Pubblichiamo il discorso augurale del Presidente Giorgio Lattanzi all’incontro di presentazione dei Magistrati ordinari in tirocinio.
1. In questo tradizionale incontro dei magistrati ordinari in tirocinio con il Presidente della Repubblica, che è anche Presidente del Consiglio superiore della magistratura, porto il saluto della Scuola superiore della magistratura
Anche se da anni sono cessate le mie funzioni di magistrato, vi ho chiamato colleghi perché continuo a sentirmi un magistrato, come generalmente continua a sentirsi chiunque ha fatto il magistrato, anche se non è più in servizio.
Un magistrato rimane sempre tale.
La sua attività professionale non è assimilabile a nessun’altra e nel tempo forma la sua personalità, per le responsabilità che implica e per le aspettative che determina nella collettività, aspettative delle quali il magistrato è ben consapevole.
«Ci sarà pure un giudice a Berlino», è la frase che pronuncia il mugnaio Arnold di Sanssouci che dopo aver avuto torto da un giudice locale corrotto, aveva deciso di rivolgersi ai giudici di Berlino per vedersi riconoscere il diritto negato, e che alla fine aveva ottenuto giustizia da Federico il Grande.
È una frase che viene spesso citata perché esprime fiducia, quella fiducia che i giudici devono ricevere per averla meritata.
E per meritarla sono molte le qualità richieste, tra le quali in primo luogo l’indipendenza, l’imparzialità e l’equilibrio.
Il giudice, come anche il pubblico ministero, non solo deve essere imparziale ma deve anche apparire imparziale, e per apparire tale occorre che sia privo di legami politici, economici, sociali, personali o anche solo ideologici che possano farlo ritenere condizionato o condizionabile.
La Costituzione vuole un giudice che sia e appaia indipendente e imparziale e lo ha protetto con un insieme di garanzie, disegnando un sistema articolato per averlo così. Vuole difenderlo da invasioni e pressioni da parte degli altri poteri dello Stato, e vuole che egli, a sua volta, eviti invasioni dell’ambito riservato a questi poteri.
Signor Presidente, sottolineando la saggezza dei Padri costituenti, Lei, nel ricevere al Quirinale alcuni studenti delle scuole secondarie di secondo grado, ha ricordato come la nostra Costituzione abbia consentito di superare momenti molto difficili nella storia del Paese proprio perché «ha creato una condizione di equilibrio», vale a dire «un sistema in cui nessuno, da solo, può avere troppo potere», ovvero «un sistema complesso di pesi e contrappesi», per evitare che l'esercizio del potere possa «provocare il rischio di fare inebriare, di perdere il senso del servizio e di fare invece acquisire il senso del dominio nell'esercizio del potere». Ed è questo un assetto che nelle linee di fondo credo non debba mutare.
È vero che il funzionamento delle istituzioni troppo spesso non va esente da critiche ma mi chiedo se sono critiche che possono rivolgersi alla Costituzione, per come regola le istituzioni, o alle persone che le rappresentano, e se quelle critiche, o altre, non vi sarebbero se la Costituzione venisse modificata e fosse diversa.
Proviamo a cambiare prospettiva e a chiederci se non dobbiamo invece dare atto alla Costituzione di aver garantito la tenuta delle istituzioni pur in presenza di mutamenti politici significativi o di situazioni politiche e sociali che le hanno messe a dura prova, come quelle delle stagioni del terrorismo e della criminalità mafiosa o, sotto altro profilo, del contrasto alla pandemia e delle conseguenti necessarie limitazioni anche di diritti fondamentali.
In tutti questi casi e in altri, diversi ma ugualmente complessi, l’ordinamento e lo stato di diritto hanno tenuto.
È la Costituzione che rappresenta la garanzia dei diritti e dell’assetto ordinamentale della Repubblica e i giudici, da quelli comuni alla Corte costituzionale, hanno un ruolo fondamentale per rendere effettiva questa garanzia.
2. Il giudice comune, come generalmente si dice, è il portiere del Palazzo della Consulta. È lui che rimettendo le questioni alla Corte costituzionale consente a questa di espungere dall’ordinamento le norme in contrasto con la Carta fondamentale.
Nel recente corso organizzato dalla Scuola sui rapporti tra il giudice comune e la Corte costituzionale c’era una relazione intitolata «Quando il giudice comune deve “fare da sé”: interpretazione adeguatrice, interpretazione conforme, disapplicazione della norma di legge».
Effettivamente sono molti i casi in cui il giudice deve “fare da sé”,
La formazione dell’ordinamento oggi più che mai passa attraverso l’interpretazione e l’applicazione giurisprudenziale. L’atto legislativo costituisce la fonte della disposizione ma non di rado è l’applicazione giurisprudenziale a produrre la norma, stabilendone il significato. Non c’è legge che non richieda un’interpretazione - sia pure molto semplice, solo letterale - ma oggi in realtà il compito dell’interprete è diventato ben altro e spesso richiede operazioni assai complesse.
Alla normativa nazionale si sono aggiunte le disposizioni della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dell’Unione europea, e si tratta di disposizioni che vengono interpretate e specificate dalla giurisprudenza delle Corti europee, che si impone al giudice italiano e che, a sua volta, richiede di essere interpretata.
C’è poi la questione del rapporto tra la legge e la Costituzione, che introduce, tra l’altro, il tema dell’interpretazione conforme e del relativo onere del giudice. Interpretazione conforme che è dovuta sia rispetto alla Costituzione, sia rispetto alle normative europee, che ai sensi dell’art. 117, primo comma, possono, come norme interposte, determinare a loro volta situazioni di illegittimità costituzionale. Sempreché, come è possibile per il diritto dell’Unione europea, non si tratti di norme da applicare direttamente, anche se sono in contrasto con norme interne.
L’interpretazione conforme ben può essere causa di incertezze, perché può variare da giudice a giudice.
Ancor di più può generare incertezze l’applicazione diretta delle norme dell’Unione europea con la contemporanea disapplicazione, o meglio non applicazione (come è stato precisato da alcune decisioni della Corte costituzionale), del diritto interno.
Quindi sotto diversi profili la norma è figlia dell’interpretazione del giudice all’esito di un’operazione a volte complessa ma, come Lei Signor Presidente ha precisato nell’intervento del 15 maggio scorso, alla cerimonia di inaugurazione della terza sede della Scuola Superiore della Magistratura a Castel Capuano, «Si deve avere ben chiara la distinzione della doverosa interpretazione e applicazione delle norme rispetto alla pretesa di poterle creare per soddisfare esigenze che non possono trovare riscontro nell’ambito della funzione giurisdizionale».
Il che significa che al giudice non tutto è consentito, sia pure attraverso un’interpretazione conforme alla Costituzione, e quando la lettera della legge o una sua lacuna gli si oppone insuperabilmente il giudice deve utilizzare le chiavi che la Costituzione gli ha consegnato e aprire la porta del Palazzo della Consulta per rimettere la questione alla Corte costituzionale, perché, come Ella, Signor Presidente, nella stessa occasione ha ammonito «è bene aver presente che lo stesso rispetto che deve essere assicurato alla piena irrinunziabile indipendenza della funzione giudiziaria deve essere sempre riconosciuto e assicurato anche alle altre funzioni dello Stato».
Nei suoi corsi ai magistrati in tirocinio la Scuola cura in modo particolare l’informazione e l’approfondimento relativi a temi e a questioni giuridiche di interesse applicativo, specie a quelle di rilevante attualità, ma la sua attività va oltre, tende a dare loro sia una formazione giuridica in senso pieno (che consiste non solo nella conoscenza della normativa ma anche nella capacità di interpretarla e di riportarla a sistema, cosa sempre più difficile), sia una formazione più generalmente professionale, che vuole comunicare, far sentire, cosa significa essere un magistrato e quali devono essere i suoi comportamenti, anche al di fuori dell’esercizio della professione.
Nei corsi per i magistrati in tirocinio (come anche in quelli della cosiddetta formazione permanente, che riguarda tutti i magistrati) è sempre presente un corso sull’etica del magistrato, che secondo le attese della collettività comporta doveri più impegnativi di quelli generalmente gravanti sulle altre persone. È un corso che riguarda anche la comunicazione e l’uso dei social network, perché occorre che di fronte alle varie occasioni di comunicazione che gli si offrono il magistrato consideri sempre con attenzione la legittimità, la forma, i possibili effetti della sua attività e soprattutto le eventuali conseguenze pregiudizievoli per le persone alle quali la comunicazione si riferisce.
È da aggiungere che la formazione tecnica del magistrato non si esaurisce nella conoscenza delle norme e del metodo per applicarle ma implica l’acquisizione di una cultura giuridica condivisa. L’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, predicata dall’art. 3 Cost., non può non essere anche uguaglianza davanti all’applicazione della legge, e di ciò il giudice deve darsi carico.
Signor Presidente, come Ella ha affermato il 30 marzo dell’anno passato, parlando nel Palazzo del Quirinale ai magistrati in tirocinio, «Nella decisione – che non deve mai ignorare il peso della responsabilità per le sue conseguenze sulla società e sulle singole persone – non si è mai soli. Oltre al conforto degli studi, degli approfondimenti e dei precedenti giurisprudenziali, il magistrato è espressione dell’Ordine giudiziario al quale appartiene, e la sua decisione sarà sempre più resistente e comprensibile quanto maggiore sarà il livello di confronto e la condivisione di cui si è potuta avvalere».
Occorre che di ciò il magistrato sia consapevole, è un modo di essere che deve formare la sua cultura, perché, come ha osservato Valerio Onida, che del Comitato direttivo della Scuola è stato il primo indimenticabile presidente, «Anche quando il singolo magistrato è chiamato ad operare come giudice monocratico, la giurisdizione è sempre tendenzialmente collegiale, e comporta dunque la necessità per ciascuno di confrontarsi con gli altri magistrati e di concorrere alla costruzione di posizioni comuni».
Signor Presidente, anche di questa cultura la Scuola della magistratura vuole farsi promotrice, come più in generale della formazione, oltre che giuridica, pure comportamentale ed etica dei magistrati, di quelli in tirocinio e anche di tutti gli altri che partecipano ai corsi, ricordando loro che alle guarentigie riconosciute alla magistratura corrispondono altrettanti impegnativi doveri, perché, come ha detto Gaetano Silvestri, che mi ha preceduto nella presidenza della Scuola, «una buona formazione non può limitarsi al sapere e al saper fare dei magistrati, ma deve comprendere, come sua parte essenziale, il saper essere».