La libertà di espressione tutela anche FEMEN. La Corte EDU bacchetta la Francia
di Gabriella Luccioli
1. Ha destato molto scalpore la decisione della Corte EDU del 13 ottobre scorso che accogliendo il ricorso di Eloise Bouton ha ravvisato nella pronuncia dei giudici francesi di condanna della donna per esibizione sessuale (exhibition sexuelle) una violazione dell’art. 10 della Convenzione e condannato lo Stato convenuto al risarcimento del danno morale.
La vicenda è nota. La Bouton era un’attivista di FEMEN, movimento femminista radicale fondato a Kiev nel 2008 per denunciare l’immagine delle donne in una Ucraina postsovietica corrotta, che offriva le donne come spose in vendita o le rendeva oggetto di turismo sessuale.
Nel suo manifesto costitutivo l’associazione sosteneva che il suo obbiettivo era la vittoria sul patriarcato, nelle sue articolazioni principali: l’industria del sesso, la religione e la dittatura. Nata come movimento contro il regime del proprio Paese (analogamente a quanto avveniva in Russia, dove il collettivo PUSSY RIOT si opponeva al proprio sistema politico), FEMEN assunse nel tempo dimensioni internazionali ed estese la sua azione militante ad una vasta gamma di battaglie politiche: dalla difesa dei diritti delle donne in tutto il mondo alle posizioni della chiesa cattolica e di quella ortodossa, alla lotta contro i regimi autoritari.
Il movimento, autodefinitosi femminismo del terzo millennio, scelse come modalità di realizzazione in pubblico delle proprie proteste l’ostentazione di seni nudi sui quali erano vergati slogan e messaggi politici: una pratica chiaramente dirompente e provocatoria volta a combattere l’immagine stereotipata della donna come oggetto sessuale e a rivendicare la libertà di disporre del proprio corpo, secondo una prospettiva che in qualche modo richiamava il biopotere di Foucault.
Nella filosofia del movimento il riconoscimento del legame profondo tra percezione corporea e partecipazione alla vita pubblica imponeva la scelta di far parlare il proprio corpo nel modo più aperto e diretto, così da raggiungere attraverso l’esibizione di sé la piena indipendenza e la liberazione da ogni forma di controllo da parte della politica, della religione e del conformismo imperante. Al tempo stesso il linguaggio del corpo sopperiva, nella sua efficacia dissacrante, alla inadeguatezza della sola parola.
L’esposizione del seno nudo divenne il segno distintivo del gruppo: il proclama il mio corpo è il mio manifesto esprimeva una concezione del corpo non più come oggetto di desiderio o di piacere da parte dell’uomo, ma come emblema di libertà, come una tela sulla quale tracciare in modo sintetico ed efficace, per slogan, l’oggetto delle proprie battaglie e la propria visione del mondo, come uno strumento di affermazione politica e sociale. Restava così conclamato il progetto di utilizzare un corpo veicolo che si faceva mezzo e messaggio e che attraverso tale funzione riscattava il corpo sfruttato delle donne.[1]
Tale progetto dette peraltro luogo ad una accesa polemica con alcuni settori delle femministe islamiche, che in quegli anni - al contrario di oggi - rivendicavano la scelta di coprirsi come atto di autodeterminazione e quindi di libertà.
Il 20 dicembre 2013 la Bouton aveva inscenato una protesta contro le posizioni delle autorità ecclesiastiche nel mondo ostili alle pratiche abortive esponendosi a seno nudo all’interno della chiesa parigina de la Madeleine con il capo coperto da un velo azzurro, ad imitazione dell’immagine della Madonna, mostrando scritte sul torace e sulla schiena, recitando slogan a voce alta e tenendo in mano pezzi crudi e sanguinolenti di fegato di manzo, a simboleggiare il feto e l’aborto di un piccolo Gesù, che aveva poi deposto ai piedi dell’altare.
L’esibizione non era avvenuta durante una celebrazione liturgica, ma nel corso di una ensemble vocale. Essa aveva avuto breve durata, in quanto a richiesta del direttore del coro la Bouton si era subito allontanata in silenzio. Come era prevedibile, la vicenda aveva trovato grande risonanza nel circuito dell’informazione, per essere stata ampiamente pubblicizzata dai giornalisti presenti, preavvertiti dalla stessa donna.
Il 7 gennaio 2014 la Bouton era stata sottoposta a custodia cautelare. Il 15 ottobre 2014 il Tribunale penale di Parigi la aveva ritenuta colpevole del reato di esibizione sessuale previsto dall’art. 222-32 c.p. (che nella formulazione applicabile ratione temporis puniva l’esibizione sessuale imposta alla vista degli altri in un luogo accessibile al pubblico) e la aveva condannata ad un mese di reclusione con sospensione semplice ed al risarcimento dei danni morali al rappresentante della parrocchia. Tale pronuncia era stata confermata dal giudice di appello il 15 febbraio 2017. La Corte di Cassazione con sentenza del 9 gennaio 2019 aveva infine respinto il ricorso dell’imputata, ravvisando la sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestato, per essere stata detta esibizione volontariamente commessa in una chiesa aperta al pubblico, rilevando inoltre che doveva prescindersi dai motivi che avevano ispirato la condotta della donna e che la condanna penale non determinava un’eccessiva interferenza con la libertà di espressione, dovendo tale libertà conciliarsi con il diritto degli altri, riconosciuto dall’art. 9 della CEDU, a non essere disturbati nella pratica della propria religione.
La Bouton aveva proposto ricorso alla Corte EDU lamentando la violazione dell’art. 10 della Convenzione: specificamente aveva sostenuto che l’ingerenza dello Stato nella sua libertà di espressione non era conforme alla legge ai sensi del paragrafo 2 della norma denunciata, né poteva considerarsi misura necessaria in una società democratica, secondo il medesimo disposto normativo. Al riguardo aveva osservato che la sua azione non era gratuitamente offensiva o diretta a disturbare i fedeli presenti nella chiesa, ma mirava a veicolare un messaggio di contestazione delle posizioni della Chiesa cattolica sull’aborto. Aveva aggiunto che la gravità della condanna ad una pena detentiva, pur sospesa, induceva ad escludere la proporzionalità dell’ingerenza commessa sulla sua libertà di espressione.
Con la sentenza in esame la Corte EDU ha accolto il ricorso, ritenendo che l’ingerenza sulla libertà di espressione della Bouton posta in essere con la condanna alla pena detentiva sospesa non fosse necessaria in una società democratica.
In particolare la Corte di Strasburgo ha ricordato che la libertà di espressione è un principio fondamentale in una società democratica e che tale libertà ha riguardo non solo alle informazioni, ma pure alle idee, a tutte le idee, anche a quelle che offendono o disturbano il sentire della collettività; ha inoltre osservato che ai sensi del comma 2 dell’art. 10 l’ingerenza del potere pubblico sull’esercizio del diritto di libertà di espressione è lecita solo ove ricorrano le specifiche circostanze ivi previste. Nell’ambito del necessario bilanciamento tra il diritto della ricorrente di manifestare le proprie idee sui diritti delle donne e quello degli altri al rispetto della morale e dell’ordine pubblico la Corte ha rilevato che la questione della nudità del seno in un luogo di culto non poteva essere riguardata, come aveva fatto il giudice nazionale, isolatamente rispetto alla performance complessiva ed ignorando il significato che la ricorrente intendeva attribuire all’esibizione di sé e la portata dei messaggi trascritti sul suo corpo; ne derivava che il bilanciamento operato dai giudici nazionali non era adeguato né conforme ai criteri stabiliti dalla sua giurisprudenza, tenuto anche conto che una pena detentiva è compatibile con la libertà di espressione solo in presenza di situazioni eccezionali, in particolare quando altri diritti fondamentali siano stati gravemente violati, come nel caso della diffusione di incitamenti all’odio o alla violenza: nella fattispecie in esame la condotta delle Bouton non solo non esprimeva alcun sentimento di odio né incitamento alla violenza, ma aveva come unico obbiettivo quello di contribuire, con una performance volutamente provocatoria, al dibattito pubblico sui diritti delle donne, ed in particolare sul diritto all’aborto.
Infine, soffermandosi sull’ultimo elemento sottoposto alla sua valutazione, quello relativo alla necessità dell’intervento giudiziario in una società democratica, ha ritenuto che l’interferenza del giudice penale non fosse necessaria, attesa la non rispondenza dell’azione intrapresa dai tribunali francesi ad una esigenza sociale impellente e la sua non proporzionalità rispetto ai fini perseguiti, e considerato che non era stato valutato da detti giudici se l’azione della ricorrente, in tutte le sue modalità, fosse gratuitamente offensiva per le coscienze religiose.
La sentenza era seguita dal parere della giudice Simaykova, che nel concordare pienamente con il decisum del Collegio se ne discostava nel percorso argomentativo, contestando che l’ingerenza commessa fosse prevista dalla legge e perseguisse uno scopo legittimo: rilevava al riguardo che a suo avviso la sanzione inflitta, prima ancora che eccessiva, appariva emessa al di fuori delle previsioni di legge, in quanto adottata a tutela del pudore dei credenti e della loro libertà di coscienza e di religione, ossia per uno scopo diverso da quello sotteso alla norma incriminatrice. Aggiungeva che l’accusa di esibizione sessuale contestata in giudizio era comunque priva di fondamento, in quanto nessuno dei presenti nella chiesa era stato aggredito sessualmente; era vero piuttosto che il mezzo di espressione adottato era puramente politico e non era stato in alcun modo sessualizzato. Ricordava infine che l’arte e la cultura francesi erano ricche di esempi di seni nudi femminili e citava al riguardo il quadro di Manet Dejeuner sur l’herbe ed il seno nudo di Marianna.
2. La sentenza della Corte EDU favorevole alla ricorrente è stata oggetto di aspre critiche da parte di molti commentatori[2], chiaramente colpiti dalla sgradevolezza di alcuni particolari della rappresentazione posta in essere dalla Bouton e dalla sacralità del luogo. E tuttavia una decisione siffatta appare in qualche misura scontata, in quanto del tutto in linea con i precedenti della stessa Corte in materia, ampiamente richiamati in motivazione.
Va innanzi tutto rilevato che l’imputazione di esibizione sessuale contestata dai giudici francesi in assenza in quell’ordinamento di fattispecie penali che tutelino le confessioni religiose e la libertà di religione presentava evidenti profili di incongruità, in quanto isolava - come puntualmente osservato nella sentenza in esame - un frammento dell’intera performance della Bourion, depurandolo della sua effettiva portata e delle sue finalità: ed invero l’estrapolazione dell’esibizione del busto dal quadro complessivo dell’azione di protesta deprivava detta ostentazione della sua funzione comunicativa e della sua carica polemica, attribuendole una capacità di offendere la sessualità e il pudore delle persone certamente estranea alle intenzioni della manifestante, prima ancora che contrastante con il sentire della collettività, da tempo assuefatta alla visione delle nudità femminili, non soltanto in campo artistico, ma anche nella stampa, nelle trasmissioni televisive e nella pubblicità.
Appare pertanto pienamente condivisibile il parere della giudice Simaykova lì dove afferma che in realtà la condanna del giudice francese è stata pronunciata a tutela della libertà di coscienza e di religione degli astanti, ossia per uno scopo diverso da quello previsto dall’art. 222-32 c.p., volto a tutelare i cittadini da aggressioni sessuali.
E tuttavia va considerato che, come correttamente osservato dalla sentenza in esame, la Corte di Strasburgo non era chiamata a pronunciare sulle tecniche utilizzate dal legislatore per regolamentare un settore del diritto, né sugli elementi costitutivi del reato di esibizione sessuale previsto nel codice penale francese, spettando alle autorità nazionali interpretare e applicare il diritto interno, quindi valutare i fatti controversi e il loro contesto di riferimento, infine riscontrare la sussistenza di tutti gli elementi integranti la fattispecie criminosa.
Tanto meno era riconducibile alle attribuzioni della Corte Europea ogni sindacato sulla correttezza della imputazione penale in relazione ai fatti accertati.
Compito della Corte era quello di accertare se la condanna del giudice penale francese integrasse una violazione dell’art. 10 della Convenzione, ossia se i metodi adottati da detto giudice e le conseguenze che ne erano derivate fossero conformi alla Convenzione.[3] Nell’ambito di tale valutazione la sentenza ha correttamente richiamato i propri precedenti in materia, sia con riferimento al valore fondamentale della libertà di espressione, in tutte le sue forme, sia in ordine alla ricorrenza dei motivi legittimi di ingerenza elencati nel capoverso dell’ art. 10 della Convenzione, sia alla sussistenza del requisito della necessità dell’intervento giudiziario in una società democratica, ai sensi del medesimo capoverso, sia infine in relazione alla compatibilità con la libertà di espressione della pena detentiva inflitta.
Come è noto, nella prospettiva del giudice di Strasburgo la libertà di espressione, pietra angolare di ogni sistema liberale, riveste una dimensione funzionalistica, in quanto è volta all’affermazione del pluralismo democratico prescindendo dal contenuto dell’opinione espressa, dai suoi obbiettivi e dalla sua rilevanza sociale[4]. Essa è meritevole di tutela in ogni sua modalità, sia in quella del linguaggio parlato, scritto o dei segni, sia in quella delle immagini.
In questa prospettiva, a partire dalla storica sentenza Handyside c. Regno Unito del 1976 - con la quale la Corte EDU affermò che la libertà di espressione costituisce una delle condizioni fondamentali per il progresso di ogni società democratica e per lo sviluppo di ogni individuo e che tale libertà è garantita non solo alle informazioni o alle idee accolte favorevolmente dal sentire collettivo o allo stesso indifferenti, ma anche a quelle che offendono lo Stato o qualsiasi fascia della popolazione, in ragione del pluralismo, della tolleranza e dello spirito di apertura senza il quale non esiste una società democratica - detta Corte ha progressivamente esteso l’ambito della libertà di espressione, in essa ricomprendendo anche la forma ed il mezzo con i quali informazioni ed idee sono manifestate, corrispondentemente riducendo la portata delle clausole limitative poste dal capoverso dell’art. 10, per loro natura di restrittiva interpretazione.
Si trattava quindi nella specie di verificare se le sanzioni imposte dal giudice penale fossero previste dalla legge e se costituissero misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l’integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, così come disposto dal richiamato capoverso.
Al riguardo la Corte di Strasburgo ha osservato che l’ingerenza dello Stato aveva fondamento legale, in quanto prevista dall’art. 232-22 c.p., ma nel compiere la necessaria verifica se l’interferenza dello Stato fosse diretta a conseguire uno dei fini legittimi elencati nel comma 2 dell’art. 10 ha rilevato che, pur tenuto conto del margine di apprezzamento riservato al giudice nazionale, la condanna pronunciata da detto giudice non poteva considerarsi compatibile con la tutela accordata dal primo comma alla libertà di espressione, in quanto emessa prescindendo dal necessario bilanciamento tra interessi divergenti, costituiti da un lato dal diritto della ricorrente di comunicare in pubblico e dall’altro dal diritto delle persone al rispetto della morale e dell’ordine pubblico. Infine, con riguardo all’elemento della necessarietà dell’intervento in una società democratica, nel senso fatto proprio dalla sua giurisprudenza di rispondenza ad un bisogno sociale impellente, la Corte ha escluso tale necessità, attese le concrete modalità con le quali l’ingerenza era stata posta in essere e considerata anche la natura detentiva della pena inflitta, che integrava una delle forme più gravi di ingerenza nel diritto alla libertà di espressione e che secondo i propri consolidati assunti può trovare giustificazione soltanto in presenza di circostanze eccezionali, quando altri diritti fondamentali siano stati gravemente violati.
In ogni passaggio il percorso argomentativo della sentenza si sviluppa in piena aderenza agli indirizzi della stessa Corte, puntualmente e copiosamente richiamati: inserita nella trama di detti arresti, la decisione adottata non può essere intesa - secondo quanto da alcuni sostenuto - come un’ulteriore offesa alla libertà religiosa, come una aberrante patente di legittimità di un gesto blasfemo, ma come una dimostrazione di coerenza e di tenuta del sistema. È noto invero che nella giurisprudenza convenzionale il giudice interpreta il testo scritto della Convenzione secondo strumenti concettuali diversi dai canoni generali ed astratti propri della nostra tradizione giuridica, affidando l’interpretazione alla ricerca e al rispetto del precedente, con una particolare attenzione alle specificità del caso concreto ivi esaminato, per verificarne la sovrapponibilità con quello oggetto di esame, in una logica ispirata alla tradizione giuridica dei paesi di common law.
3. La condotta dell’attivista Bouton appare senza dubbio fortemente provocatoria e sgradevole, sia per le sue modalità, accuratamente scelte nei dettagli per impressionare e per suscitare reazioni forti, sia per la sacralità del luogo in cui è stata posta in essere. Essa aveva la capacità di offendere la sensibilità e il sentimento religioso degli astanti e certamente nell’ordinamento italiano avrebbe trovato sanzione in specifiche ipotesi criminose, come quelle previste dagli artt. 403 e ss. c.p., modificati dalla legge n. 85 del 2006, ma una volta esclusa, come già osservato, ogni discussione circa la correttezza della contestazione da parte dei giudici francesi del reato di esibizione sessuale ai sensi dell’art. 222-32 c.p., la questione riguardava unicamente la possibilità di ricondurre la condanna penale ad una delle ipotesi che eccezionalmente consentono la limitazione della libertà di espressione.
L’operazione, scaturita dalla suindicata imputazione, di estrapolazione dal contesto del fatto di esibirsi in pubblico, così sanzionando la donna per il solo essersi mostrata a seno nudo, ha indotto i giudici francesi ad una sentenza che ha ignorato il significato e le finalità del gesto, attribuendogli una insussistente connotazione sessuale, e dunque ad una condanna che non poteva non essere riguardata dal giudice europeo come una illegittima ingerenza nella libertà di espressione, non avendo nulla a che fare né con la libertà di coscienza o religione né con altri diritti eventualmente in conflitto con quel diritto primario.
[1] Per qualche approfondimento sulla natura e sulle finalità dell’associazione v. CHANNELL, Is sextremism the new feminism? Perspectives from Pussy Riot and FEMEN, in National papers, 2014; DUNGAY, “Our mission is protest”: FEMEN, toplessness and female spectacle, University of Plymouth. 2018; LOMBARDI, L’altra metà del cielo: le Femen in Ucraina, in lospiegone.com, 14 febbraio 2019; TURRI, FEMEN, un movimento che sfida il potere, in novantatrepercento.it, 4 dicembre 2017.
[2] V. per tutti PUPPINCK, La CEDU sempre più strabica nella “tutela” dei “diritti umani”, in provitaefamiglia.it, 15 ottobre 2022; RONCO, Caso FEMEN: per la CEDU la libertà religiosa può essere calpestata, in www.centrostudilivatino, 19 ottobre 2022. In senso favorevole v. ROBOTTI, Ci sarà pure una giudice a Strasburgo: il caso dell’attivista “FEMEN”, in goodmorninggenova.org, 17 ottobre 2022.
[3] Sui livelli di revisione della Corte EDU in materia di libertà di espressione v. GORI, Libertà di manifestazione del pensiero, negazionismo, hate speech, in Speciale Questione Giustizia, aprile 2019.
[4] V. in tal senso CARDONE, L’incidenza della libertà d’espressione garantita dall’art.10 CEDU nell’ordinamento costituzionale italiano, in osservatoriosullefonti.it, 2012, n. 3.