GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Cedu e cultura giuridica italiana. 12) Carta dei diritti fondamentali UE e Cedu.

    Intervista di Roberto Conti al Prof.Enzo Cannizzaro

    1)Qual è, a suo giudizio, il metodo che l’interprete deve adottare per individuare, all’interno della Carta UE, i diritti immediatamente precettivi e i principi, al fine di modularne l’efficacia nei rapporti verticali ed orizzontali?



    Non è facile attribuito un contenuto normativo alla distinzione fra regole e principi nei termini indicati dall’art. 52, par. 5, della Carta. Tale disposizione, difatti, non indica alcun criterio che consenta all’interprete di operare tale distinzione.

    La prima parte della disposizione indica che “(l)e disposizioni della presente Carta che contengono dei principi possono essere attuate da atti legislativi e esecutivi adottati da istituzioni, organi e organismi dell’Unione e da atti di Stati membri allorché essi danno attuazione al diritto dell’Unione, nell’esercizio delle loro rispettive competenze”.  Questa frase dovrebbe valere, indistintamente, per tutte le disposizioni della Carta e non soltanto per quelle che contengano principi. Sarebbe ben strano che le norme della Carta che formulino regole possano essere attuate da atti delle Istituzioni e da quelli degli Stati membri al di fuori dall’ambito delle proprie competenze. Una considerazione analoga vale altresì per la seconda frase dell’art. 52, par. 5, la quale indica che i principi “possono essere invocate dinanzi a un giudice solo ai fini dell’interpretazione e del controllo di legalità di detti atti”. Non si vede, francamente, a quale altro fine potrebbero essere invocate le disposizioni della Carta che costituiscono regole.Dato che l’art. 52, par. 5, non fornisce alcun elemento per determinare la differenza fra regole e principi, è ragionevole ritenere che la qualificazione di una disposizione della Carta come regola ovvero come principio dovrà essere compiuta caso per caso, sulla base di una interpretazione delle singole disposizioni della Carta.

                      Ciò è quel che ha fatto la Corte di giustizia. Partendo dal presupposto che, rispetto alle regole, i principi dovrebbe avere, logicamente, una contenuto normativo “attenuato”, la Corte ha, in varie occasioni, identificato dei principi sulla base di una interpretazione casistica. In particolare, la Corte di giustizia ha teso a qualificare come principi quelle disposizioni della Carta il cui contenuto va identificato attraverso l’attività legislativa di esecuzione. Così, nella nota sentenza AMS (15 gennaio 2014, C‑176/12), la Corte, pur senza qualificare l’art. 27 della Carta come un principio, ha indicato che “(r)isulta dunque chiaramente dal tenore letterale dell’articolo 27 della Carta che tale articolo, per produrre pienamente i suoi effetti, deve essere precisato mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale”.

    Di converso, nella sentenza 6 novembre 2018, causa C-684/16, Max Planck, la Corte ha precisato che “(d)isponendo, in termini imperativi, che «[o]gni lavoratore» ha «diritto» a «ferie annuali retribuite»,  senza  segnatamente  rinviare  in  proposito – come  fatto,  ad  esempio, dall’articolo 27 della Carta, che ha  dato  luogo  alla  sentenza  del  15  gennaio  2014, Association de médiation sociale – ai «casi e alle condizioni previsti dal diritto dell’Unione e dalle legislazioni e prassi nazionali», l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta, riflette il principio essenziale del diritto sociale dell’Unione al quale  non  è  possibile  derogare  se  non  nel  rispetto  delle  rigorose  condizioni  di  cui all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta …”.

    Insomma, nel medesimo settore dei diritti sociali, la Corte sembra indicare che, al fine di determinare la natura di una disposizione della Carta, occorra guardare al grado della completezza dispositiva al fine di verificare se essa sia capace di incardinare un diritto fondamentale in capo ai singoli senza l’assistenza di norme di esecuzione, europee o nazionale.

    Questa conclusione sembra evocare la notissima distinzione fra norme dell’Unione aventi effetti diretti e norme dell’Unione che ne sono invece prive. Questa distinzione, però, mal si attaglia al campo dei diritti fondamentali. Una norma europea non aventi effetti diretti, infatti, non può essere applicata dal giudice nazionale se non a fini interpretativi mentre, come si è detto, l’art. 52, par. 5, prevede che una disposizione della Carta che formuli un principio ben potrà essere utilizzata non solo come parametro di interpretazione, ma anche come parametro di validità del diritto dell’Unione e delle norme nazionali che ricadono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. Se così non fosse, infatti, si riproporrebbe, su base europea, la distinzione fra norme precettive e norme programmatiche della Costituzione, che venne spazzata via già dalla prima sentenza pronunciata dalla Corte costituzionale

    Ritengo, quindi, che la differenza fra regole e principi nell’ambito delle disposizioni della Carta vada compiuta sulla base di una analisi caso per caso, che tenga conto del contenuto della disposizione della Carta ma anche di altre disposizioni che potrebbero contribuire alla determinazione di tale contenuto. Nella citata sentenza Max Planck, difatti, la Corte ha ricostruire il contenuto del diritto alle ferie retribuite sulla base di atti internazionali vincolanti per l’Unione. Non è escluso che tale metodo non possa essere utilizzato anche per interpretare le disposizioni della Carta che prevedono una attività di integrazione e precisazione ad opera di norme derivate, europee o nazionali.

    Ritengo altresì che la differenza fra regole e principi non attenga alle conseguenze giuridiche prodotte. Sia le regole che i principi, infatti, orientano l’interpretazione degli atti europei e di quelli nazionali che operano nella sfera del diritto dell’Unione e costituiscono parametro di validità per tali atti. La differenza dovrebbe invece consistere nella circostanza che i principi, a differenza delle regole, potranno essere precisati nel loro contenuto attraverso una attività interpretativa che consideri altre norme del sistema.

    In ogni caso, sia le regole che i principi della Carta non possano essere applicate al di là dell’ambito di applicazione del diritto europeo. In particolare, una disposizione della Carta non potrà attribuire ad un atto europeo effetti che esso non possa di per sé produrre.

    2) L’orientamento inaugurato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 269/2017 ed i successivi seguiti (Corte cost. nn.20/2019, 69/2019, 117/2019 e 182/2020) in che misura può determinare una diversità di tutela fra i diritti contemplati nella Carta UE e nella CEDU e, in caso di risposta positiva, presta il fianco a critiche? 

    Il sistema presupposto dal noto dictum formulato dalla Corte costituzionale nella sentenza 269/2017, era teso a risolvere il problema della doppia pregiudizialità attraverso un criterio di priorità: una legge confliggente, in ipotesi, sia con i diritti tutelati dalla Carta che con quelli garantiti dalla Costituzione avrebbe dovuto far preliminarmente oggetto di rinvio incidentale di costituzionalità. L’inevitabile conseguenza di tale regola sarebbe stato l’accentramento in capo alla Corte costituzionale del potere di disporre un rinvio pregiudiziale di interpretazione riferito a disposizioni della Carta.

    Dal dictum della Corte, peraltro irragionevolmente sintetico, si può trarre una seconda regola, di carattere sostanziale, che si accompagna a tale criterio di priorità. Tale regola riguarda lo standard di tutela dei diritti: un problema centrale nell’attuale coesistenza di sistemi alternativi di tutela.  La Corte ha precisato, infatti, che, nel considerare le disposizioni della Carta, ne avrebbe assicurato una interpretazione conforme rispetto alla Costituzione.

    Ambedue le regole - quella procedurale sull’ordine di priorità e quella sostanziale sui parametri interpretativi e sugli standards di tutela - appaiono molto criticabili e ispirati a posizioni ideologiche piuttosto che a una equilibrata esigenza di cooperazione.

    Innanzi tutto, l’imposizione di un dovere in capo al giudice di disporre un rinvio incidentale di costituzionalità di una legge confliggente con una disposizione della Carta avrebbe privato il giudice nazionale simultaneamente di due prerogative delle quali esso dispone in virtù del diritto europeo: il potere di sollevare un rinvio interpretativo alla Corte di giustizia e il potere, o fors’anche il dovere, di disapplicare la legge reputata in conflitto con una disposizione di diritto europeo dotata di effetti diretti.

    Una tale privazione sarebbe stata ancor più penalizzante qualora la vicenda normativa all’attenzione del giudice nazionale avesse richiesto un rinvio pregiudiziale di validità ovvero un rinvio in parte di interpretazione e in parte di validità. Ciò sarebbe avvenuto, in tutta evidenza, qualora l’interpretazione di una norma della Carta fosse stata richiesta dal giudice nazionale al fine di determinare la validità di un atto europeo frapposto fra la Carta e la legge nazionale.

    Lungi dal rappresentare una ipotesi teorica, questa appare, al contrario, la tipica vicenda giuridica che metta in essere l’interpretazione della Carta. È noto, infatti, che la Carta opera, ai sensi del suo art. 51, par. 1, rispetto ad atti dell’Unione nonché ad atti nazionali che ricadano nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. Or bene, la tipica situazione nella quale un atto legislativo nazionale ricade nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione è data da una legge nazionale adottata in attuazione di un atto dell’Unione. In tal caso, un giudice nazionale potrebbe disporre un rinvio pregiudiziale di interpretazione rispetto ad una norma della Carta proprio al fine di valutare se solo la compatibilità con la Carta della sola legge nazionale, ovvero dell’atto europeo, ovvero di ambedue. In tali situazioni, che possono mettere in giorno sia l’interpretazione della Carta che la validità di un atto europeo, il giudice nazionale, pur se non di ultimo grado, avrebbe l’obbligo incondizionato di disporre il rinvio pregiudiziale.

     Né appare convincente la seconda pretesa, di carattere sostanziale, che si rispecchia nella sentenza 269/2017: quella di modellare il contenuto dei diritti formulati dalla Carta secondo i canoni interpretativi e le esigenze proprie del proprio ordine costituzionale nazionale. Ciò, infatti, condizionerebbe in maniera impropria le politiche interpretative della Corte di giustizia. Come emerge dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la funzione del rinvio pregiudiziale è proprio quella di evitare il rischio di orientamenti interpretativi nazionali che frammenterebbe l’uniforme applicazione del diritto europeo. Una tale pretesa, se realizzata, avrebbe l’effetto di moltiplicare i conflitti fra la Corte costituzionale e la Corte di giustizia, per la quale sarebbe davvero inaccettabile una ricostruzione del contenuto dei diritti della Carta operata sistematicamente alla luce delle esigenze costituzionali di uno Stato membro. L’idea stessa di una armonizzazione europea dei diritti fondamentali e dei loro meccanismi di tutela verrebbe svuotata di ogni significato.

    Né tale pretesa potrebbe costituire un contributo proveniente da una esperienza giuridica nazionale, a ricostruire il contenuto dei diritti fondamentali europei attraverso l’interpretazione delle disposizioni della Carta. Per assolvere a tale funzione, di carattere essenziale nelle dinamiche giurisprudenziali europee, occorrerebbe una disponibilità a mettere in gioco le proprie tradizioni giuridiche e accettare che esse vengano composte con quelle europee dall’unico organo abilitato a farlo, vale a dire la Corte di giustizia.  Ma non è questo il motivo che ha ispirato la redazione del dictum della sentenza 269/2017. Al contrario, esso sembra proprio teso a rivendicare un monopolio interpretativo della Corte costituzionale nella ricostruzione dei diritti fondamentali europei in virtù della loro sovrapposizione con gli analoghi, ma non identici, diritti tutelati dalla Costituzione italiana.

    Insomma, la soluzione adottata dalla sentenza 269/2017 non sembra coerente con l’esigenza di apertura dell’ordinamento costituzionale al processo di integrazione europea: una esigenza anch’essa tutelata dalla Costituzione e, addirittura, da uno dei suoi principi fondamentali, vale a dire l’art. 11 Cost. Sfortunatamente, tale norma sembra aver smarrito il proprio ruolo negli orientamenti interpretativi della Corte costituzionale negli ultimi anni (sia consentito rinviare, in proposito, al mio scritto I valori costituzionali oltre lo Stato, in Osservatorio delle fonti, 2018, n. 2).

    3)Quando la Corte costituzionale afferma che occorre assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali, pure richiamate dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea e dall’art. 52, comma 4, della CDFUE come fonti rilevanti in tale ambito (Corte cost.nn.269/2017, 20/2019, 112 e 117 del 2019) intende rivolgere tale indicazione metodologica anche al giudice comune nazionale e quali sono gli effetti derivanti dall’inosservanza di tale indicazione nel processo?


     

    I richiami alla prassi interpretativa nazionale operati dalla Corte costituzionale al fine di ricostruire il contenuto dei diritti della Carta alla luce delle tradizioni costituzionali italiane sembrano proprio diretti ad imporre una interpretazione costituzionalmente orientata della della Carta da parte dei giudici nazionali.

    L’idea che gli organi giudiziari nazionali possano contribuire alla ricostruzione del contenuto dei principi della Carta dei diritti fondamentali non appare né irragionevole né contraria al diritto europeo. Al contrario, tale contributo ben potrebbe aiutare a risolvere un evidente paradosso insito nel sistema europeo dei diritti fondamentali.

    Tale paradosso deriva dalla difficile coesistenza di più sistemi concorrenti di diritti fondamentali, il cui concorso è disciplinato da una serie quanto mai incerta di criteri ordinatori. Il principale, ai fini del problema in esame, è quello relativo all’ambito di applicazione del diritto europeo. Come è noto, i diritti fondamentali europei operano solo nell’ambito di applicazione del diritto europeo, mentre i diritti nazionali, inclusi quelli di origine internazionale quali la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, operano in via residuale, vale a dire nell’ambito di situazioni puramente interne.

    Tuttavia, questo criterio presenta lo svantaggio di provocare una sorta di discriminazione nel godimento dei diritti fondamentali. Infatti, dato che la distinzione fra l’ambito delle situazioni regolate dal diritto europeo e quello relativo alle situazioni puramente nazionali ha carattere funzionale, ben può accadere che situazioni giuridiche materialmente identiche siano governate da diritti appartenenti a sistemi diversi. Né si tratta di una differenza puramente formale, dato che il contenuto dei diritti, come è noto, corrisponde, appunto, a prassi e a tradizioni interpretative proprie del sistema al quale appartengono.

    Or bene, questa conseguenza potrebbe essere attenuata qualora il contenuto dei diritti provenienti dai vari sistemi concorrenti di tutela convergesse verso un contenuto più o meno uniforme. A tal fine occorrerebbe, evidentemente, che le prassi e tradizioni costituzionali proprie di ciascuno Stato membro, insieme al sottostante assetto di valori e interessi che le ispira, contribuissero alla definizione di uno standard uniforme di tutela dei diritti fondamentali., propri sia all’ordinamento europeo che a quelli dei suoi Stati membri. Si tratta, evidentemente di una prospettiva ben diversa rispetto alla astratta rivendicazione di un monopolio nella definizione dell’assetto assiologico del proprio ordinamento. Tale prospettiva comporta, infatti, un processo dinamico di definizione di tale standard uniforme, al quale sono chiamati a partecipare sia le Corti costituzionali nazionali, sia la Corte di giustizia, sia, infine, i giudici nazionali. Essi, infatti, costituiscono parte essenziale del complesso ordinamento giudiziario europeo e hanno la prerogativa di poter dialogare con la Corte di giustizia anche esprimendo posizioni difformi dalle rispettive Corti costituzionali.

    In questa prospettiva concettuale, che sembra descrivere l’attuale sistema dei rapporti fra Costituzioni nazionali e Carta dei diritti fondamentali, la pretesa di una Corte costituzionale di dettare ai giudici comuni una linea di condotta orientata univocamente alla salvaguardia delle prassi e tradizioni interpretative nazionali appare irragionevole se non anche antistorica.  La logica del rinvio pregiudiziale è proprio quella di consentire a qualsiasi giudice nazionale di prospettare alla Corte di giustizia gli elementi per la ricostruzione dei diritti fondamentali e, più in generale, del diritto europeo. Si tratta di un compito affidato ai giudici dai Trattati istitutivi, in particolare dall’art. 267 del TFUE. Un tale compito non viene meno rispetto all’inquadramento formale di tali giudici nell’ambito di un ordinamento nazionale, a meno di non alterare l’assetto dei principi strutturali sui quali si fonda l’ordinamento europeo.

    4) L’uso che il giudice nazionale fa della Carta UE può considerarsi, a suo avviso, appagante? I sistemi di raccordo fra Carta UE e CEDU introdotti all’interno della Carta stessa consentono di individuare delle linee guida per il giudice nazionale chiamato a fare applicazione di un diritto contemplato dalla Carta che riproduce il contenuto di una disposizione della CEDU?



      Sfortunatamente quando si passa dal piano dei ragionamenti per principi e si scende nell’analisi tecnica, ci si avvede della precarietà logica delle soluzioni adottate dalla Carta in tema di rapporti con le altre fonti dei diritti fondamentali, in particolare con la Convenzione europea.  I rapporti fra gli standards di tutela derivanti dalla Carta e quelli derivanti dalla Convenzione europea sono, come è noto, regolati dal criterio della protezione più estesa.  Sia la Carta che la convenzione prevedono, ambedue all’art. 53, che l’adozione di uno standard di tutela abbia un contenuto minimo e non pregiudica l’applicazione dello standard di tutela dei diritti fondamentali più alto assicurato dall’altro strumento di tutela.

    Purtroppo, è più facile enunciare il criterio della protezione più estesa che applicarlo in pratica. A ciò concorrono due motivi. Il primo è di carattere sistematico; il secondo è piuttosto relativo alle caratteristiche diverse dei due cataloghi di diritti.

    Il motivo di carattere sistematico, molto noto, è dato dalla circostanza che il contenuto e l’intensità della tutela di un diritto fondamentale sono necessariamente fondati su un bilanciamento fra le esigenze sottese a tale diritto e quelle relative ad altri diritti o interessi, di carattere individuale e collettivo. Ne consegue una evidente difficoltà di determinare lo standard di tutela più alto i diritti individuali, dato che l’innalzamento del livello di tutela di un diritto fondamentale potrebbe comportare una corrispondente riduzione di tutela per altri, soventi altrettanto fondamentali.

    Vi è, però, un altro motivo, riconnesso alla profonda eterogeneità nella natura e nella funzione della Carta rispetto a alla Convenzione. Con stretto riferimento alla domanda posta, è sufficiente ricordare che la Carta intende armonizzare i diritti fondamentali operanti nell’ordinamento europeo al fine di evitare che una frammentazione su base nazionale dello standard di tutela possa pregiudicare l’uniforme applicazione del diritto europeo. Or bene, ciò è quel che potrebbe accadere se si applicasse, nei rapporti fra Carta e Convenzione, il principio della protezione più estesa. In forza di tale principio, infatti, un giudice nazionale, tenuto ad applicare lo standard di tutela di un diritto - in ipotesi più elevato - assicurato dalla Convenzione, sarebbe legittimato a disapplicare una norma europea incompatibile con tale livello di tutela ma compatibile con il livello di tutela, in ipotesi meno elevato, assicurato dalla Carta. 

    Questo esempio chiarisce, a mio avviso, le grandi difficoltà tecniche nel delineare un equilibrato rapporto fra gli strumenti di tutela apprestati rispettivamente, dalla Carta, dalla Convenzione europea e dalle Costituzioni nazionali.

    La mia opinione è che tali difficoltà, difficilmente superabili sul piano tecnico, potrebbero ridursi grandemente attraverso il circolo virtuoso che ho delineato nella risposta alla precedente questione. Tale circolo è composto, idealmente, da due fasi. La prima è la fase nella quale gli organi giudiziari determinano il livello di tutela di un diritto fondamentale attraverso un processo di bilanciamento degli interessi e valori confliggenti, sulla base delle prassi e tradizioni interpretative di ciascuno dei sistemi concorrenti: la Carta, la Convenzione, gli ordinamenti nazionali. La seconda fase è quella nella quale gli attori percepiscono, anche attraverso conflitti laceranti, l’esigenza di armonizzazione del contenuto e dell’intensità della tutela dei diritti fondamentali come un valore prevalente rispetto all’esigenza di realizzare integralmente le esigenze del proprio sistema di tutela.  La determinazione di tale standard uniforme consegue, quindi, alla rinuncia di ciascuno degli attori in giorno a risolvere i conflitti sulla base di criteri formali, quale l’ordine gerarchico di un giudice, ovvero la sua pretesa di esprimere l’identità nazionale o addirittura la sovranità assiologica del proprio ordinamento di appartenenza.

     

     

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    Gabriella Luccioli

    Ha vinto il primo concorso in magistratura aperto alle donne nel 1965.Dopo aver svolto le funzioni di giudice presso il Tribunale di Montepulciano, di pretore a Roma e poi di consigliere presso la Corte di Appello di Roma, nel 1990 è stata la prima donna ad essere nominata consigliere della Corte di Cassazione e sempre la prima donna a diventare nel 2008 presidente di sezione della Corte di Cassazione. Ancora per la prima volta per una donna nel 2011 ha assunto la direzione di detta sezione. È stata presidente del Collegio che ha pronunciato la sentenza n. 21748 del 2007 in tema di alimentazione ed idratazione forzata (caso Eluana Englaro).In pensione dal 7 maggio 2015.

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    Ancora sull'opposizione alla discussione da remoto

    Ancora sull'opposizione alla discussione da remoto[1].

    (nota a TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 22 giugno 2020, n. 2072)

    nota Redazionale.

    Con il decreto in esame, il Presidente della Sezione II bis del TAR Lazio ha rigettato l’opposizione del ricorrente alla discussione da remoto dell’udienza cautelare richiesta dal controinteressato, presentata in occasione del deposito dell’istanza di abbinamento della cautelare al merito e, dunque, motivata sulla sopravvenuta mancanza di interesse alla pronuncia cautelare.

    Il g.a., invero, nel respingere la suddetta opposizione, ha evidenziato come la stessa “perde[sse] la propria ragion d’essere, in quanto non sorretta da alcun interesse di tipo difensivo”, in quanto “ciascuna delle parti può disporre solo delle proprie facoltà processuali decidendo di liberamente sottrarsi alla discussione chiesta da altri optando per l’assenza, e potendo conseguentemente l’opposizione essere riferita alle sole modalità telematiche di discussione, con opzione per una discussione in praesentia e non da remoto”. Peraltro, sebbene la circostanza non ricorresse nella specie (trattandosi di domanda cautelare rinunciata), ha comunque ritenuto opportuno ricordare che il presidente ha il potere di valutare la necessità della discussione da remoto in alternativa al rinvio della trattazione della causa.

    Il giudice, infine, ha espressamente precisato che l’opposizione, connotandosi per la sua natura eccezionale e straordinaria, è un istituto “di stretta interpretazione e può precludere la discussione ‘da remoto’ solo se emergono insuperabili problematiche legate alla funzionalità del sistema informatico oppure eventuali esigenze difensive da intendersi ostative del contraddittorio ‘da remoto’ – in vista di una successiva discussione orale ‘in presenza’ – tanto più che le parti che non intendono intervenire alla discussione ben possono depositare note difensive ai sensi dell’art. 4, del decreto legge n. 28 del 2020”. (v. S.)

    [1] Sul tema si veda anche “L’istanza di discussione orale da remoto e la relativa opposizione. Prime applicazioni da parte del giudice amministrativo”, in questa Rivista, 22 giugno 2020.


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    Covid-19, fase 2.  Pregi e difetti del diritto dell’emergenza per il processo amministrativo.

    Covid-19, fase 2.  Pregi e difetti del diritto dell’emergenza per il processo amministrativo.

    Maria Alessandra Sandulli, Prof. ordinario di diritto amministrativo e di giustizia amministrativa, Università “Roma Tre”.

    Sommario: 1. Premessa: brevi cenni sulle norme emergenziali sul processo amministrativo dal d.l. n. 9 del 2 marzo al d.l. n. 28 del 30 aprile. - 2. La sospensione “mutilata” dei termini processuali disposta dal d.l. n. 23 dell’8 aprile. - 3. segue: una proposta correttiva. - 4. Ulteriori proposte correttive. - 5. L’apertura “condizionata” al contraddittorio orale nel d.l. 28 del 30 aprile.

    1.Premessa: brevi cenni sulle norme emergenziali sul processo amministrativo dal d.l. n. 9 del 2 marzo al d.l. n. 28 del 30 aprile.

    Il 4 maggio, con una settimana di anticipo rispetto agli atri processi e contestualmente all’avvio della, tanto attesa, ma per molti versi altrettanto temuta, “fase 2” (e alla conseguente riapertura degli studi professionali), il processo amministrativo esce dal periodo di sospensione straordinaria dei termini processuali avviata dalla legislazione emergenziale.

    Come noto, i termini del processo amministrativo erano stati inizialmente sospesi, analogamente a quanto disposto per gli altri processi, dall’art. 10 del d.l. n. 9 del 2 marzo 2020,  fino al 31 marzo (con espresso richiamo alla possibilità di rimessione in termini per errore scusabile dei termini scaduti nel periodo dal 23 febbraio al 2 marzo), per le sole “zone rosse” di cui all. 1 al d.P.C.M. 1 marzo 2020.

    Con l’aggravarsi della pandemia, unitamente all’immediata sospensione delle udienze, la sospensione dei termini è stata poi generalizzata (con la sola esclusione di quelli dei procedimenti cautelari) dall’art. 3 del d.l. n. 11 dell’8 marzo per il periodo dall’8 al 22 marzo, per essere ulteriormente estesa dall’art. 84, comma 1, d.l. n. 18 del 17 marzo[1], ora convertito nella l. n. 27 del 28 aprile, dal 23 febbraio al 15 aprile (ultimo giorno della prevista fase di sospensione delle udienze, camerali e pubbliche) e, da ultimo, ma limitatamente ai termini per la notificazione dei ricorsi giurisdizionali, fino al 3 maggio (ultimo giorno della “fase 1”) dall’art. 36 del d.l. n. 23 dell’8 aprile (pubblicato sulla G.U. del 9 aprile).

    L’estensione generalizzata del rimedio della tutela cautelare monocratica, chiamato ex lege a sostituire l’udienza cautelare fino al 15 aprile (salva una “apertura” straordinaria anticipata nel periodo dall’8 al 15 aprile nei casi previsti dall’art. 84, comma 2, del d.l. n. 18) e l’equilibrato utilizzo tendenzialmente fattone dagli organi giudicanti (spesso sin da subito riuniti informalmente da remoto per assumere decisioni condivise)[2] hanno peraltro consentito alla giustizia amministrativa di continuare ad offrire il suo “servizio” anche in fase di pandemia.

    Nel frattempo, il legislatore “affinava” le disposizioni per la celebrazione delle udienze, cercando faticosamente di bilanciare la temporanea sospensione della discussione orale, protratta fino al 30 giugno, con la presentazione di “brevi note” di udienza (cfr. ancora l’art. 84 del d.l. n. 18, che, abrogando l’art. 3 del d.l. n. 11, aveva, tra l’altro, soppresso la previsione dell’udienza telematica).

    Le ultime disposizioni di legge hanno tuttavia messo profondamente in crisi il principio del contraddittorio, che contraddistingue il “processo” dal “giudizio” e costituisce regola fondamentale e “naturale” di civiltà giuridica, coerentemente enunciata dall’art. 111, co. 2, Cost. (oltre che dall’art. 6 CEDU e dall’art. 47 della Carta di Nizza) e ribadita a chiare lettere dall’art. 2 del codice del processo amministrativo[3].

    Mi riferisco alla “sospensione mutilata” dei termini processuali disposta dal citato art. 36 del d.l. n. 23 e alla disciplina della discussione orale contenuta nel d.l. n. 28 del 30 aprile.

    2. La sospensione “mutilata” dei termini processuali disposta dal d.l. n. 23 dell’8 aprile.

    La protrazione fino al 3 maggio dei soli termini per la notificazione dei ricorsi disposta dall’art. 36 del d.l. n. 23 (al di là dei problemi derivanti dalla sua mancata considerazione nella legge n. 27 che, due settimane dopo, ha convertito in legge il d.l. n. 18, confermando la sospensione di tutti i termini processuali fino al 15 aprile[4]) ha sollevato serie perplessità nella parte in cui ha introdotto una inedita e irragionevole discriminazione tra la posizione dei ricorrenti (categoria nella quale, come chiarito anche dalla Relazione illustrativa al decreto e dalla Direttiva esplicativa adottata dal Presidente del Consiglio di Stato il 20 aprile 2020, rientrano evidentemente coloro che propongono/ripropongono qualsiasi tipo di azione dinanzi al giudice amministrativo: ricorsi in primo grado e in sede di impugnazione, in via principale e incidentale, introduttivi e per proporre motivi aggiunti o trasporre ricorsi straordinari, con la sola eccezione dei ricorsi meramente cautelari: azioni cautelari ante causam e appelli avverso le ordinanze cautelari di primo grado; analogamente, la sospensione dovrebbe valere per la riassunzione e la riattivazione del processo, nonché, come giustamente rilevato da autorevole dottrina, per i termini perentori previsti per la formulazione di eventuali eccezioni e per la riproposizione di eccezioni e censure in grado di appello) e quella di chi è chiamato invece a difendersi dalle altri censure, eccezioni e deduzioni.

    Come osservato in sede di primo commento alla novella[5], infatti, una volta che il Governo aveva ritenuto che, anche per il giudizio amministrativo (sia pure in termini ridotti rispetto a quelli stabiliti per i processi civile, penale, tributario e contabile), l’emergenza Covid-19 costituisse, almeno fino al 3 maggio, un oggettivo ostacolo all’effettivo esercizio del diritto di difesa, correttamente riconoscendo che essa implica indubbie difficoltà operative per la parte e per il difensore, non vi era ragione per “riservare” la “protezione” alle “azioni”, inopinatamente pretermettendo i diritti delle parti resistenti (in primo grado, quindi, connaturalmente, le amministrazioni) e controinteressate (in primo grado, il vincitore di una gara o di un concorso, il titolare di un permesso, ecc.), e, più in generale, la piena garanzia di “tutte” le parti di difendersi, “in ogni stato e grado del processo” dalle altrui azioni, eccezioni e controdeduzioni, nel richiamato doveroso rispetto del principio del contraddittorio.

    Non vi è dubbio, invero, che, pure per le attività “difensive”, anche e forse ancor più nei processi amministrativi (che hanno come parte una pubblica amministrazione e che tendenzialmente richiedono un’attenta e compiuta disamina di fascicoli documentali articolati e complessi), la straordinaria e imprevedibile emergenza Covid-19 ha creato difficoltà analoghe a quelle create per le “azioni” (si pensi, oltre alle attività di raccolta della procura, a quelle legate al reperimento, recapito, stampa e consultazione della documentazione, alle ricerche di dottrina e di giurisprudenza, alla possibilità di un adeguato confronto dialettico-documentale tra cliente/avvocato, ai limiti di utilizzabilità dei locali e delle risorse degli studi professionali, ecc.).

    La “spiegazione” data nella Relazione illustrativa, riferendosi allo “sfasamento tra la notifica del ricorso e il deposito delle correlative difese” previsto per la fase cautelare, non coglie evidentemente nel segno, in quanto tarato esclusivamente sulle attività difensive da svolgere nei ricorsi che si giovano del periodo di sospensione.

    Orbene, a parte l’eventualità (peraltro non rara) in cui lo stesso ricorrente ritenga di non giovarsi della sospensione, la discriminazione colpisce soprattutto – e seriamente – i giudizi in cui il ricorso è stato notificato prima del periodo di sospensione, e per i quali, nonostante la grave emergenza che ha giustificato la sospensione dei termini di tutti i processi fino all’11 maggio e di quelli per la notificazione dei ricorsi giurisdizionali amministrativi fino al 3 maggio, i termini per gli atti difensivi hanno continuato, autonomamente, a decorrere.

    Non può invero sicuramente dirsi “equo e imparziale” e rispettoso del principio “della parità delle parti” un processo in cui le parti (tendenzialmente quelle resistenti e controinteressate, ma non di rado anche gli stessi ricorrenti chiamati a rispondere alle altrui eccezioni e controdeduzioni) che, per mera (drammatica e assolutamente non prevedibile) (s)ventura, si sono trovate a incorrere nelle scadenze dei termini per il deposito dei documenti, memorie e repliche in vista dell’udienza nel periodo tra il 16 aprile e il 3 maggio, sono private del diritto a difendersi in modo adeguato contro le censure, le eccezioni e i rilievi che le loro controparti hanno potuto “tranquillamente” redigere e “documentare” in un periodo anteriore all’emergenza (circostanza che, evidentemente, consente a queste ultime una più agevole e limitata produzione documentale e difensiva in vista dell’udienza).

    Il pregiudizio è ancora più grave quando si consideri che, nello stesso periodo, i procedimenti amministrativi sono stati sospesi[6] (sospensione che il medesimo d.l. 23 ha peraltro protratto al 15 maggio, termine ancora diverso da entrambi quelli di sospensione processuale) proprio per la riconosciuta difficoltà di operare degli uffici pubblici, pur fondamentali per il recupero dei documenti e per la redazione delle memorie, e, che, all’epoca dell’adozione del d.l. 23, in forza dell’art. 84, co. 5, d.l. 18 del 2020, almeno fino al 30 giugno, era impossibile una trattazione orale e che tale possibilità è tuttora preclusa fino al 30 maggio e, come si dirà, resa estremamente difficile fino al 31 luglio.

    Quest’ultima circostanza dovrebbe, oggi più che mai, indurre il legislatore e i giudici ad assicurare massima garanzia di effettività al contraddittorio “scritto”. Proprio nella consapevolezza dei limiti della trattazione orale nel processo amministrativo, il codice del processo amministrativo, introducendo la memoria di replica “ai documenti e alle memorie” depositati dalle altre parti “in vista dell’udienza”, ha fermamente voluto che il giudice, prima di definire la causa nel merito, fosse “pienamente” edotto delle diverse posizioni fatte valere in giudizio. E, per questa ragione, il d.l. 18 del 17 marzo (art. 84, co. 5)[7], smentendo il parere reso dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato sull’art. 3 del d.l. 11 dell’8 marzo[8], si era espressamente preoccupato di garantire la rimessione in termini a chi, impedito, per effetto della sospensione dei termini processuali (dall’8 marzo al 15 aprile), della possibilità di rispettare i surrichiamati termini di deposito, desiderasse comunque avvalersene, e ha conseguentemente condizionato all’accordo di tutte le parti la “rinuncia” a tale forma di contraddittorio scritto.

    La necessaria simmetria tra il diritto di azione e quello di difesa è del resto confermata dalla legge di conversione del d.l. 18 (successiva, si ricorda, di ben due settimane, al d.l. 23), nella parte in cui, aggiungendo un comma 1-bis all’art. 103 dello stesso decreto, afferma (in via retroattiva e dunque interpretativa, con valenza generale) che la sospensione temporale dal 23 febbraio al 15 aprile trova applicazione anche “ai termini (…) di svolgimento di attività difensiva e per la presentazione di  ricorsi giurisdizionali”.

    Come già osservato, l’asimmetria creata dal d.l. 23 (ma, come detto, già inaccettabilmente prospettata dal parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato in riferimento al d.l. 11 e opportunamente esclusa, almeno fino al 15 aprile, dall’art. 84 del d.l. 18) induce allora tristemente a chiedersi, soprattutto se, come chi scrive, si crede nell’importanza del ruolo del giudice amministrativo[9], perché questa gravissima e inaccettabile limitazione del diritto di difesa, con palesi effetti sperequativi per le parti “non attrici” (sofferti, si insiste, in primis, dall’amministrazione) viene introdotta proprio e soltanto nel giudizio amministrativo, chiamato dalla Costituzione a garantire, accanto alla tutela degli amministrati “nei confronti della pubblica amministrazione” (art. 103), anche, e ancor prima, “la giustizia nell’amministrazione” (art. 100). La risposta è ancora più difficile quando si confronti la scarsa considerazione riconosciuta dal d.l. 23 alle parti resistenti e controinteressate con quella che il codice del processo amministrativo ha dimostrato di voler loro, correttamente, riconoscere, quando ha ridisegnato le tempistiche e le garanzie della fase cautelare[10], proprio per assicurare che anche dette parti fossero poste “effettivamente” in grado di rappresentare al giudice le proprie ragioni e che quest’ultimo potesse “effettivamente” decidere “cognita causa”. Il riconoscimento (doveroso e corretto) di questa esigenza in fase cautelare rende ancora più gravemente irragionevole la sua assoluta pretermissione nella fase del merito.

    3. segue: una proposta correttiva.

    Un doveroso spirito costruttivo aveva pertanto indotto la scrivente a cercare possibili soluzioni per evitare prevedibili eccezioni di illegittimità costituzionale della disposizione asimmetrica e prevedibili impugnazioni (con rinvio) delle decisioni eventualmente assunte in sua applicazione, con conseguente, fondato, rischio di un allungamento della durata del processo ben maggiore di quelli, purtroppo “fisiologici”, legati all’emergenza Covid-19.

    Provando a ragionare sulle tempistiche processuali e sugli effetti dell’art. 84, comma 5, del d.l. 18 - che, come detto, riconosce, comunque, il diritto alla rimessione in termini per recuperare quelli (calcolati “a ritroso” dalla data di udienza) rientranti nel periodo “simmetrico” di sospensione dall’8 marzo al 15 aprile (e retroagiti pertanto ex lege al 7 marzo) - sono infatti comunque a rischio di rinvio:

    - per i riti abbreviati, tutte le udienze calendarizzate, fino al 6 maggio incluso (per le quali anche i “primi” termini a ritroso, ovvero quello di 20 gg liberi per il deposito dei documenti, ricadrebbe nel periodo di sospensione); e,

    - per i riti ordinari, tutte le udienze calendarizzate fino al 26 maggio incluso (per le quali anche i “primi” termini a ritroso, ovvero quello di 40 gg liberi per il deposito dei documenti, ricadrebbero nel periodo di sospensione).

    Dopo tali date, per effetto della sospensione “mutilata” prevista dall’art. 36, comma 3, del d.l. 23, sarebbero però esposte al rinvio per rimessione alla Corte costituzionale o, peggio, al rischio di nullità per violazione del giusto processo anche le udienze celebrate fino al 25 maggio per i riti abbreviati e fino al 15 giugno per quelli ordinari.

    Si era dunque proposto di “emendare” (in via di massima urgenza) il testo dell’art. 36, co. 3, d.l. 23, estendendo la sospensione fino al 3 maggio incluso anche ai termini processuali di cui all’art. 73, comma 1, del codice del processo amministrativo (deposito di documenti, memorie e repliche), “temperandola”, in ragione delle esigenze organizzative dei giudizi amministrativi, con la dimidiazione degli stessi termini anche per i riti ordinari con riferimento alle udienze fissate fino al 15 giugno, per le quali le scadenze dei termini ordinari cadevano nel periodo dall’8 marzo al 3 maggio.

    Tale sistema, ferma la possibilità delle parti di accettare comunque il passaggio della causa in decisione ai sensi dell’art. 84, comma 5, d.l. n. 18, avrebbe consentito di garantire la legittimità di tutte le udienze (pubbliche o camerali diverse da quelle cautelari), anche dei riti ordinari, calendarizzate a partire dal 25 maggio (per le quali i “nuovi” termini di scadenza sarebbero tutti successivi al 4 maggio).

    4. Ulteriori proposte correttive.

    Si era altresì (vanamente) suggerito di cogliere l’occasione per stabilire che, in deroga alle regole generali del codice del processo amministrativo (che la giurisprudenza interpreta nel senso della indisponibilità dei termini “a difesa”, in quanto posti anche a garanzia di una piena cognizione della causa da parte de giudice), i depositi di cui all’art. 73, comma 1, effettuati nel periodo di sospensione, potessero ritenersi validi se le parti ne avessero fatto congiuntamente richiesta entro 6 giorni liberi (dimidiati a 3 per i riti abbreviati) dall’udienza.

    Da ultimo, si era segnalato che il Governo aveva perso un’importante occasione per risolvere la grave incertezza sulla sospensione dei termini per la presentazione dei ricorsi straordinari (e per l’opposizione agli stessi)[11] e per i giudizi pendenti dinanzi al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche[12].

    Altri autorevoli commentatori avevano condivisibilmente rappresentato l’esigenza di eliminare la previsione della possibilità di decidere nel merito in sede cautelare ex art. 60 c.p.a. “omesso ogni avviso alle parti[13].

    Nessuna di queste indicazioni è stata tuttavia presa in considerazione e, anzi, il d.l. n. 28 del 30 aprile ha inferto un nuovo, durissimo, colpo al principio del contraddittorio e della parità delle armi nel processo amministrativo.

     5. L’apertura “condizionata” al contraddittorio orale nel d.l. 28 del 30 aprile.

    Come anticipato, il cd “decreto Credito o decreto Liquidità” è nuovamente intervenuto sul processo amministrativo emergenziale disegnato dall’art. 84 d.l. 18 del 17 marzo convertito nella l. 27 del 24 aprile per disciplinare le prossime modalità di svolgimento delle udienze.

    I fondati dubbi di legittimità costituzionale espressi da due “commentatissime” ordinanze gemelle del 21 aprile scorso della sesta sezione del Consiglio di Stato sul “contraddittorio cartolare coatto”[14] e l’esigenza di un sollecito ritorno alla discussione orale rappresentata – in varie sedi – anche dagli avvocati amministrativisti e dalle relative associazioni e fortemente sostenuta da autorevoli esponenti dell’accademia e della magistratura[15], in un coro unanime a favore del contraddittorio orale, inducevano a confidare nell’imminenza di una “effettiva” apertura delle udienze (camerali e pubbliche) con la partecipazione delle parti in modalità da remoto.

    Il d.l. 28, che dedica alla giustizia amministrativa l’art. 4, ha però deluso le aspettative[16].

    Le disposizioni di più immediato interesse sono contenute nel comma 1 e costituiscono purtroppo un grave esempio di confusione e di incertezza.

    La novella, perdendo un’opportuna occasione per riparare alle criticità e alle carenze sopra rappresentate, è, come anticipato,  intervenuta soltanto sulle udienze.

    L’art. 4 si apre innanzitutto con la proroga di un mese (dal 30 giugno al 31 luglio) del termine del periodo in cui le udienze dovranno essere celebrate con le modalità “emergenziali”.

    A tale proposito, giova ricordare che l’art. 84, comma 5, del d.l. n. 18, convertito nel frattempo (senza modificazioni) nella l. 27 del 24 aprile, dispone che “Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno  2020,  in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo,  tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in  udienza  camerale sia in udienza pubblica,  passano  in  decisione,  senza  discussione orale,  sulla  base  degli  atti  depositati,   ferma   restando   la possibilità di definizione del giudizio ai  sensi  dell'articolo  60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso. Le  parti hanno facoltà di presentare brevi note  sino  a  due  giorni  liberi prima della data fissata per la trattazione. Il giudice,  su  istanza proposta entro lo stesso termine dalla parte che non si  sia  avvalsa della facoltà di  presentare  le  note,  dispone  la  rimessione  in termini in relazione a quelli che, per effetto  del  secondo  periodo del comma  1,  non  sia  stato  possibile  osservare  e  adotta  ogni conseguente  provvedimento   per   l'ulteriore   e   più  sollecito svolgimento del processo. In tal caso, i termini di cui all'articolo 73, comma 1, del codice del processo amministrativo  sono  abbreviati della metà, limitatamente al rito ordinario”.

    La riferita (mera) proroga di un mese del termine del 30 giugno (senza ulteriori modifiche del surriportato comma 5) implica dunque che, fino al 31 luglio, la discussione orale potrà essere sostituita dalle “brevi note”, da presentare entro due giorni liberi prima dell’udienza.

    A parte i dubbi (a mio avviso non condivisibili, ma comunque meritevoli di segnalazione per l’autorevolezza della loro provenienza[17]) sul carattere perentorio del termine e sulla sua dimidiabilità nei riti abbreviati, merita, al riguardo, evidenziare che, come segnalato in altra occasione[18], la coincidenza del momento per rinunciare alla rimessione in termini con quello della presentazione delle brevi note può creare un ulteriore problema di garanzia del contraddittorio, in quanto non consente repliche a tale forma “straordinaria” di difesa scritta che, proprio per la sua valenza sostitutiva della discussione, può contenere eccezioni e controdeduzioni che avrebbero indotto a chiedere il rinvio e alle quali non sembra costituzionalmente legittimo precludere a priori il diritto di replica.

    Il secondo periodo dell’art. 4, mitigando la notizia negativa della suddetta proroga, aggiunge poi che “dal 30 maggio e fino al 31 luglio 2020 può essere chiesta discussione orale con istanza depositata entro il termine per il deposito delle memorie di replica ovvero, per gli affari cautelari, fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza in qualunque rito, mediante collegamento da remoto con modalità idonee a salvaguardare  il  contraddittorio  e  l'effettiva partecipazione dei difensori all'udienza, assicurando in ogni caso la sicurezza e la funzionalità del sistema informatico della  giustizia amministrativa e dei relativi apparati e comunque  nei  limiti  delle risorse attualmente assegnate ai singoli uffici”.

    La disposizione è di difficile interpretazione e lascia già avvertire le insidie che saranno meglio articolate e dettagliate nei successivi passaggi della novella.

    La prima investe lo stesso periodo della sua operatività. Dal momento che il 31 luglio è indicato anche come termine del periodo emergenziale (sicché, dal 1 agosto, almeno le udienze cautelari, dovrebbero in tesi poter essere celebrate in presenza), pare coerente pensare che le date si riferiscano alla celebrazione delle udienze e non alla presentazione delle istanze. È però a questo punto difficile comprendere il senso dell’individuazione del dies a quo nel 30 maggio, che è un sabato, invece che nel 1 giugno, che è un lunedì, e per giunta il primo giorno del mese Sembra appena il caso di osservare che, se il termine fosse riferito alla presentazione dell’istanza, la possibilità di celebrare udienze con discussione orale sarebbe ulteriormente dilazionata (di 5 giorni per le udienze cautelari e di 10 o addirittura 20 giorni per quelle di merito).

    Il generico riferimento alla presentazione di un’istanza, senza ulteriori precisazioni o condizioni, fa (falsamente) illudere quanti, di fronte alla bozza del decreto-legge, avevano immediatamente rilevato l’inaccettabilità della regola (contenuta in quella originaria versione), che subordinava la discussione orale a una “istanza congiunta”. Purtroppo l’illusione dura poco e la lettura del terzo periodo aggrava l’amarezza del risveglio di un 1° maggio in lock down. I possibili limiti all’accoglimento dell’istanza erano del resto, a ben vedere, già preconizzati nel riferimento (nella seconda parte del secondo periodo) alle “modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione dei difensori all’udienza”. La formula, estremamente generica, rischia invero di aprire il fianco alla possibilità di condizionare (in ogni caso) l’accoglimento dell’istanza non soltanto alla sussistenza di idonee “modalità tecniche”, ma anche all’effettiva possibilità, per varie ragioni personali, dei singoli difensori (o delle parti nei casi in cui essi non siano necessari) di connettersi da remoto. Preoccupa parimenti l’inciso “comunque nei limiti delle risorse attualmente assegnate ai singoli uffici”. Nasce a questo punto spontanea la domanda se, nel disegno del d.l. 28, la discussione orale sia, come dovrebbe essere, un diritto effettivamente esercitabile dal 30 maggio (recte, dal 1 giugno) o semplicemente un auspicio, che può realizzarsi solo all’esito del superamento di una serie di “soffocanti” ostacoli.

    Il primo, enorme, ostacolo è purtroppo svelato già dal terzo periodo: l’istanza, in realtà, deve essere accolta (sempre che sussistano le predette condizioni) soltanto se presentata “congiuntamente da tutte le parti costituite”!!.

    La disposizione solleva ictu oculi rilevanti questioni di ordine sostanziale e procedimentale.

    Sul piano sostanziale: premesso che la discussione è momento fondamentale del contraddittorio non soltanto per una interlocuzione diretta col giudice, ma anche per consentire un effettivo diritto di replica alle difese delle altre parti, come può essere effettivamente garantito un contraddittorio che vede prevalere la posizione di chi vieta alle altre parti di un loro diritto?

    Sul piano procedimentale: innanzitutto, cosa vuol dire “congiuntamente”? Al di là della facile ironia su un termine che in questa fase emergenziale sta offrendo massimo stimolo alla nostra fantasia, non si può certo pensare che la richiesta debba essere unica/contestuale (complicazione evidentemente inutile) e si deve dunque più logicamente ritenere che essa debba essere semplicemente concorde/condivisa da tutte le parti costituite.

    Un ulteriore (e tutt’altro che minimale) problema è determinato dalla scansione temporale dei termini di presentazione dell’istanza, se valutati in rapporto con i termini per i depositi in vista dell’udienza. Il tema è di massima e immediata evidenza per le udienze cautelari, per le quali le parti possono costituirsi fino al giorno dell’udienza e depositare scritti e documenti fino a due giorni liberi (ridotti a uno nei riti abbreviati) o addirittura, se autorizzati dal presidente, fino all’apertura della stessa udienza (art. 55 c.p.a.). Ne consegue che la decisione “congiunta” deve essere presa “al buio” in un momento in cui il contraddittorio è evidentemente incompleto. Il problema si pone peraltro anche per le udienze pubbliche, atteso che la coincidenza del termine per l’istanza con quello per il deposito delle repliche ripropone la questione rappresentata con riferimento alla coincidenza del termine per la richiesta di rimessione in termini e quello per la presentazione delle brevi note di cui all’art. 84, comma 5, d.l. 18.

    Sembra dunque che, ancora una volta, il legislatore abbia preso in considerazione soltanto le esigenze organizzative degli uffici della giustizia amministrativa, sicuramente fondamentali, ma evidentemente non uniche, senza tenere in debito conto la garanzia di un contraddittorio effettivo pur ampiamente curata dal codice processuale.

    La lettura degli ulteriori passaggi della novella non offre purtroppo elementi di conforto.

    Negli altri casi – si legge nel quarto periodo – il presidente del collegio valuta l’istanza, anche sulla base delle eventuali opposizioni espresse dalle altre parti alla discussione da remoto”. Si conferma dunque che le parti non interessate o contrarie alla discussione orale (le “altre parti”) possono (oltre a non presentare la relativa istanza) rappresentare la propria impossibilità di partecipare all’udienza (circostanza che, a regime, può già determinare un rinvio se il presidente lo accorda), o anche semplicemente “opporsi” a che l’istante o gli istanti discutano (!). Starà dunque ai presidenti (e alla loro sensibilità, inevitabilmente condizionata dall’affollamento dei ruoli e dalle esigenze organizzative) operare un bilanciamento dei contrapposti interessi e accogliere o meno l’istanza alla luce del comportamento (semplicemente inerte, più o meno giustificatamente, contrario, o, magari, anche tardivamente adesivo) delle “altre parti”. In assenza di un termine massimo entro il quale queste ultime possono esternare le ragioni di mancata presentazione dell’istanza, gli originari presentatori di questa saranno però lasciati nell’incertezza sul relativo accoglimento.

    L’incertezza sull’apprensione delle concrete modalità di celebrazione dell’udienza (con o senza discussione orale) è confermata dal quinto periodo, che – opportunamente – prevede la possibilità che, anche in assenza di istanza di parte, il presidente del collegio disponga, comunque, qualora lo ritenga necessario, “con decreto”, la discussione orale da remoto.

    Manca però anche in questo caso l’indicazione del termine entro il quale le parti saranno rese edotte della decisione assunta.

    Il tema è di notevole importanza dal momento che, come visto, l’art. 84 del d.l. 18 “bilancia” l’impossibilità di discussione orale con la presentazionedi “brevi note”, che le parti devono dunque avere il tempo di predisporre.

    Il sesto periodo si limita invece a prevedere che “in tutti casi in cui sia disposta la trattazione da remoto, la segreteria comunica, almeno un giorno prima della trattazione, l’avviso dell’ora e delle modalità di collegamento”. La comunicazione riguarda dunque soltanto le modalità organizzative, ma presuppone, evidentemente, una decisione già assunta e, per quanto detto, necessariamente già resa nota alle parti.

    A sua volta, la formula “almeno un giorno prima” per la comunicazione della segreteria è tutt’altro che chiara: ragionevolmente, dovrebbe essere letta come “entro le h 24 dell’antivigilia” dell’udienza (retroagenti alle h 24 del primo giorno non festivo se l’antivigilia fosse festivo).

    Il settimo e l’ottavo periodo “entrano” nella nuova “udienza”, stabilendo rispettivamente che il verbale di udienza dia atto delle modalità con cui si accerta l’identità dei partecipanti e la libera volontà delle parti (da eventuali illeciti condizionamenti) anche ai fini della disciplina sulla privacy; e che il collegamento da remoto è considerato udienza (camerale o pubblica) a tutti gli effetti.

    Gli ultimi due periodi cercano ulteriori strumenti per arginare il rischio di “appesantimento” dell’udienza nell’ipotesi in cui, nonostante gli ostacoli già disseminati sull’arduo percorso di chi intende valersi del diritto a discutere, le udienze da remoto stimolino una maggiore mole di discussioni orali.

    Il nono periodo, per “incentivare” la rinuncia in extremis alla discussione, introduce infatti la possibilità che “in alternativa alla discussione (verosimilmente nei casi diversi da quello in cui sia stata disposta in via ufficiosa dallo stesso giudice ai sensi del quinto periodo) possono essere depositate note di udienza fino alle ore 9 (del tutto ultronea, tanto più in un contesto così avaro di precisazioni, la specificazione “antimeridiane”) del giorno dell’udienza stessa o richiesta di passaggio in decisione e il difensore che deposita tali note o tale richiesta è considerato presente a ogni effetto in udienza”. La rinuncia alla discussione, come nell’udienza in presenza, non preclude evidentemente in questo caso la discussione delle altre parti.

    Si tratta peraltro di una regola che, come più volte suggerito, potrebbe essere introdotta anche a regime, ma che richiederebbe una chiara e rigorosa delimitazione dimensionale delle suddette note di udienza.

    Tanto più che la seconda misura “anti appesantimento” delle udienze prevista dal decimo e ultimo comma dell’art. 4, comma 1, d.l. 28 riguarda l’introduzione, dopo il tanto criticato contingentamento delle dimensioni degli scritti difensivi, di quello dei tempi della discussione, che la novella demanda di stabilire a un apposito decreto del Presidente del Consiglio di Stato recante misure di “digitalizzazione” che dovrebbe riguardare, inter alia, l’introduzione di modalità telematiche anche nel procedimento per ricorso straordinario[19].

    Riemerge dunque la preoccupazione, sollevata in questi giorni da molti commentatori, che le norme emergenziali possano essere uno strumento per introdurre disposizioni che possano seriamente incidere, a regime, sull’effettivo esercizio di diritti fondamentali[20].

     

     

    [1] Su cui cfr. M.A. Sandulli, “Vademecum sulle ulteriori misure anti-covid19 in materia di Giustizia Amministrativa: l’art. 84 del Decreto Cura-Italia”, in Lamministrativista.it e in federalismi.it (osservatorio emergenza COVID-19, Documentazione); F. Francario, “L’emergenza Coronavirus e la “cura” per la giustizia amministrativa: le nuove misure straordinarie per il processo amministrativo”, ibidem; C. Saltelli, “La tutela cautelare dell’art. 84 d.l. n. 18 2020”, in www.giustizia-amministrativa.it; e F. Volpe, Riflessioni dopo una prima lettura dell’art. 84, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di processo amministrativo, in www.lexitalia.it. Cfr. anche le Direttive del Presidente del Consiglio di Stato del 19 marzo, in federalismi.it (osservatorio emergenza COVID-19) cit., con commento di M.A. Sandulli, “I primi “chiarimenti” del Presidente del Consiglio di Stato sul “Decreto Cura-Italia””.

    [2] Cfr. i “monitoraggi” delle prime applicazioni del d.l. n. 84 effettuati da B. Gargari, V. Sordi e T. Cocchi, in giustamm.it e il report di G. Veltri, in www.giustizia-amministrativa.it.

    [3] Sul punto, cfr. l’intervento di M. Ramajoli nel webinar del 24 aprile 2020, su “Processo amministrativo e Covid-19”, coordinato da M.A. Sandulli, con interventi di F. Francario, M. Lipari, L. Maruotti, G. Montedoro,  G. Morbidelli, P. Portaluri, M. Ramajoli, C. Saltelli, S. Santoro, R. Savoia, G. Severini, M. Spasiano, liberamente ascoltabile su youtube, all’indirizzo .

    [4] Sulle problematiche sollevate dal mancato coordinamento tra la l.n  27 e l’art. 36 del d.l. n. 23 punto cfr. F. Volpe, Ancora sulla disciplina emergenziale del processo amministrativo, in lexitalia, 2 maggio 2020, nonché, con più specifico riferimento alla conferma del termine del 15 aprile anche nel nuovo comma 1-bis dell’art. 103, del d.l. 18, le osservazioni di G. Strazza, L’emergenza Covid-19 e la sospensione (incerta) dei termini dei procedimenti e del processo amministrativo, in lamministrativista.it, 2 maggio 2020.

    [5] M.A. Sandulli, Nei giudizi amministrativi la nuova sospensione dei termini è “riservata” alle azioni: neglette le posizioni dei resistenti e dei controinteressati e il diritto al “pieno” contraddittorio difensivo, in federalismi.it del 9 aprile 2020, con Postilla per una possibile soluzione del 10 aprile. Analogamente, in senso critico, F. Francario, Il non - processo amministrativo nel diritto dell’emergenza Covid 19, in www.giustiziainsieme.it, 14 aprile 2020; N. Paolantonio, Il processo amministrativo dell’emergenza: sempre più speciale”, in lamministrativista.it e in giustamm.it; M. Lipari, “L’art. 36, comma 3, del decreto legge n. 23/2020: la sospensione parziale dei termini processuali è giustificata? Verso una lettura ragionevole della norma”, in federalismi.it del 29 aprile. Diversamente, R. De Nictolis, Il processo amministrativo ai tempi della pandemia, in federalismi.it. 15 aprile 2020.

     [6] Sulla sospensione dei termini del procedimento, M.A. Sandulli, N. Posteraro, Procedimento amministrativo e COVID-19. Primissime considerazioni sulla sospensione dei termini procedimentali e sulla conservazione dell’efficacia degli atti amministrativi in scadenza nell’art. 103, in federalismi.it (osservatorio emergenza COVID-19), marzo 2020; L. GIANI, Alcune considerazioni sulla “stratificazione” delle previsioni di sospensione dei termini procedimentali, ivi, marzo 2020.

    [7] Su cui cfr. gli AA. citati alla nota 1.

    [8] In Laministrativista.it e federalismi.it,  (osservatorio emergenza COVID-19), con considerazioni critiche di M.A. Sandulli, Vademecum di prima lettura sulle misure urgenti per la giustizia amministrativa e comunicato ufficio stampa giustizia amministrativa,. Sull’art. 3 del d.l. n. 11 cfr. anche F. Francario, L’emergenza Coronavirus e le misure straordinarie per il processo amministrativoibidem.

    [9] Da ultimo, M.A. Sandulli, Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 e ss., leggibile anche in www.giustizia-amministrativa.it, e ivi ulteriori richiami.

    [10] Cfr. le considerazioni svolte in M.A. Sandulli, La fase cautelare, in Diritto processuale amministrativo, 4/2010.

    [11] Su cui si rinvia a M.A. Sandulli, Brevissime considerazioni sulla sospensione dei termini relativi ai procedimenti sui ricorsi amministrativi (tra gli artt. 84 e 103 del d.l. n. 18 del 2020), in federalismi.it  (osservatorio emergenza COVID-19).

    [12] Per i quali, con decreto del 3 aprile 2020, il Presidente f.f. ha (autonomamente) stabilito (i) il differimento per legge dell’udienza collegiale del 22 aprile “in quanto non assicura l’integrale rispetto del termine fissato a ritroso per il deposito delle memorie” e (ii) che “le udienze ed adunanze collegiali del 13 maggio, 27 maggio, 10 giugno e 24 giugno 2020 saranno tenute a condizione che tutte le parti costituite richiedano congiuntamente che le cause in esse fissate siano chiamate e passino in decisione sulla base dei soli documenti e scritti difensivi, senza discussione orale né presenza delle parti e dei difensori”, precisando però che la suddetta richiesta “dovrà essere presentata od invita almeno 15 giorni prima del giorno fissato per l’udienza”; e (iii) ha altresì disposto il rinvio delle udienze istruttorie (nelle quali sono di norma trattate le istanze cautelari) calendarizzate tra il 6 maggio e il 17 giugno 2020 a date comprese tra il 1° luglio e l’11 novembre, con la precisazione che “le parti potranno segnalare che alcune di esse, per legge od obiettive e gravi condizioni, necessitano di trattazione urgente, nel qual caso verrà valutata la possibilità di fissarle prima e/o con particolari modalità”. In tema, cfr. amplius M. Collevecchio, Le peculiarità del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche e del suo rito nella gestione dell'attività nel corso dell'emergenza Covid-19, in federalismi.it (osservatorio emergenza COVID-19).

    [13] Cfr. ancora gli interventi al webinar del 24 aprile, cit.

    [14] Cons. St., sez. VI, 21 aprile 2020, nn. 2538 e 2539.

    [15] Cfr, per tutti, ancora una volta, gli interventi nel menzionato webinar del 24 aprile  e il contributo di C. Volpe, Pandemia, processo amministrativo e affinità elettive, in www.giustizia-amministrativa.it, 27 aprile 2020.

    [16] Cfr. le considerazioni critiche svolte a primissima lettura in Un brutto risveglio? L’oralità “condizionata” del processo amministrativo, in Lamministrativista.it. Analogamente, F. Volpe, Ancora sulla disciplina emergenziale, cit.

    [17] C. Saltelli, intervento al webinar del 24 aprile, cit. e M. Lipari , op. cit..

    [18] Cfr. chiusura del webinar del 24 aprile, cit.

    [19] Anche su questo punto, cfr. le perplessità espresse da F. Volpe, Ancora sulla disciplina emergenziale, cit.

    [20] In questo senso, cfr. F. Francario, Il non processo amministrativo, cit., nonché, inter alia, l’intervento di S. Cogliani nel corso del webinar del 30 aprile 2020, su “Emergenza sanitaria, diritto e (in)certezza delle regole”, coordinato da M.A. Sandulli, ascoltabile su youtube all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=o8vebWv7iKw

     

     

     



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    Covid-19: un’occasione per ripensare la responsabilità sanitaria

    Covid-19: un’occasione per ripensare la responsabilità sanitaria

    di Maria Alessandra Sandulli 

    Organizzato dalla Prof.ssa Maria Alessandra Sandulli, in collaborazione con la Prof.ssa Alessandra Pioggia e con l’Osservatorio di diritto sanitario della rivista federalismi.it, il 22 giugno 2020 si è tenuto un webinar sull’occasione fornita dal Covid-19 per ripensare la responsabilità sanitaria: ne hanno discusso, oltre alle stesse professoresse, autorevoli esponenti del mondo accademico e professionale (giuridico e sanitario) e della magistratura. Il dibattito si è incentrato sull’esigenza di distinguere la responsabilità degli operatori sanitari da quella della struttura e sull’opportunità di ridurre i rischi di azioni giudiziarie strumentali nei confronti di quanti sono stati costretti, a seconda delle situazioni e dei compiti, a valutare, decidere, intervenire con massima urgenza, in condizioni inimmaginabili e senza risorse adeguate, contro un nemico totalmente sconosciuto e imprevedibile. 


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