In ricordo di Giovanni Aricò, avvocato “antico” di Piero Gaeta*
Nell’ultimo libro della Storia di Roma, Tito Livio abbandona per un attimo il rigore dello storico e si concede ad una confidenza. Rende partecipe il lettore della sua sensazione, quasi intima, di essere “assorbito dal passato” e scrive: Nescio quo pacto animus antiquus fit (Non so come, l’anima si fa antica)”.
Confessa, in pratica, che “scrivendo di queste cose, l’animo, non so perché, si fa antico” con esse: quasi a voler comunicare al lettore - e lo fa magicamente, con pochissime parole, che molto affascinarono Benedetto Croce - il sentimento di immedesimazione con l’antico di un animo, che diventa contemporaneo alle cose descritte. Come se le cose davvero nobili del tempo passato fossero in grado di annullare il distacco temporale e costringessero ad immergersi in esse, guardandole, con commozione, nella loro contemporaneità; con grande nostalgia e senza lo sguardo distaccato dell’oggi.
Quando mi è stato proposto di ricordare Giovanni Aricò, mi è ritornata in mente questa meraviglia poetica di Livio, poiché ho pensato come questo grande Avvocato mi avesse, in realtà, sempre suscitato questa identica sensazione.
Leggendo i ricorsi che scriveva ed ascoltandolo in aula in diecine di processi qui in cassazione, ho sempre intuito ciò che poi mi si è completamente rivelato dopo la sua morte e quando su di essa ho riflettuto per questa celebrazione. E cioè che, leggendo o ascoltando il Professore Aricò, “l’anima, non so come, si faceva antica”, immergendosi in un passato dell’Avvocatura e della Magistratura ormai sparito, eppure talmente vivo da essere contemplato come in esso immersi, da esserne assorbiti. Ben oltre l’oggi.
Come se quel passato commovesse, emozionasse a tal punto da farlo quasi vivere come contemporaneità.
Poi mi sono interrogato sulla ragione per cui questo avveniva.
Come, cioè, fosse possibile che, nel rapporto tra due contraddittori quali il procuratore d’aula e l’avvocato difensore, si interponesse questo filtro di sentimento, di cose ultronee e diverse dal semplice confronto tecnico: estranee quasi ai ‘mestieri’ reciproci e, per molti aspetti, persino di ‘disturbo’ ai tecnicismi richiesti dalla funzione.
Ho capito che questo dipendeva dal fatto che Giovanni Aricò era un ‘avvocato antico’.
Non un “avvocato anziano”, quale era già quando lo conobbi; e neppure un “avvocato all’antica”, nel senso anche nobile di “avvocato alla vecchia maniera’: con l’etica professionale di un tempo, con il rispetto dei ruoli di un tempo, con la fiducia nella Giustizia di un tempo, con l’intelligente indipendenza di un tempo.
C’era tutto questo, ma c’era qualcosa in più e di più sottile che lo faceva percepire come ‘avvocato antico’. Precisamente, la consapevolezza che egli aveva di tutto questo, la dignità con la quale non si piegava ai tempi nuovi, l’orgoglio di poter essere “antico” in tempi in cui sembrava blasfemo o anche soltanto poco conveniente esserlo.
Essere ‘avvocato antico’ non significava tuttavia che fosse un avvocato ‘tenero’ o ‘facile’ per noi requirenti.
Al contrario, creava disagio, obbligava allo sforzo, esigeva l’impegno: da subito, dalla lettura dei suoi ricorsi.
Erano ricorsi mai giganteschi, mai prolissi, mai intimidatori per la loro ampiezza, sempre misurati: e nondimeno, perfette trappole, per l’accusa, piazzate nel giusto punto di debolezza della sentenza e con il giusto ingrediente di suggestione teorica.
Ma erano, appunto, delle perfette trappole perché avevano uno stile narrativo, appunto, di “avvocato antico”, che ingannava completamente. L’argomentazione partiva da lontano: quasi da margini della sentenza o del processo e determinava, in me che li leggevo (ma, ho poi scoperto, in moti dei miei colleghi più attenti) quasi un senso di sottovalutazione: niente terrorismi della citazione di massime; nessuna polemica spinta sulla sentenza o sui giudici di merito; all’apparenza, tecnicismo rarefatto e molta narrazione. Ma questa finta colloquialità e questa sorta di ‘racconto’ in cui si risolveva il vizio di motivazione o quello procedurale, quasi improvvisamente e senza avvisaglie stringeva in una censura, che inchiodava. Ed inchiodava sul profilo tecnico, non più sulle parole; sullo specifico sillogismo di diritto (“se è vero tutto questo, ne consegue necessariamente in diritto che…”), su di una conclusione che sembrava ineludibile.
Per cui, distintamente ricordo che tornavo indietro: a rileggere tutto, fino all’epigrafe del motivo, con un febbrile andirivieni dello sguardo e chiedendomi come fosse possibile. Come è possibile arrivare a questa conclusione, senza neppure quasi accorgersi della sua argomentazione?
I ricorsi del Professore Aricò erano così: con questo andamento carsico, questo apparente understatement del problema, questa argomentazione che pareva lasca, quasi innocua per le ragioni dell’accusa e che pareva lasciare ampi spazi per la sopravvivenza della sentenza. Sembrava un ricamo facilmente superabile, che poi si trasformava improvvisamente in una spina, ferma in mente. Avvedendosi, cioè, che nulla era scritto a caso, comprese le apparenti divagazioni, e che occorresse considerare tutto il testo, senza nulla escludere, nel quale nulla era superfluo o casuale o tributo alla retorica. Così, ci si cominciava ad inquietare, pensando che una cosa all’apparenza abbastanza semplice – per esempio, la critica ad una partecipazione associativa o un’aggravante di metodo mafioso – si fosse improvvisamente complicata, senza ben comprendere fino in fondo come e perché.
Si era complicata, in realtà, per questa tela di ragno argomentativa che un ‘avvocato antico’ aveva saputo tessere attorno: come solo gli ‘avvocati antichi’ sanno fare. Senza ‘frontalità’ di critica, se non quando, alla fine, serviva; senza durezza verbale, senza speculazione suggestiva.
Era il flusso dell’argomentazione, in realtà, ad impegnare e, poi, ad irretire.
E non ci si poteva ‘arrabbiare’ più di tanto, perché Giovanni Aricò non era tenero, non era facile, ma era amabile. Quando, infatti, si arrivava in aula, la mattina dell’udienza, era il suo sorriso aperto ad accogliere la nostra tensione, ma anche a smorzarla.
E qui si apriva il secondo confronto: dopo l’esame del suo scritto, la prova dell’aula. Parlo, ovviamente, di un mondo in via di estinzione, nel quale il contraddittorio era tutto consumato nella parola, giocato sulla sorpresa, non affidato a nessuno scritto, a nessuna ‘requisitoria da valere eventualmente come memoria del P.G.”.
Occorreva molta attenzione: perché dietro il sorriso apertissimo e dietro una cordialità vera; dietro le battute scambiate prima dell’udienza tra cui quella immancabile sul ‘suo Napoli’, il mio contraddittore celava un’abilissima strategia della discussione.
Che era, alla fine, quella di non avere un modello ingessato di strategia dell’intervento, ma di tararlo perfettamente all’ultimo, rispetto a ciò che avveniva in aula, a dopo la relazione e la requisitoria.
Solo chi possiede una grande intelligenza e sa impiegare un grande intuito può permettersi, in aula, i cambi di strategia in funzione della situazione. Se, cioè, indirizzare l’intervento difensivo esclusivamente su quanto appena ascoltato dal Procuratore generale, cogliendo, con straordinario tempismo e con un riflesso dialettico incredibile, ogni piccola crepa di esso; o – come qualche volta mi disse in qualche chiacchierata – giocare “in difesa”, parlando del ricorso ed ignorando il contraddittore d’accusa, perché in quel momento non conveniente. Ecco: Giovanni Aricò aveva tale padronanza e tale velocità di pensiero, dietro quella pacatezza e quel sorriso accennato con cui ti ascoltava mentre provavi a smontare il suo ricorso.
Ma questo non era affatto tranquillizzante. La requisitoria orale, in presenza di Giovanni Aricò, non poteva mai essere improvvisata o affidata all’estemporaneità, neppure nelle parti minori: perché si aveva la consapevolezza (certezza?) che la minima sbavatura o la più piccola superficialità sarebbe stata, di lì a poco, breccia per un intervento della sua cavalleria dialettica, che vi sarebbe entrata senza fare prigionieri, e sempre con il sorriso.
Nelle sue discussioni sapeva blandire l’accusa; accarezzare gli argomenti meno convenienti; cogliere la stanchezza o la normale disattenzione di qualche componente del collegio e dosare anche i toni per questo. Nelle prime udienze con lui contraddittore, mi stupiva quel suo improvviso rialzo della voce o quel suo agitare, in qualche momento, i fogli degli appunti tenuti in mano: quel suo ricorrere, nella paludata atmosfera della cassazione, ad una foga oratoria d’antan. Presto capii: non era retorica di ruolo, né concessione scenica magari verso colleghi più giovani, quanto piuttosto il suo modo, inimitabile, per ‘riprendersi’ il collegio, per catturare l’attenzione di ciascuno dei suoi componenti nell’attimo topico: l’attimo immediatamente precedente l’enunciazione del ‘colpo di diritto’, del principio chiave, della zeppa tecnica che avrebbe inceppato l’ingranaggio di una, altrimenti piana, conferma della sentenza.
Sapeva innestare davvero il dubbio e conosceva perfettamente i modi ed i tempi con cui innestarlo.
Giovanni Aricò era, al contempo, un avvocato ‘tecnico’. Sicuramente, non lo era nel senso riduttivo del termine, perché non ‘proteggeva’ la sua discussione con inutili paratie giurisprudenziali. Ma era, certamente, un avvocato estremamente attrezzato tecnicamente, perché nelle discussioni come nei ricorsi, traspariva quella sua passione per lo scandaglio del processo penale e degli istituti di diritto sostanziale e quello studio sistematico, approfondito di essi che gli derivava dal suo essere membro autorevole dell’Accademia. Poi, da una parola, da un piccolo riferimento all’apparenza innocente e persino insignificante intuivi anche il tutto tondo della sua cultura classica: capivi quel che ho saputo completamente dopo, e cioè che chi stava parlando aveva una dimestichezza incredibile e rara con la classicità; che, in passato aveva letto e tradotto, all’impronta, latino e greco; che aveva letto, a beneficio di chi non aveva più la vista – suo padre, professore di storia e di filosofia – interi volumi di filosofia e di storia del pensiero umano e li aveva, naturalmente, assorbiti, facendone fieno in cascina per la sua futura professione, dove, senza esibizione, spuntavano, di tanto in tanto, come uno spiraglio. Dal quale tuttavia si intravedeva, ancora una volta, questo mondo antico che oggi abbiamo, ahimè, perduto per sempre.
Ma tutto questo era sinergico al suo essere innanzitutto Avvocato: era la passione per questa funzione e la bravura con cui la interpretava a veicolare il suo sapere ‘tecnico’ in aula.
Era, insomma, la sua intelligenza di difensore ad essere la sua prima e più inclusiva dote.
Questo gli consentiva, al tempo stesso, una grande immediatezza nel rapporto umano. In tempi non semplici nei rapporti di noi Magistrati – specie di noi Magistrati di accusa - con l’Avvocatura, Giovanni Aricò sapeva essere diretto senza mai, in nessun momento e neppure per un attimo, dar l’impressione di venir meno al rispetto, al riconoscimento profondo del nostro ruolo. Sapeva, a volte, essere ‘confidenziale’ senza, per questo, confondere i linguaggi ed i contesti: più volte ci siamo trovati a commentare ‘fuori onda’ una vicenda processuale che ci accomunava (tra parentesi, sarebbe bellissimo, se si potesse farlo e se si trovassero gli interpreti giusti, coltivare queste possibilità di back stage dei processi in cassazione, queste chiacchierate dietro le quinte, dove ciascuna parte davvero comprenderebbe le ragioni dell’altra, le sue verità nascoste…) e lui sapeva dire il dicibile, proteggendo l’ineffabile, come direbbe il filosofo. Scambiare cioè confidenza e cordialità anche in modo informale, riuscendo sempre a riconoscere - ed a pretendere dal suo interlocutore- il preciso confine imposto dai nostri ruoli.
Per questo non l’ho mai percepito come un ‘antagonista’, percependo in lui l’identica sensazione.
Chiudo questo breve ricordo confessando due miei personali rimpianti: due cose che avrei voluto dire a Giovanni Aricò e che – forse per pudore o per timidezza o anche solo per questa terribile fretta padrona delle nostre giornate e delle nostre udienze – non gli ho mai detto e del cui silenzio ho oggi rammarico.
La prima, è di non averlo interrogato ed ascoltato abbastanza su questa antichità dell’Avvocatura, che – come quella della Magistratura – mi affascina oltremodo. Vengo da una famiglia in cui la professione di mio padre, magistrato, aveva costretto mia madre, avvocato (o come si dice oggi, avvocatessa) penalista, ad abbandonare una professione che si annunciava assai brillante. Allora queste cose, per amore, si facevano, anche perché le incompatibilità professionali tra coniugi erano severe e le distanze effettive: non ci si poteva spostare di Foro per esercitare, perché andare da Reggio Calabria a Palmi o a Locri a era un viaggio. Così mia madre – avvocato penalista iscritta tra le cinque donne, all’epoca, nell’Albo forense (questi erano i numeri, all’epoca e la parità di genere) – aveva lasciato la professione per dedicarsi a noi: ma aveva conservato la passione per ciò che aveva abbandonato, cercando si seguirla da lontano, con nostalgia. Un giorno – io ero poco più di un bambino, forse non avevo neppure dieci anni – mi fece vestire di tutto punto, dicendomi che saremmo andati in Corte d’assise, a Reggio Calabria, dove vivevamo, perché si celebrava un processo di omicidio. Mia madre - la cui famiglia aveva assai subito il regime fascista - mi disse che avrebbe parlato Alfredo De Marsico e che lei lo voleva sentire e che io avrei dovuto ascoltarlo, perché dopo avrei sicuramente capito il perché. Così avvenne: capii poco sul momento, molto compresi dopo.
Ma mi colpì da subito, in quella circostanza, il fatto che un uomo minuto, con i suoi grandi baffi bianchi e con questa toga indosso all’apparenza enorme, volteggiasse con le parole come con una musica e realizzasse con esse e con i suoi gesti il silenzio religioso di tutta l’aula e di tutto il pubblico, senza che a nessuno fosse permesso distogliere, neppure per un attimo, lo sguardo da lui. Per più di un’ora, il tempo fu sospeso e quando finì ed andammo via, mia madre mi disse: “Ecco, ricordati, oggi hai ascoltato Alfredo De Marsico, il più grande di tutti”.
Avrei voluto raccontare questo episodio, in sé banale fuorché per me e per il mio romanzo di formazione, a Giovanni Aricò. Lo avrei voluto interrogare a lungo su quella avvocatura, quella meravigliosa fucina napoletana di avvocati, quel modo di pronunciare l’arringa, quella diversità rispetto all’oggi. Lo avrei voluto (e dovuto) compulsare a spiegarmi questo tragitto del processo visto dalla parte dell’avvocato che lo aveva vissuto e farmi spiegare bene cosa fosse l’oratoria di una volta e quali fossero le sue magie.
Non l’ho mai fatto e me ne rammarico molto.
Il secondo rimpianto è non avergli mai detto che sapevo del dolore della sua vita e che lo condividevo silenziosamente. Il dolore non disperso, che si assorbe e si vive fino in fondo e senza spalmarlo sugli altri perché sia più leggero ed accettabile, è ciò che, paradossalmente, più ci fa vivere bene: da uomini di fronte alla verità della vita ed alla realtà della morte.
Intuivo questo tipo di dolore in Giovanni Aricò e avrei voluto semplicemente dirgli, a distanza di anni dalla sua origine, che lo sapevo e che lo ammiravo anche per questo, senza compatimento, ma con ammirazione vera, muta; senza consolazione, perché per questi dolori non c’è consolazione.
Non l’ho fatto e me dispiace molto ora. So che, quasi certamente, se lo avessi fatto, non mi avrebbe risposto nulla, non avrebbe affidato alle parole nessun commento: ma mi avrebbe fatto probabilmente comprendere, con quel suo sorriso aperto ed il suo sguardo diretto, che aveva perfettamente capito ciò che volevo comunicargli.
* Discorso tenuto il 9 febbraio 2023, in occasione del trigesimo della morte del Prof. Giovanni Aricò, commemorazione organizzata dalla Camera Penale di Roma.