evidente è che in un momento storico come quello confuso nel quale viviamo, ove pare frantumarsi il barlume etico dell’uguaglianza dei diritti, dell’uguaglianza fra tutti i cittadini (a prescindere dalla loro fede o etnia), la fedeltà al Vangelo e cioè la coerenza del cristiano può davvero fare la differenza. Possiamo, dunque, affermare che, nel pieno e rigorosissimo rispetto del principio di laicità, un magistrato cristiano (come qualsiasi cristiano) per essere effettivamente coerente con il messaggio evangelico, non deve essere un ottuso e chiuso difensore di una cristianità fatta di apparenza, ma deve essere testimone, in ogni sfera esistenziale e quindi anche nello svolgimento del proprio lavoro, della parola di Gesù. Ed arriviamo al discorso sulla coerenza. Un cristiano, per essere “uomo d’amore”, deve essere coerente con i dettami del Vangelo e deve operare in una società pluralista, senza preclusioni all’apertura verso ogni soggetto con il quale si trovi ad interagire. Un cristiano non fa “guerre sante”, ma si apre al suo prossimo con disponibilità e coraggio mostrandosi coerente e mai autoreferenziale. Un cristiano non impone la sua religione, ma si deve mostrare portatore nel quotidiano di quei valori che non possono e non devono essere limitati alla sua sfera privata, ma devono illuminare ogni aspetto della sua vita, quindi anche quello lavorativo. Un cristiano, adempiendo con scrupolo ai propri doveri, si pone, nel rapporto con gli altri, anche come “testimone della sua fede”. Credo che se riuscissimo ad essere cristiani coerenti, se riuscissimo a mostrarci come autentici portatori dei valori che Gesù ha insegnato 2000 anni fa, sarebbe superata la crisi del cristianesimo che ci schiaccia.
Voglio concludere ricollegandomi all’esperienza professionale che mi caratterizza ormai da quasi un trentennio che è quella di magistrato che si occupa di criminalità organizzata e che, quindi, ha avuto ed ha contatti con i soggetti che definiamo collaboratori di giustizia e che sono di frequente l’emblema di un tentativo individuale di ricomporre, anche sotto il profilo spirituale, frammenti di un’esistenza consumata sotto l’usbergo dei disvalori delle mafie.
Nella mia esperienza ho potuto verificare che alcuni di questi uomini, pur non essendo religiosi in senso classico, avvertono nel profondo un bisogno di spiritualità al quale ancorarsi per “fare ammenda” del male causato. Non tutti ovviamente, ma alcuni, una volta avviato un autentico percorso collaborativo, hanno sentito il bisogno di compiere azioni positive nei confronti del prossimo come, ad esempio, prendersi cura dei bisognosi. In altri, specie dopo molti anni dell’avvio della collaborazione, ho notato una crescita etica ed una progressiva consapevolezza dei gravi crimini commessi. L’incontro con i familiari, ad esempio, di coloro che hanno ucciso, può definirsi come l’epifenomeno di un cammino di consapevolezza dal lato del collaboratore di giustizia e di autentico perdono da parte delle vittime. Perché la vittima, e cioè in molti casi i familiari dei soggetti sterminati dall’organizzazione mafiosa, attraversano anch’essi un travaglio del quale occorre tenere conto e con il quale misurarsi. Io cristiano, battezzato, cresimato, educato al concetto di perdono secondo il messaggio evangelico, devo confrontarmi con soggetti criminali che hanno ucciso mio padre, mio figlio, mio fratello. Confrontandomi con numerose di queste vittime, ho potuto comprendere che la prima fase è quella del dolore straziante, della rabbia, della disperazione, dell’odio nei confronti dell’assassino, al punto che tutta l’impalcatura esistenziale pare crollare. Ma con il tempo, almeno per alcuni, inizia un’altra fase e cioè la fase della consapevolezza nuova: quella della necessità di confrontarsi con il perdono. Ed un “uomo d’amore” dal perdono non può prescindere. Non è facile perdonare chi ti ha portato via gli affetti più grandi ma il cristiano autentico deve cimentarsi con la sfida del perdono. Per quella che è la mia esperienza, alcune vittime di mafia ci sono riuscite e quell’ incontro con i carnefici, adesso pentiti dei loro misfatti, si è rivelato salvifico per entrambi. In chiave di sintesi, credo di aver compreso, dopo quasi 35 anni di professione, che Gesù si mostra nel cammino spirituale, non necessariamente religioso, di ognuno di noi, proprio attraverso gli occhi di coloro che siamo chiamati a giudicare e nei confronti dei quali dobbiamo porci “sullo stesso piano”, senza preconcetti, senza condizionamenti di sorta, perché solo questo “angolo prospettico” consente di applicare la norma al caso concreto sostanziando i valori alti che il servizio giustizia deve realizzare.
Voglio concludere, ancora una volta, con il principio per me fondamentale di laicità dello Stato. La ricerca del bene, del giusto, la necessità della salvaguardia dei diritti di tutti è aspirazione di coloro che auspicano un mondo migliore a prescindere dal loro credere in Dio, dal loro credo religioso. Un cristiano autentico, per essere “uomo d’amore”, non deve mai dimenticarlo e deve agire per l’inclusione e per l’accettazione delle differenze. Invero, Gesù ci indica un metodo per la ricerca del giusto che può essere praticato da chiunque, a prescindere dal credo religioso praticato. Ed è il solo strumento per essere, autenticamente, “uomini d’amore”. Dovremmo comprendere che, in presenza di tutto il male che ci circonda, abbiamo una sola ricetta salvifica. Rispondere al male con il bene. Invero, se si risponde al male con il male lo nutriamo, lo fortifichiamo e lo rendiamo invincibile. Il che significa perdere ogni speranza. Se, invece, impariamo a rispondere al male con il bene noi lo depotenziamo fino ad annullarlo. Credo che questa sia la sola strada per vivere da “uomini d’amore”.
Intervento di Lia Sava al Meeting di Rimini 2024.
Immagine: Caspar David Friedrich, Due uomini contemplano la luna, olio su tela, 1825-30, Metropolitan Museum of Art, New York.
Radici e valore del codice di procedura civile
di Paolo Spaziani
Sommario: 1. Le origini del “codice del 1940”. Il Ministero Oviglio, la sottocommissione C e il progetto Carnelutti. - 2. Il Ministero de Francisci, il legislatore solitario e il progetto Redenti. - 3. Il Ministero Solmi, una nuova commissione e i progetti preliminare e definitivo. - 4. Il Ministero Grandi, il comitato ristretto e il nuovo codice. - 5. Il codice di Chiovenda o il codice di Calamandrei? - 6. Calamandrei e i suoi maestri. La missione del giurista e il valore del codice.
1. Le origini del “codice del 1940”. Il Ministero Oviglio, la sottocommissione C e il progetto Carnelutti.
Ha ottantadue anni il codice di procedura civile, detto “del 1940”, ma in realtà entrato in vigore il 21 aprile 1942.
Il codice fu emanato in attuazione di una legge di delega approvata quasi un ventennio prima, la legge 30 dicembre 1923, n.2814[1].
Il primo tentativo di attuare la delega fu autorevolmente compiuto tra il 1924 e il 1926, nell’ambito della commissione per la riforma dei codici formata dal Ministro guardasigilli Aldo Oviglio[2].
Poiché i codici da riformare erano quattro, la commissione, presieduta dallo stesso guardasigilli, fu divisa in quattro sottocommissioni: la sottocommissione A (per il codice civile), presieduta da Vittorio Scialoja; la sottocommissione B (per il codice di commercio), presieduta da Mariano D’Amelio, primo presidente della Corte di cassazione; la sottocommissione C (per il codice di procedura civile), presieduta da Lodovico Mortara; la sottocommissione D (per il codice della marina mercantile), presieduta da Raffaele Perla, presidente del Consiglio di Stato.
La sottocommissione C aveva Giuseppe Chiovenda come vicepresidente e tra i componenti più autorevoli c’erano Francesco Carnelutti, Piero Calamandrei, Federico Cammeo ed Enrico Redenti.
La prima riunione si tenne il 25 e 26 giugno 1924 (giorni terribili per l’accidentata e dolorosa storia del nostro giovane Paese, recentissimamente ingiuriato nei suoi più profondi valori dall’infame assassinio di Giacomo Matteotti) e registrò una sonora sconfitta dell’oralità chiovendiana, in favore della quale si erano schierati Calamandrei, Menestrina e Zanolla[3], ma non gli altri, compreso Carnelutti, il quale aveva invece proposto una soluzione di compromesso, fondata sul principio dell’immediatezza temperata[4].
Chiovenda, deluso, rassegnò immediatamente le sue «irrevocabili dimissioni» dalla vicepresidenza e dalla sottocommissione[5], che poi ritirò dopo che il guardasigilli, con missiva del 23 luglio, aveva ribadito la sua intenzione di respingerle[6].
Nel frattempo, però, Mortara aveva istituito un comitato ristretto con il compito di predisporre uno schema di progetto, nominando relatore Carnelutti.
Carnelutti lavorò indefessamente per mesi e alla fine del mese di maggio del 1925 licenziò un imponente progetto del nuovo processo di cognizione di 426 densissimi articoli, cui sarebbero seguiti, l’anno successivo, 293 articoli sul processo di esecuzione.
Il progetto di Carnelutti, redatto, «con mirabile diligenza, pari alla dottrina»[7], rifletteva una concezione del processo non derivante «né dalla scuola esegetica né da quella sistematica», ma, «tutta e soltanto dal pensiero» del suo autore; per questo provocò sconcerto nell’ambito della sottocommissione, in seno alla quale sorsero «discussioni che restarono veramente memorande per chi ebbe la fortuna di parteciparvi»[8].
Le discussioni, tuttavia, quanto più erano ‹‹memorande›› tanto più nuocevano alla speditezza dei lavori, sicché il progetto fu presentato al Ministro solo il 24 giugno 1926, quando ormai Aldo Oviglio era stato sostituito da Alfredo Rocco, il quale ne rimase talmente insoddisfatto da relegarlo nel più buio dei cassetti ministeriali, destinato a non più riaprirsi[9].
2. Il Ministero de Francisci, il legislatore solitario e il progetto Redenti.
Il secondo tentativo si ebbe nel 1932.
Il 20 luglio, Alfredo Rocco apprese, dal giornale che stava leggendo sulla sua scrivania di Via Arenula, la notizia di essersi dimesso[10]. Sullo scranno ministeriale salì Pietro de Francisci, allievo di Pietro Bonfante, a sua volta allievo di Vittorio Scialoja.
Esponente di primo piano del regime[11], il nuovo guardasigilli non era simpatico a Calamandrei, il quale tramanda un episodio, accaduto quando de Francisci aveva concluso l’esperienza ministeriale, raccontato da Codignola e asseritamente confermato da Gentile, secondo cui l’ex Ministro, rifiutatosi a causa dell’età e delle condizioni di salute di sottoporsi alle prove atletiche riservate ai gerarchi fascisti, sarebbe stato irriso da Starace in presenza degli altri gerarchi. Calamandrei commenta con disgustata ironia, non già il fatto che de Francisci aveva rifiutato di esibirsi nelle stucchevoli prove atletiche ideate da Starace, quali il salto delle baionette e quello del cerchio in fiamme, ma il fatto che l’ex Ministro della giustizia, rettore dell’Università di Roma e presidente dell’istituto di cultura fascista, non aveva saputo proferire alcuna parola di protesta per l’irrisione di Starace, non ostante lo «sconcio suon di risa» degli altri gerarchi[12].
De Francisci, storico del diritto romano, considerato, nel settore di sua competenza, un vero e proprio «rinnovatore»[13], in tre discorsi tenuti al Parlamento tra il 1933 e il 1934 illustrò le sue idee sul codice di procedura civile del futuro, le quali erano fondate su tre punti fondamentali: il rafforzamento dei poteri del giudice (sia sotto il profilo della direzione processuale che sotto il profilo delle iniziative istruttorie e decisorie); la responsabilizzazione delle parti (con la previsione di un sistema di sanzioni volte a dissuaderle dalla proposizione di domande temerarie, di eccezioni dilatorie e, in genere, di condotte contrarie alla buona fede processuale); l’eccezionalità dell’appello[14].
Per l’attuazione della delega, diversamente da Oviglio, che aveva istituito un’apposita sottocommissione di cui avevano fatto parte tutti i più importanti processualisti, de Francisci preferì rivolgersi ad un unico studioso, un legislatore solitario. La scelta, verosimilmente caldeggiata dall’ormai non più giovane ma sempre influente Vittorio Scialoja, cadde su un membro della scuola dell’anziano maestro: Enrico Redenti, discepolo di quel Vincenzo Simoncelli che di Scialoja era stato allievo, collega e genero[15].
La chiamata di de Francisci giunse a Redenti sul finire del 1932 e Redenti consegnò il suo progetto alla fine del 1934. Nel mese di ottobre di quell’anno, quando era giunto quasi alla fine del lavoro, scrisse che la novità saliente del venturo processo sarebbe consistita nella previsione che il giudice e le parti (evidentemente, prima di dar corso alla trattazione e all’istruzione, ma dopo aver veduto «le carte della causa») si mettessero seduti «intorno ad un tavolo» al fine di «sfrondare tutto quello che non serve», «cavare il nocciolo o il gariglio da ogni questione» e far emergere, «in molti casi, anche la verità dal metaforico pozzo»[16].
Peraltro, il Ministro de Francisci, ricevuta una copia del progetto, fece appena in tempo ad inviarla a Chiovenda con la preghiera di fargli avere il suo parere[17], prima di essere a sua volta “dimissionato”.
Agli inizi del 1935 a Via Arenula arrivò un altro storico (questa volta non di diritto romano ma di diritto comune), anch’egli professore all’Università di Roma (di cui de Francisci era stato nel frattempo nominato Rettore), nonché esponente del regime.
Anche Solmi, ça va san dire, era antipatico a Calamandrei, il quale, quattro anni dopo (il 23 luglio 1939), ne avrebbe salutato le dimissioni dicendo che il «grasso liberalone che si era messo a far lo squadrista e a metter la sua firma alle leggi razziste per il gusto di passare alla storia» era stato «scacciato via» senza che gli fossero dati «neanche gli otto giorni, come uno stalliere»[18].
Solmi pubblicò il progetto già redatto da Redenti durante il Ministero de Francisci[19], ma, prima, nominò una nuova commissione (di cui faceva parte lo stesso Redenti) con il compito di redigere un nuovo progetto.
Chiunque lesse i 745 articoli del corposo testo legislativo, dunque, sapeva di leggere un testo già vecchio, destinato ad essere superato dai lavori della nuova commissione ministeriale[20].
3. Il Ministero Solmi, una nuova commissione e i progetti preliminare e definitivo
Il progetto preliminare redatto dalla Commissione nominata da Solmi[21] – siamo al terzo tentativo di attuare la legge di delega – fu pubblicato al principio dell’estate del 1937, anno che aveva già visto impoverirsi la scienza processuale nel mese di gennaio, per essere venuto a mancare Mortara[22], e che l’avrebbe vista impoverirsi ulteriormente nel mese di novembre, quando sarebbe mancato anche Chiovenda[23].
Il progetto preliminare Solmi, perseguendo l’intento di attuare la c.d. concezione pubblicistica del processo, presentava una marcata connotazione autoritaristica, configurando decisamente il giudizio civile quale giudizio inquisitorio ad impulso d’ufficio[24].
Il Ministro chiese alle Università di esprimere il loro parere. La Regia Università di Firenze – ovverosia, Piero Calamandrei – non mancò di far sentire la sua voce fermamente critica.
Calamandrei osservò che la soppressione del principio dispositivo avrebbe avuto effetti sciagurati, poiché esso principio rappresentava la proiezione sul piano processuale del principio sostanziale della disponibilità dei diritti soggettivi; pertanto, la sua totale sostituzione con il «principio d’ufficialità» avrebbe significato, in sostanza, «abolire il diritto privato», «trasformare in diritto pubblico tutto quanto il diritto civile», e, in definitiva, fare come «quei regimi in cui si è voluto totalmente e consapevolmente abolire la proprietà privata ed in generale il diritto soggettivo individuale»[25].
Il parere di Calamandrei – particolarmente per il riferimento al codice sovietico – lasciò il segno, poiché il «concittadino di Farinata»[26], che aveva nella scrittura «un dono che depongono gli Dei nella culla»[27], era sapientemente riuscito a toccare il nervo scoperto del regime: l’ossessione per la ineluttabilità delle lotte di classe preconizzate da Marx, che sarebbe stata alla base di tutti gli obiettivi di politica legislativa di diritto privato del regime: dall’unificazione dei codici, alla “commercializzazione” della disciplina civilistica tradizionale dei contratti e delle obbligazioni, alla sostituzione della nozione di commerciante con quella generica e totalizzante di imprenditore.
Solmi fece dunque macchina indietro[28] e, nel gennaio del 1939, pubblicò un progetto definitivo[29] (quello che, secondo Redenti, sarebbe poi divenuto il «codice vigente»[30]) in cui era stato raccolto il suggerimento di Calamandrei di introdurre «una netta distinzione tra il gruppo di controversie su rapporti indisponibili o intransigibili … e quello di tutte le altre controversie su rapporti di mero diritto privato», facendo in modo che, solo per il primo il principio inquisitorio potesse essere «rigidamente attuato», mentre, per il secondo, i poteri istruttori del giudice restassero «necessariamente» più limitati[31].
4. Il Ministero Grandi, il comitato ristretto e il nuovo codice
Peraltro, il progetto definitivo Solmi non divenne il nuovo codice, perché nel luglio del 1939, come si è detto, anche Solmi fu “dimissionato”. Al Ministero di grazia e giustizia fu chiamato Dino Grandi, il quale, essendo dotato di uno spessore politico ben più rilevante di quello dei predecessori, capì che, se si fosse veramente voluto fare il nuovo codice di procedura civile – siamo al quarto tentativo – non solo sarebbe occorso riunire in una virtuosa alleanza tutti e tre i più autorevoli processualisti (Carnelutti, Calamandrei, Redenti), ma sarebbe stato necessario altresì metterli dinanzi ad un obiettivo ben determinato e, per loro, indisponibile.
In altri termini, non si poteva chiedere ai tre grandi di preparare il codice da capo perché ciò, non solo avrebbe prolungato i tempi, ma avrebbe probabilmente suscitato discussioni che sarebbero state non meno memorande di quelle che, tredici anni prima, avevano condannato all’insuccesso il tentativo di Carnelutti e al fallimento il Ministero Rocco.
Facendo di necessità virtù, bisognava invece lavorare su quello che c’era. Quello che c’era era il progetto definitivo Solmi.
Pur nominando una nuova commissione, formata – sembra – da nove persone[32], Grandi si affidò ad un comitato ristretto: nell’ottobre del 1939 chiamò a sé in un incontro riservato Calamandrei, a cui era legato da rapporti di reciproca stima e finanche di amicizia, e gli disse – sono parole dello stesso Calamandrei – che «un suo incaricato, Conforti, avrebbe rielaborato il progetto Solmi, avvalendosi delle critiche mie, di Carnelutti e di Redenti»[33].
In altre e più chiare parole, il progetto Solmi, dopo essere stato diligentemente riordinato da Leopoldo Conforti (che, quale magistrato della procura generale presso la Cassazione, si occupava prevalentemente di diritto penale!), avrebbe potuto essere eventualmente interpolato, integrato e persino rielaborato sulla base delle osservazioni dei tre processualisti.
I lavori, iniziati sullo scorcio del 1939, si svolsero speditamente e il nuovo codice fu pubblicato il 28 ottobre 1940, per entrare in vigore, dopo una lunga vacatio, il 21 aprile 1942, accompagnato dalla celeberrima Relazione, scritta – come tutti sanno – da Calamandrei.
5. Il codice di Chiovenda o il codice di Calamandrei?
In una bellissima lettera del 14 febbraio 1955 a Luigi Preti, Calamandrei, con la solita incisività della sua inimitabile prosa, nel difendere il codice da chi lo apostrofava come “fascista”, avrebbe detto che esso costituiva l’eredità di un cinquantennio di studi[34].
Un’affermazione di difesa, formulata da colui che Salvatore Satta avrebbe ammirato come «uomo d’azione» e «giurista martire»[35]; e tuttavia un’affermazione difficilmente contestabile, ove si pensi a tutti i tentativi di riforma susseguitisi dalla fine della prima guerra mondiale, che avevano visto impegnato il gotha della processualcivilistica italiana e che erano sfociati nei progetti di Chiovenda, di Mortara, di Carnelutti e di Redenti, dei quali, non ostante il contesto autoritario e illiberale in cui era venuta maturando, non poteva non essere restata traccia nella nuova opera legislativa.
Ma chi era il vero “padre” del nuovo codice?
Se Redenti e Carnelutti non esitarono, il primo a prenderne le distanze[36], il secondo a proclamare la paternità delle idee e dei principi in esso recepiti[37], Calamandrei si schermì, affermando che il nuovo codice prendeva a base gli insegnamenti di Chiovenda[38].
A tale affermazione lo studioso fiorentino diede sostanza, citando sette volte il Maestro di Premosello nella Relazione, così consentendo il radicamento della diffusa ed autorevole opinione secondo cui il “codice del 1940” sarebbe il codice di Chiovenda[39].
In realtà, lo stesso Calamandrei era ben consapevole che più che degli altri grandi processualisti, il “codice del 1940” era il suo codice.
Non tanto per essere riuscito – sapientemente eludendo la ricezione nel testo normativo degli eccessi autoritaristici del progetto preliminare Solmi – nell’intento di mantenere la struttura tradizionale del processo civile quale processo dispositivo ad impulso di parte (artt.99, 112, 115, 306 ss. c.p.c.), limitando il modello inquisitorio ad un novero circoscritto di procedimenti dettati per la tutela di particolari situazioni soggettive, deputate alla protezione di interessi superiori ed indisponibili[40], nonché di conservare il principio della procedimentalizzazione dell’esercizio dei poteri del giudice, dinanzi alla possibilità di ampliarne a dismisura la discrezionalità e di consentirne persino l’arbitrio[41]; ma anche per aver vissuto, con consapevolezza e dignità, il dramma morale dello scienziato che si pone al servizio di un regime illiberale per dare ai suoi concittadini un codice migliore o, comunque, per risparmiargliene uno peggiore.
6. Calamandrei e i suoi maestri. La missione del giurista e il valore del codice.
Nel risolvere in senso positivo l’interrogativo etico se dovesse o meno rendere la collaborazione richiestagli da un governo che aveva ingiuriato i valori della libertà e della democrazia, quando essa collaborazione sarebbe potuta servire al miglioramento del Paese, Calamandrei mostrò di aver recepito le idee tramandategli dai suoi due grandi maestri in ordine alla missione del giurista.
Il 16 gennaio 1920, nel proludere dalla cattedra della facoltà giuridica di Siena[42], egli aveva ricordato, con commozione, la prolusione che ventidue anni prima aveva tenuto, dalla stessa cattedra, il suo «indimenticabile maestro», Carlo Lessona.
In quella circostanza Lessona, nell’indicare L’indirizzo scientifico della procedura civile, aveva posto in luce la posizione di grande responsabilità della scienza processuale, la quale avrebbe dovuto fondarsi sul «metodo storico, che ci rivela la evoluzione e le leggi del pensiero giuridico applicato al giudizio civile» e sull’analisi della legislazione comparata, per guidare il legislatore all’adozione, «sull’esempio degli altri Stati», dei «principi giuridici che vi fecero buona prova». Lessona aveva quindi concluso che egli studiava «pel vantaggio della Scienza e della Patria»[43].
Il riconoscimento alla scienza giuridica del ruolo di motore della crescita morale e civile del Paese si sarebbe ritrovato, di lì a qualche anno, anche negli scritti di Chiovenda, nei quali sarebbe stato espresso con le stesse parole utilizzate da Lessona.
Lo studioso di Premosello, infatti, aveva chiuso la celeberrima Prefazione alla terza edizione dei Principii del 1923, con l’avvertenza che quel lavoro trovava il suo ultimo fondamento nel «desiderio vivissimo di servire con tutte le [sue] forze la [sua] Scienza e la [sua] Patria»[44].
La comparazione tra la Prolusione lessoniana del 1898 e la Prefazione chiovendiana del 1923 consente di apprezzare che i due esponenti di scuole antagoniste, pur nell’ambito di contrapposte concezioni metodologico-scientifiche, avevano avuto tuttavia la medesima visione della scienza giuridica quale strumento indispensabile della crescita morale della Nazione e, dunque, l’identica sensibilità per la delicatezza e la responsabilità del ruolo del giurista, chiamato a servire non solo la Scienza ma anche la Patria.
L’eredità ricevuta dai suoi grandi maestri, fondata sul comune riconoscimento alla riflessione giuridica della dignità di strumento del progresso civile e politico della Nazione e sulla comune attribuzione al giurista del ruolo di propulsore della coscienza sociale nella direzione di quel progresso, non soltanto era stata posta da Calamandrei a presupposto di quella osmosi tra i due insegnamenti e i due metodi che ritroviamo alla base della sua opera più importante, il Trattato in due volumi su La Cassazione civile[45]; ma costituì anche il fondamento morale della scelta di collaborare in maniera decisiva ai lavori della commissione Grandi, impegnandosi in misura superiore agli altri studiosi nell’ambito del comitato ristretto, al fine di dar vita ad una legge che non fosse l’espressione di un regime, ma, appunto, delle diverse generazioni di studi che avevano fatto l’età aurea della scienza processuale italiana[46].
Il codice del 1940, sorto dal «desiderio vivissimo di servire la Scienza e la Patria», nel bene nel male (tra recriminazioni talora stucchevoli e progetti di cambiamento talora improponibili), governa ancora oggi le nostre controversie civili.
Indebolito certo, ma non ancora, per fortuna, travolto da propositi di riforma male intesi e peggio attuati.
[1] Legge 30 dicembre 1923, n. 2814: Delega al Governo per emendamenti al codice civile e per la pubblicazione dei nuovi codici di procedura civile, di commercio e per la marina mercantile in occasione della unificazione legislativa con le nuove Provincie, in G.U. 8 gennaio 1924, n.6.
[2] Aldo Oviglio, dapprima membro del partito radicale, poi militante nelle file dei nazionalisti, infine “fascista di maniera” (così, citando una frase attribuita al prefetto di Bologna, F. Conti, in Dizionario biografico degli italiani, Treccani, vol. 80, 2014), pur giustificando inizialmente le azioni squadriste, recuperò dignità umana e politica indignandosi per il delitto Matteotti e facendosi espellere dal partito per aver contrastato in sede parlamentare un disegno di legge lesivo dell’indipendenza della magistratura. Fu Ministro di grazia e giustizia del Regno d’Italia nel primo governo Mussolini, dall’indomani della marcia su Roma al 5 gennaio 1925.
[3] G. Tarello, L’opera di Giuseppe Chiovenda nel crepuscolo dello Stato liberale, in Materiali per una storia della cultura giuridica, III, 1, 1973, 766 ss.
[4] F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi - La procedura civile nel Regno d’Italia (1866-1936), Milano, 1991, 264.
[5] La decisione, manifestata oralmente all’esito della deludente seduta del 26 giugno 1924, fu poi formalizzata in una lettera del 2 luglio successivo, che Cipriani ha rinvenuto tra le Carte di Chiovenda a Premosello (cfr. F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 265, nota 23).
[6] Le dimissioni di Chiovenda, dapprima reiterate con lettera dell’8 luglio, furono revocate qualche settimana più tardi, dopo che il Ministro Oviglio aveva ribadito la sua intenzione di respingerle con due missive del 4 e del 23 luglio (cfr. F. Cipriani, ult. cit.).
[7] Così, nella veste di presidente della sottocommissione C, L. Mortara, Relazione al Ministro, in Commissione reale per la riforma dei codici. Sottocommissione C, Codice di procedura civile, Progetto, Roma, 1926, III-IV.
[8] Così P. Calamandrei, Note introduttive allo studio del progetto Carnelutti (1928), ora in Opere giuridiche, cit., I, 187 ss., part.197.
[9] Nel 1936 Mortara ci avrebbe informato che il progetto, «conosciuto sotto il nome autorevole del Carnelutti», era stato posto «in disparte» dal guardasigilli Alfredo Rocco (cfr. (L. Mortara), Recensione a Ministero di grazia e giustizia, Codice di procedura civile, in Giur. it., 1936, IV, 110). L’anno successivo Mariano D’Amelio, primo presidente della Corte di cassazione e già presidente della sottocommissione B, avrebbe, inoltre, rivelato che lo stesso Rocco, evidentemente insoddisfatto del progetto presentatogli, si era posto personalmente all’opera per scrivere un nuovo codice di procedura civile «omogeneo, italiano, fascista» (cfr. M. D’Amelio, Codice di procedura civile. Progetto del Ministro guardasigilli Alfredo Rocco, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 3).
[10] A. Barbera, Nazione e Stato in Alfredo Rocco, Andria, 2001, 99.
[11] Sebbene de Francisci fosse fedelissimo di Mussolini, va tuttavia ricordato che la sua dottrina sarebbe stata riconosciuta e onorata anche in epoca post-fascista: nel 1956 gli sarebbero stati consegnati i quattro volumi degli Studi in onore, con le adesioni, tra gli altri, di Carnelutti e Redenti; non avrebbe aderito, invece, Calamandrei.
[12] P. Calamandrei, Diario 1939-1945, a cura di G. Agosti, I, Firenze, 1982, 57.
[13] S. Riccobono, Studi in onore di Pietro de Francisci, I, Milano, 1956, VIII.
[14] Dei discorsi tenuti da de Francisci alla Camera e al Senato tra il 1933 e il 1934 ci informa F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti (e alle radici del codice di procedura civile) (2005 con postilla 2006), in Scritti in onore dei Patres, Milano, 2006, 347-348.
[15] Redenti si laureò a Roma con Vicenzo Simoncelli con una tesi su I magistrati del lavoro. Simoncelli, già allievo di Vittorio Scialoja, ne divenne il genero, sposandone la figlia Giulia (cfr. G. Chiovenda, Commemorazione di Vincenzo Simoncelli, letta nell’Aula Magna della R. Università di Roma il 14 febbraio 1918).
[16] Così E. Redenti, Sul nuovo progetto del codice di procedura civile, in Foro it., 1934, IV, 181. Pur nella forma enfatica dell’esposizione (che era figlia dei tempi e che ha indotto molti studiosi moderni – a cominciare da F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti, cit., 354 – a ritenere che il legislatore si muovesse nel quadro di una concezione autoritaria del processo civile che non prometteva nulla di buono per i diritti e le facoltà delle parti), la comunicazione di Redenti esprimeva un’esigenza reale, ancora oggi avvertita come attualissima: l’esigenza che il giudice arrivi alla trattazione della causa, adeguatamente informato sugli esatti termini della stessa, al fine di potere esercitare con proficua consapevolezza e auspicabile fruttuosità i poteri direttivi, istruttori, decisori e, prima ancora, conciliativi, non semplicemente formulando alle parti l’auspicio di mettersi d’accordo ma ponendole dinanzi ad un’ipotesi concreta di soluzione della controversia fondata su una prognosi allo stato degli atti, tenendo conto dell’effettivo thema decidendum e dello specifico thema probandum e, quindi, del (pur vago) fumus di fondatezza o infondatezza delle domande e delle relative eccezioni. Ciò che, a sua volta, presuppone, ovviamente, da un lato, che il giudice faccia uno studio preventivo delle carte di causa e, dall’altro, che al momento dell’inizio della trattazione in udienza, le parti abbiano già detto tutto, sia sul piano assertivo che sul piano istruttorio, nell’ambito di una discovery già adeguatamente compiuta.
[17] La circostanza risulta da una lettera del 2 febbraio 1935 del nuovo Ministro Arrigo Solmi allo stesso studioso di Premosello, rinvenuta da Cipriani tra le Carte Chiovenda e pubblicata da F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti, cit., 355.
[18] P. Calamandrei, Diario, I, 1939-1941, Roma, 2015, 62.
[19] Ministero di grazia e giustizia, Lavori preparatori per la riforma del codice di procedura civile. Schema di progetto del libro primo, Roma, 1936.
[20] Sotto il profilo strutturale, i 745 articoli del progetto Redenti non apparivano particolarmente innovativi: era previsto che, dopo gli atti introduttivi, le parti si ritrovassero dinanzi al giudice in una «udienza preparatoria» (peraltro fissata dal presidente con rescritto, e non individuata dall’attore con la citazione), conclusa la quale, se non si fosse addivenuti alla conciliazione, il presidente, sull’accordo delle parti, avrebbe fatto proseguire la causa dinanzi al giudice istruttore che, all’esito dell’assunzione delle prove, l’avrebbe rimessa al collegio. In caso di disaccordo, invece, le parti sarebbero state rimesse immediatamente al collegio per la trattazione delle questioni insorte, che sarebbero state decise con sentenza parziale, impugnabile solo con quella definitiva e previa riserva.
Sotto il profilo funzionale, invece, le novità erano molte giacché, nella prospettiva del rafforzamento dei poteri del giudice e della responsabilizzazione delle parti, era stabilito un sistema di preclusioni che impediva, in linea di principio, la modificazione delle conclusioni o la produzione di nuovi documenti; pertanto all’udienza preparatoria si arrivava con una discovery piena sia dal lato assertivo che dal lato istruttorio e con un thema decidendum e un thema probandum già sostanzialmente cristallizzati.
Il quadro era completato da un giudizio di impugnazione che si caratterizzava per un, piuttosto rigido, divieto di ius novorum, conformemente all’idea originariamente espressa da de Francisci di rendere l’appello un mezzo eccezionale, comunque configurato non come novum iudicium ma come mera revisio prioris instantiae.
[21] La Commissione, presieduta dallo stesso Solmi, era composta da tre magistrati (Gaetano Azzariti, Gaetano Cosentino, Giusepe Lampis) e da un avvocato (Guido Dallari) cui si aggiungeva, come detto, Redenti (unico professore).
[22] Lo studioso mantovano morì nelle prime ore del 1937, circondato dall’affetto dei familiari. Lo avrebbero ricordato sia Carnelutti (F. Carnelutti, Lodovico Mortara, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 103) che Calamandrei (P. Calamandrei, Lodovico Mortara, ora in Opere giuridiche, X, Napoli, 1985, 156) ma, in primis, proprio quel Chiovenda (G. Chiovenda, Lodovico Mortara, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 102) che era stato il rivale di una vita, il quale, a dispetto dell’usuale lenta meditazione con cui accompagnava l’uscita dei suoi studi, scrisse l’indimenticabile necrologio per Mortara in pochissimi giorni e lo declamò dalla cattedra l’11 gennaio 1937, alla ripresa delle lezioni dopo le vacanze natalizie.
[23] Lo studioso di Premosello morì il 7 novembre 1937. Lo avrebbero ricordato sia Carnelutti che Calamandrei nei memorabili necrologi pubblicati l’uno di seguito all’altro sulla Processuale (F. Carnelutti, Giuseppe Chiovenda, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 297 ss.; P. Calamandrei, Il nostro Maestro (Ricordo di Giuseppe Chiovenda), in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 301 ss.) ed avrebbe avuto, sempre, negli anni, l’imperituro affetto e la commovente devozione tanto dei suoi allievi, quanto degli allievi degli allievi. Peraltro, il regime dell’epoca (che, nell’Università di Roma, attraverso il rettore Pietro de Francisci, aveva uno dei suoi esponenti più rappresentativi) non solo omise di onorarlo, ma non si peritò di ferire i suoi familiari nel momento del dolore, negando loro il permesso di svolgere la cerimonia funebre all’interno dell’ateneo. La circostanza non deve meravigliare, giacché Chiovenda, pur provenendo dalla stessa scuola di de Francisci, ne aveva preso abbondantemente le distanze e, sul piano politico, era uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce nel 1925. Ma l’immagine, dipinta con la consueta incisività da Calamandrei (P. Calamandrei, Giuseppe Chiovenda (5 novembre 1937- 5 novembre 1947), in Riv. dir. proc., 1947, I, 169 ss., part.171), della salma che si avviava verso il camposanto, seguita dagli amici e dai discepoli piangenti, dopo che il rettore fascista non aveva permesso che il feretro sostasse nell’atrio dell’Università per ricevere i tradizionali onori funebri, restituisce al “nostro Maestro” un onore ancora più grande, quale persona che aveva camminato sulla via della scienza in piena dignità e libertà morale.
[24] Secondo F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti, cit., 361, il progetto preliminare Solmi costituiva il «trionfo dell’autoritarismo processuale». Per V. Andrioli e G.A. Micheli, Riforma del codice di procedura civile, in Ann. dir. comp., 1946, 209, si trattava addirittura di un progetto «poliziesco» perché non solo prevedeva il rafforzamento dei poteri d’impulso, dispositivi ed istruttori del giudice a discapito delle facoltà delle parti, soggette ad un rigido sistema di preclusioni, ma anche, a carico di queste e dei difensori, pesanti sanzioni pecuniarie, nonché l’abolizione dell’azione civile contro i giudici e la sostanziale impraticabilità della ricusazione.
[25] P. Calamandrei, Sul progetto preliminare Solmi, Relazione approvata dalla Facoltà di giurisprudenza della R. Università di Firenze nella seduta del 28 luglio 1937, ora in Opere giuridiche, cit., I, 295 ss.
[26] Così S. Satta, Interpretazione di Calamandrei, Discorso commemorativo letto nell’aula magna dell’Università di Firenze il 30 aprile 1967, in Soliloqui e colloqui di un giurista, Nuoro, 2004, 401 ss., part. 401 e 410.
[27] Così E. Redenti, In memoria di Piero Calamandrei, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 2.
[28] G. Monteleone, L’apporto di Piero Calamandrei al progetto definitivo Solmi del codice di procedura civile, in Giust. proc. civ., 2011, 2, 429 ss.
[29] Ministero di grazia e giustizia, Codice di procedura civile. Progetto definitivo e relazione del guardasigilli on. Solmi, Roma, 1939.
[30] E. Redenti, Sul nuovo progetto di codice di procedura civile (1962), in Scritti e discorsi giuridici di un mezzo secolo, II, Milano, 1962, 731 ss., part.757.
[31] P. Calamandrei, Sul progetto preliminare Solmi, cit., 310.
[32] Cfr., al riguardo, G. Melis-A. Meniconi, Il professore e il Ministro. Calamandrei, Grandi e il nuovo codice, in Piero Calamandrei e il nuovo codice di procedura civile (1940), a cura di Guido Alpa, Silvia Calamandrei e Francesco Marullo di Condojanni), Bologna, 2018, 125 ss..
[33] V. G. Melis-A. Meniconi, Il professore e il Ministro, ecc., cit., 131: Calamandrei avrebbe rilasciato queste dichiarazioni nella deposizione resa il 27 novembre 1947 dinanzi alla Corte d’assise speciale di Roma.
[34] P. Calamandrei, Lettera del 14 febbraio 1955 a Luigi Preti, in Lettere, Firenze, 1968, II, 446 ss., part. 450.
[35] S. Satta, Interpretazione di Calamandrei, cit..
[36] Nelle osservazioni inviate al Ministero il 12 agosto 1940 (citate da F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti, cit., 369) Redenti scrisse di essere stato contrario ad alcune scelte «totissimis viribus».
[37] F. Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, Roma, 1941, V.
[38] P. Calamandrei, Istituzioni di diritto processuale civile secondo il nuovo codice, Padova, 1941.
[39] V. M. Taruffo, Calamandrei e le riforme del processo civile, in Piero Calamandrei. Ventidue saggi su un grande maestro, a cura di P. Barile, Milano, 1990, 167 ss.
[40] Anche in questi procedimenti, che la dottrina avrebbe poi classificato nella categoria unitaria dei processi a contenuto oggettivo (cfr., sul tema, E. Allorio, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, 116 ss.; L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, in Riv. dir. civ., 1986, I, 596; F. Tommaseo, I processi a contenuto oggettivo, in Riv. dir. civ., 1988, I, 495 ss., 695 ss.) non si sarebbe rinunciato, peraltro, alla tecnica processuale dell’iniziativa di parte, seppur temperata dall’allargamento della categoria dei legittimati a proporre la domanda o dal conferimento del diritto di azione al pubblico Ministero, nonché dalla limitazione (ma mai dalla completa disapplicazione) dei principi della disponibilità delle prove e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Se non erro, le ipotesi di processo officioso puro storicamente conosciute dal nostro ordinamento sono state tre: quella prevista dall’art.6 legge fall. in ordine all’iniziativa per la dichiarazione di fallimento; quella prevista dall’art.8 della legge sull’adozione dei minori in ordine alla dichiarazione di adottabilità; quella prevista dall’art.29 della legge n. 1766 del 1927 in tema di promozione dei giudizi dinanzi ai commissari per gli usi civici. E di queste tre, le prime due (l’art.6 legge fall., nella sua formulazione originaria, è stato sostituito dall’art.4 del d.lgs. n.5 del 2006; l’art.8 legge sull’adozione legittimante, nel suo testo iniziale, è stato sostituito dall’art.8 della legge n.149 del 2001) sono state poi eliminate.
[41] Tra i punti in cui il nuovo codice si differenzia nettamente dalla concezione calamandreiana vi è quello, importantissimo, del ricorso e del giudizio di cassazione: il pensiero di Calamandrei, lucidamente esposto nel grande trattato del 1920, che, da costituente, egli avrebbe avuto modo di contribuire a scolpire nel monistico art. 111 della Costituzione (ove la violazione di legge sarebbe stata individuata come unico motivo di ricorso), nel codice di procedura civile del 1940 sarebbe stato sconfessato dal pluralista art. 360, che non solo avrebbe aggiunto alla violazione di legge la diversa fattispecie della falsa applicazione, ma avrebbe anche aperto al sindacato in cassazione degli errores in procedendo, nonché, recependo prassi giurisprudenziali sviluppatesi nel vigore del vecchio codice – ma da Calamandrei fermamente contestate –, al controllo, ancor più penetrante, della motivazione.
[42] P. Calamandrei, L’avvocatura e la riforma del processo civile (1920), ora in Opere giuridiche, II, 12 ss..
[43] C. Lessona, L’indirizzo scientifico della procedura civile, in Scritti minori, S. Maria Capua Vetere, 1911, 279 ss., part. 287-297.
[44] G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Terza ed., Napoli, 1923, XLIII-1328, part. XXIV.
[45] Sul punto ci si permette di rinviare alle osservazioni svolte nel nostro Rileggendo la Prefazione a La Cassazione civile: Calamandrei «allievo di due maestri», in Riv. dir. proc., 2020, 3, 1156 ss., part. 1172-1173.
[46] Per un più approfondito esame di tali tematiche – e, più in generale, per una analisi (attraverso il racconto delle opere, delle gesta e della vita dei protagonisti) di quella che è stata autorevolmente definita (A. Proto Pisani, Il processo civile di cognizione a trent’anni dal codice, in Riv. dir. proc., 1972, 37; C. Consolo, Il nuovo codice di procedura civile, in Piero Calamandrei e il nuovo codice di procedura civile (1940), cit., 229) l’età d’oro della scienza processuale italiana – ci si permette di rinviare al nostro I processualisti dell’età aurea – romantici, martiri ed eroi della procedura civile, Bari, 2021.
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