La privazione della libertà: il proprio nome, il proprio tempo[1]
di Mauro Palma
Il nome
Non bisogna andare a tragiche memorie del passato per riconoscere che la prima e più rilevante riduzione di una persona a “cosa” – o forse anche a un “fascicolo” da evadere e archiviare – è la sua identificazione in base a un numero e non a un nome.
Più volte nei racconti di chi ha subito tale umiliazione si ripercorre l’eco dell’impossibilità di riconoscersi all’interno del simbolo numerico, riassunto incongruo delle proprie vicende e della propria individualità. Un tragico passato, è vero. Eppure, in periodi più recenti, la stessa riduzione de-umanizzata si è resa evidente nelle sepolture di persone venute dal mare e mai giunte ai lidi delle loro speranze, così come, per chi è approdato ma non accolto, nella sistemazione in strutture destinate anche nella loro denominazione al suo respingimento.
Ci sono luoghi del nostro presente che sono densi di questa anonimia: sono spesso vicini a quelle spiagge che mantengono l’ambiguità dell’essere luogo della vastità che il mare sempre propone e della piccolezza del suo rivelarsi muro invalicabile. Ma non sono questi gli unici luoghi dell’anonimia. Anche in altre realtà la persona è soltanto un “caso”, il suo nome viene dimenticato o comunque non considerato e sostituito non più dal numero, ma dalla presunta nazionalità di origine o da qualche tratto somatico più evidente. Mutuando un linguaggio foucaultiano possiamo definirli gli spazi delle eterotopie escludenti[2], marginali rispetto a quelli della quotidianità e resi invisibili da muri, sbarre o cancelli. Sono luoghi dove non esiste la possibilità di autodeterminare la gestione del proprio tempo e neppure del proprio muoversi perché in essi la libertà è ristretta, limitata o del tutto privata. Luoghi dove spesso la densità numerica e la molteplicità tipologica dei presenti confluiscono, per trasformarsi nella spersonalizzazione di chi vi è ospitato, ricoverato, trattenuto o detenuto.
Nei luoghi di privazione della libertà, qualunque siano la loro specificità e le motivazioni per cui le persone sono in essi ristrette, l’anonimia è quasi una costante. Si presenta in una varietà di forme soprattutto nei confronti delle persone straniere o comunque di persone non direttamente inquadrabili in un presunto concetto di “normalità” la cui semantica sfocia nel luogo comune denso di paura, di difesa individualistica, di convenzionalismo: il nome è spesso sostituito da un aggettivo sostantivato che dovrebbe permettere di distinguere il soggetto in base a una sua rilevante caratteristica. In carcere questo avviene frequentemente.
Il diritto al nome non è codificato, non appartiene alla lista dei diritti fondamentali riconosciuti esplicitamente dal diritto positivo. Ma questa assenza è indicativa di una necessità ancor più forte perché è connaturata al non riconoscimento dell’individuo come persona e, nel nostro orizzonte costituzionale, della sua realtà interagente e comunicante con le altre. L’essere persona acquista una fisionomia soggettiva attraverso tale relazionalità che è intrisa della propria storia e del proprio mondo: per questo ha bisogno del riconoscimento di un nome. Ma, come più volte mi è capitato di ricordare, la negazione del diritto al nome si configura anche in una varietà di forme; per esempio, nella realtà penitenziaria, nell’anonimia di trasferimenti scollegati da qualsiasi connessione territoriale. Così come, soprattutto in questo periodo, si configura nella indicazione di ipotesi per affrontare il tema del sovraffollamento penitenziario senza alcuna preventiva considerazione della pienezza soggettiva delle persone destinatarie di taluni provvedimenti.
Mi riferisco, in particolare, alla possibilità avanzata dal versante ministeriale nell’attuale dibattito[3] di trasferire in una caserma, presuntamente disponibile in un comune del centro dell’Italia, un numero consistente di persone detenute per scontare condanne molto brevi o ridotti residui di condanne maggiori; il tutto indipendentemente da considerazioni relative alla loro individuale connessione con quel territorio. Al di là dell’effettività della proposta – rispetto alla quale è lecito avere dubbi, anche in relazione ai tempi rispetto all’urgenza attuale del sovraffollamento penitenziario – la formulazione in sé di un possibile spostamento di persone in un contesto qualsiasi, scelto sulla base di disponibilità del demanio e di accordi con esso raggiunti e del tutto irrelato alle loro soggettività, è indicativa di una perseguita anonimia delle persone affidate e rispetto alle quali, occorre ricordare, chi amministra la privazione della libertà ha una funzione di tutela e di garanzia dei diritti, nonché di finalizzazione del proprio intervento nel solco che la Costituzione delinea.
Ecco perché la questione del nome è decisiva quando si tratta di giudizio, di sanzione e della sua esecuzione, soprattutto quando questa comporta la privazione della libertà e, quindi il rischio di una segregazione spersonalizzante.
Del resto, sappiamo bene come il sistema penale italiano abbia faticato – e tuttora fatichi – a dare il nome alle cose; sono dovuti passare più di trenta anni dalla ratifica della Convenzione Onu contro la tortura perché il nome stesso tortura entrasse nel codice penale – ben di più erano passati dall’imperativo dell’ultimo comma dell’articolo 13 della Costituzione, nonostante che questo desse una indicazione esplicita di punizione di ogni violenza fisica o mentale nei confronti delle persone sottoposte a restrizioni di libertà. Vale la pena, proprio in questo contesto di conclusione di un’attività tra giustizia e letteratura, ricordare l’affermazione di Albert Camus che scrisse nei suoi quaderni preparatori de La Peste: «quando si cominciano a nominare bene le cose diminuisce il disordine e diminuisce la sofferenza che c’è nel mondo».
Il tempo
Quindi, l’anonimia come primo indice della disattenzione ai diritti intrinseci con la persona. Ma c’è un altro diritto che pone forti questioni quando si parla di privazione della libertà e, quindi, anche di carcere: il diritto al significato del proprio tempo. Anche su questo mi è capitato di soffermarmi più volte, spesso in occasione del mio rivolgermi annualmente al Parlamento, nella funzione di Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.
Nella privazione della libertà la questione del tempo si pone sotto diversi aspetti, a partire dal principio che il tempo non può essere privo di significato. Perché in tal caso i vuoti del tempo, anch’essi necessari per l’intimità e la riflessione, non sono pause, ma il niente; oppure sono un contenitore da riempire con qualcosa che richiama l’intrattenimento e non la progettazione – e purtroppo questo termine, intrattenimento, è stato più volte utilizzato in circolari varie. Un tempo inutile, al più riempito di qualcosa è quello che quasi sempre scorre nelle istituzioni chiuse: un tempo che richiama ciò che, come segnalava Erving Goffman più di cinquant’anni fa, diviene denso di «attività di rimozione». Cioè attività non adulte, bensì infantilizzanti, sostanzialmente finalizzate a sé stesse, volte a far dimenticare provvisoriamente la situazione in cui vive. «Se dunque si può dire – scriveva Goffman – che nelle istituzioni totali le attività normali torturano il tempo, queste attività lo uccidono pietosamente»[4].
Il carcere non è esterno a questa concezione del tempo: sono innanzitutto i numeri a evidenziare questa fisionomia. Alla data odierna (maggio 2024) ci sono 1502 persone in carcere per scontare una pena – non un residuo di pena maggiore – inferiore a un anno, altri circa 3000 una pena tra uno e due anni. È evidente che in periodi così brevi non sia possibile costruire alcun percorso che dia significato a quanto la nostra Carta prescrive come finalità tendenziale per ogni pena, troppo complessa essendo l’organizzazione carceraria. La presenza in carcere per periodi così brevi, è innanzitutto destrutturante sul piano della consapevolezza del valore delle norme: nel luogo della ricostruzione della legalità si vive, infatti, un’esperienza che dà alla norma un valore meramente enunciativo e non fattuale, addirittura a una norma di rango costituzionale. Inoltre, tale presenza è indicativa della selettività dell’azione penale, perché, ovviamente, le persone che, pur in presenza di molte modalità alternative per pene così brevi, sono in carcere rappresentano quella minorità sociale che è fatta di assenza di una rete di supporto, assenza a volte di un domicilio che possa essere preso in considerazione dal magistrato che dovrebbe applicare la misura, nonché assenza di conoscenza delle possibilità che l’ordinamento prevede e ancor più di comprensione del dove si è e del proprio presente. È una realtà che interroga tutti noi: pone domande ineludibili al territorio che non ha più presidi intermedi che possano intercettare queste vite difficili e fornire loro strumenti di supporto e di controllo che diminuiscano l’esposizione al rischio della commissione di reati e affida invece al penale ciò che non si è risolto nel sociale.
Questi segmenti di vita interrotta sono destinati a riproporsi perché la persona uscirà dal carcere nelle condizioni con cui è entrata e con lo stigma della detenzione. Sono frantumazioni del tempo della vita, tratti vuoti, sottrazioni del significato stesso del proprio tempo: negazioni di quel diritto troppo spesso violato non solo in carcere, ma anche negli altri luoghi di privazione della libertà personale.
Ho parlato di segmenti di vuoto: non sono pause né sono quei silenzi che aprono alla riflessione, bensì i vuoti che ricordano l’interruzione – c’è differenza tra il silenzio di John Cage[5] e l’interruzione di corrente, da riempire con qualche rassicurante attività.
Il tempo interrotto nella sua continuità, in molte situazioni in carcere ha la caratteristica della sospensione, dell’interruzione e non certamente dello spazio per il sé. Per questo il tempo rappresenta una variabile esplicativa della difficoltà del presente nella risposta penale. Non lo è, tuttavia, solo sotto questo aspetto perché è descrittivo e determinate anche relativamente ad altri due profili. Il primo riguarda la non sincronia tra la ciclicità del tempo interno alla detenzione, che sostanzialmente riproduce sempre sé stesso, quasi rappresentabile con un moto circolare e la linearità del tempo esterno: inizialmente i due diversi tempi hanno un punto di contatto, la retta del tempo esterno è tangente alla circonferenza del tempo detentivo, ma subito poco la loro distanza rischia di accentuarsi. A ogni incontro con una persona esterna, a ogni incontro con i propri affetti, ma anche a ogni momento di confronto con l’Istituzione che regola e legittima il procedere dell’assenza di libertà, circonferenza e tangente sono di nuovo insieme in un singolo punto, cioè in un singolo momento: per un attimo sembrano avere lo stesso orologio, poi inevitabilmente si discostano, l’una torna a ripiegarsi nella logica dell’internamento, l’altra a seguire la direzione degli eventi.
Si riesce a far sincronizzare il più possibile i due tempi, pur nella loro intrinseca differenza? La via da percorrere è quella dell’accentuare la loro possibile e parziale similarità, a partire da quel principio che è posto tra le premesse delle Regole penitenziarie europee – adottate dal Consiglio d’Europa – che indica che «la vita in carcere deve essere il più possibile simile agli aspetti positivi della vita all’esterno». Qui la «positività» va interpretata nel senso di evoluzione, di adesione, quindi, alla mutevolezza crescente del tempo esterno. Ne emerge una carenza attuale del nostro sistema detentivo che richiede urgentemente di essere considerata: la carenza di attenzione positiva all’evoluzione tecnologica, tuttora vista dalla nostra Amministrazione non come opportunità per una detenzione più calibrata sul ritorno al contesto sociale, bensì come rischio di riduzione della sicurezza interna ed esterna.
Vale la pena ricordare che i dati ci dicono che delle 61200 persone attualmente detenute, coloro che hanno oggi un residuo di pena superiore ai cinque anni sono meno di 12600; tra un numero molto ridotto di anni, quasi 49mila persone ristrette rientreranno nella società; la maggiore connessione possibile tra il tempo interno e il tempo esterno è un elemento decisivo per il loro positivo reintegro in termini di una maggiore sicurezza della collettività, oltre che del loro personale percorso personale.
Il tempo è comunque una variabile significativa anche per un altro aspetto, che qui accenno soltanto: nelle scienze fisiche, in quelle sociali e anche nello sviluppo del sapere psicoanalitico il tempo non è mai una grandezza costante perché è sempre soggetto a dilatazioni e contrazioni. La misura del tempo della penalità, nella sua definizione edittale è invece costante: definita anni fa, resta tale. Eppure la quantità di esperienze e mutamenti racchiusa in un anno di privazione della libertà nel momento della definizione edittale è ben diversa da quella che un anno del presente racchiude. Questo comporta che il mutamento ha un ritmo diverso e che, conseguentemente, la distanza tra quel tempo che ho definito come interno e quello esterne tende ad accentuarsi, soprattutto data la rapidità di mutamento delle tecnologie e dei mutamenti sociali e contestuali che esso determina.
Questa consapevolezza manca alla riflessione sul presente della detenzione e tale mancanza si riflette sulla sottovalutazione di alcuni aspetti. Per esempio, quello della centralità assoluta della interconnessione per persone molto giovani, spesso accusate, anche a ragione, di vivere in un mondo virtuale a cui assegnano maggiore rilevanza rispetto al mondo delle relazioni materiali. In realtà proprio l’interruzione di tale connessione ha effetti dirompenti, nel senso di isolamento, in una persona che entra in carcere, ben superiore a quella che si determinava e si determina nell’interruzione dei rapporti familiari: Peralto, si tratta peraltro una disconnessione definitiva – non si avrà più lo smartphone – che potrà essere sanata neppure dal magro conforto degli incontri che l’ordinamento penitenziario prevede. Sono convinto che questa decisiva e definitiva disconnessione sia un co-fattore della disperazione e forse anche dei suoi nefasti esiti.
Il tempo della detenzione deve conservare la dimensione relazionale affinché si mantenga un equilibrio tra ciò che si è commesso e la sanzione penale corrispondente, con il suo quantum di sofferenza inevitabile.
Teatralità penale
L’incapacità di mantenere tale connessione svela l’ambiguità insita nella pena detentiva che si è storicamente affermata quasi come misura neutrale, oggettiva, in grado di opporsi alla teatralità della pena suppliziante. Nel suo discostarsi dal tempo vitale e nella sua esecuzione in condizioni di degrado finisce però per configurarsi come una sua semplice variante perché la segregazione, nel vuoto del nome e del significato del proprio tempo, anche laddove non vi è violenza fisica o psichica, esprime la stessa logica.
Scrisse Gabriel Bonnot De Mably nel periodo dell’Illuminismo e del passaggio dalla pena corporale alla detenzione: «Che il castigo, se così posso dire, colpisca l’anima, non il corpo»[6]. La teatralità insita in una detenzione soltanto centrata sulla sottrazione di tempo vitale e sull’esibizione frequente di tale sottrazione di tempo in funzione della costruzione di consenso finisce col concedere molto al residuo di vendetta – e il linguaggio spesso ne è sintomo e conferma. Così mostrando che una idea corporea della pena permane nella nostra contemporaneità, anche se avvolta dall’incorporeo di una penalità centrata sull’astratta neutralità del tempo sottratto come misura del castigo. È in questa corporeità residua rimane il nucleo della sanzione punitiva come sofferenza.
Nome e significato del tempo, quindi, sono due pilastri dello stesso concetto di dignità quale intrinseco bene di ogni persona, la cui tutela assoluta pone la parola pena meno riassumibile nell’afflizione che inevitabilmente essa porta con sé.
La tutela del diritto al riconoscimento della dignità di ogni persona è il primo compito di chi deve controllare che la ragione e le modalità esecutive della privazione della libertà. In ambito penitenziario, talune vicende in cui persone responsabili di particolari reati sono state sottoposte a umiliazioni specifiche da parte di chi le aveva in custodia ci dicono che c’è ancora molta strada da percorrere in questa direzione. Anche perché accanto al diritto al riconoscimento della propria dignità, vi è l’altro assoluto diritto al rispetto della propria integrità fisica e psichica.
Sembra strano, ma è necessario richiamare qualcosa già inciso nella nostra Carta e nella Convenzione europea per la tutela dei diritti umani, il cui articolo 3 – che vieta, appunto, tortura e trattamenti o pene inumani o degradanti – è uno dei soli quattro articoli mai derogabili. Una inderogabilità che ha resistito a più attacchi nei primi decenni di questo secolo nel contesto di una presunta efficacia di strumenti di lotta la terrorismo internazionale centrata sulla possibile inflizione di sofferenza aggiuntiva sulla base di una più generale tutela, così recuperando schemi obsoleti e scivolosi della disponibilità del corpo della persona ristretta – un Presidente degli Stati Uniti, quindi, di un Paese cioè che è parte della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, è giunto ad affermare che il waterboarding è una tecnica di interrogatorio.
Per chi ha avuto per anni il compito di vigilare sulla privazione della libertà personale, nelle sue diverse motivazioni, finalità, forme e nei diversi luoghi dove essa si attua, lo schema dei diritti da garantire e delle raccomandazioni da formulare a chi ha responsabilità di tali provvedimenti e delle relative strutture discende da questi principi[7]. Sempre con una funzione preventiva. Sempre avendo chiaro che la necessità, la finalità e la valutazione di proporzionalità che permettono di violare quel bene essenziale costituito dalla libertà individuale, non sono dei meri parametri enunciati quale generico indirizzo dell’azione di chi è responsabile della cosa pubblica. Essi indicano invece sia il limite del possibile esercizio di tale potere coercitivo, sia la sua misura, sia, infine la sua direzione. È così che, nel caso del carcere, la tendenziale finalità rieducativa non è una semplice enunciazione di principio né una indicazione di politica penale e penitenziaria, ma l’asse dell’azione su cui modulare la privazione della libertà. Quindi, il diritto soggettivo della persona ristretta a che tale finalità sia realmente perseguita.
Sempre ricordando che «si va in carcere perché si è puniti e non per essere puniti».
[1] Il testo è stato presentato al Convegno Responsabilità, giudizio, riparazione, pena. Intrecci, analogie, differenze, organizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore a conclusione del XIV Ciclo seminariale “Giustizia e Letteratura”, 11 – 12 aprile 2024. Gli atti del Convegno sono in corso di pubblicazione.
[2] M. Foucault, Les hétérotopies. Le corps utopique, 1966; trad. it Utopie Eterotopie (A. Moscati, a cura di), Cronopio, Napoli, 2006.
[3] Intervento del Ministro della Giustizia Carlo Nordio all’iniziativa di dibattito dal titolo Senza dignità organizzata da Radio Radicale e tenutasi al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre il 23 aprile 2024 (videoregistrazione disponibile sulla pagina web di Radio Radicale).
[4] E. Goffman, Asylums. Essays on the social situation of mental patients and other inmates, 1961; trad.it Asylums. Le istituzioni totali (introduzione di Franco e Franca Basaglia), Einaudi, Torino, 1968.
[5] J. Cage, Silenzio, volume e musica, 1961, trad.it (G. Carlotti, a cura di), Il Saggiatore, Milano, 2019.
[6] G. Bonnot de Mably, De la législation ou Principes de lois (1776) in Œuvres complètes, Amst ed., Lausanne., tomo IX.
[7] Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (febbraio 2016 – gennaio 2024), Presentazioni da parte del Presidente della Relazione annuale al Parlamento. Le presentazioni sono editabili dal sito del Garante nazionale: https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/pages/it/homepage/pub_rel_par/.
Immagine: Héctor Zamora, Lattice Detour, 2020. Credits: The Metropolitan Museum of Art. Photo Anna-Marie Kellen.