Ricordo di Mario Petrucci, un magistrato non comune
di Giovanni Cannella
Mario Petrucci ci ha lasciato. Il ricordo di un collega o di un amico sfocia spesso nell’esagerazione, nell’eccessiva enfasi su pregi e meriti, nella necessità di riempire righe e pagine con parole altisonanti. Per Mario il rischio è inverso, e cioè di non avere spazio sufficiente per dire tutto, per descrivere compiutamente di chi stiamo parlando.
Perché Mario non è stato un magistrato comune, ha fatto la storia della giustizia del lavoro a Roma e in poche pagine riuscirò a dire solo una piccola parte di quello che ha rappresentato.
L’ho conosciuto quaranta anni fa, quando nel 1983 sono arrivato alla Pretura del lavoro di Roma, dove lui lavorava da alcuni anni ed era già, come si dice, una colonna dell’ufficio. Preparatissimo, autorevole, carismatico. Fui subito attirato verso di lui, come molti altri, ed ebbi la fortuna di diventarne presto amico.
Dicevo che Mario non era un magistrato comune, perché non gli è bastato possedere un’elevatissima preparazione giuridica, una grande capacità e un fortissimo intuito nell’applicare le norme ai casi concreti, tutto ancorato ad una solida piattaforma culturale e ad un’alta sensibilità umana. Non gli è bastato vivere il proprio ruolo di magistrato con la massima efficienza, con capacità organizzativa nel gestire i propri fascicoli. Non gli è bastato, nell’assumere le decisioni, avere come faro la Costituzione e in particolare il principio di eguaglianza sostanziale a tutela dei lavoratori, quali soggetti deboli del rapporto di lavoro. Non gli è bastato il buon senso, la ragionevolezza, l’aspirazione alla giustizia sostanziale nello svolgimento del proprio lavoro.
Non gli è bastato, in sostanza, fare bene il proprio lavoro: ha sempre guardato oltre il proprio orticello, verso l’efficienza complessiva e la trasparenza dell’ufficio. Non monade isolata, quindi, ma protagonista e guida verso il migliore e più corretto funzionamento della giustizia del lavoro.
Questo diverso modo di intendere il magistrato mi ha subito attirato nella sua orbita, come è successo per molti altri. Si è creato un gruppo intorno a lui di colleghi che avevano le stesse aspirazioni e che lo riconoscevano come capo, come guida. Mi limito qui a ricordarne solo uno, Giacinto Di Nardo, che ci ha lasciato troppo presto e che a me ha insegnato, tra le altre cose, la coerenza senza compromessi.
Ma la guida era Mario. Lui ci dava la certezza che quello che facevamo era giusto, anche quando si trattò di scelte estreme che ci esposero a reazioni negative e all’isolamento nell’ufficio.
Fu la stagione più calda, che durò una decina anni. Non potevamo accettare la nebbia intorno alle modalità di assegnazione delle cause e cominciammo a controllare i registri, scoprendo innumerevoli violazioni dei criteri automatici. Protestammo, prima direttamente con il dirigente, poi rivolgendoci al Csm.
Quanto abbiamo scritto! Intorno a Mario, nella sua stanza, redigevamo decine e decine di lettere, documenti, esposti. Ma era lui che conduceva, che dava il la’, che ci caricava. Purtroppo troppi colleghi non ci seguirono, probabilmente per quieto vivere. Eravamo comunque una decina e continuammo per anni, subendone anche le conseguenze: da pareri parzialmente negativi nelle valutazioni di idoneità, a procedimenti disciplinari privi di fondamento, a strategie di isolamento dagli altri colleghi. Alla fine la spuntammo, costringendo il dirigente al trasferimento volontario al fine di evitare il trasferimento d’ufficio. Quando lo comunicammo felici a Mario, ci smontò, perché avrebbe voluto il risultato pieno. Era fatto così: pessimista e perfezionista.
Quanto agli aspetti organizzativi gli interventi e le sollecitazioni di Mario furono a tutto campo. Mi limiterò ad indicare i più importanti.
Fu tra i primi a comprendere l’utilità e le potenzialità del computer e dell’informatica ai fini della modernizzazione ed efficienza della macchina giudiziaria, ben prima di molti giudici ragazzini, che avrebbero dovuto essere più recettivi di fronte alle novità tecnologiche. I primi tre Commodore 64 comparvero sulle scrivanie di Mario, mia e di Giacinto già nel 1986 (quando Mario aveva già 45 anni!). I primi della sezione lavoro di Roma e forse di tutta la Pretura.
Non solo! Mario si fece promotore dell’informatizzazione degli uffici di cancelleria alla fine degli anni ’80, nell’intuizione che si trattava di un obiettivo fondamentale per la trasparenza e l’efficienza dell’ufficio. Passammo due anni io e lui con i funzionari dell’IBM per lavorare al programma, ma fu soprattutto Mario determinante per una splendida analisi funzionale, nella quale le esigenze della cancelleria erano pienamente coordinate con le esigenze dei magistrati e degli utenti.
Fu uno dei promotori del coinvolgimento degli avvocati e delle forze sociali per ottenere l’aumento dell’organico dei magistrati della sezione, ampiamente sottodimensionato, che sfociò nella formazione di un Comitato, essenziale strumento di sollecitazione dell’opinione pubblica e di intervento presso varie autorità, fino agli incontri con il Ministro della giustizia Vassalli, che dopo alcuni anni portò ad un consistente aumento del numero dei giudici.
Mi piace poi ricordare una vicenda che ha dell’incredibile e che dimostra come Mario non accettasse limiti, spingendosi anche al di là dei normali canali istituzionali. Alla fine degli anni ’80 era previsto il trasferimento della Sezione lavoro da Piazzale Clodio ad un’ex caserma di viale Giulio Cesare, dove ancora oggi si trova. Ebbene scoprimmo nell’imminenza del trasferimento che i locali che ci dovevano ospitare erano privi di collaudo (dovevano sopportare il peso non indifferente di armadi, fascicoli, magistrati, personale, avvocati e utenti, con elevata densità in spazi limitati), non era previsto l’ascensore, né le scale di emergenza (si trattava di due piani, più il piano terra a cui si accedeva da una rampa di scale). Ebbene ci recammo personalmente io, Mario e Giacinto dai Vigili del fuoco e presso la ASL per pretendere gli interventi necessari, che solo grazie a questa attività extra ordinem, furono decisi e realizzati.
E mi fermo qui, ma ci sarebbe tanto altro da dire!
In sostanza Mario era il vero capo dell’ufficio, ben prima che lo diventasse formalmente, e non gli importava che tali iniziative potessero essere ascritte ai meriti del formale dirigente. A lui importava il risultato nell’interesse del funzionamento della giustizia del lavoro romana.
Alla fine degli anni ’90 le nostre strade si divisero: io andai in appello, lui dopo qualche anno diventò appunto presidente della sezione. Molti colleghi mi hanno parlato di quello che ha fatto dopo per la sezione, come l’ha riorganizzata, quante soluzioni ha ideato e realizzato, ma non ce ne sarebbe stato bisogno, non poteva essere diversamente.
Ho continuato a frequentarlo come amico fino alla fine e mi si è aperto il cuore quando poco tempo fa mi ha detto che era contento di aver vissuto quegli anni di battaglie in un gruppo che gli aveva dato tanto. Sentirlo da lui che non si apriva spesso mi ha fatto stare bene.
Ciao Mario. È stato un privilegio stare al tuo fianco!