Questo contributo è parte dell'approfondimento in tema di infortuni inaugurato su questa Rivista il 1° marzo 2024 (v. L'emergenza nazionale degli infortuni sul lavoro e la risposta delle istituzioni: uno sguardo di insieme di Maria Laura Paesano, Le indagini in materia antinfortunistica e la sensibilità del pubblico ministero di Giuseppe De Falco, Controlli amministrativi e sanitari. Il contrasto agli infortuni in via preventiva di Francesco Agnino, Alla ricerca del reale garante del rischio lavorativo nelle imprese individuali di Lorenzo Gestri).
Sommario: 1. Infortuni sul lavoro e pubblica amministrazione: principi generali - 2. La nozione di datore di lavoro nell’ambito della P.A. – 3. I caratteri del datore di lavoro pubblico – 4. La posizione della giurisprudenza di legittimità - 5. Infortuni sul lavoro e responsabilità del Sindaco.
1. Infortuni sul lavoro e pubblica amministrazione: principi generali.
Indispensabile premessa metodologica è quella afferente alla esigenza di distinguere rectius l'attività produttiva d'impresa (privata e pubblica), garantita dall'art. 41 Cost., dall'attività amministrativa della pubblica amministrazione, prevista dall'art. 97 Cost.
Nel primo caso, il datore di lavoro deve disporre ex se per legge - se vuol esercitare lecitamente l'attività d'impresa (art. 41, co. 2°, Cost.) - di mezzi adeguati allo scopo. (13) E devono essere contemplati tra i mezzi adeguati anche gli oneri della sicurezza sul lavoro, i quali vanno considerati nell'ambito della dinamica dei costi di produzione alla pari degli altri costi dei fattori produttivi, non potendo essi rappresentare elementi esogeni, bensì costituendo elementi endogeni alla produzione, come lo sono invero tutti i costi di produzione. Costi, che, in una struttura produttiva correttamente impostata, vanno ad essere iscritti nel bilancio di esercizio tra le passività (artt. 2424 e 2425 c.c.), non gravando dunque sull'utile d'azienda.
Più specificamente, l'art. 41 Cost., dopo aver sancito, al comma primo, che "L'iniziativa economica privata è libera", al secondo, ha subito precisato che "Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". Per altro verso, già l'art. 35, in apertura della nostra c.d. Costituzione economica, statuisce che "La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni", ergo non potrà mai darsi che l'attività lucrativa d'impresa possa andare a detrimento della salute e della sicurezza del lavoratore, in quanto il profitto non può essere costruito a scapito della sicurezza sul lavoro.
Del tutto diverso è invece il ragionamento da farsi per l'attività amministrativa della P.A. esplicata dagli uffici pubblici ai sensi dell'art. 97 Cost.
In tale ipotesi, non c'è alcuna ricerca del profitto o, comunque sia, di un'attività lucrativa, bensì il semplice esercizio di funzioni o servizi pubblici, nel cotesto di una organizzazione burocratica di diritto pubblico, ispirata dai principi di legalità, imparzialità e buon andamento, sottoposta a precisi vincoli gestionali e di spesa pubblica.
Lo Stato e gli enti pubblici autarchici (o istituzionali) non sono tenuti per legge a disporre di mezzi illimitati per esercitare i poteri attribuiti, sussistendo i pregnanti condizionamenti della finanza pubblica, derivanti dai principi della legalità dell'imposizione (art. 23 Cost.) e della parametrazione del prelievo fiscale alla capacità contributiva dei consociati (art. 53 Cost.), nonché dal vincolo della necessaria copertura della spesa a mezzo del bilancio pubblico (art. 81, co. 3° e 4°, Cost.).
Più specificamente, l'art. 53, comma 1, Cost. prevede che "Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva". La capacità contributiva è da intendersi come parametro di riferimento fondamentale per l'impostazione dell'intero sistema tributario che, come precisato dal comma 2, "è informato a criteri di progressività". È dunque evidente che la finanza pubblica sia in gran parte condizionata dalla concreta "capacità contributiva" dei consociati ancorata ai guadagni ed alla capacità economica esprimibile in un determinato tempo e, quindi, collegata, quale variabile dipendente, al sistema produttivo del Paese.
A sua volta, è il legislatore a stabilire, con la legge di bilancio e con le altre forme previste dalla legislazione sulla contabilità e la finanza pubblica (l. 31 dicembre 2009 n. 196), le risorse di dotazione per la pubblica amministrazione, che è tenuta ad agire nei limiti dei finanziamenti assegnati, anche con riferimento alla sicurezza sul lavoro.
Inoltre, va considerato che tutte le direttive comunitarie in materia di sicurezza sul lavoro (in particolare, la Dir. 89/391/CEE) non definiscono la figura del "datore di lavoro", che viene semplicemente enunciata, ma mai descritta nel dettaglio, bensì disciplinano, con disposizioni minuziose, le caratteristiche del sistema di sicurezza sul lavoro voluto, concludendo poi nel senso che eguali garanzie degli ambienti di lavoro privato valgono anche per quelli pubblici, omettendo però ogni ulteriore specificazione e, di conseguenza, consegnando al legislatore dello Stato membro di pensare al modo migliore attraverso cui garantire la sicurezza negli ambienti di lavoro pubblico, senza che per questo esista la necessità di imitare quello privato lucrativo.
Pertanto, a ratione l'articolato normativo inerente alla tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro disegnato dal d.lgs. n. 81/2008 succ. mod. va calato nell'apparato burocratico pubblico, con taluni adattamenti e correzioni indispensabili per ricostruire il "tessuto" delle disposizioni normative, che, come visto, sono carenti di sufficiente tipizzazione.
Tutte le direttive comunitarie in materia di sicurezza degli ambienti di lavoro (es. Dir. 89/391/CEE) individuano quale soggetto massimo responsabile della sicurezza sul lavoro, nel complesso aziendale, il "datore di lavoro", intendendosi per tale il soggetto giuridico persona fisica o persona giuridica "titolare" del rapporto di lavoro e che abbia, altresì, la responsabilità dell'impresa e/o dello stabilimento produttivo. Nessuna altra specificazione viene effettuata, se non quella per la quale vanno garantite agli ambienti di lavoro pubblico, tendenzialmente, eguali garanzie di sicurezza rispetto a quelli privati, attraverso apposite strutture di vigilanza interna; ciò necessariamente in quanto le persone giuridiche pubbliche, in base all'art. 11 c.c., sono in una posizione giuridica separata rispetto alle persone giuridiche private, in quanto: "[…] gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico".
Non esiste poi nel diritto comunitario alcuna assimilazione tra imprese private e pubbliche amministrazioni, anzi prevedendosi esplicitamente una possibilità di diverso e più articolato regime. Inoltre, va osservato che il soggetto giuridico titolare del rapporto di lavoro e della responsabilità d'impresa è, di norma, quello singolo che possiede la proprietà dell'impresa, oppure quello collettivo del consiglio di amministrazione della società.
Venendo all'ordinamento italiano, che ha trasposto la Dir. 89/391/CEE, notiamo che la nozione generale di "datore di lavoro", ai sensi dell'art. 2, co. 1, lett. b), prima alinea, del T.U.S.L. d.lgs. n. 81/2008 succ. mod. (che ha sostituito il D.Lgs n. 626 del 1994 succ. mod.) è quella del soggetto "titolare del rapporto di lavoro" o che, ad ogni modo, detenga "la responsabilità dell'organizzazione […] in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa".
Datore di lavoro, quindi, per la normativa in materia di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, come invero anche per quella in materia di assicurazione sociale contro gli infortuni, è colui che ha instaurato il rapporto di lavoro e che abbia necessitate un potere di decisione e di spesa ivi comprese evidentemente le problematiche inerenti alla sicurezza sul lavoro.
Una simile impostazione fa emergere il carattere fondamentale del massimo soggetto responsabile in materia di sicurezza, ossia il potere di determinare, anche in materia di spesa, quanto si debba fare in materia di sicurezza, onde poter onorare con efficacia la posizione di garanzia assegnata dall'ordinamento.
Dunque, possiamo dire, già in prima approssimazione, che non sussiste un "datore di lavoro", laddove non vi sia un adeguato "potere decisionale e di spesa" e (implicitamente) un'adeguata organizzazione aziendale di sostegno.
2. La nozione di datore di lavoro nell’ambito della P.A.
La figura giuridica del "datore di lavoro" nell'ambito della disciplina in materia di igiene e sicurezza del lavoro assume connotati affatto peculiari con riguardo alla sfera del mondo della pubblica amministrazione.
Ciò per evidenti motivazioni collegate alla natura stessa dell'attività amministrativa, che è né più né meno che attività di cura concreta dell'interesse pubblico, nell'esplicazione di potestà pubbliche predeterminate dalla legge ed intestate, di norma, a soggetti pubblici all'uopo muniti della necessaria competenza.
In generale, va ricordato che, il dirigente, nella misura in cui rivesta il ruolo di organo preposto alla gestione dei rapporti di lavoro, assume le relative misure inerenti alla gestione con la capacità (giuridica) e i poteri (funzionalizzati) del privato datore di lavoro, ma pur sempre nel rispetto della legge e degli atti di organizzazione posti dal vertice amministrativo (art. 5, co. 1 e 2, d.lgs. n. 165/2001 succ. mod.).
In sostanza, gli organi della P.A. (e le persone fisiche ivi preposte), deputati a gestire lato sensu i rapporti di lavoro, sono abilitati ad esplicare tutte le prerogative e le funzioni del datore di lavoro solo per fictio juris, senza dunque mai identificarsene in toto, in quanto in realtà l'autentico datore di lavoro, in questi casi, è difatti, impersonalmente, la persona giuridica pubblica (es.: Stato, ente pubblico autarchico, Regione, Comune, etc.), che, per l'appunto, agisce mediante appositi e predefiniti organi (di governo) di vertice ed organi (dirigenziali) amministrativi, in virtù del c.d. rapporto di immedesimazione organica, talché può dirsi che l'ente agisce tramite i suoi organi e l'azione dei suoi organi (politici e dirigenziali) è volontà espressa dell'ente.
Più specificamente, è l'organo di governo ad esercitare il c.d. potere gestorio della persona giuridica, in qualche modo, rapportabile a quello che, nelle grandi società di capitali, compete al consiglio di amministrazione. Sott'ordinati, oggi secondo una distinzione di tipo funzionale, sono i dirigenti di vario livello.
La complessità organizzativa dell'ente poi implica la sussunzione nel suo alveo di figure interne intermedie pure abilitate, nel rispetto però di prefissate aree di competenza, ad esprimere in parte qua determinazioni dal vario contenuto aventi efficacia giuridica esterna (oltreché interna). Titolari degli uffici amministrativi (interni) sono taluni funzionari pubblici apicali e qualificati, che possono variamente essere considerati "dirigenti" (art. 2, co. 1, lett. d), d.lgs. n. 81/2008) o "preposti" (art. 2, co. 1, lett. e), d.lgs. n. 81/2008 ai sensi della normativa di prevenzione.
Nella P.A., dunque, la responsabilità datoriale intestata impersonalmente alla persona giuridica pubblica si "rifrange", in primis, nelle figure giuridiche del governo di vertice, che esprimono l'indirizzo politico-amministrativo del c.d. ente morale e, in secundis, nelle figure sott'ordinate dirigenziali, che esercitano, con autonomia, la gestione tecnico-amministrativa, comunque a talune predeterminate, in via normativa, puntuali condizioni.
Pertanto, datore privato di lavoro e datore pubblico di lavoro sono concetti affatto distinti per natura intrinseca e definizione legislativa. Di conseguenza, soprattutto per quanto attiene alla specifica tematica della igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro, vanno operati taluni distinguo, come lo stesso legislatore del T.U. peraltro fa con riguardo alle fattispecie astratte contemplate in più parti del testo e come, d'altro canto, la giurisprudenza ugualmente ha sovente fatto con riferimento alle fattispecie concrete di responsabilità che ha esaminato.
Difatti, per il settore pubblico burocratico, sono stati previsti due tipi fondamentali di regimi derogatori diversi. Uno ordinario valido per le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, co. 2, d.lgs. n. 165/2001 succ. mod., ossia per le P. A. con rapporto di lavoro a regime privatizzato (o contrattualizzato) ed un altro speciale per le pubbliche amministrazioni a regime pubblicistico e per taluni ambiti lavorativi particolari (anche se a rapporto di lavoro privatizzato).
Il primo regime derogatorio, quello ordinario, è delineato nell'art. 2 (Definizioni), co. 1, lett. b), parte seconda, d.lgs. n. 81/2008, secondo il quale: "Nelle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo".
Il secondo regime derogatorio, quello speciale, è, invece, delineato nell'art. 3 (Campo di applicazione), co. 2 e 3, d.lgs. n. 81/2008, con riferimento ai seguenti settori: a) forze armate, di polizia, protezione civile, ordine pubblico, strutture giudiziarie e penitenziarie; b) università ed istruzione pubblica; c) uffici all'estero: d) mezzi di trasporto aerei e marittimi; e) archivi, biblioteche e musei sottoposti a vincoli di tutela per i beni artistici storici e culturali; f) bordo delle navi, ambito portuale, navi da pesca, trasporto ferroviario (L. Ieva, La responsabilità del datore di lavoro pubblico nel nuovo T.U. n. 81/2008, in DPP, 2011, 475).
3. I caratteri del datore di lavoro pubblico.
Il datore di lavoro pubblico settoriale è normalmente un dipendente munito della qualifica di dirigente, poiché soltanto con riferimento a siffatto soggetto, appositamente selezionato e dotato della relativa caratura professionale (ex artt. 15 ss del d.lgs. n. 165/2001 succ. mod.) necessaria ed indispensabile per l'assolvimento degli onerosi obblighi di sicurezza, è ipotizzabile il radicamento delle responsabilità, spesso di ordine penale, in materia di sicurezza del lavoro.
Va doverosamente evidenziato che l'ossimoro secondo cui "datore di lavoro" pubblico è un "dipendente" della P.A., seppure munito di qualifica dirigenziale, mostra chiaramente tutta la specialità della materia del lavoro pubblico, dove non esiste un reale datore - tale essendo in realtà solo la persona giuridica pubblica - ma soltanto figure che, in virtù di fictio juris, lo possono sostituire (L. Ieva, La responsabilità del datore di lavoro pubblico nel nuovo T.U. n. 81/2008, op. cit., 483).
Continuando, la disposizione di cui all'art. 2, co. 1, lett. b), cit. fa anche riferimento alla qualifica di funzionario "nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale". Pertanto, per il legislatore del T.U.S.L., assume maggior rilievo la circostanza oggettiva della preposizione ad uffici dotati di autonomia gestionale e di spesa, più che la qualifica soggettiva rivestita da chi ne è preposto, con ciò sottolineando la preminenza della capacità di spesa come elemento che qualifica la responsabilità.
Resta comunque il primo dato normativo utile: datore di lavoro pubblico, per il T.U.S.L. (come già per il Decreto n. 626), è un dipendente, munito, di norma, di una particolare qualifica: quella di dirigente.
Elemento preponderante per radicare la responsabilità datoriale, ai fini della normativa in materia di sicurezza sul lavoro, è l'autonomia gestionale dell'ufficio cui è preposto il dirigente (od il funzionario). La disposizione però non chiarisce in cosa essa consista e, per di più, sembra distinguere siffatto carattere da quelli successivi della autonomia decisionale e della spesa.
Sicuramente "gestire" in autonomia vuol significare, dal punto di vista gius-pubblicistico, possedere la facoltà giuridica di amministrare l'ufficio pubblico diretto, nell'ambito della competenza riconosciuta, con piena responsabilità dei provvedimenti ed atti adottati, ma non solo; dalla visuale gius-lavoristica significa anche "dirigere" i rapporti di lavoro dei dipendenti assegnati e badarne ai rispettivi bisogni di tutela di salute e sicurezza sul luogo di lavoro, con i correlativi oneri. Ma, a tal proposito, occorre effettuare un passo indietro.
Sul punto, infatti, vanno necessariamente premesse alcune riflessioni di carattere più generale riconnesse alla peculiare natura delle soggettività pubbliche, che, oltre a possedere caratteri assai eterogenei e variabili, vedono sempre filtrata la formazione di ogni determinazione, avente giuridica significatività, ivi compresa quella c.d. gestoria, da una pluralità di organi.
In via di principio, deve rilevarsi come il potere gestorio nel campo pubblico sia scomponibile in due macro-categorie essenziali: a) la funzione di indirizzo politico-amministrativo; b) la funzione di gestione amministrativa concreta (artt. 4-5 D.Lgs n. 165 del 2001 succ. mod.).
La prima, ai sensi dell'art. 4, comma 1, d.lgs. n. 165/2001, è di competenza degli organi di governo che esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Segnatamente, ad essi competono la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione e la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale e, in via indiretta, tra quelli di livello non dirigenziale generale.
La seconda, invece, ai sensi dell'art. 4, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, compete ai dirigenti, i quali adottano tutti i provvedimenti (compresi quelli che impegnano l'amministrazione all'esterno) e curano la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, mediante autonomi poteri di spesa (nei limiti degli stanziamenti) e di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo (nei limiti prefissati normativamente), ivi compresi gli adempimenti in materia di sicurezza sul lavoro, in base al modello generale definito dagli organi di vertice.
Pertanto, fermo restando i comuni canoni di imputazione delle responsabilità (penale, civile, amministrativa), sono di norma i dirigenti ad essere chiamati a rispondere della complessiva attività gestionale amministrativa e dei relativi risultati. Ma, talvolta, va detto che emerge la responsabilità della componente politica (soprattutto a livello locale), ogni qual volta prevalga la considerazione della omissione di piani programmatici e finanziari di esclusiva competenza politica, che, a monte, si rivelino quale elementi essenziali e condizionanti le scelte, a valle, a valenza più spiccatamente amministrativa e di gestione.
Una possibile (ma non unica, stante il ruolo del massimo decisore politico) chiave di lettura è quella di ritenere che datore di lavoro, nell'ambito del lavoro pubblico, sia colui che abbia una facoltà di gestione lato sensu intesa di direzione, di organizzazione e di controllo dell'attività amministrativa dell'ufficio pubblico, come peraltro si evince dagli artt. 17-18 del d.lgs. n. 165/2001, a patto che questa sia autenticamente di vasta portata e, soprattutto, contemplante tutto quanto occorra per la efficace adozione delle misure di sicurezza sul lavoro.
In genere, come visto, siffatta figura giuridica corrisponde a quella del dirigente titolare di un organo amministrativo di una data amministrazione od ente pubblico, che ha, congiuntamente, i poteri di rappresentare l'amministrazione all'esterno, di amministrare la funzione pubblica o il pubblico servizio e di gestire i rapporti di lavoro dei dipendenti assegnati all'ufficio.
Terzo elemento fondamentale è quello che potrebbe definirsi come effettività della autonomia gestionale dell'ufficio, cui è da ricondursi la potestà decisionale e di spesa.
Si tratta di un potere gestorio, che - in linea di principio - per portata e soprattutto per funzione, dovrebbe essere molto simile a quello che, in dottrina, (57) è riconosciuto agli amministratori di società di capitali (art. 2380 bis c.c.); tuttavia, la normativa in materia di contabilità pubblica riserva un simile potere - come deve essere, in ambito pubblico, ove si amministrano denari della collettività - soltanto in testa agli organi di vertice (es.: ministri, consiglieri di amministrazione, etc.), attribuendo ai dirigenti potestà decisionali e di disponibilità finanziaria soltanto di carattere derivato, rispetto alle primarie potestà di pianificazione, di indirizzo amministrativo e di assegnazione delle risorse ai dirigenti preposti ai centri di responsabilità, veicolate attraverso il bilancio e l'assegnazione di appositi budget (l. n. 94/1997; d.lgs. n. 127/1997; d.P.R. n. 97/2003).
Difatti, i commi 1 e 2 dell'art. 4 del d.lgs. n. 165/2001, prevedono che la definizione degli obiettivi, nonché la individuazione delle risorse economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità, competa agli organi di governo. Mentre, ai dirigenti spetta la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, mediante autonomi poteri di spesa nei limiti dei budget assegnati.
Dal sistema sembra, quindi, evincersi un potere di gestione e decisionale di spesa ripartito tra una pluralità di figure e, soprattutto, collegato alle risorse finanziarie (disponibili de facto anche in base all'andamento generale dell'economia pubblica), oltreché subordinato alle contingenti regole giuridiche, tecniche ed economiche di programmazione.
Dunque, per le finalità del T.U.S.L., strettamente connesso al potere gestionale è quello decisionale e di spesa, da intendersi cumulativamente.
Tuttavia, la disposizione - invero, non a caso - prende in esame in modo nettamente distinto i concetti di "autonomia gestionale" e di "autonomia decisionale e di spesa", trattandosi, con tutta evidenza, di potestà che, nell'alveo delle organizzazioni pubbliche, possono essere (e sovente effettivamente lo sono) distinte e separate, in quanto, per il diritto amministrativo (come anche per l'economia e l'organizzazione aziendale), l'una non include affatto necessariamente l'altra.
Ad ogni modo, volendo tentare una interpretazione sistematica proficua, v'è da dire che il legislatore forse ha voluto contraddistinguere con maggiore risalto rispetto al passato la potestà decisionale e di spesa rispetto a quella gestionale. Sono queste, espressioni normative, le quali, evidentemente, intendono rimarcare come la "gestione" rilevante ai fini dell'applicazione dei precetti e delle sanzioni sulla sicurezza, sia quella che risulta a forza congiunta con la possibilità di esercitare effettivi poteri decisionali e di spesa.
A questo punto, è d'uopo osservare come la disciplina in materia di procedimenti di spesa nelle amministrazioni pubbliche, che va sotto il nome di contabilità di Stato e degli enti pubblici o, più semplicemente, di contabilità pubblica (o diritto delle gestioni pubbliche), ponga una serie di vincoli stringenti all'autonomia di spesa del dirigente.
Segnatamente, non sussiste una libera potestà di autodeterminarsi nella procedura di spesa pubblica, bensì la necessità di osservare una serie di vincoli giuridici, che limitano e talvolta comprimono, ma soprattutto determinano una scansione temporale (lunga) della decisione di spesa.
Inoltre, molto spesso, nell'alveo della pubblica amministrazione, oltreché distinta dalla autonomia gestionale, la c.d. potestà decisionale e di spesa è condivisa tra una pluralità di soggetti, più o meno gerarchicamente strutturati, e ripete la propria legittimità e praticabilità dalla sussistenza di una pianificazione (strategica) e di una programmazione (operativa) delineata dagli organi di governo di vertice.
Pertanto, un primo problema è appunto quello di identificare, nell'alveo della complessiva organizzazione della pubblica amministrazione, di volta in volta, presa in esame, quale figura soggettiva apicale possa essere ritenuta "datore di lavoro", ai sensi della normativa sulla sicurezza del lavoro.
Molto probabilmente, l'esito di una simile analisi non può far altro che prendere atto che - peraltro, non costituendo affatto la responsabilità per debito di sicurezza (art. 2087 c.c.) una fattispecie oggettiva - per norma di legge, o regolamentare, o per norma interna, esistono potestà decisionali e di spesa, per così dire, a struttura multilivello, per cui ogni attore, che ricopra un ruolo direzionale, non può che fare e rispondere di ciò che rientra nella propria precipua competenza amministrativa (Cass. n. 257/2000: in tema di norme per la prevenzione dagli infortuni, non si può ascrivere al dirigente ogni violazione di specifiche norme antinfortunistiche atteso che, sebbene l'art. 2 lett. b), seconda parte, d.lgs. n. 626 del 1994 individui la nozione di datore di lavoro pubblico nel dirigente al quale spettano i poteri di gestione, l'art. 4 comma 12 d.lgs. cit. ribadisce il principio fondamentale in materia di delega di funzioni secondo cui, attesa la posizione di garanzia assunta dal sindaco e dagli assessori in materia di prevenzione, la delega in favore del dirigente assume valore solo ove gli organi elettivi e politici siano incolpevolmente estranei alle inadempienze del delegato e non siano stati informati, assumendo un atteggiamento di inerzia e di colpevole tolleranza. Nella specie la Corte ha ritenuto corretta la decisione dei giudici di merito i quali avevano affermato, oltre quella del dirigente che non si era avvalso dei dipendenti comunali per effettuare le opere minimali necessarie, anche la responsabilità penale del sindaco il quale, messo a conoscenza delle violazioni esistenti e delle misure da adottare, non aveva provveduto a richiedere le necessarie variazioni in bilancio per una partita relativa a poche opere provvisionali e neppure azionato i poteri di impegnativa di spese del c. d. fondo di riserva).
In definitiva, la responsabilità sanzionatoria (penale ed amministrativa) conseguente alle violazioni in materia antinfortunistica potranno appuntarsi nei limiti di ciò che, alla stregua dei normativi doveri di servizio, entro i vincoli di contabilità pubblica, è in concreto esigibile dai vari soggetti (pubblici) della sicurezza. Diversamente opinando, si sconfinerebbe nella responsabilità di stampo oggettivo, rimproverandosi la commissione (od omissione) di comportamenti antigiuridici, senza che ne sussista il relativo potere gestionale, decisionale e di spesa (L. Ieva, La responsabilità del datore di lavoro pubblico nel nuovo T.U. n. 81/2008, op. cit., 489).
Come garanzia finale per una legittima e corretta individuazione della figura del "datore di lavoro" nell'ambito pubblico, il legislatore del T.U.S.L. ha ulteriormente imposto la nomina espressa, che dunque va consacrata in apposito atto amministrativo.
L'autonomia gestionale e la potestà decisionale e di spesa non sono, infatti, da sole sufficienti ad enucleare la soggettività giuridica del dipendente pubblico, da considerarsi datore di lavoro, ai fini della normativa sulla sicurezza, dovendosi pure riscontrare la individuazione expressis verbis da parte dell'organo di vertice della P. A., di norma, attraverso apposito atto di macro-organizzazione (art. 2, comma 1, d.lgs. n. 165/2001), che delinei, in modo chiaro ed univoco, quali siano le categorie di dipendenti dell'amministrazione o dell'ente pubblico considerato chiamate a ricoprire il ruolo di "datore di lavoro" settoriale.
L'omessa previsione espressa ed anche l'individuazione non conforme ai criteri delineati comporta, a mente dello stesso art. 2, comma 1, lett. b), ult. periodo, del d.lgs. n. 81/2008, il radicarsi della responsabilità datoriale direttamente in capo all'organo di vertice, da ricavarsi a seguito di attenta analisi della normativa interna della singola amministrazione od ente pubblico ed alquanto variabile, a seconda della configurazione amministrativa di ciascun soggetto pubblico.
Dunque, potrà darsi il caso che una data P.A. (magari di piccole dimensioni) rinunci ad avvalersi di datori di lavoro settoriali, oppure anche incorra in individuazioni non conformi (magari per carenze organizzative o di potere di spesa).
In tale quadro sistematico, la nomina espressa funge da norma di chiusura del sistema ed è finalizzata - perlomeno tendenzialmente - ad impedire fraintendimenti sulle responsabilità.
Resta però il dato di fondo che la nomina effettuata debba comunque rispondere ai criteri fin qui esaminati, ossia deve essere fatta nei confronti di persona in possesso di: a) qualifica dirigenziale (o di funzionario apicale); b) autonomia gestionale; c) autonomia decisionale e di spesa; d) possibilità organizzativa.
In ipotesi di omessa o di non conforme individuazione, il sistema risulta non perfezionato e quindi, stante l'art. 2, co. 1, lett. b), ult. parte, d.lgs. n. 81/2008, responsabile della sicurezza rimane il solo organo di vertice, ovverosia quel peculiare organo di governo, che è, al tempo stesso, legale rappresentante della persona giuridica pubblica (art. 11 c.c.) e titolare del rapporto di lavoro pubblico.
4. La posizione della giurisprudenza di legittimità.
La Corte di Cassazione in più occasioni ha individuato i punti consolidati del sistema prevenzionistico del lavoro all'interno delle amministrazioni pubbliche.
Punto di partenza è il dettato legislativo (art. 2, comma 1, lett. b), secondo periodo, d.lgs. n. 81/2008) secondo cui nelle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (T.U. pubblico impiego), per "datore di lavoro" si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa.
Ad avviso della Corte, tale individuazione è "perfettamente coerente con il principio di separazione fra funzioni di indirizzo politico e di gestione negli enti locali, ormai invalso da tempo nel nostro sistema e recepito, oltre che dal già citato d.lgs. n. 165/2001, anche dall'art. 107 del Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli Enti locali, approvato con d.lgs. n. 267/2000" (Cass. n. 8119/2017).
L’individuazione del funzionario, con uno specifico provvedimento, quale soggetto cui erano state conferite funzioni specifiche comprensive dell'esercizio di poteri decisionali e di spesa (nei termini esplicitamente previsti dal citato art. 2, comma 1, lett. b, d.lgs. n. 81/2008) comporta l’assunzione ex lege della qualifica di datore di lavoro.
Per il massimo consesso di legittimità tale atto di individuazione (tra l'altro, normativamente imposto ha, di fatti, come conseguenza il trasferimento al dirigente pubblico di tutte le funzioni datoriali, ivi comprese quelle non delegabili, con ciò essendo palese la distinzione dall'atto di delega di funzioni disciplinata dall'art. 16 del medesimo decreto legislativo. Proprio in tale veste datoriale comporta l’obbligo di compilazione del documento di valutazione dei rischi interferenziali, compito che la legge (art. 26, comma 3, d.lgs. n. 81/2008) assegna al datore di lavoro nel caso di contratti d'appalto, d'opera o di somministrazione.
Altro problema affrontato dalla Corte di Cassazione è quello relativo all'ammissibilità della delega di funzioni nella Pubblica amministrazione.
Secondo una tesi favorevole, il fondamento normativo della possibilità di delega da parte del dirigente pubblico è stato rinvenuto nel Testo Unico del pubblico impiego, d.lgs. n. 165/2001, e in particolare all'art. 17, comma 1 bis, che consente ai dirigenti, per specifiche e comprovate ragioni di servizio, di delegare per un periodo di tempo determinato, con atto scritto e motivato, alcune delle competenze comprese nelle funzioni di cui alle lett. b), d) ed e) del comma 1 del medesimo articolo, a dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell'ambito degli uffici ad essi affidati (P. Fimiani, I criteri di individuazione dei soggetti responsabili nelle organizzazioni complesse e negli organi collegiali, anche all'interno della pubblica amministrazione, in Giur. mer., 2003, 11, 2320).
È pur vero che, come si è detto, il dirigente pubblico è ex lege datore di lavoro e, in quanto tale, deve necessariamente essere titolare degli stessi diritti e doveri del suo corrispondente privatistico, ma, alla luce del principio di legalità che regge l'azione della P.A. (art. 97 Cost.), pare doveroso ricercare nella legge (in questo caso il T.U. pubblico impiego) un'ulteriore conferma della possibilità di spogliarsi di poteri che sono ab origine del dirigente (in giurisprudenza ammette la delega nella P.A. Cass. n. 28410/2012).
Si sostiene, inoltre, che, in aggiunta ai comuni requisiti già previsti per il privato, nel settore pubblico la delega debba assumere la forma di vero e proprio provvedimento amministrativo (A. Tampieri, L'applicabilità del d.lgs. n. 626/1994 alle pubbliche amministrazioni, in L. Galantino (a cura di), La sicurezza del lavoro. Commento ai decreti legislativi 19 settembre 1994, n. 626 e 19 marzo 1996, n. 242, Milano, 1996) e, in quanto tale, dovrà essere motivata, in ossequio all'art. 3, l. 7 agosto 1990, n. 241, con l'indicazione delle particolari ragioni che conducono alla alterazione dell'ordinario riparto dei compiti d'ufficio riguardanti la gestione del sistema di sicurezza sul lavoro.
Secondo opinioni contrarie, invece, la delega nel settore pubblico dovrebbe sì essere prevista espressamente dalla legge, ma essa non potrebbe essere ricondotta all'art. 17, comma 1 bis, citato, perché questa forma di delega sarebbe estremamente circoscritta e temporalmente limitata (D. Venturi, in M. Tiraboschi - L. Fantini (a cura di), Il Testo unico della salute e sicurezza sul lavoro dopo il correttivo (d. lgs 106/2009), Milano, 2009, 268). La norma richiede, infatti, come si è detto, "specifiche e comprovate ragioni di servizio", impone una durata determinata e limita l'operatività della delega a particolari funzioni: requisiti aggiuntivi e non richiesti dalla delega di disciplina comune di cui all'art. 16, d.lgs. n. 81/2008.
Altri escludono del tutto l'applicabilità dell'istituto, secondo la ragione per cui nella P.A. le ripartizioni di competenze sarebbero rigide e non alterabili, in quanto stabilite dalla legge, dallo statuto o dal regolamento (G. Di Pietro, Il problema della individuazione del soggetto responsabile alla adozione delle misure antinfortunistiche negli enti locali, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 2006, 10, 1315).
Per concludere, la tesi favorevole pare condivisibile. Al di là dei citati richiami al Testo unico sul pubblico impiego (che, invero, appaiono un po' forzati), il fondamento normativo pare più correttamente doversi individuare nel principio di parità di tutela in ogni settore (a mente dell'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 81/2008 "Il presente decreto legislativo si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio").
Inoltre, la non ammissibilità della delega nel settore pubblico creerebbe pericolose disparità: il dirigente nominato "datore di lavoro" dagli organi di governo non potrebbe trasferire a terzi gli obblighi a lui spettanti, con la conseguenza - si pensi alle realtà complesse - di dover gestire in prima persona la sicurezza relativa a enormi settori dell'Amministrazione (M. Pericolo, La figura di datore di lavoro pubblico ai fini della sicurezza sul lavoro, in DPP, 2018, 82).
5. Infortuni sul lavoro e responsabilità del Sindaco.
Per come prima riferito, a norma del d.lgs. n. 81/2008 per datore di lavoro si intende il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Nelle pubbliche amministrazioni, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo.
L'individuazione del dirigente (o del funzionario) cui attribuire la qualifica di datore di lavoro è demandata alla pubblica amministrazione, la quale vi provvede con l'attribuzione della qualità e il conferimento dei relativi poteri di autonomia gestionale, non potendo tale qualifica essere attribuita implicitamente ad un dirigente o funzionario solo perché preposti ad articolazioni della pubblica amministrazione che hanno competenze nel settore specifico. Nelle pubbliche amministrazioni, in altre parole, l'attribuzione della qualità di datore di lavoro a persona diversa dall'organo di vertice non può che essere espressa, anche perché comporta i poteri di gestione in tema di sicurezza. Sono gli organi di direzione politica che devono procedere all'individuazione, tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici, non essendo per tale ragione possibile una scelta non espressa e non accompagnata dal conferimento di poteri di gestione alla persona fisica. La conseguenza della mancata indicazione è la conservazione in capo all'organo di direzione politica della qualità di datore di lavoro.
Con l'atto di individuazione, emanato ai sensi dell'art. 2, comma primo, lett. b) d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81, vengono trasferite al dirigente pubblico tutte le funzioni datoriali, ivi comprese quelle non delegabili, il che rende non assimilabile detto atto alla delega di funzioni disciplinata dall'art. 16 del medesimo decreto legislativo (Cass. n. 22415/2015). Ciò in quanto, con il suddetto atto d'individuazione, il soggetto depositario di poteri gestionali e di spesa assume ex lege la qualifica datoriale.
Agli organi di direzione politica del Comune (Sindaco e Giunta Comunale) sono attribuiti in via originaria anche i poteri di sovrintendere alle scelte di gestione e direzione amministrativa, con il conferimento di tutti i poteri conseguenti.
In tema di norme per la prevenzione degli infortuni, la normativa vigente esclude, in altre parole, che si possa ascrivere al sindaco, anche se di un Comune di modeste dimensioni, quale organo politico, ogni violazione di specifiche norme antinfortunistiche, quando risulti individuato il dirigente con qualifica di datore di lavoro.
Tra le regole inerenti ai compiti datoriali non delegabili, invece, rientra l'obbligo di stilare il documento di valutazione dei rischi a norma del d.lgs. n. 81/2008, la cui inadeguata elaborazione costituisce, appunto, il presupposto sul quale si è fondata l'affermazione di responsabilità del Sindaco.
È pacifico in giurisprudenza che i dirigenti comunali possono essere titolari di posizioni di garanzia nello svolgimento dei compiti di gestione amministrativa a loro devoluti, residuando in capo al Sindaco unicamente poteri di sorveglianza e controllo collegati ai compiti di programmazione che gli appartengono quale capo dell'amministrazione comunale ed ufficiale di governo (Cass. n. 22341/2011, relativa a fattispecie nella quale un dirigente comunale era stato ritenuto datore di lavoro del reparto cantonieri di un Comune, essendo stato designato quale responsabile del settore lavori pubblici da un decreto sindacale che non aveva contestato, e rispetto al quale non aveva mai opposto difficoltà o carenze di natura economico-finanziaria, la cui risoluzione sarebbe spettata agli organi politici).
Ciò appare, del resto, perfettamente coerente con il principio di separazione fra funzioni di indirizzo politico e di gestione negli enti locali, ormai invalso da tempo nel nostro sistema e recepito, oltre che dal già citato d.lgs. n. 165/2001, anche dall'art. 107 del Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli Enti locali, approvato con d.lgs. n. 267/2000. In tale sistema di separazione fra le due distinte forme di responsabilità - politica e gestionale - non può farsi questione circa la sussistenza o meno, in capo al dirigente o al funzionario comunale titolare di poteri di gestione e d'impegno di spesa, di una delega di funzioni sul modello e per le finalità di cui all'art. 16, d.lgs. n. 81/2008.
Siffatta delega ha rilievo laddove il soggetto destinatario di compiti e funzioni propri del datore di lavoro sia, per ciò stesso, soggetto distinto dal datore di lavoro medesimo: ciò che accade nelle ordinarie realtà aziendali e nell'ambito dei modelli organizzativi di natura privatistica. Diversa, tuttavia, è la situazione che si configura nel caso in cui il Sindaco abbia totalmente omesso di individuare il soggetto responsabile cui attribuire la qualifica datoriale. Ed infatti, la Cassazione ha ritenuto configurabile nel caso in esame la violazione del combinato disposto degli artt. 17, 18 e 43, lett. b), d.lgs. n. 81/2008, osservando come la definizione di datore di lavoro contenuta nell'art. 2, lett. b), del T.U.S., quanto alla P.A. recepisce lo stabile indirizzo giurisprudenziale secondo cui è l'organo di vertice della singole amministrazioni, ossia quello che ne ha la direzione politica, a dover individuare il dirigente o il funzionario non dirigente cui attribuire la qualità di datore di lavoro.
Le conseguenze derivanti dall'omessa individuazione da parte dell'organo politico del dirigente designato ad assumere il debito di sicurezza, sono evidenti: afferma la Corte di Cassazione che in tali casi la qualifica di datore di lavoro continuerà a coincidere con l'organo di vertice, quindi con il Sindaco (Cass. n. 35137/2007).
Sotto altro aspetto, se è indubbio che la Corte di Cassazione ha precisato che gli organi di vertice dell'amministrazione comunale (Sindaco e Giunta Comunale) possono individuare i dirigenti ai quali attribuire la qualifica di datore di lavoro, tuttavia l'omessa redazione di un adeguato e completo documento di valutazione dei rischi, non è delegabile conservandosi in capo all'organo di direzione politica la posizione di garanzia (Cass. n. 22415/2015).
La giurisprudenza di legittimità, invero, ha chiarito che in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in base al principio di effettività, assume la posizione di garante colui il quale di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto (Cass. n. 22079/2019). L'art. 299 del d.lgs. n. 81/2008 vale invero ad elevare a garante colui che di fatto assume e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, mentre non può essere invocato in funzione restrittiva degli obblighi che la normativa prevenzionistica assegna ai soggetti regolarmente investiti di tali poteri. Il principio di effettività di cui al citato art. 299 (che così recita: «Le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all'art. 2, comma 1, lett. b), d) ed e), gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti») è stato dettato dal legislatore in chiave ampliativa del novero dei soggetti gravati dalla posizione di garanzia, come reso evidente dalla presenza dell'avverbio "altresì" in funzione qualificativa del verbo "gravare"; si tratta, insomma, di una ipotesi alternativa di tipicità della fattispecie incriminatrice, che certamente non vale ad escludere da responsabilità il soggetto titolare dei relativi obblighi prevenzionistici (Cass. n. 20127/2022).
La giurisprudenza di legittimità è costante nell'interpretare l'art. 299, d.lgs. n. 81/2008 nel senso che l'individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale (Cass. n. 18090/2017).
Secondo il diritto vivente, pertanto, la disposizione in esame concretizzerebbe, dal punto di vista normativo, il principio di effettività (Cass. n. 22606/2017; Cass. n. 18200/2016).