Sommario: 1. Il ruolo sociale del giudice. - 2. Come interpretare le pronunce delle Corti europee centrali. - 3. Il rinvio pregiudiziale come strumento di dialogo tra i giudici nazionali e la CGUE. - 4. Le interrelazioni normative. - 5. Il divieto di discriminazioni. - 6. Varie configurazioni del principio di uguaglianza. - 7. Il principio di uguaglianza nel sistema del Consiglio di Europa. - 8. Il principio di uguaglianza in ambito UE. - 9. Le discriminazioni. Linee di tendenza. - 9.1. In particolare: la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. - 10. La tutela della dignità e della salute nel rapporto di lavoro. - 11. Conclusioni.
1. Il ruolo sociale del giudice.
L’impatto delle decisioni delle Corti europee centrali su quelle dei giudici civili nazionali e quindi sull’operato della Corte di cassazione è imponente e si può dire che non solo riguardi – in modo più o meno significativo – tutte le materie ma soprattutto che incide sul metodo da applicare per affrontare le varie questioni.
Nella presente relazione delineerò un quadro sintetico generale di questo impatto, partendo dalle questioni di metodo per poi soffermarmi, in particolare ma sempre per grandi linee, sulle decisioni in materia di diritti fondamentali con riferimento ad alcuni ambiti materiali come quello delle − discriminazioni e quello dei diritti socio-economici, intendendo per tali principalmente il diritto ad un lavoro dignitoso, il diritto alla tutela della salute nei luoghi di lavoro, il diritto alla sicurezza sociale[2].
Si tratta di ambiti materiali nei quali spesso vengono in considerazione diritti fondamentali rispetto ai quali assume una particolare rilevanza il “ruolo sociale” che a tutti giudici è stato assegnato dalla Costituzione, ruolo che, anche grazie alle Corti europee centrali, ha acquisito un significato sempre più incisivo.
Il suddetto ruolo ‒ secondo il pensiero di Piero Calamandrei, ma anche di Gustavo Zagrebelsky e di molti altri ‒ si traduce nel contribuire, attraverso l’interpretazione delle norme contenuta nelle motivazioni dei provvedimenti, a promuovere e consolidare quella “mentalità costituzionale” di cui ha parlato Paolo Grossi e che è alla base della migliore qualità della nostra democrazia.
Infatti, non va dimenticato che sempre secondo Calamandrei: «Per far vivere una democrazia non basta la ragione codificata nelle norme di una Costituzione democratica, ma occorre dietro di esse la vigile e operosa presenza del costume democratico, che voglia e sappia tradurla, giorno per giorno, in concreta, ragionata e ragionevole realtà»[3].
Questo è il compito quotidiano dei giudici chiamati ad operare in conformità con i principi fondamentali del nostro ordinamento tratti in primo luogo dalla Costituzione ma anche dagli atti normativi della UE e dalle Convenzioni internazionali riconosciute dal nostro Stato, a partire dalla CEDU.
Nel disegno dei nostri Costituenti il suddetto “ruolo sociale” assegnato al giudice si manifesta attraverso la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali che l’art. 111, sesto comma, Cost. prevede come obbligatoria in tutti i casi, con una scelta tutt’altro che scontata e non presente in molte Costituzioni anche europee.
Questa scelta, nella Carta, risulta finalizzata ad assicurare il rispetto dei principi che la Costituzione stessa detta in materia di giurisdizione, come il principio di legalità, quello dell’indipendenza del giudice e il diritto di difesa che si coniugano con il riconoscimento al giudice della libertà di dare rilievo, nel contradditorio del giudizio, a certi fatti piuttosto che ad altri senza alcuna influenza indebita esterna.
In tutto questo si sostanziano l’imparzialità e l’indipendenza dei giudici, sicché l’obbligo della motivazione della decisione si collega alla “legittimazione democratica” del giudice, che non ha nulla a che vedere con la legittimazione politico-popolare e che, piuttosto, dipende, in larga misura dalla trasparenza delle scelte valutative e culturali che sono alla base della decisione adottata e quindi trova fondamento nella posizione ordinamentale che i nostri Costituenti hanno riconosciuto a tutti i giudici stabilendo che sono soggetti soltanto alla legge, posizione che rappresenta un grande privilegio di cui tutti noi italiani dobbiamo essere fieri.
Del resto, non va dimenticato che per tutti i Paesi europei di civil law l’obbligo di motivazione delle decisioni giudiziarie è nato nel Regno di Napoli nel settecento e poi si è diffuso in Francia e altrove ed ha le sue radici nell’idea di evitare che una decisione di un giudice possa essere dispotica o arbitraria.
Va anche sottolineato che l’obbligo della motivazione è anche volto ad attuare nel migliore dei modi il principio di uguaglianza che è basilare pure nell’ambito del processo.
Nel nostro ordinamento il rispetto di tale ultimo principio è espressamente richiesto alla Corte di cassazione alla quale l’art. 65 dell’ordinamento giudiziario, di cui al r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 assegna la funzione di nomofilachia., secondo cui: “la Corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale” (vedi: Corte cost., ord. n. 149 del 2013).
È però evidente che – pure in sistema processuale come quello italiano improntato ad un modello di civil law nel quale non esiste una norma che imponga la regola dello stare decisis cioè del vincolante rispetto dei precedenti − perché l’unico vincolo che il giudice può incontrare nell’esercizio delle proprie funzioni è quello derivante dal rispetto della legge (art. 101 Cost.: “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”) − il principio di uguaglianza riguarda tutti i giudici perché ne rende “ragionevolmente prevedibili” le decisioni.
E la ragionevole prevedibilità è un obiettivo che affonda le sue radici nella certezza del diritto, a sua volta valore anche europeo, come risulta da molteplici decisioni delle due Corti europee centrali.
Per la Corte EDU vedi, per tutte: Goodwin c. Regno Unito, Grande Camera, 11 luglio 2002; Bayatyan c. Armenia, Grande Camera, 7 luglio 2011; Herrmann c. Germania, Grande Camera, 26 giugno 2012; Koch c. Germania, 19 luglio 2012 e la giurisprudenza citata in tali sentenze.
Per la CGUE vedi, per tutte: sentenza 15 febbraio 1996, causa C-63/93, Duff e a., punto 20, per un caso di violazione del principio, sentenza, 28 aprile 1988, causa 120/86, Mulder, punto 26; sentenze 12 febbraio 2015, Baczó e Vizsnyiczai, C-567/13; 5 dicembre 2013, Asociación de Consumidores Independientes de Castilla y León, C-413/12, punto 38. Nella recente sentenza 20 giugno 2022 (Grande Sezione), causa C-700/20; London Steam Ship Owners’ Mutual Insurance Association Limited, la CGUE precisa (punto 56) che tra i principi sottesi alla cooperazione giudiziaria in materia civile e commerciale all’interno dell’Unione, oltre ai principi di libera circolazione delle decisioni, vi sono quelli di prevedibilità del foro competente e, dunque, di certezza del diritto per i suoi destinatari, di buona amministrazione della giustizia, di riduzione massima del rischio di procedimenti paralleli nonché di reciproca fiducia nella giustizia (si citano, in tal senso: sentenze del 4 maggio 2010, TNT Express Nederland, C-533/08, punto 49, e del 19 dicembre 2013, Nipponkoa Insurance, C-452/12, punto 36).
E, per sottolineare l’importanza del valore della certezza del diritto e della prevedibilità delle decisioni mi limito a ricordare che con la dibattuta “giustizia predittiva”, ci si riferisce proprio a strumenti di supporto alla funzione legale e, poi, giurisdizionale capaci di analizzare in tempi brevi, più brevi di quelli concessi all’uomo, una grande quantità di informazioni, con l’obiettivo di prevedere l’esito, o i possibili esiti, di un giudizio[4].
Per chiudere sul punto, credo sia interessante segnalare che, con riferimento all’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali e alle sue caratteristiche, vi è un coordinamento molto efficace tra la Corte di Strasburgo e la CGUE, che spesso non si riscontra in altri campi, nel senso della necessaria chiarezza e comprensibilità della motivazione.
2. Come interpretare le pronunce delle Corti europee centrali.
Per dare un’idea migliore di quanto sia significativa la suddetta influenza delle giurisprudenze delle Corti europee centrali sul lavoro dei giudici nazionali – e, in particolare, della Corte di cassazione civile − penso sia opportuno cominciare dagli effetti di tipo metodologico, che a mio avviso servono a rendere più percepibile il “senso” della anzidetta influenza.
Si tratta di analizzare il metodo utilizzato dalle Corti europee centrali (Corte di giustizia UE e della Corte EDU) per emanare le rispettive pronunce e, di conseguenza, di stabilire quanto tale metodo – che è quello da seguire nella lettura delle pronunce stesse − abbia influito, e influisca tuttora, sul modus operandi dei giudici nazionali.
Ebbene, deve essere ricordato che secondo molti autorevoli studiosi ‒ a partire da Gustavo Zagrebelsky ‒ il fenomeno che si è soliti chiamare “crisi della legge” parlamentare ‒ verificatosi negli ultimi decenni negli ordinamenti giuridici democratici e che si pone come punto critico nel rapporto tra Stato e cittadini, essendo caratterizzato dalla perdita di centralità del Parlamento nella funzione legislativa ‒ ha molteplici cause.
Ma è indubbio che una delle suddette cause sia rappresentata dall’incisivo sviluppo del processo di integrazione europeo che ha comportato il ritrarsi della legge statale parlamentare da ampi settori materiali ovvero il suo limitarsi a dettare discipline meramente attuative della normativa UE, pena l’intervento sanzionatorio del giudice comunitario[5].
Al suddetto fenomeno ha fatto da contraltare un sempre più rilevante ruolo di protagoniste assunto dalle valutazioni della giustizia materiale.
E anche questo è un portato dell’integrazione UE nonché dell’appartenenza al Consiglio d’Europa.
Infatti, nei suddetti due sistemi la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea hanno, rispettivamente, un ruolo centrale ed è pacifico che la loro giurisprudenza in materia di diritti fondamentali non solo è stata determinante per consentire il progresso dei diritti umani in ambito europeo – grazie ad interpretazioni evolutive dei due testi normativi fondamentali in materia, rispettivamente rappresentati dalla Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo e dalla Carta dei diritti fondamentali della UE (proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), “incorporata” nel diritto primario dell’Unione Europea da parte del Trattato di Lisbona ‒ ma ha anche avuto notevole influenza sulle giurisprudenze dei giudici nazionali, spesso consentendo loro di “superare” in via di ermeneutica i testi normativi nazionali.
Questo, a volte, è accaduto con pronunce nazionali assunte per “principi”, col rischio di interpretazioni “creative” che possono incidere sul basilare principio della certezza del diritto e anche su quello della prevedibilità delle pronunce, benché all’apparenza risultino finalizzate a sopperire alla suddetta “crisi della legge”.
Non di rado questo deriva dalla attribuzione alle pronunce delle Corte europee centrali di un valore che esse, in realtà, non hanno sulla base dei rispettivi ordinamenti e ciò può succedere perché il giurista di civil law non sempre è preparato ad effettuare un corretto esame di tali pronunce, alla luce delle regole che presiedono alla relativa emanazione[6].
È noto che la Corte europea dei diritti dell’uomo, con consolidato orientamento, afferma che, «sebbene la Corte non sia formalmente vincolata a seguire i propri precedenti, è nell’interesse della certezza giuridica, della prevedibilità e della uguaglianza di fronte al diritto che non deve discostarsi, in assenza di valida giustificazione, dai precedenti resi in casi già decisi» e questa statuizione è stata ripetuta in molte sentenza della Grande Camera (vedi: Goodwin c. Regno Unito, sentenza dell’11 luglio 2002, Grande Camera; Mamatkulov e Askarov c. Turchia, sentenza del 4 febbraio 2005. GC; Herrmann c. Germania, 26 giugno 2012. GC).
Sicché se ne può trarre una conferma significativa del fatto che la Corte nell’assumere una decisione come prima cosa valuti l’esistenza di propri precedenti utili dai quali tende a non discostarsi, salvo che ritenga sussistente una «valida giustificazione» («good reason», «motif valable») per farlo.
D’altra parte, anche per la Corte di Lussemburgo una propria pronuncia resa in sede di rinvio pregiudiziale non solo è vincolante per il giudice che ha sollevato la questione, ma spiega i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto dell’Unione interpretata dalla Corte (giurisprudenza costante: vedi: CGUE, 3 febbraio 1977, causa C-52/76, e 5 marzo 1986, causa 69/85).
La CGUE è dunque ben consapevole dell’importanza della stabilità dei propri precedenti, al fine di evitare «che si producano divergenze giurisprudenziali all’interno della Comunità», ma è altrettanto consapevole che ciò non si può tradurre in una adesione acritica e pedissequa ai precedenti stessi.
Ne consegue che per entrambe la Corti europee centrali la stabilità dei rispettivi precedenti è un valore da salvaguardare, ma con la precisazione che ciò non deve portare mai ad una piatta adesione a quanto già deciso, tanto più che la individuazione della identità delle questioni va fatta sulla base di un esame delle rispettive sentenze non limitato all’abstract, più o meno ufficiale, ma esteso ad uno studio approfondito delle opinioni dissenzienti, per quanto riguarda la Corte di Strasburgo, e delle conclusioni dell’avvocato generale, per quanto riguarda la Corte di Giustizia.
Ebbene, secondo alcuni esponenti della dottrina, di questo non sempre tengono conto i nostri giudici nazionali, quando riconoscono «valore normativo» alle sentenze della Corte di Giustizia (al riguardo si richiamano, fra l’altro: Corte costituzionale, sentenza n. 227 del 2010 e Cass. 30 dicembre 2003, n. 19842), utilizzando così una terminologia che, a ben vedere, è la stessa adoperata dalla nostra giurisprudenza per riconoscere l’efficacia diretta e il primato alle fonti legislative dell’Unione (Trattati, regolamenti e direttive).
Tutto questo, se da un lato dimostra che i giudici italiani riconoscono ormai alla giurisprudenza della Corte di giustizia un valore particolarmente stringente e vincolante, dall’altro lato rivela anche che il diritto di fonte legislativa e quello (di fonte) giurisprudenziale vengono sostanzialmente equiparati, senza coglierne la diversa natura. In altri termini non si considera che una sentenza della CGUE non può essere mai, come tale, direttamente e generalmente applicabile, in quanto costituisce una decisione resa rispetto ad un “caso concreto” e l’enucleazione di una regola o di un principio non possono mai prescindere dalla esatta individuazione del caso che ne è all’origine. Se è vero che le sentenze della Corte di giustizia “interpretano” il diritto dell’Unione, è altrettanto vero che l’interpretazione ha sempre alla sua base una fattispecie concreta, il cui esame è imprescindibile per coglierne l’esatta portata.
Gli stessi autori sostengono che “una simile confusione di piani” si riscontra nella nostra giurisprudenza anche rispetto alle sentenze della Corte EDU, come è accaduto quando pur escludendosi la possibilità per il giudice nazionale di disapplicare autonomamente (e cioè senza ricorrere alla Corte) la normativa interna contrastante con la Convenzione, tuttavia si è affermata l’esistenza di un preciso obbligo di «interpretazione conforme» delle leggi nazionali rispetto alla Convenzione «come interpretata dalla Corte europea» (si citano: Corte costituzionale, sentenze n. 348 e n. 349 del 2007; n. 311 e 317 del 2009). E viene ricordato che in alcune sentenze di giudici di merito di qualche anno fa, non rispettandosi il suindicato indirizzo, si è chiaramente affermato che, soprattutto dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la CEDU sarebbe divenuta direttamente applicabile nell’ordinamento interno, sicché al giudice sarebbe possibile disapplicare direttamente la normativa interna in contrasto con i diritti garantiti in sede europea (vedi, per tutti: Cons. Stato, 2 marzo 2010, n. 1220, nonché Tar Lazio, sez. II-bis, 18 maggio 2010, n. 11984, ove dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona si è ritenuto sostanzialmente superabile quanto statuito dalla Corte costituzionale nella propria giurisprudenza di cui alle sentenze n. 348 e 349 del 2007, nel senso di una «possibile disapplicazione, da parte di questo giudice nazionale, delle norme nazionali, statali o regionali, che evidenzino un contrasto con i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a maggior ragione quando …. la Corte di Strasburgo si sia già pronunciata sulla questione». Vedi anche Corte Conti, Friuli Venezia Giulia, Sez. giurisd., in Riv. Corte Conti, 2010, p. 119).
In tutti i suddetti casi alle sentenze delle Corti europee centrali è stato attribuito un valore improprio, in quanto non si è tenuto conto del metodo utilizzato per la relativa adozione e cioè del carattere casistico delle pronunce stesse.
Di questo si trova conferma, per quanto riguarda la Corte europea dei diritti dell’uomo nella illuminante testimonianza di Vladimiro Zagrebelski − per molti anni giudice italiano della Corte di Strasburgo ‒ dalla quale risulta che tale Corte, come ogni giudice, decide casi concreti e l’interpretazione della Convenzione è sempre e comunque riferita a quei casi. Circa il metodo seguito dalla Corte: «il modo di ragionare della Corte, sia nella motivazione delle sentenze, sia nella discussione tra i giudici nella camera di consiglio, è fondamentalmente basato sui precedenti. Si parte dalla ricerca del precedente rilevante e, quando non esista un precedente specifico, la Corte si avventura negli interstizi lasciati aperti tra i precedenti giurisprudenziali pertinenti ma non specifici. Essa, dunque, procede distinguendo il caso da decidere da quello o quelli già decisi, per infine pervenire all’identificazione del precedente che indica la soluzione da adottare o alla conclusione che il caso da decidere non trova ancora riscontro nella giurisprudenza della Corte. In questo secondo caso si tiene conto di precedenti che esprimano una ratio decidendi comunque utile; infine, in mancanza anche di questo, si procede alla ricerca del senso da assegnare alle disposizioni della Convenzione con gli ordinari metodi interpretativi»[7].
Se questo è il modo di operare della Corte EDU (peraltro molto simile a quello della Corte di Giustizia) è evidente che il giudice inazionale non può seguire un metodo diverso per la lettura delle pronunce ed attribuire ad esse una portata che non possono avere.
Le precedenti osservazioni valgono a spiegare la ragione per cui il sempre più rilevante ruolo di protagoniste assunto dalle valutazioni della giustizia materiale (anche in ambito nazionale) sia stato in gran parte favorito dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in materia di tutela dei diritti umani fondamentali.
Ciò è avvenuto, infatti, anche perché i rispettivi sistemi di diritto sono a base essenzialmente giurisprudenziale, come accade negli ordinamenti giuridici di common law (di origine britannica), fondati più sui precedenti giurisprudenziali che sulla codificazione e in generale sulle leggi e gli altri atti normativi di organi politici, a differenza di quel che accade nei sistemi di civil law, derivanti dal diritto romano.
Infatti, anche per adottare le rispettive pronunce le Corti europee centrali, pur con differenze notevoli, applicano un metodo di common law (come si è detto).
Questo ha un’immediata implicazione metodologica per l’interprete che, per attribuire a quelle pronunce il valore corretto, è chiamato a partire da una adeguata conoscenza e consapevolezza del contesto in cui le pronunce si formano.
Dagli insegnamenti delle stesse Corti si desume che un sistema europeo di tutela dei diritti umani non potrà che poggiare su un giudice autenticamente europeo, intendendo come tale ogni giudice nazionale e non solo quello che siede nelle Corti di Strasburgo e del Lussemburgo.
Ma il giudice nazionale per essere “europeo” non è chiamato a limitarsi a recepire i dettami delle Corti europee centrali ma ad essere protagonista di un dialogo tra diverse esperienze e diverse percezioni dei diritti ‒ che sono la conseguenza di tradizioni giuridiche e culturali profondamente radicate e che sovente, ultimamente, sfidano la sua coscienza ‒ grazie all’acquisizione della competenza necessaria a padroneggiare gli strumenti e le dinamiche del diritto giurisprudenziale europeo.
A volte, invece, si riscontra una fragilità culturale dei nostri giuristi nel confrontarsi con l’uso del precedente: ciò che sembra contare è il “principio”, consacrato da una “giurisprudenza costante”, formulato in termini il più possibile avulsi dal caso concreto e, per tal via, applicabile anche ad altri casi[8].
È questo il contesto in cui, come affermato dalla nostra Corte costituzionale, il giudice interno può utilizzare l’interpretazione della CEDU risultante dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo al fine di ampliare la tutela dei diritti fondamentali senza tuttavia poter giungere alla diretta disapplicazione come accade in ambito UE.
Ma è evidente che anche a tal fine il giudice nazionale deve intendere la giurisprudenza della Corte EDU in modo conforme al metodo utilizzato per adottare le relative pronunce e quindi è chiamato a svolgere un paragone serrato tra il proprio caso concreto e la fattispecie decisa in sede europea, individuare la ratio decidendi della pronuncia, confrontarla con altri casi e, distinguerla, se necessario, da essi.
In altri termini, nessuno chiede al giudice nazionale di considerare la giurisprudenza delle Corti europee come una fonte legislativa da applicare in modo pedissequo o come una sentenza di accoglimento della Corte costituzionale o una sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
In tal senso va ricordata la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui:
a) il giudice delle leggi non può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della CEDU a quella data in occasione della sua applicazione al caso di specie dalla Corte di Strasburgo, con ciò superando i confini delle proprie competenze in violazione di un preciso impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione e la ratifica, senza l’apposizione di riserve, della Convenzione (sentenze n. 264 del 2012, n. 236, n. 113 e n. 1 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 e n. 239 del 2009, n. 39 del 2008, n. 349 e n. 348 del 2007);
b) esso però è tenuto a valutare come ed in quale misura l’applicazione della Convenzione da parte della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano, in quanto la norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., come norma interposta, diviene oggetto di bilanciamento, secondo le ordinarie operazioni cui la Corte costituzionale è chiamata in tutti i giudizi di propria competenza (sentenza n. 317 del 2009). Operazioni volte non già all’affermazione della primazia dell’ordinamento nazionale, ma alla integrazione delle tutele;
c) le sentenze della Corte EDU sono dirette a tutelare “in modo parcellizzato”, con riferimento a singoli diritti, i diversi valori in giuoco;
d) invece, a differenza della Corte EDU, la Corte costituzionale, nello svolgimento del proprio infungibile ruolo, ha il compito di effettuare una valutazione «sistemica e non frazionata» dei diritti fondamentali, in modo da assicurare la «massima espansione delle garanzie» esistenti di tutti i diritti e i principi rilevanti, costituzionali e sovranazionali, complessivamente considerati, che sempre si trovano in rapporto di integrazione reciproca (fra le tante: sentenze n. 2 e n. 54 del 2022; n. 46 del 2021; n. 68 del 2017; n. 276 e n. 36 del 2016; n. 49 del 2015; n. 202, n. 170 e n. 85 del 2013; n. 264 del 2012).
A questo fermo orientamento della Corte costituzionale, maggiormente consapevole del ruolo da attribuire alla giurisprudenza della Corte EDU dovrebbe seguire una maggiore consapevolezza dei nostri giudici comuni di essere protagonisti di un dialogo che non ammette facili scorciatoie burocratiche.
Altrimenti, la crescita a dismisura di cataloghi di diritti, unita alla proliferazione di istanze giurisdizionali preposte alla loro tutela, potrebbe portare ad un indebolimento dei diritti umani che si vogliono tutelare, con una eterogenesi dei fini.
Il segnale del disagio manifestato da alcuni Stati con riguardo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – attestato dal Protocollo n. 30 del Trattato di Lisbona contenente le riserve del Regno Unito e della Polonia in ordine all’applicazione nei rispettivi confronti della Carta stessa – è già stato significativo della portata della posta in gioco in ambito UE.
Per non parlare dei più recenti sviluppi della contestazione al sistema della UE da parte dei Governi di alcuni Stati membri e della scarsa solidarietà che si registra in materia di immigrazione in contrasto con quanto dall’art. 78 TFUE.
Comunque, dal punto di vista sistematico, l’inquadramento della giurisprudenza della Corte EDU effettuato dalla Corte costituzionale trova riscontro anche nel carattere “dinamico” della giurisprudenza della Corte EDU, manifestatosi fin da epoca remota[9], attraverso l’apertura ad una lettura “socialmente orientata” della Convenzione, supportata dalla precisazione secondo cui, benché la migliore realizzazione dei diritti sociali ed economici sia condizionata dalla situazione – specialmente finanziaria – dei singoli Stati, comunque la Convenzione deve essere interpretata tenendo conto delle condizioni del momento in cui viene emessa la pronuncia.
Pertanto, sebbene la CEDU enunci essenzialmente diritti civili e politici, molti di questi diritti hanno delle implicazioni di natura economica o sociale e «nessuna barriera impermeabile separa i diritti socio-economici dall’ambito coperto dalla Convenzione».
Tale “dinamismo”, peraltro, oltre ad essere applicato con sempre maggiore frequenza alla tutela dei diritti sociali ed economici ‒ con notevole incidenza sugli ordinamenti nazionali, specialmente nel caso di sentenze “pilota” o “quasi pilota” ‒ rappresenta la caratteristica più significativa di tutta la giurisprudenza della Corte EDU.
Si tratta di un modo di operare che, a prima vista, può sembrare piuttosto inconsueto ma che ‒ oltre ad essere un portato del sistema di common law adottato dalla Corte ‒ trova la sua base nell’art. 32 della Convenzione stessa, secondo cui “la competenza della Corte si estende a tutte le questioni riguardanti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli” ed è alla stessa Corte che spetta di decidere sulle contestazioni sulla sua competenza.
Del resto, il suddetto “dinamismo” muove dal lodevole intento di non lasciare privi di tutela diritti fondamentali e dimostra, in modo emblematico, che la caratteristica essenziale della Convenzione è quella di essere, per la Corte, uno “strumento vivente” da interpretare alla luce delle condizioni di vita del momento, onde garantire costantemente un adeguato livello di protezione dei diritti e delle libertà presi in considerazione dalla Convenzione stessa.
Viene quindi confermato che, anche con riguardo ai diritti sanciti nei diversi articoli della Convenzione, la Corte adopera il medesimo metodo sopra descritto.
3. Il rinvio pregiudiziale come strumento di dialogo tra i giudici nazionali e la CGUE.
In base alla costante giurisprudenza della CGUE il giudice nazionale costituisce un elemento essenziale nell’ordinamento giuridico UE perché, essendo situato all’ “incrocio” di diversi sistemi giuridici, egli è in grado di fornire un rilevante contributo all’applicazione effettiva del diritto UE e, in definitiva, allo sviluppo del processo d’integrazione europea (vedi, per tutte: CGUE sentenza 30 settembre 2003, Gerhard Köbler, in causa C-224/01).
L’art. 267 del TFUE (ex art. 234 del TCE) prevede la procedura del rinvio pregiudiziale, come strumento che consente ai giudici nazionali di interrogare la CGUE sulla interpretazione o sulla validità del diritto europeo, da applicare nel giudizio pendente dinanzi a loro. Si tratta di uno strumento diretto a favorire la cooperazione attiva tra le giurisdizioni nazionali e la Corte di giustizia nonché l’applicazione uniforme del diritto europeo in tutta la UE.
E, conformemente a una costante giurisprudenza della Corte di Giustizia, nell’ambito della procedura di cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte, istituita all’articolo 267 TFUE, spetta a quest’ultima fornire al giudice nazionale una risposta utile che gli consenta di dirimere la controversia di cui è investito, sicchè, in tale prospettiva, spetta alla Corte, se necessario, anche riformulare le questioni che le sono sottoposte (vedi. per tutte: sentenza del 15 luglio 2021, The Department for Communities in Northern Ireland, C‑709/20, punto 61; sentenza 7 luglio 2022, F. Hoffmann-La Roche Ltd e a., causa C‑261/21, punto 38 e giurisprudenza ivi citata).
Dalla giurisprudenza della CGUE (vedi, per tutte: sentenza 11 settembre 2014, A c. B e altri, C-112/13) si desume altresì che:
a) l’utilizzazione del rinvio pregiudiziale è facoltativa per i giudici nazionali avverso le cui decisioni possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, mentre è obbligatoria per i giudici di ultima istanza;
b) la suddetta obbligatorietà, peraltro, non è assoluta, ma relativa perché come chiarito dalla stessa CGUE (a partire dalla sentenza 6 ottobre 1982, Soc. Cilfit., C-283/81) deve essere interpretata nel senso che il giudice di ultima istanza deve adempiere il suo obbligo di rinvio, soltanto dopo aver constatato che non ricorra una delle quattro ipotesi suindicate.
Ne deriva che, dalla stessa giurisprudenza della CGUE, si evince anche come (vedi, fra le altre: sentenza 18 luglio 2013, Consiglio nazionale dei geologi c. Autorità garante della concorrenza e del mercato, C-136/12, punto 28), il procedimento di cui all’art. 267 del TFUE essendo stato concepito per favorire una cooperazione diretta tra la CGUE e i giudici nazionali, è estraneo ad ogni iniziativa delle parti.
Pertanto, una eventuale richiesta, proveniente dalle parti, di effettuare un rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di giustizia non necessariamente deve essere accolta dal giudice nazionale neppure di ultima istanza, il quale ben potrà respingerla.
La Corte di Giustizia ha chiarito con costante indirizzo (a partire dalla sentenza 6 ottobre 1982, causa C-283/81, Cilfit srl e Lanificio di Gavardo spa c. Ministero della Sanità, ma nello stesso la Corte si è espressa in molte successive pronunce, tra cui: CGUE, Grande Sezione, sentenza 6 ottobre 2021, causa C-561/19, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi SpA c. Rete Ferroviaria Italiana SpA) che il giudice nazionale non è tenuto al rinvio pregiudiziale quando:
a) la questione sollevata non è rilevante per il giudizio in corso, vale a dire nel caso in cui la sua soluzione, qualunque essa sia, non possa in alcun modo influire sull’esito della controversia (vedi anche: CGUE, sentenza del 18 luglio 2013, causa C-136/12, Consiglio Nazionale dei Geologi, punto 26, nonché sentenza del 15 marzo 2017, causa C-3/16, Aquino, punto 43);
b) «la questione sollevata sia materialmente identica ad altra questione, sollevata in analoga fattispecie, che sia già stata decisa in via pregiudiziale»;
c) esiste una «giurisprudenza costante della Corte stessa che […] risolva il punto di diritto litigioso, anche in mancanza di una stretta identità tra le materie del contendere»;
d) la corretta interpretazione del diritto dell’Unione si imponga con un’evidenza tale da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio, eventualità la cui ricorrenza deve essere valutata in base alle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, alle difficoltà particolari relative alla sua interpretazione e al rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione europea (vedi anche, di recente: CGUE, ordinanza 15 dicembre 2022, causa C-144/22, Ministero dell’Interno e altri c/o Regione Marche).
Ma nell’individuazione degli elementi da verificare per disporre o meno il rinvio pregiudiziale la Corte UE richiede ai giudici di ultima istanza un compito ulteriore − in considerazione del loro particolare ruolo di raccordo con la CGUE stessa − rappresentato dallo specifico onere motivazionale delle ragioni che lo hanno indotto a non sollevare il rinvio pregiudiziale.
Al riguardo la CGUE rileva che allorché un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno ritenga, per il fatto di trovarsi in presenza di una situazioni summenzionate, di essere esonerato dall’obbligo di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte, previsto dall’articolo 267, terzo comma, TFUE, “la motivazione della sua decisione deve far emergere o che la questione di diritto dell’Unione sollevata non è rilevante ai fini della soluzione della controversia, o che l’interpretazione della disposizione considerata del diritto dell’Unione è fondata sulla giurisprudenza della Corte, o, in mancanza di tale giurisprudenza, che l’interpretazione del diritto dell’Unione si è imposta al giudice nazionale di ultima istanza con un’evidenza tale da non lasciar adito a ragionevoli dubbi” (vedi, per tutte: CGUE, Grande Sezione, sentenza 6 ottobre 2021 cit.).
Si precisa che la decisione di rigetto del giudice di ultima istanza deve essere congruamente motivata – facendo riferimento ad una delle quattro suindicate ipotesi – sussistendo, in caso contrario, anche una violazione dell’art. 6 della CEDU, come tale rilevabile dalla Corte di Strasburgo (vedi, per tutte: Corte EDU, sentenza 20 settembre 2011, Ullens de Schooten e Rezabeck c. Belgio; decisione 10 aprile 2012, Vergauwen c. Belgio; sentenza 8 aprile 2014, Dhahbi c. Italia).
E quest’ultimo è un altro ambito nel quale si riscontra un’omogeneità di vedute tra le due Corti europee centrali.
Del resto, l’obbligo di motivazione adeguata, come conseguenza del diritto ad un equo processo non è sancito soltanto dall’art. 6 della CEDU, ma anche dall’art. 47, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali della UE, letto in combinato disposto con l’art. 52, par. 3, della Carta stessa, in base al quale, laddove la Carta prevede diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata degli stessi debbono essere uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione. Infatti, anche la CGUE ha affermato che la garanzia dell’obbligo di motivazione è sancito anche dalla Carta dei diritti fondamentali della UE la quale ha lo stesso valore dei trattati per le autorità giurisdizionali degli Stati membri (vedi, per tutte: sentenza, 6 settembre 2012, Trade agency Ltd, C-619/10, punto 52)[10].
Va sottolineato inoltre che le Corti di Strasburgo e di Lussemburgo, nelle citate pronunce, hanno anche ribadito il proprio costante indirizzo secondo cui l’obbligo della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, comporta che tale motivazione sia chiara e facilmente comprensibile, come si è detto.
E questo corrisponde anche al tipo di motivazione cui si sono riferiti i nostri Padri Costituenti nell’art. 111 della Carta.
4. Le interrelazioni normative.
Come si è detto, la necessità per il giudice nazionale di utilizzare norme o principi di diritto UE o indicati in Convenzioni internazionali è più frequente nelle controversie in cui si discute di diritti fondamentali e deve essere considerato che le controversie in materia di diritti fondamentali sono in costante aumento sia presso le Corti europee centrali sia presso i c.d. giudici comuni nazionali e, per prima, presso la nostra Corte di cassazione.
Questo dipende da varie ragioni e, fra l’altro, deriva dalle diseguaglianze e dalle discriminazioni crescenti che, a partire dai primi anni Ottanta del novecento, si sono cominciate a percepire in modo sempre più intenso nella maggior parte dei Paesi sviluppati portando ad un esponenziale aumento dei ricorsi giurisdizionali in materia di diritti fondamentali con il conseguente impegno dei giudici, sempre più di frequente, di risolvere le controversie con tecniche diverse da quella classica della sussunzione quali sono quelle di interrelazione normativa indicate dalla Corte costituzionale con l’obiettivo di raggiungere attraverso l’integrazione del diritto nazionale con altre fonti, un “plus” di tutela dei diritti in gioco.
Secondo il pensiero del grande Valerio Onida questi diritti possono essere assicurati adeguatamente in sede giudiziaria, a condizione che i giudici siano aperti al sopranazionale e all’internazionale e, cioè, ad instaurare un dialogo tra loro, non solo all’interno dei singoli ordinamenti di appartenenza, ma anche con le Corti sopranazionali, come la Corte EDU e la Corte di giustizia UE.
Si tratta di un cammino che è in corso da tempo attraverso sempre maggiori contatti tra giudizi nazionali e le Corti europee centrali, nonché tra i giudici comuni dei Paesi UE tra i quali vi sono periodici scambi di esperienze sui quali non incide la retorica degli interessi nazionali che spesso si ripresenta fra i Governi degli Stati membri.
Ma per la singola decisione è bene adottare il metodo più adatto per risolvere le questioni di interrelazione normativa tra diritto interno, UE e diritto internazionale laddove si pongano.
Per fortuna questo metodo lo ha indicato la Corte costituzionale a partire dalle famose sentenze gemelle n. 348 e n. 349 del 2007, seguite da molte pronunce conformi.
In base alla suddetta consolidata giurisprudenza costituzionale, l’applicazione alla singola fattispecie della normativa internazionale (Convenzioni varie, specie ONU per le discriminazioni e la tutela dei disabili), UE (direttive o Carta UE) così come della CEDU − con l’utilizzazione dei relativi strumenti ermeneutici, nel modo stabilito dalla Corte stessa, e delle pronunce delle relative Corti − presuppone che, almeno in tesi, per effetto di tale utilizzazione sia ipotizzabile la eventuale operatività di un plus di tutela convenzionale o UE rispetto a quella interna (sentenza n. 317 del 2009 e ordinanza n. 11 del 2011).
Ciò significa che il risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve essere di segno positivo, nel senso che dall’incidenza della singola norma CEDU o UE o convenzionale in genere sulla legislazione italiana deve derivare un aumento di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali.
Questo principio è di grande importanza, in quanto da esso si desume che, secondo la Corte costituzionale, il criterio “principale” da utilizzare è quello della interpretazione in conformità alla nostra Costituzione e che l’utilizzazione di norme UE, internazionali o sovranazionali si giustifica solo se porta ad una tutela più efficace.
Del resto, non va dimenticato che ormai la categoria delle norme costituzionali meramente programmatiche è stata abbandonata e che, in particolare, questo vale per i fondamentali artt. 2 e 3 Cost., per i quali, a partire dalla nota “svolta” giurisprudenziale del 1987, il Giudice delle leggi è pervenuto a:
a) modificare il proprio precedente consolidato indirizzo, secondo cui l’art. 2 Cost. veniva riferito soltanto ai diritti fondamentali garantiti da altre disposizioni della stessa Carta fondamentale, per affermare che il suddetto articolo contiene un «elenco aperto», di diritti fondamentali;
b) nella stessa ottica, a dare “energica attuazione in numerosissime occasioni al principio di eguaglianza enunciato dall’art. 3 Cost.” considerato – nei suoi due commi – come “un dato rilevantissimo ed essenziale della Costituzione repubblicana”, che “riflette un’evoluzione politica per cui i singoli ed i vari ceti sociali, specialmente quelli popolari e meno fortunati, non debbono subire indebite limitazioni e discriminazioni”. Di qui la conseguenza che l’indicazione dei fattori di possibile discriminazione di cui al primo comma dell’articolo non ha carattere tassativo, ma si riferisce soltanto alle situazioni più frequenti.
La Corte costituzionale da allora non ha mai abbandonato questa strada ‒ come delineata dell’allora Presidente della Corte Francesco Saja – diretta a garantire la massima espansione possibile delle tutele delle posizioni giuridiche soggettive, specialmente in favore soggetti socialmente più deboli, che sono anche quelli per i quali il rischio di discriminazione è più alto.
E anche la giurisprudenza della Corte di cassazione si è uniformata a questa linea interpretativa, facendo direttamente applicazione dei suddetti artt. 2 e 3 Cost. (vedi, per tutte, l’importante: Cass. SU 9 settembre 2021, n. 24413, cui si sono uniformate molte successive pronunce).
5. Il divieto di discriminazioni.
Se passiamo agli ambiti materiali riservati al giudice civile nei quali l’impatto della giurisprudenza delle Corti europee centrali è particolarmente significativo, per restare vicini al principio di uguaglianza, si può cominciare dal divieto di discriminazioni.
Discriminare significa violare il principio di uguaglianza perché consiste nell’attribuire – senza alcuna valida ragione – un trattamento meno favorevole ad un soggetto o ad una categoria di soggetti rispetto ad altri che si trovano in situazione analoga, sulla base di un determinato elemento – chiamato “fattore discriminante” – che non può considerarsi adeguato, perché è il frutto di un pregiudizio.
Nella psicologia sociale la definizione condivisa di pregiudizio è quella di “un’antipatia o un atteggiamento sociale denigratorio verso particolari gruppi, che viene esteso in maniera indiscriminata per tutti gli appartenenti ad essi”[11].
Esso affonda le sue radici nella «paura» del diverso (che non si conosce e per questo spaventa).
Si precisa che alle origini di questo atteggiamento vi è il concetto di identità sociale, coniato dal celebre psicologo sociale Henri Tajfel, che riguarda il sentimento di appartenere ad un gruppo sociale detto ingroup (noi) diverso da un altro outgroup (loro).
La preferenza per il «noi» - che si traduce in stereotipi negativi e pregiudizi a svantaggio dei «loro» - e la relativa identificazione delle due categorie derivano da plurimi fattori dipendenti dal contesto e, in particolare, dalle diverse realtà di gruppo nelle quali ognuno di noi è immerso, a partire dalla famiglia e poi dal gruppo religioso, quello scolastico, quello lavorativo, quello politico, ciascuno con finalità norme e relazioni differenti al proprio interno.
La psicologia sociale ci insegna altresì che il pregiudizio è un prodotto del normale funzionamento della mente umana. Quindi non si può immaginare di abolire pregiudizi e stereotipi.
Infatti, come diceva il grande Albert Einstein “È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio”.
Ma se si vuole promuovere una convivenza pacifica e armoniosa tra persone appartenenti a culture, etnie, religioni e gruppi sociali diversi, all’insegna dell’empatia è fondamentale ridurre l’influenza dei pregiudizi, la cui prima fonte, come si è detto, è la famiglia.
Intraprendere questo cammino, anche con l’aiuto della scuola, potrebbe essere molto utile per prevenire e combattere in modo efficace le discriminazioni, le molestie e le violenze in danno delle persone considerate vulnerabili umanamente e/o socialmente (come come, ad esempio, le donne, i disabili, i minorenni, le persone LGBTQIA+, i cittadini extracomunitari e gli apolidi).
Va detto, però, che attualmente disponiamo di un complesso e articolato diritto antidiscriminatorio, previsto in molte disposizioni ONU, UE e nazionali.
La prima fonte, in ordine di tempo, di tale diritto e la Dichiarazione universale dei diritti umani 1948, il cui art. 2 proclama solennemente che:
“Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità”.
Le diverse ipotesi contemplate in tale disposizione rappresentano i più diffusi “fattori discriminanti” conosciuti nel 1948.
Il riferimento al 1948 serve a dimostrare, con evidenza, che: il divieto di discriminazione è per sua natura relativo e lo è da due diversi punti di vista:
1) sia perché, di regola, comporta un giudizio comparativo fra il trattamento del singolo soggetto ed il gruppo in cui è inserito;
2) sia perché assume valenza e portata diversa a seconda del periodo storico e dell’ambito sociale nel quale può venire in considerazione.
Deve, però, essere precisato quanto al giudizio comparativo che a partire dalla seconda parte del XX secolo, si tende a superare questa impostazione che si considera restrittiva per una valutazione adeguata della situazione del singolo individuo che ha subito il trattamento negativo che si ritiene debba essere esaminata in sé a prescindere da una comparazione, dovendosi quindi intendere la discriminazione come condizione per cui ad un individuo è attribuito un disvalore – per vari motivi riconducibili alla presenza di stereotipi e pregiudizi – che si traduce nel mancato riconoscimento della sua pari dignità. Questo è stato affermato soprattutto per la discriminazione sulla base del sesso, rilevandosi che essa non si presta ad essere valutata con l’individuazione di un corretto termine di paragone[12].
Invece il secondo tipo di relatività è coessenziale alle discriminazioni e, quindi, non può essere superato.
Basta pensare, ad esempio, che:
a) prima che la Corte costituzionale con la sentenza n. 33 del 1960 dichiarasse l’illegittimità costituzionale della normativa che escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici implicanti «l’esercizio di diritti e potestà politiche» ‒ facendo così cadere ogni preclusione all’accesso delle donne ai pubblici impieghi e consentendo, così, in progresso di tempo, anche l’ingresso delle donne in magistratura ‒ non si era posto un problema discriminatorio in materia e comunque una simile questione nell’ottocento sarebbe stata impensabile;
b) se si emettesse, ad esempio, una legge relativa alla lunghezza della barba o dei baffi evidentemente tale legge riguarderebbe in modo del tutto ragionevole solo i maschi adulti;
c) d’altra parte, una ipotetica legge sui comportamenti da tenere in gravidanza si rivolgerebbe solo alle donne fertili, del tutto ragionevolmente.
Deve, quindi, essere chiarito che non tutte le diseguaglianze comportano discriminazioni ma tutte le discriminazioni muovono dalla violazione del principio di uguaglianza.
6. Varie configurazioni del principio di uguaglianza.
Poiché è stata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948 l’elemento “scatenante” di tutto virtuoso processo che ha portato all’attuale configurazione del diritto antidiscriminatorio, non deve stupire se nell’evoluzione storico-giuridica della materia, il diritto antidiscriminatorio prima ancora che in ambito europeo sia nato proprio in ambito ONU ove, sulla base della suddetta Dichiarazione universale, sono state adottate specifiche Convenzioni dirette a garantire la parità di trattamento alle categorie di persone rispettivamente prese in considerazione e a rafforzare quindi il divieto di discriminazione nei loro confronti.
Le Convenzioni ONU più significative sono:
1) la CEDAW (del 1979), cioè la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women), ratificata e resa esecutiva dall’Italia con legge 10 giugno 1985 (mentre l’adesione del nostro Paese al Protocollo opzionale è avvenuta il 29 ottobre 2002). Si tratta di una Convenzione che, a livello mondiale, tuttora rappresenta il principale testo giuridicamente vincolante sui diritti delle donne, così come la Piattaforma d’azione approvata dalla Conferenza di Pechino del 1995 è il testo politico più rilevante e tuttora più consultato dalle donne di tutto il mondo in mateeria[13];
2) la Convenzione sui diritti del fanciullo fatta a New York il 20 novembre 1989 (ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176);
3) l’importante Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18), cui ha dato un apporto molto significativo la compianta Prof. Maria Rita Saulle
Ognuna di queste Convenzioni contiene l’impegno preciso del nostro Stato al rispetto delle categorie di persone considerate (donne, fanciulli, disabili) e alla non discriminazione nei loro confronti intesi come appartenenti a “gruppi sociali” individuati, sicché l’interprete nazionale non può non tenerne conto, anche sulla base degli artt. 3 e 117, primo comma, della nostra Costituzione.
Non va, del resto, dimenticato che sia la Corte costituzionale sia la Corte di cassazione attribuiscono grande rilievo e alle suddette Convenzioni che hanno diretta operatività.
In ambito europeo la tutela del principio di uguaglianza e quindi il divieto di ogni tipo di discriminazione ‒ almeno nei reciproci impegni tra gli Stati e nella giurisprudenza delle Corti europee centrali ‒ sono considerati fondamentali.
Va aggiunto che ci si preoccupa di garantirne l’efficacia non solo in sede giurisdizionale ma anche in sede politica, controllando la condotta degli Stati, grazie alla Commissione UE (e le procedure di infrazione) e ai vari Comitati esistenti nel sistema del Consiglio di Europa, a partire dal Comitato europeo dei diritti sociali (CEDS).
Tuttavia, rispettivamente nella UE e nel sistema CEDU, il principio di uguaglianza ha un significato e una portata non del tutto coincidenti tra loro e diversi anche da quelli propri della nostra Costituzione.
7. Il principio di uguaglianza nel sistema del Consiglio di Europa.
L’attuale art. 14 della CEDU, per come è stato configurato, ha, anche in base alla giurisprudenza della Corte, un ambito applicativo limitato, nel senso che vieta unicamente la discriminazione nel godimento di uno qualsiasi dei diritti garantiti dalla Convenzione, che sono quelli civili e politici, non quelli sociali ed economici.
Al precipuo fine di attribuire al principio di non discriminazione una portata generale – cioè non limitata ai diritti previsti dalla Convenzione – è stato fatto il Protocollo n. 12 alla Convenzione, aperto alla firma degli Stati membri firmatari del Trattato il 4 novembre 2000 ed entrato in vigore (in ambito internazionale) il 1° aprile 2005. Il Protocollo prevede un divieto generale di discriminazione, senza limitazioni applicative. Esso è stato ratificato da 20 Stati, ma 18 Stati membri del Consiglio d’Europa – tra i quali l’Italia e la Germania – si sono limitati a firmare il Protocollo senza ratificarlo ed alcuni – tra i quali la Francia, il Regno Unito e la Danimarca – non lo hanno neppure firmato.
Deve, peraltro, essere sottolineato che, in ambito interno, per l’Italia questo Protocollo non ha un rilievo decisivo, visto che la nostra Costituzione tutela in modo significativo il principio di uguaglianza, come si è detto.
Ma è bene chiarire che la mancata ratifica del Protocollo n. 12 comporta che dinanzi alla Corte di Strasburgo, per il nostro Paese, l’ambito applicativo dell’art. 14 CEDU è tuttora limitato al perimetro dei diritti riconosciuti dalla Convenzione, in quanto, per costante orientamento della Corte, l’art. 14 è considerato una norma che completa le altre clausole normative della Convenzione e dei suoi Protocolli e quindi, non ha un’esistenza autonoma, in quanto vale unicamente per «il godimento dei diritti e delle libertà» sancite dalle suddette clausole (vedi, per tutte: Dhahbi c. Italia, 8 aprile 2014).
Comunque, tale articolo può certamente entrare in gioco anche in assenza di una inosservanza delle esigenze poste dalle indicate clausole e, in tal senso, può avere una portata autonoma, ma soltanto se i fatti della singola causa rientrano nelle previsioni di almeno una delle clausole della CEDU.
Inoltre, va sottolineato che per la Corte EDU il vaglio relativo alla sussistenza o meno di una discriminazione – analogamente a quello normalmente operato, in ambito nazionale, con riguardo al principio di uguaglianza, consacrato nell’art. 3 della nostra Costituzione – presuppone che le situazioni poste a confronto siano analoghe o molto simili e per questo confrontabili.
Così, ad esempio, in D.H. e altri c. Repubblica Ceca del 13 novembre 2007 la Grande Camera, ribaltando il precedente verdetto della seconda sezione, ha affermato che la prassi, all’epoca in vigore nella Repubblica Ceca, di inviare molti alunni rom, sulla base di test di capacità intellettuale, in scuole speciali per alunni con deficit intellettuale, costituiva violazione del divieto di discriminazioni combinato con il diritto all’istruzione, sottolineando che il consenso espresso dai genitori non era sufficiente a evitare la discriminazione, perché essi, come appartenenti a una comunità svantaggiata, non erano in grado di valutare tutti gli aspetti della situazione e le conseguenze del loro consenso e perché comunque non è ammissibile la possibilità di rinunciare al diritto di non essere discriminati.
Peraltro, nel sistema del Consiglio d’Europa, la ‒ diretta ‒ violazione del principio di uguaglianza con riguardo ai diritti sociali ed economici (quali il lavoro, la previdenza e l’assistenza sociale) rientra nella competenza del Comitato Europeo dei Diritti Sociali (CEDS) che la esamina, in sede politica, sulla base della Carta Sociale Europea (CSER) riveduta il 3 maggio 1996 al fine di aggiornare e adattare il contenuto materiale della originaria Carta.
Di particolare rilievo sono le decisioni del CEDS sui reclami collettivi.
Per averne un’idea si può ricordare la recente decisione relativa al reclamo collettivo di European Disability Forum (EDF) e Inclusion Europe c. Francia diventata pubblica il 17 aprile 2023, con la quale è stata affermata la violazione della CSER (Carta Sociale Europea Riveduta), sotto plurimi aspetti, della legislazione francese relativa all’integrazione e alla tutela della salute dei disabili.
Come affermato anche dalla Corte costituzionale, per il nostro ordinamento le decisioni del CEDS non hanno gli effetti propri delle pronunce della Corte EDU, ma hanno comunque grande autorevolezza, anche perché la CSER è da includere tra le Convenzioni cui si riferisce l’art. 117, primo comma, Cost.
8. Il principio di uguaglianza in ambito UE.
La UE, in particolare a partire dal 2000, ha creato ‒ con una serie di direttive ‒ un articolato quadro giuridico per la lotta contro le discriminazioni.
E il diritto alla non discriminazione è ulteriormente sostenuto dalla Carta UE, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati.
Al fine di rafforzare l’efficacia di tali strumenti normativi, con il regolamento del Consiglio 15 febbraio 2007 n. 168/2007, è stata istituita la “Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali” (FRA), che è operativa dal 1° marzo 2007 ma non dispone di competenze decisionali.
Ma, fra le Istituzioni UE quella che ha avuto un ruolo centrale in questo ambito è stata la CGUE, le cui pronunce sulle discriminazioni, hanno contribuito in modo decisivo all’attuale configurazione del principio di uguaglianza in ambito UE.
A proposito del principio di uguaglianza, va sottolineato che vi è stata una sorta di “osmosi” tra diritto interno e diritto UE in due direzioni, in quanto se si è arrivati all’attuale configurazione, in ambito UE, del diritto di uguaglianza come “principio generale che ‘taglia trasversalmente’ tutto il diritto dell’Unione” (CGUE 24 gennaio 2012, causa C- 282/10) questo dipende dagli esiti del lungo processo evolutivo che si è avuto in ambito comunitario ‒ grazie alla giurisprudenza della Corte di giustizia, influenzata da quella dei giudici nazionali ‒ in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in genere e in particolare nei rapporti di lavoro.
In particolare, va precisato che, non essendo il principio di uguaglianza originariamente esplicitamente enunciato nei Trattati UE, il suo attuale riconoscimento si deve alla Corte di giustizia che, in via interpretativa, ne ha desunto l’esistenza dai singoli divieti di discriminazione presenti nel diritto primario.
Tale operazione ermeneutica ha consentito alla Corte, soprattutto a partire dagli anni novanta, di ricavare dalle norme dei Trattati – in particolare: art. 13 TCE divenuto poi art. 19 TFUE in materia di azioni positive e art. 141 TCE, ora art. 157 TFUE in materia di non discriminazione, che si limitavano a prevedere dei divieti strettamente funzionali ai differenti settori di competenza e di intervento dell’originaria CE – un generale principio di uguaglianza analogo a quello previsto da molte delle Costituzioni degli Stati membri, declinato nei due diversi aspetti dell’uguaglianza e della non discriminazione.
La situazione, al livello di normativa primaria, come si è detto, è profondamente cambiata dopo l’adozione della c.d. Carta di Nizza, ora Carta dei diritti fondamentali della UE, i cui artt. 20, 21, 23 e 26 riconoscono rispettivamente in linea generale l’uguaglianza davanti alla legge, il rispetto da parte della UE della diversità culturale, religiosa e linguistica, il principio non discriminazione, il principio di parità tra uomini e donne, il diritto dei disabili all’inserimento nella vita sociale e la necessità di adottare azioni positive soprattutto in particolare in favore delle donne e dei disabili.
E un ulteriore importante passo avanti si è avuto, nel dicembre 2009, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, a seguito della cui adozione, nel comma 3 dell’art. 3 del TUE è espressamente stabilito che: “l’Unione combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni”.
9. Le discriminazioni. Linee di tendenza.
La spinta propulsiva della giurisprudenza della CGUE per l’adozione, specialmente a partire dal 2000, delle numerose direttive in materia di divieto di discriminazione è stata finalizzata non solo a vietare le discriminazioni, ma anche a garantire la pari opportunità in diversi settori, sulla base di una interpretazione di tipo evolutivo, specialmente nei confronti delle donne e dei disabili, a partire dal mondo del lavoro.
Peraltro, la elencazione dei fattori discriminanti contenuta nelle direttive risponde maggiormente alla logica dei Paesi di common law, mentre è meno rilevante nei Paesi di civil law, nei quali, in via interpretativa, è più agevole tutelare tutte le situazioni, anche se, in ipotesi, non contemplate nell’elencazione stessa. E ciò si verifica, in particolare, in Italia ove il principio di razionalità-equità, sancito dall’art. 3 Cost. ha portata generale.
Quello delle discriminazioni è un campo in cui, oltre a potersi verificare sovrapposizioni e combinazioni tra diritto interno, internazionale e comunitario sono anche frequenti ‒ e in aumento ‒ le occasioni di interrelazione tra diritto UE e CEDU.
Alla maggiore frequenza di tale ultima evenienza hanno contribuito, da un lato, l’emanazione della Carta dei diritti fondamentali UE (cui il Trattato di Lisbona ha attribuito lo stesso valore dei Trattati, art. 6) con conseguenti più frequenti riferimenti della Corte di Giustizia ai diritti fondamentali in essa contemplati e, da un differente versante, la sempre maggiore sensibilità mostrata dalla Corte EDU ad occuparsi anche delle violazioni dei diritti socio-economici, non rientranti direttamente nella Convenzione, ma contemplati nella Carta Sociale Europea Riveduta.
Infatti, la tendenza della Corte di Giustizia ad incrementare, nella propria giurisprudenza, i riferimenti ai diritti fondamentali si è registrata soprattutto da quando è in vigore la Carta UE.
Ciò, storicamente, è accaduto specialmente in materia di discriminazioni, tanto da portare nel tempo la CGUE ad attribuire efficacia orizzontale – con applicabilità diretta non solo nei giudizi in cui sia presente una parte pubblica, ma anche ai giudizi tra privati – al divieto di discriminazione[14].
La giurisprudenza della CGUE in materia è molto ampia e riguarda principalmente le discriminazioni contro le donne, i disabili e quelle che si registrano nel mondo del lavoro in genere.
Spesso in tale giurisprudenza si richiama la normativa primaria rappresentata principalmente dalla Carta dei diritti fondamentali della UE (artt. 20, 21, 23 e 26). oltre alla ponderosa normativa europea secondaria in materia di diritto antidiscriminatorio, che si compone di numerose direttive (a partire dalle direttive 2000/78/CE, 2002/73/CE, 2006/54/CE).
Inoltre, in alcuni casi si fa riferimento alla CEDU e alle importanti Convenzioni ONU poste a tutela di specifici gruppi sociali, a partire dalle già citate: (i) CEDAW sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne; (ii) Convenzione sui diritti del fanciullo; (iii) Convenzione sui diritti delle persone con disabilità.
9.1. In particolare: la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.
In questo ambito è particolarmente significativo l’indirizzo della giurisprudenza della CGUE, ormai consolidato, che, al fine di garantire la parità di trattamento dei disabili soprattutto nel mondo del lavoro, fa espresso riferimento alla suindicata Convenzione ONU.
Questa Convenzione, infatti, rappresenta l’innovazione di maggiore impatto – anche per la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, oltre che per quella delle Corti europee centrali – in materia di tutela della disabilità e una vera e propria “pietra miliare” nel percorso di accettazione, partecipazione e inserimento alla vita sociale e lavorativa dei disabili, in quanto senza introdurre nuovi diritti, è finalizzata a promuovere, proteggere e assicurare alle persone con disabilità il pieno ed eguale godimento del diritto alla vita, alla salute, all’istruzione, al lavoro, ad una vita indipendente, alla mobilità, alla libertà di espressione e in generale alla partecipazione alla vita politica e sociale.
Con la Convenzione si è voluto diffondere un differente approccio alla disabilità: dalla cultura della compassione a quella dell’inclusione, chiamando le stesse persone con disabilità a mettersi in gioco, a partecipare attivamente nella costruzione di un mondo quotidianamente adatto a tutti.
E per realizzare meglio questo obiettivo è stata anche prevista l’istituzione dell’Osservatorio sulla condizione delle persone con disabilità, al quale è affidato il compito verificare la concreta applicazione della Convenzione e di fornire indicazioni al Governo per il miglioramento delle politiche per la disabilità.
Nella giurisprudenza della CGUE il richiamo alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità − effettuato originariamente per garantire la parità di trattamento dei disabili a partire dal mondo del lavoro ma con applicabilità generale − è stato deciso dopo aver precisato che la direttiva 2000/78/CE (recepita in Italia con il d.lgs. n. 216 del 2003), pur stabilendo un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (sentenze Chacón Navas C-13/05; Coleman; C-303/06; Glatzel C-356/12) non contiene, però, una nozione di “handicap”.
Pertanto, la CGUE, anche sulla base della Carta UE, ha statuito che in ambito UE tale nozione deve essere desunta dalla suddetta Convenzione ONU (formalmente ratificata dalla UE nel suo insieme).
E ha precisato che la suddetta nozione deve “essere intesa nel senso che si riferisce a una limitazione, risultante in particolare da durature menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” (vedi, per tutte: la sentenza HK Danmark C 335/11 e C 337/11 cit., punti 38 e 39).
Di conseguenza, l’espressione “disabile” utilizzata nell’articolo 5 della direttiva 2000/78 deve essere interpretata come comprendente tutte le persone affette da una disabilità corrispondente alla definizione sopra enunciata e va riferita “non soltanto ad un’impossibilità di esercitare un’attività professionale, ma altresì ad un ostacolo a svolgere una simile attività (…) su base di uguaglianza con altri lavoratori” (sentenza, cause riunite C.D., C-167/12 e Z., C-363/12, paragrafi 77 e 80).
Questo orientamento, nei confronti dell’Italia, è stato inaugurato con la sentenza 4 luglio 2013, C-312/11, Commissione c. Italia, nella quale la CGUE, applicando i suddetti principi, ha stabilito che il nostro Paese, non avendo imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, era venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente l’art. 5 della citata direttiva 2000/78/CE.
In particolare, nella sentenza, la CGUE ha precisato che secondo la medesima Convenzione (spec. art. 2, quarto comma) si devono porre in essere gli “accomodamenti ragionevoli” per favorire le persone disabili, intendendosi per tali le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo da adottare, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone disabili, nelle diverse situazioni, il godimento e l’esercizio di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali su base di uguaglianza con gli altri.
Per dare attuazione a questa sentenza è stato emanato il d.l. 28 giugno 2013, n. 76 (art. 9, comma 4-ter), convertito dalla legge 9 agosto 2013, n. 99, che ha inserito nel testo dell’art. 3 del d.lgs. n. 216 del 2003, il comma 3-bis del seguente tenore: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie, e strumentali disponibili a legislazione vigente”.
10. La tutela della dignità e della salute nel rapporto di lavoro. Cenni.
Dalla suddetta giurisprudenza in materia di disabilità emerge uno stretto collegamento tra tutela del lavoro dignitoso, tutela della salute nel rapporto di lavoro e discriminazioni che richiama anche l’art. 3 della nostra Costituzione e che ha carattere generale.
Al riguardo deve essere prioritariamente sottolineato che quando parliamo di tutela della salute nel rapporto di lavoro ci riferiamo ad un argomento molto ampio che implica la protezione plurimi diritti umani fondamentali delle persone, visto che la definizione di salute alla quale dobbiamo fare riferimento non è quella di “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”, ma quella di “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” originariamente contenuta nel Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO, entrata in vigore il 7 aprile 1948), cui si riferiscono tutte le Carte internazionali in materia − a partire dalla importante Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità − e che è stata espressamente riprodotta nell’art. 2, comma 1, lettera o) del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81.
Quindi si tratta di un settore in cui è molto forte l’esigenza di un giudice che assolva un incisivo ruolo di garanzia dei diritti individuali e della dignità delle persone.
Una funzione di garanzia che non può essere assunta da un giudice burocrate che, secondo le belle parole del bravo Collega Stani Gentile si limiti a “regolare il traffico delle domande e delle eccezioni”.
Perché “ci vuole un giudice minatore, che scava, fatica e insieme sogna”.
E a questo “giudice minatore” si richiede di compiere le proprie scelte con uno sguardo ampio facendo riferimento non solo ai valori indicati nella Carta costituzionale ma anche a quelli che si rinvengono nelle Carte dei diritti che si sono venute affermando in ambito UE e internazionale, seguendo il metodo da tempo indicato dalla consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui l’applicazione alla singola fattispecie della normativa internazionale (Convenzioni varie, specie ONU per le discriminazioni), comunitaria (direttive o Carta UE) così come della CEDU − con l’utilizzazione dei relativi strumenti ermeneutici, nel modo stabilito dalla stessa Corte costituzionale − presuppone che, almeno in tesi, sia ipotizzabile la eventuale operatività di un plus di tutela convenzionale o comunitaria rispetto a quella interna (vedi per tutte: sentenza n. 317 del 2009 e ordinanza n. 11 del 2011).
Questo conferma la persistente validità dell’affermazione del grande giurista del secolo scorso Francesco Carnelutti secondo cui “chi sa solo il diritto non sa neppure il diritto”.
Perché oggi, a maggior ragione, nel mondo globalizzato ‒ che è diventato “più piccolo” ‒ un giurista non può ignorare anche realtà che una volta sarebbero sembrate “lontane”, perché l’interpretazione giuridica, così come la creazione di nuove norme, è sempre più inevitabilmente influenzata dal contesto spazio-temporale nel quale viene compiuta, in quanto questa dimensione consente alla scienza giuridica di assolvere al meglio la sua specifica finalità che è quella di studiare i comportamenti collettivi ai fini della soluzione dei problemi concreti di propria competenza che possono sorgere quotidianamente.
Questo è certamente complicato ma è anche il bello del lavoro del giudice che, per essere interprete dalla “sguardo ampio”, non può non considerare, come sfondo delle proprie pronunce, ad esempio che il perfezionamento della normativa e della giurisprudenza in materia di discriminazioni si sono verificati mentre quotidianamente in tutto il mondo vengono, di fatto, ignorati i principi fondamentali riconosciuti dalle Carte e dalle Convenzioni che sono alla base del diritto antidiscriminatorio, a partire dal diritto di tutti gli individui alla pari dignità.
Sicché, nella sostanziale indifferenza maggioritaria, siamo arrivati all’attuale situazione caratterizzata da diseguaglianze sempre più incisive a tutti i livelli nonché al diffondersi di vere e proprie forme di schiavitù, in Europa e in Italia, oltre che in Paesi a noi vicini come la Libia.
A ciò si aggiungono gli elevatissimi numeri di casi di incitamento all’odio e di notizie volutamente false e fuorvianti diffusi ogni giorno nel web, con evidente carica discriminatoria.
Per non parlare della povertà assoluta e relativa che è in costante espansione anche in Italia e che può riguardare anche persone che lavorano con retribuzioni basse (c.d. lavoro povero).
Eppure, giusto per avere una idea delle profonde diseguaglianze che caratterizzano il nostro mondo:
a) mentre la povertà riguarda milioni e milioni di persone una sola persona − Elon Musk− pochi giorni fa si è potuto permettere di spendere 3 miliardi di dollari per un potente razzo che ha funzionato per soli 4 minuti, dopo aver licenziato – solo con una e-mail – più di settemila dipendenti di Twitter;
b) inoltre, mentre Adriano Olivetti ai suoi tempi diceva che «nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario più basso», oggi il divario è di più di 600 volte e continua ad esservi una disparità retributiva tra uomini e donne a parità di mansioni.
Inoltre, si possono verificare discriminazioni anche nei rapporti tra gli Stati UE e fra le diverse parti del territorio di uno Stato, tutte situazioni che nascono dal rapporto fra Enti ma poi si ripercuotono sulla situazione delle persone, per beni primari (ad esempio: la tutela della salute, il diritto allo studio, l’accesso all’edilizia redidenziale pubblica etc.).
Detto questo, va ricordato che per la nostra Costituzione il fondamentale principio della pari dignità di tutte le persone umane poggia sulle due imponenti colonne, rappresentate dal diritto al lavoro dignitoso e alla tutela della salute. E, infatti, a questi due diritti nella Carta è stata data una configurazione similare, essendo stati entrambi delineati in una duplice dimensione sia individuale – cioè come diritti fondamentali delle singole persone ‒ sia anche sociale.
Con l’affermazione prevalente di forme di lavoro flessibile – a partire dai contratti a termine – ci siamo allontanati dal suddetto modello di lavoro, sia in ambito privato sia nel lavoro pubblico contrattualizzato.
Questo ha comportato una drastica riduzione delle tutele dei lavoratori sia dal punto di vista del trattamento retributivo sia con riguardo alla tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro e questo rappresenta una violazione oltre che della nostra Costituzione, anche dei principi affermati dalla UE e dall’OIL in materia.
Infatti, nell’UE da tempo è stata delineata una linea strategica (reiteratamente ribadita dalla Commissione UE) secondo cui per la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro deve essere “il continuo miglioramento del benessere, sia esso fisico, morale e sociale, sul luogo di lavoro”, che va perseguito, fra l’altro, mediante azioni di prevenzione dei rischi legati all’ambiente globale di lavoro, quali i rischi psicologici e sociali ed in particolare lo stress, le molestie sul luogo di lavoro, la depressione e l’ansia
Invece, nel nostro mondo del lavoro si è avuto – e tuttora si registra − un incremento delle situazioni di lavoro in nero e irregolare in continua espansione, situazioni nelle quali i datori di lavoro, oltre ad evadere tasse e contributi, non adottano le misure di protezione dei lavoratori, normativamente previste, anche per effetto di direttive UE recepite nel nostro Stato.
Ed è proprio in questo ambito che possono rinvenirsi forme di caporalato – anche digitale – che può diventare “vero e proprio schiavismo del terzo millennio” gestito a volte dalle mafie, a volte dalle piattaforme digitali.
A causa di queste complessive situazioni – sinteticamente delineate − nel mondo del lavoro di oggi in molti casi si riscontra una violazione in concreto della pari dignità delle persone che spesso incide anche sulla tutela della salute del lavoratore e che non è conforme alla logica della prevenzione, cui fa riferimento la UE fin dall’emanazione della direttiva-quadro in materia di salute e sicurezza sul lavoro 89/391/CEE, aggiungendo che un’organizzazione e un ambiente di lavoro sani e sicuri sono fattori che migliorano anche le performances del sistema economico e delle imprese, e di riflesso l’efficienza, l’immagine e quindi la competitività in un’ottica di responsabilità sociale.
In questa ottica da appositi studi – a partire dalla “Ricerca sullo Stress correlato al Lavoro” del 15 giugno 2000 di EU-OSHA (Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro-European Agency for Safety and Health at Work) [15] − è stato accertato che la flessibilità del lavoro di per sé è una delle cause dell’aumento della domanda di tutela della salute perché tale situazione determina nel lavoratore una perenne incertezza economica ed esistenziale la quale di per sé può essere causa di una serie di malattie. Si parla al riguardo di un vero e proprio “mal da precariato”, che si manifesta in insicurezza psicologica e stress eccessivo, tanto da causare malessere spesso somatizzato, gastriti, disturbi cardiocircolatori, problemi nervosi, emicrania, dolori muscolari, stanchezza cronica, inappetenza e debolezza, attacchi di panico[16].
Si aggiunge che al lavoro precario e temporaneo si collega pure una maggiore incidenza degli infortuni sul lavoro, in quanto spesso chi li subisce è chiamato a svolgere le mansioni più rischiose senza adeguata formazione o tutoraggio, in condizioni fisiche di lavoro peggiori delle normali e con carichi di impiego pesanti che, quindi, causano incidenti più frequenti.
In queste evenienze spesso si riscontra anche il mancato rispetto della disciplina antinfortunistica da parte datoriale.
Per l’insieme delle suddette ragioni − pur in presenza di molteplici regole nazionali, UE e internazionali e di diverse Convenzioni OIL a partire dalla Convenzione OIL n. 155 del 1981 − si registrano, purtroppo, frequenti infortuni sul lavoro con esito letale, specialmente nei settori dell’agricoltura e dell’edilizia, come confermano le recenti rilevazioni nazionali da cui si desume una preoccupante tendenza all’aumento delle morti sul lavoro nel nostro Paese.
La giurisprudenza della Corte di cassazione in questo ambito da sempre muove dalla premessa secondo cui nel nostro ordinamento la norma di base del sistema di prevenzione in ambito lavorativo è l’art. 2087 cod. civ., la cui duttilità ha consentito, nel tempo, di garantire una protezione contenutisticamente avanzata già prima dell’emanazione del d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, poi abrogato dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, via via integrato e modificato e anche di ovviare alla mancanza di una regolazione specifica in materia di rischi psico-sociali.
Grazie al carattere di “norma di chiusura” del sistema antinfortunistico pacificamente riconosciuta all’art. 2087 cod. civ. ‒ nonché in base alla pacifica ammissibilità della interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia dei principi fondamentali di cui agli artt. 2 e 3 Cost., sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cod. civ.), ai quali deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro ‒ nella giurisprudenza di legittimità la tutela delle condizioni di lavoro da sempre è stata concepita come uno degli obblighi essenziali del datore di lavoro discendente dall’art. 41 Cost. (secondo cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana) che, come tale, include anche l’obbligo della adozione di ogni misura pure “atipica” diretta alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori (nel senso che il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte quelle cautele che, benché non dettate dalla legge, siano consigliate dalle conoscenze sperimentali e tecniche o dagli standard di sicurezza normalmente osservati e a fornire in giudizio la relativa prova; indirizzo consolidato, vedi, di recente: Cass. 10 novembre 2022, n. 33239).
Sulla base della suindicata impostazione, nel corso del tempo, la tutela della salute si è intrecciata con quella delle discriminazioni e delle molestie sul lavoro, nei confronti delle persone aventi problemi di salute o affette da disabilità nonché delle persone vulnerabili in genere (a partire dalle donne).
Nella stessa ottica fra le situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate cui si applica l’obbligo del datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore, per garantirne la salute, la dignità e i diritti fondamentali, di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost. sono state inclusi anche il “mobbing” e “straining” e situazioni analoghe (es: burn-out etc.), sul presupposto che quelle indicate sono nozioni di tipo medico-legale, che non hanno autonoma rilevanza ai fini giuridici e servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 cod. civ. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass. 19 febbraio 2016, 3291; Cass. 19 febbraio 2018, n. 3977; Cass. 2 marzo 2021, n. 5639).
Questo tipo di impostazione, del resto, trova riscontro nella importante Convenzione dell’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro) n. 190 sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro, ratificata e resa esecutiva con la legge 15 gennaio 2021, n. 4 che è il primo trattato internazionale specificamente diretto a combattere la violenza e le molestie nel mondo del lavoro e che, infatti, contiene una normativa dettagliata che potrà essere molto utile per definire le diverse plurime fattispecie, tanto che è stata recepita dall’INAIL.
Quanto agli infortuni sul lavoro è stato, fra l’altro, stabilito che − premesso che la “ratio” di ogni normativa antinfortunistica è quella di prevenire le condizioni di rischio insite negli ambienti di lavoro e nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori destinatari della tutela – il cd. rischio elettivo che comporta la responsabilità esclusiva del lavoratore sussiste soltanto ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento e creare condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere. In assenza di tale contegno, l’eventuale coefficiente colposo del lavoratore nel determinare l’evento è irrilevante sia sotto il profilo causale che sotto quello dell’entità del risarcimento dovuto (Cass. 13 gennaio 2017, n. 798).
Ne deriva che, al livello giurisprudenziale, si riscontra un intenso raccordo fra la giurisprudenza nazionale (in particolare della Corte costituzionale e della Corte di cassazione) e quella della CGUE e della Corte EDU.
Questo legame, in particolare con la CGUE, si è dimostrato nel tempo particolarmente stretto con riguardo alla disciplina dei contratti di lavoro a termine ed ha avuto la sua base nell’Accordo Quadro sui contratti di lavoro a termine allegato alla direttiva n. 1999/70/CE e nelle numerose sentenze che la CGUE ha emanato in materia anche nei confronti dell’Italia, normativa e giurisprudenza finalizzate principalmente ad evitare discriminazioni dei lavoratori a tempo parziale in generale rispetto ai lavoratori a tempo pieno.
Anche in questo caso il confronto è stato proficuo perché ha portato ad esempio a riconoscere, in caso di abusiva reiterazione dei contratti a termine, il diritto ad ottenere il riconoscimento dell’anzianità di servizio (anche per i lavoratori pubblici immessi in ruolo) nonché il diritto al c.d. danno comunitario come danno in re ipsa per i lavoratori pubblici che non possono ottenere la conversione del rapporto di lavoro temporaneo in rapporto a tempo indeterminato, in considerazione della regola del superamento di un concorso pubblico per l’assunzione presso PP.AA. ex art. 97 Cost. (vedi, pr tutte: Cass. SU 15 marzo 2016, n. 5072).
Per concludere sul punto mi limito a ricordare che la Corte EDU nella lettura “socialmente orientata” della Convenzione, effettuata fin da epoca remota, come si è detto, ha prodotto una giurisprudenza molto ampia e significativa.
Le norme convenzionali alle quali in questo ambito la Corte fa maggiormente riferimento sono: gli artt. 8, 9, 10, 11, 14, nonché l’art. 1 del protocollo addizionale n. 1 e l’art. 6 della Convenzione. Ma non mancano pronunce in cui sono richiamati gli artt. 2 e 3.
Dal punto di vista sostanziale, l’apertura verso i diritti sociali ed economici operata dalla Corte, si fonda principalmente sulla interpretazione estensiva della nozione di “bene” di cui all’art. 1 Protocollo n. 1, che spesso viene letto in combinato disposto con il principio di non discriminazione sancito nell’art. 14.
Un altro importante pilastro di tale giurisprudenza è rappresentato dall’applicazione dell’art. 6, effettuata sul presupposto secondo cui, in base alla giurisprudenza della Corte, le prestazioni sociali sono qualificabili come diritti di natura civile la cui violazione premette l’accesso alle garanzie del giusto processo, di cui appunto all’art. 6. Va soggiunto che tale applicazione può dare luogo a pronunce le quali, attraverso la sanzione delle norme interpretative che incidono su diritti sociali quesiti (e già configurati in sede giudiziaria), hanno notevoli riflessi sul piano economico per il bilancio dello Stato destinatario (situazione frequente per l’Italia, specialmente in passato, in considerazione del frequente ricorso a norme retroattive specialmente in tema di diritti sociali).
Ovviamente, in alcuni casi, i due suddetti parametri vengono tra loro combinati.
Va anche precisato che, come è stato acutamente osservato in dottrina[17], il riconoscimento, da parte della Corte di Strasburgo, del “diritto al lavoro” (espressamente previsto dalla Carta sociale europea all’art. 1, par. 2 e, ovviamente, dall’art. 4 della nostra Costituzione), avviene sempre nell’ottica “liberale” cui si ispira la Convenzione e, quindi, nella dimensione puramente “negativa” di tale diritto, “inteso quale libertà di scelta di un’attività lavorativa o di una professione che vale come limite al potere legislativo statale di sanzionare determinati soggetti attraverso l’interdizione di molte (troppe) professioni”.
In questo ambito la Corte muove dalla premessa che la nozione di «vita privata» di cui all’art. 8 CEDU non escluda in linea di principio le attività di natura professionale o commerciale, visto che è nell’ambito del lavoro che le persone allacciano un gran numero di relazioni con il mondo esterno (Niemietz c. Germania, sentenza del 16 dicembre 1992). Conseguentemente, la Corte, in numerose pronunce, ha ritenuto contrario all’art. 8 il divieto di ricoprire occupazioni nel settore privato, tenendo conto anche dell’articolo 1 § 2 della Carta sociale europea, entrata in vigore d’Italia il 1° settembre 1999, ai sensi del quale «per garantire l’effettivo esercizio del diritto al lavoro, le Parti si impegnano (...) a tutelare in modo efficace il diritto del lavoratore di guadagnarsi la vita con un lavoro liberamente intrapreso».
Ciò, ad esempio, si è verificato nelle seguenti sentenze: Sidabras e Džiautas c. Lituania, del 27 luglio 2004; Rainys e Gasparavičius c. Lituania, del 7 aprile 2005 (sulle incapacità professionali degli ex membri del KGB); Campagnano c. Italia, Albanese c. Italia e Vitiello c. Italia, tutte del 23 marzo 2006 (sulle incapacità professionali dei falliti).
Non mancano, poi, pronunce nelle quali la Corte si occupa del diritto al lavoro degli immigrati, da diversi e molteplici punti di vista[18].
Anche in questo ambito (diritti socio-economici) le pronunce sono molto numerose e, in questa sede, mi limito a indicare alcune linee interpretative di tendenza [19]:
a) l’art. 8 CEDU, che tutela la vita privata e familiare, è un parametro molto utilizzato, anche per la tutela del diritto al lavoro, nella configurazione “liberale” suddetta;
b) in ambito lavoristico, l’applicazione dell’art. 10 della Convenzione, nella giurisprudenza della Corte, riguarda principalmente, per il lavoro privato, l’attività giornalistica e, per il lavoro pubblico, i limiti alla libertà di espressione dei pubblici dipendenti (a partire dagli insegnanti);
c) l’ambito della tutela dei diritti sindacali di cui all’art. 11 della CEDU è stato nel corso del tempo ampliato – includendovi il diritto dei sindacati di partecipare alla contrattazione collettiva (a partire dalla importante sentenza 12 novembre 2008, Demir e Baykara c. Turchia, Grande Camera) − per effetto della connessione che la Corte ha instaurato tra la CEDU e altri strumenti di tutela internazionale ed europea di tali diritti, quali le Convenzioni OIL e la Carta sociale, fin dalla sua originaria stesura;
d) nella giurisprudenza della Corte EDU le sentenze riguardanti le ipotesi di trattamento discriminatorio nelle materie di sicurezza sociale occupano una posizione di primo piano, per qualità e quantità, salvo restando l’ambito applicativo limitato dell’art. 14 CEDU, di cui si è detto, per il quale esso vieta unicamente la discriminazione nel godimento di uno qualsiasi dei diritti (civili e politici) garantiti dalla Convenzione;
e) i diritti socio-economici e le prestazioni di sicurezza sociale (comprendenti per il nostro ordinamento sia quelle di previdenza sociale sia quelle di assistenza sociale) riconosciute negli ordinamenti interni hanno rilevanza anche ai fini della qualificazione come «diritti ed obblighi civili» di cui all’art. 6 CEDU. Tale norma, infatti, nell’interpretazione della Corte di Strasburgo, fa riferimento sia ai diritti ed obblighi di natura civile sia alle questioni oggetto dell’attività procedimentale alla quale dovranno essere applicate le garanzie dell’equo processo. Pertanto, per i Giudici di Strasburgo l’esercizio di un pubblico potere da parte di un ente non è di per sé idoneo a sottrarre la fattispecie oggetto della controversia dalla qualificazione di una posizione soggettiva come di “diritto avente carattere civile”. Ne deriva che si rinvengono numerose sentenze della Corte nelle quali si è fatta applicazione dell’art. 6 in procedimenti aventi ad oggetto diritti inerenti settori tradizionalmente qualificati come pubblici;
f) a partire dalla sentenza Airey c. Irlanda, del 9 ottobre 1979[20] il diritto di accedere alla giustizia da parte dei soggetti più bisognosi rappresenta una importante applicazione dell’art. 6, effettuata per tutelare i diritti socio-economici visti come necessario prolungamento dei diritti civili e politici riconosciuti dalla Convenzione.
Mi fermo qui.
11. Conclusioni.
Da questa ampia carrellata risulta evidente come oggi per svolgere il proprio lavoro il giudice non può limitarsi ad applicare la legislazione nazionale, perché, per risolvere le singole controversie, è chiamato, con sempre maggiore frequenza, a fare ricorso a clausole generali oppure all’interpretazione conforme o ancora al bilanciamento, anche sulla base delle pronunce della Corti europee centrali[21]: tutte tecniche nelle cui modalità di uso la discrezionalità del giudice e molto elevata.
E si sottolinea come nell’esercizio di tale discrezionalità «rileva il modo di pensare del giudice, perché di fronte il risultato dell’applicazione dei suindicati strumenti interpretativi anche se il parametro di riferimento sia costituito dagli stessi valori, cambia a seconda dell’esperienza e della cultura del giudice»[22].
Credo che, per avere conferma di questo, sia sufficiente ricordare le parole di Piero Calamandrei che in un bellissimo libro scritto nel 1935, ma tuttora di grande attualità, ha sottolineato è il “mutevole cuore del giudice” che comanda nel margine di scelta che l’esegesi delle leggi lascia all’interprete [23].
Per tutte le anzidette ragioni la formazione del giudice oggi – come conferma l’attività della Scuola Superiore della Magistratura − non è più confinata alla sola acquisizione di una competenza tecnica di conoscenza e di capacità di gestione interpretativa delle norme positive, ma è una formazione pensata “come a un impegno di apertura verso l’acquisizione della conoscenza del diritto come prodotto eminentemente culturale, ossia della sua sostanziale indole simbolica, al pari di ogni altra espressione concreta di elaborazione sociale di senso”[24].
In questo, assume peculiare rilievo l’intelligenza emotiva di Goleman [25]che non va confusa con l’emotività e che si traduce in autoconsapevolezza, autogestione, consapevolezza sociale, gestione delle relazioni umane.
Si tratta di una forma di intelligenza oggi molto richiesta nel mondo del lavoro in genere, ma che ha una specifica rilevanza per i lavori o le professioni che richiedono competenze relazionali, quali, ad esempio, le professioni sanitarie, quelle degli insegnanti ma anche quelle del giudice e dell’avvocato.
Del resto, per quanto riguarda queste ultime due professioni, già Calamandrei diceva che non si possono fare solo con il cervello perché richiedono anche l’impegno del cuore e l’intelligenza emotiva viene anche sinteticamente definita come “intelligenza del cuore” che presiede ai rapporti con noi stessi e con gli altri e che può essere sviluppata allenando le nostre risorse emotive in un processo che dura tutta la vita perché se il nostro QI è in gran parte prefissato dalla nascita, la crescita emotiva non lo è e va coltivata.
Per quel che riguarda il nostro mestiere, oggi che si parla, con sempre maggiore frequenza, della “giustizia digitale”[26], è particolarmente importante accedere a questa logica anche perché da più parti si rileva che al momento non vi sono robot capaci di capace di dimostrare “intelligenza emotiva” come quella umana e, d’altra parte, nessun algoritmo è in grado di avere in un unico contesto occhi per ciò che è, per ciò che è stato, per ciò che sarà[27], come si richiede all’interprete e quindi al giudice.
Questo non esclude che possa esservi un graduale possibile affiancamento dell’intelligenza artificiale algoritmica alla figura del giudice, per consentirgli di giungere in modo più facile e rapido alla decisione grazie ai dati tecnici forniti, ma è necessario curare la relativa programmazione onde evitare le applicazioni discriminatorie che si sono riscontrate, ad esempio, nel lavori della gig-economy (vedi, per tutte, l’interessante ordinanza 31 dicembre 2020 del Tribunale di Bologna[28]), nei sistemi USA di riconoscimento facciale usati anche dalle forze dell’ordine o nel 2020 nella valutazione degli studenti in Gran Bretagna.
Ma, come sostengono i più avveduti studiosi, questo certamente non significa promuovere la figura di un “giudice-automa” o di un “giudice-robot”.
Infatti, per quanto possiamo sforzarci ad “addestrare” i nostri computer ad eseguire i nostri compiti o a creare database in grado di contenere l’intero scibile umano, non potremo insegnare (o meglio programmare) l’algoritmo per fargli provare il sentimento di giustizia, o qualunque altro sentimento umano. Oggi non esiste una macchina in grado di provare emozioni e, quindi, di interpretare appieno gli impulsi umani che sono la causa dell’instaurarsi dei contenziosi giuridici[29]. E possono anche determinarne la fine o prevenirne l’inizio.
Tutto questo, e quindi il tipo di formazione che oggi si richiede ai giudici –finalizzato allo svolgimento del loro ruolo sociale, con gli strumenti tecnici migliori − dovrebbe essere sempre più condiviso tra tutti gli Stati UE, dato l’intensificarsi dei rapporti tra i reciproci ordinamenti per una migliore realizzazione del “diritto dei diritti fondamentali” di origine giurisprudenziale, secondo la felice intuizione dal grande Valerio Onida.
Tutti noi giudici europei − insieme con gli avvocati − siamo in prima linea in questo cammino, che dobbiamo percorrere non dimenticando mai che ‒ parafrasando Gabriel García Marquez ‒ se ogni giudice e ogni avvocato per il mondo è solo una persona, per le parti in causa è tutto il mondo.[1] Relazione tenuta il 16 maggio 2023 nell’ambito del Corso di Tirocinio Mirato Mot. D.M. 2022, presso l’Aula Della Torre della Corte Supreme di Cassazione.
[2] Una definizione generale di tali diritti è contenuta nel Patto internazionale sui diritti economici e culturali, dalla Assemblea Generale ONU il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 3 gennaio 1976 che è sottoscritto e ratificato da tutti gli Stati membri dell’ONU e dall’Italia, in particolare, con legge 25 ottobre 1977, n. 881. Ogni Paese che ha ratificato tale Patto si è impegnato a favorire il miglioramento delle condizioni di vita dei suoi abitanti. In particolare, il Patto riconosce il diritto di ogni persona al lavoro, ad un equo salario, alla sicurezza sociale, ad un livello di vita adeguato - soprattutto mettendolo in particolare al riparo dalla fame - nonché alla salute e all'istruzione. Gli Stati ratificanti si sono anche impegnati a garantire ad ogni persona il diritto di costituire con altri dei sindacati e di aderire a sindacati di sua scelta. Il 24 settembre 2009 è stato aperto alla firma e alla ratifica il Protocollo facoltativo al Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, che è entrato in vigore il 5 maggio 2013 ed è stato ratificato dall’Italia con legge 3 ottobre 2014, n. 152. Per effetto del Protocollo gli individui singoli o in gruppo (o loro rappresentanti), sottoposti alla giurisdizione italiana, possono presentare una comunicazione contro lo Stato per violazione dei diritti economici, sociali e culturali riconosciuti nel Patto, tra i quali il diritto al lavoro, all’equo compenso, alla sicurezza sociale. La comunicazione deve essere presentata previo esaurimento dei ricorsi interni ed entro dodici mesi dalla pronuncia interna definitiva e i fatti oggetto della comunicazione devono essere accaduti dopo l’entrata in vigore del Protocollo nello Stato interessato, salvo che si tratti di fatti precedenti che continuino anche dopo tale data.
[3] Vedi, per tutti: D. Stasio, Il “ruolo sociale” del giurista impone una comunicazione più inclusiva in www.questionegiustizia.it 23 marzo 2018.
[4] Si tratta di un argomento molto dibattuto. Le prime contestazioni nascono dall’uso improprio dell’aggettivo “predittiva”, che deriverebbe dal fatto che gli applicativi in parola (algoritmi), non predicono il futuro, ma offrono solo una serie di risultati probabili (vedi: E. Rulli, Giustizia predittiva, intelligenza artificiale e modelli probabilistici. Chi ha paura degli algoritmi?, Bologna, Il Mulino, 2018, p. 532). Si aggiunge che in tempi relativamente recenti si è (ri)cominciato a parlare di «giudice automa» e di giudice robot. In questo contesto, ha preso piede lo studio della c.d. Giustizia predittiva, intesa quale possibilità di prevedere l’esito dei processi attraverso l’uso di algoritmi. Ma si sottolinea che, attualmente, la numerosità dei pericoli e degli ostacoli che si frappongono a un sistema fondato sulla «predittività» sembrano prevalere sui benefici: vedi, per tutti, V. Ciardo, Tutela dei diritti e prevedibilità delle decisioni: la giustizia predittiva, www.diritto.it 24 aprile 2021.
[5] Vedi per tutti: P. Caretti, La “crisi” della legge parlamentare in www.Osservatoriosullefonti.it fasc. n. 1/2010.
[6] vedi, per tutti: E. Calzolaio, Tutela dei diritti fondamentali e giudice europeo, relazione presentata in occasione del Convegno “Diritti fondamentali e diritti sociali” organizzato nell’Università di Macerata il 22 e 23 novembre 2011 e ivi ampi riferimenti in www.giurisprudenza.unimc.it nonché, di recente, L. Tria, L’interpretazione delle pronunce della Corte di giustizia UE e della Corte EDU in www.questionegiustizia.it 11 ottobre 2019.
[7] Così V. Zagrebelsky, La giurisprudenza casistica della Corte europea dei diritti dell’uomo; fatto e diritto alla luce dei precedenti, relazione del 20 novembre 2009 in www.giurisprudenza.unimib.it
[8] vedi, per tutti: E. Calzolaio, Tutela dei diritti fondamentali e giudice europeo, relazione presentata in occasione del Convegno “Diritti fondamentali e diritti sociali” organizzato nell’Università di Macerata il 22 e 23 novembre 2011 e ivi ampi riferimenti in www.giurisprudenza.unimc.it nonché, di recente, L. Tria, L’interpretazione delle pronunce della Corte di giustizia UE e della Corte EDU in www.questionegiustizia.it 11 ottobre 2019. Entrambi citati sopra.
[9] Il precedente più noto è la sentenza Airey c. Irlanda, del 9 ottobre 1979
[10] Per ulteriori approfondimenti sul punto: L. Tria, La tutela dei diritti fondamentali. Le tecniche di interrelazione normativa indicate dalla Corte costituzionale (dicembre 2014) in www.cortecostituzionale.it
[11] A. Voci e L. Pagotto, Il pregiudizio. Che cosa è, come si riduce, Laterza, 2010
[12] S. Fredman, Discrimination Law, 2011.
[13] La Piattaforma d’azione di Pechino sui diritti di donne e ragazze e sull’uguaglianza di genere, è stata approvata nella Conferenza Mondiale da 189 governi che hanno fatto un’ampia serie di promesse per sostenere i diritti umani di tutte le donne del mondo. Essa viene considerata come un vero e proprio referendum sui diritti umani delle donne in dodici aree critiche, che vanno dai diritti economici e sociali, come la povertà e l’istruzione, alla partecipazione politica e alla violenza contro le donne, sia in famiglia che nei conflitti armati. A Pechino si è stabilito fermamente che i diritti delle donne sono diritti umani e che soddisfare i bisogni delle donne è fondamentale per il progresso di ogni nazione nello sviluppo economico e nella democrazia. Nel corso del tempo questi impegni politici sono stati rinnovati. Ma è stata anche sottolineata l’importanza che le donne utilizzino la Convenzione per l’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne (CEDAW) e tutti gli altri trattati sui diritti umani, che, a differenza dalla Piattaforma di Pechino, sono obblighi giuridicamente vincolanti per i Paesi che li firmano.
[14] Come è dimostrato dalla recente sentenza della CGUE, 3 giugno 2021, C 624/19, che in una controversia pendente davanti al Tribunale del lavoro di Watford, Regno Unito tra circa 6 000 lavoratori e la Tesco Stores Ltd, datore di lavoro attuale o passato di questi ultimi presso i suoi negozi, in merito alla rivendicazione della parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici, ha affermato il principio secondo cui l’art. 157 TFUE – in base al quale ogni Stato membro assicura ai lavoratori la parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso − deve essere interpretato nel senso che ha efficacia diretta nelle controversie tra privati in cui è dedotta l’inosservanza del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile per un «lavoro di pari valore», sancito in tale articolo.
[15] In www.healthy-workplaces.eu
[16] Vedi, per tutti: L. Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Bari-Roma, 2008; A. Acconero, San precario lavora per noi. Gli impieghi temporanei in Italia, Milano, 2006; R. Sennet, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano, 2001.
[17] vedi, per tutti: A. Guazzarotti, Giurisprudenza CEDU e giurisprudenza costituzionale sui diritti sociali a confronto in www.gruppodipisa.it
[18] Per non appesantire la presente trattazione, mi permetto di rinviare, sul punto, a L. Tria, Stranieri extracomunitari e apolidi, Milano, 2013 nonché a L. Tria, Il diritto al lavoro degli stranieri nella giurisprudenza delle Corti supreme nazionali ed europee (Corti di Strasburgo e Lussemburgo) in www.europeanrights.eu
[19] Per eventuali ulteriori approfondimenti: L. Tria, La Corte europea e i diritti socio-economici in AA. VV., La CEDU e il ruolo delle Corti, a cura di P. Gianniti, Zanichelli, 2015
[20] Vedi retro, paragrafo 2.
[21] L. Tria, Brevi osservazioni sul bilanciamento nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in AA.VV. Interpretazione conforme, bilanciamento dei diritti e clausole generali, a cura di R. Cosio e G. Bronzini, Giuffrè 2017.
[22] S. Patti, op. cit., richiamato da M. Dell’Utri, La genesi della sentenza, (commento all’omonimo libro cit.), www.questionegiustizia.it
[23] P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, 1935
[24] M. Dell’Utri, op. cit.
[25] L’intelligenza emotiva non va confusa con l’emotività, perché si tratta − secondo Daniel Goleman, che per primo ad averla studiata − di una forma di intelligenza che consiste nella capacità di riconoscere i propri sentimenti e quelli degli altri e di saper gestire le emozioni in modo efficace e che richiede molte competenze anche interpersonali, come “decifrare i segnali sociali e emozionali, ascoltare, essere in grado di resistere alle influenze negative, mettersi dal punto di vista dell’altro e capire quale comportamento sia accettabile in una situazione”.
Del resto, ormai da tempo, nel mondo del lavoro in genere tale qualità ‒ che si traduce principalmente in padronanza di sé, resilienza sotto stress, empatia, influenza e lavoro di squadra ‒ è considerata determinante “per il successo” ed esserne dotati è ritenuto vitale per la carriera e addirittura più importante rispetto al possesso di un alto quoziente intellettivo.
[26] S. Gaboriau, Libertà e umanità del giudice: due valori fondamentali della giustizia. La giustizia digitale può garantire nel tempo la fedeltà a questi valori?, www.questionegiustizia.it
[27] G. Zagrebelsky, Fondata sulla cultura. Arte, scienza e Costituzione, Einaudi, 2014, richiamato da D. Stasio, Il “ruolo sociale” del giurista impone una comunicazione più inclusiva, www.questionegiustizia.it
[28] Questa pronuncia è considerata storica perché con essa il Tribunale di Bologna ha accolto il ricorso per discriminazione collettiva proposto congiuntamente da NIDIL, FILCAMS e FILT, riconoscendo in sede giudiziaria per la prima volta in Europa che l’algoritmo (nella specie Frank, l’algoritmo utilizzato dalla DELIVEROO) non era neutrale nelle sue decisioni ma era capace di discriminare in quanto riproduceva all’infinito la “logica” dei suoi programmatori.
[29] V. Ciardo, Tutela dei diritti e prevedibilità delle decisioni: la giustizia predittiva, www.diritto.it 24 aprile 2021, cit.