ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Intervento tenuto al convegno “La Riforma della Giustizia - La separazione delle carriere”, patrocinato da Giuffrè Editore, a Naso (ME) il 17 maggio 2024.
Partecipo con grande piacere a questo convegno su una riforma costituzionale di tale importanza. Proprio qui, a Naso, paese abbarbicato sui Nebrodi, che pure ha dato i natali ad Antonino Giuffré: da qui si è avviata la straordinaria avventura dell'editore Giuffré, sui cui libri e manuali, tutti noi, siamo cresciuti. Mi piace ricordarlo, in questa temperie storica, anche per il metodo di cui l'editore Giuffré si è reso portatore nel corso dei decenni: un metodo di approfondimento delle questioni giuridiche e di sistema serio, rigoroso, tecnico-scientifico; di alto profilo culturale, insomma.
Questo metodo è oggi ampiamente recessivo. Oggi, anche le questioni più importanti, quale quella di cui stiamo discutendo, che è volta a modificare per sempre il patto su cui si fonda la nostra società democratica, vengono spogliate della loro dignità tecnico-scientifica, strappate dal loro naturale alveo del dibattito socio-culturale, strappate persino al fisiologico dibattito parlamentare, e affrontate con strumenti ben più semplificati: slogan, tweet, annunci, e talvolta persino l'ironico dileggio di chi la pensa diversamente.
Fuor di metafora, la classe politica attuale, ed in particolare quella della maggioranza governativa, mi sembra non più disposta a confrontarsi, né tantomeno ad argomentare. L'argomentazione guarda all'altro, oggi non si guarda neppure a se stessi.
Se questo è il segno dei tempi, ne prendo atto. Ma lasciatemi dubitare che sia questa la cifra distintiva dell'eredità culturale di Antonino Giuffré, il quale ha voluto nel logo della casa editrice il proverbiale motto latino "Multa paucis". Dire molto in poco, dire molte cose in poche parole: utilizzare le parole giuste, quelle che scendono in profondità. Oggi, invece, non si dice nulla nel fiume sgrammaticato di parole dette a sproposito. Sono di questo tenore le argomentazioni di chi vorrebbe cambiare la Costituzione.
Ne faccio una questione di metodo, non di principio. Ricordo una frase misconosciuta di Giorgio Marinucci, non a caso contenuta proprio in un volume edito da Giuffré: <<Nessuno è innocente davanti alla politica>>.
<<Nessuno è innocente davanti alla politica>>.
Ma come noi tutti non siamo innocenti davanti alla politica, la politica non può dirsi innocente davanti alla Costituzione, scritta quando il sangue di vincitori e vinti della tremenda stagione fascista non era ancora rappreso. La politica non è mai innocente quando esercita il potere di riformare la Costituzione. Se questo è l’intento della politica, il minimo che possa fare è mettersi in ascolto, sforzarsi di comprendere le ragioni di chi la pensa diversamente, di chi può dare un apporto tecnico al dibattito: adoperarsi per trovare un punto di sintesi e la massima condivisione possibile.
E non mi sento di assicurare che sia questo l'intento del Ministro della Giustizia. Lo scorso fine settimana ero a Palermo, al congresso della magistratura associata. Il Ministro della Giustizia è comparso non nella giornata di apertura, come tutte le altre autorità, ma il sabato, per soli 31 minuti (cronometrati) e ha tenuto un discorso a braccio che spaziava dalla droga Fentanyl alla Dichiarazione di Bordeaux. Un discorso - un fiume di parole - del tutto privo di contenuti, terminato il quale, è andato via, senza ascoltare una sola parola pronunciata da altri fuorché lui. Eppure in quella sala congressi era riunita tutta la magistratura: la destinataria di una riforma epocale, mai compiuta prima - e bisognerebbe chiedersi il perché. È questa la politica che, pur intendendo esercitare il potere di riformare la Costituzione, si mette in ascolto?
Nessuno è innocente davanti alla politica, ma la politica non è innocente davanti alla Costituzione, perché dietro alla Costituzione c’è il Presidente della Repubblica, che è la nostra Guida; ci sono i poteri dello Stato, c’è la collettività tutta.
Lasciate allora che utilizzi - retoricamente - lo stesso metodo utilizzato dal Ministro della Giustizia. Consentitemi di svuotare il mio intervento di ogni contenuto. Per quel cittadino che voglia essere interessato a sapere come la penso sulla separazione delle carriere, rinvio alla mozione finale del congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati che è stata approvata domenica scorsa e che spiega molto bene la nostra - e mia personale - contrarietà a questa riforma. Reperibile on-line, oppure qui al tavolo: ho portato qualche copia cartacea della mozione.
Non dirò una sola parola sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere. Non è mancanza di rispetto nei confronti dell’auditorio o degli illustri relatori, è invece un tentativo - disperato, me ne rendo conto - di far comprendere all’auditorio e agli illustri relatori come la politica, attraverso le sue massime rappresentanze istituzionali, non abbia alcuna intenzione di ascoltare, di soffermarsi, di ponderare. Come la politica, in questa fase storica, voglia essere divisiva, non inclusiva.
La separazione delle carriere non la spiego a nessuno; e a nessuno spiegherò le ragioni della mia convinta contrarietà a questa riforma. Pare che sia questo il segno dei tempi.
Forse la politica crede di essere non solo innocente davanti alla Costituzione, ma di esserne padrona, al punto da poterla riformare unilateralmente, a piacimento; completamente dimenticando la fatica del dialogo e del compromesso vissuta nell’Assemblea Costituente, che ha dato frutti preziosi. <<I Costituenti hanno redatto la nostra Carta per i giovani, per le generazioni allora future. Anche per questo si basa su un impianto di valori e di principi, tradotti in norme capaci di applicarsi a quanto interverrà nel corso del tempo>>. L’ha detto il Capo dello Stato qualche giorno fa. Quella Costituzione è stata scritta in modo tale che quando mia figlia Beatrice - che ha due mesi ed è lì con la sua mamma ad ascoltarci - sarà grande, ed io non ci sarò più, potrà ancora leggerla e riconoscersi in essa. E vorrei che Beatrice possa dire che quella stessa Carta è stata resa viva, mantenuta e preservata con l’impegno del suo bisnonno, di suo nonno e del suo papà.
Non vorrei dunque spendere neppure una parola sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere, che riscriverebbe un pezzo fondamentale della Costituzione con spirito divisivo, non inclusivo.
Piuttosto, lasciate che concluda il mio intervento con due brevi storie.
Prima storia - Tempo fa entrava nella mia stanza un avvocato dicendomi che il suo cliente era disperato: la sentenza con cui era stata dichiarata la rettifica di sesso dal Tribunale, così faticosamente ottenuta dopo un percorso esistenziale ed anche chirurgico molto lungo, non era ancora stata trascritta nei registri dello stato civile del comune. Quella sentenza doveva ancora essere vistata dal pubblico ministero, e quindi da me. Quella sentenza era ferma perché nel mio ufficio, come in molti altri uffici italiani, la piattaforma ministeriale del pubblico ministero di lavorazione dei provvedimenti del giudice civile (c.d. “Consolle Civile”) non era funzionante. Quell’uomo permaneva nel limbo burocratico di una sessualità negata, a causa di un inaccettabile e quasi permanente disservizio del sistema giustizia.
Seconda storia - Tempo fa veniva iscritta una notizia di reato a carico di una mamma, a seguito di una denuncia sporta dal papà di una bimba. All’esito dell’istruttoria da me condotta, il reato contestato si è rivelato insussistente. Nel frattempo, nel parallelo procedimento civile per separazione e affidamento della prole, i giudici - considerata la grave accusa pendente - limitavano provvisoriamente la genitorialità della mamma. Per molte notti non ho chiuso occhio, perché sapevo che con la mia richiesta di archiviazione, e la conseguente archiviazione disposta dal giudice, quella mamma avrebbe riacquistato ciò che le era più caro: la piena genitorialità. E invece quella richiesta di archiviazione è stata a lungo ferma nel mio pc, perché le continue disfunzioni della piattaforma ministeriale di lavorazione delle archiviazioni (c.d. “APP”) non mi consentivano di depositare correttamente la mia richiesta.
Ora, chiediamo a quell’uomo che ha visto negati i suoi diritti, e a quella mamma cui la genitorialità è stata compressa, perché il magistrato non era stato messo nelle condizioni di poter operare, se oggi i cittadini chiedono a gran voce la riforma costituzionale della separazione delle carriere, oppure se pretendono che gli sforzi della politica convergano verso il reale efficientamento della macchina della giustizia.
"Multa paucis", ma anche "Intelligenti pauca".
Alcuni chiarimenti in merito all’autotutela doverosa di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis, l. n. 241 del 1990 (nota a Cons. Stato, Sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415)
di Federica Campolo
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. La nozione di autotutela doverosa. – 3. Le critiche all’interpretazione del Giudice di primo grado. - 4. La decisione del Consiglio di Stato e brevi osservazioni conclusive.
1. Il caso di specie.
La pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415, che decide su tre differenti ricorsi in appello riuniti, risulta di particolare interesse per l’ampia ricostruzione che svolge del controverso istituto della c.d. “autotutela doverosa”[1], del quale effettua un’importante analisi interpretativa.
L’intricata vicenda che ha offerto al Consiglio di Stato l’occasione di fornire dei chiarimenti sull’applicabilità dell’autotutela doverosa è, sinteticamente, la seguente.
La proprietaria di un immobile, di seguito identificata come sig.ra A, proponeva ricorso ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a. innanzi al T.A.R. Puglia, per domandare l’accertamento del silenzio inadempimento – e il conseguente dovere del Comune di Barletta di emanare un provvedimento espresso – formatosi su due diffide da questa presentate. Le diffide avevano a oggetto, rispettivamente, la richiesta di attivazione dei controlli e l’annullamento in autotutela di alcuni titoli edilizi, che avevano autorizzato rilevanti interventi su di un manufatto costruito in adiacenza alla proprietà della ricorrente e dei quali rivendicava l’illegittimità. Gli interventi avevano comportato la sopraelevazione del manufatto rispetto all’immobile della sig.ra A, che, in precedenza, lo sovrastava[2].
Tale ricorso faceva seguito all’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza della Corte d’Appello di Bari, che aveva condannato la vicina di casa, di seguito identificata come sig.ra B, e il suo progettista per il reato di cui all’art. 481 c.p. “Falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità” oltre che il tecnico comunale incaricato dell’istruttoria per il reato di cui all’art. 479 c.p. “Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici”. In tale sede il Giudice penale aveva rilevato che la qualificazione delle opere, dapprima come manutenzione leggera, in seguito come ristrutturazione leggera, fosse falsa, trattandosi, invece, di una nuova costruzione, da ritenersi, pertanto, abusiva ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. b) del d.P.R. n. 380 del 2001[3][4].
Il T.A.R Puglia accoglieva il ricorso, condividendo la tesi sostenuta dalla sig.ra A secondo cui, la disposizione di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis della l. n. 241 del 1990[5], applicabile nel caso di specie, configurasse una forma di autotutela doverosa. Questa avrebbe comportato l’obbligo per l’Amministrazione di annullare il titolo edilizio formatosi sulla base di dichiarazioni false o mendaci, attestate da una sentenza penale passata in giudicato. Concludeva, pertanto, il Giudice di prime cure affermando che l’Amministrazione, sollecitata dal privato interessato, fosse tenuta a emanare un provvedimento espresso, capace di riportare lo stato dei luoghi a una situazione di conformità con la normativa urbanistica e edilizia.
La sentenza veniva appellata dal Comune sulla base, essenzialmente, dell’asserita illegittimità del riconoscimento di tale specifica forma di autotutela doverosa, di cui disconosceva in radice la configurabilità[6].
Di converso, la sig.ra A si costituiva in giudizio per domandare il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza del T.A.R, affermando, in particolare, dovesse ritenersi esclusa ogni esigenza di tutela dell’affidamento in presenza di un istante mendace, risultando l’interesse pubblico all’annullamento in autotutela, in tali ipotesi, in re ipsa.
Il Consiglio di Stato, sez. VI respingeva l’istanza cautelare dell’appellante, ritenendo che la sentenza del T.A.R Puglia si fosse limitata a prevedere l’obbligo di provvedere da parte del Comune sulla domanda formulata dalla parte ricorrente in primo grado, senza vincolare il contenuto del successivo provvedimento.
A seguito di tale decisione cautelare, la sig.ra A avanzava al T.A.R Puglia istanza di nomina di un commissario ad acta, che si sostituisse all’Amministrazione, ai sensi dell’art. 117, comma 3, c.p.a. Il commissario ad acta procedeva, dunque, all’annullamento dei titoli edilizi riferiti all’intervento abusivo, intimando la demolizione di quanto eccedente la ristrutturazione legittima. Tra i titoli oggetto di annullamento erano ricompresi anche i permessi di costruire in sanatoria, estranei al contenuto del giudicato penale[7].
Avverso tali provvedimenti presentavano reclamo al T.A.R. Puglia sia la sig.ra A sia la dante causa della sig.ra B, chiedendo il loro annullamento, la prima in quanto asseritamente elusivi della pronuncia di primo grado, la seconda lamentando l’eccessiva estensione contenutistica dei provvedimenti adottati, che avrebbero travalicato anche il perimetro del giudicato penale.
Il T.A.R respingeva entrambi i reclami.
Avverso tale ultima pronuncia veniva proposto appello da entrambe le parti che avevano presentato il sopra richiamato reclamo.
La sig.ra A., più precisamente, contestava i provvedimenti adottati dal commissario ad acta rilevando che, poiché la sentenza da attuare imponeva di riportare lo stato dei luoghi alla legalità, l’unico modo per conformarsi al dettato del Giudice amministrativo sarebbe stato quello di ordinare la demolizione dell’intero corpo di fabbrica e non, invece, della sola parte eccedente la ristrutturazione legittima. Il commissario ad acta con la sua decisione avrebbe acconsentito a una indebita fiscalizzazione dell’abuso edilizio, in violazione dell’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Venivano ribadite dalle parti le differenti posizioni già espresse in merito all’istituto dell’autotutela doverosa.
2. La nozione di autotutela doverosa.
Prima di giungere alla decisione sul caso sopra descritto, il Collegio effettua un’attenta ricostruzione dell’autotutela doverosa, il cui corretto inquadramento è posto come nodo centrale da sciogliere o, meglio, usando le parole del Giudice, vero “punctum dolens” della controversia.
Va evidenziato, per meglio comprendere la problematicità della questione, che, con riferimento in termini generali all’annullamento in autotutela, la giurisprudenza amministrativa riconosce pacificamente la legittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione sull’istanza del privato, in ragione, essenzialmente, della sua natura discrezionale[8]. Pertanto, l’asserita illegittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione potrebbe configurarsi solo nel caso si ritenesse l’art. 21nonies, comma 2 bis, disciplinante un’ipotesi di autotutela doverosa, nei termini precisati nel prosieguo.
Il Consiglio di Stato, sul punto, ha individuato due ordini di problemi da risolvere: in primo luogo, la riconducibilità o meno del caso di specie alla categoria dell’autotutela doverosa, in secondo luogo, in caso di risposta affermativa, la sua esatta estensione.
Nel delimitare la portata dell’autotutela doverosa il Giudice ha ritenuto fondamentale stabilire se questa fosse da limitare all’an, cioè da intendersi come comportante l’obbligo per l’Amministrazione di avviare il procedimento e fornire un riscontro all’istanza del privato ovvero se fosse da estendere – utilizzando una terminologia probabilmente non del tutto appropriata – al quomodo[9], per cui vi sarebbe l’obbligo in ogni caso di adottare un provvedimento caducatorio[10].
Nel fornire una nozione di autotutela doverosa il Consiglio di Stato osserva, in prima battuta, la contraddittorietà di tale locuzione, in ragione della discrezionalità che, come noto, caratterizza l’emanazione dei provvedimenti di secondo grado da parte delle Amministrazioni. Chiarisce il Collegio che si ha autotutela doverosa in tutte quelle ipotesi, tassativamente individuate dal legislatore ovvero definite chiaramente in via giurisprudenziale, in cui il potere di riesame dei propri atti da parte delle Amministrazioni è dovuto[11].
Questo istituto si è affermato prima ancora della riforma attuata nel 2005[12] alla legge sul procedimento, che, come noto, ha introdotto il Capo IV-bis, dedicato alla disciplina dell’efficacia e invalidità del provvedimento amministrativo, normando in termini generali l’istituto dell’autotutela. Una delle sue prime applicazioni è contenuta all’art. 6, comma 17 della l. n. 127 del 1997[13], che individuava l’obbligo per gli enti locali di autoannullare i propri provvedimenti di inquadramento del personale illegittimi.
Ulteriore esempio di autotutela doverosa, citato nella pronuncia in esame, si trova all’art. 94 del d.lgs. n. 159 del 2011[14], per cui, in talune ipotesi correlate a tentativi di infiltrazioni mafiose, devono essere revocate le autorizzazioni e le concessioni o sciolti i contratti già stipulati.
Ancora, tra le ipotesi di più frequente applicazione vi è l’art. 19, comma 4, della l. n. 241 del 1990, disciplinante l’esercizio doveroso dei poteri inibitori da parte delle pubbliche amministrazioni, decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3 o comma 6 bis, nei casi in cui vi siano i presupposti dettati dall’art. 21 nonies per l’annullamento d’ufficio[15].
Attenta dottrina ha delineato la sottocategoria dell’autotutela doverosa “parziale”, in cui cioè si assiste a una semplice dequotazione del termine di cui all’art. 21 nonies – ragionevole o di 12 mesi, nel caso di autorizzazione o attribuzione di vantaggi economici – per procedere all’annullamento d’ufficio[16]. Ne è un esempio l’autotutela doverosa di cui al caso di specie, ma anche l’art. 39 del d.P.R. n. 380 del 2001, che estende a 10 anni dall’adozione di deliberazioni e provvedimenti comunali autorizzativi di interventi illegittimi la possibilità di annullarli da parte delle regioni.
Un’ipotesi di autotutela doverosa largamente diffusa in passato, ma oggi espunta dall’ordinamento, è quella di cui all’abrogato art. 1, comma 136, della l. n. 311 del 2004[17], che obbligava le Amministrazioni, fatti salvi alcuni temperamenti per i provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali, ad annullare i provvedimenti illegittimi, al fine di garantire un risparmio di spesa pubblica[18].
Svolta una ricostruzione generale sull’istituto controverso, il Consiglio di Stato si concentra, infine, sull’ipotesi di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis[19].
Viene ulteriormente chiarito che trattasi di un caso di autotutela doverosa parziale, per cui è consentito all’Amministrazione di esercitare il potere di annullamento in autotutela oltre i termini fissati dal legislatore. Nel caso in esame è corretto, secondo l’interpretazione del Giudice d’appello, parlare di autotutela doverosa proprio perché, pur a distanza di anni, la legge impone il riesame del provvedimento.
L’attenzione è, poi, posta sulla formulazione letterale della disposizione.
In particolare, l’impiego dell’espressione “possono essere annullati”, rende chiaro come al ricorrere dei casi di “false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato” non venga imposto alle Amministrazioni senz’altro l’annullamento dei provvedimenti. La disposizione in analisi, pertanto, nell’interpretazione offerta dalla pronuncia in commento, impone il riesame del provvedimento, senza tuttavia vincolarne gli esiti.
Affinché, in questi casi, si debba procedere con l’emanazione di un provvedimento in autotutela è, infatti, essenziale che sia verificata la sussistenza degli ulteriori presupposti di cui al comma 1 dell’art. 21 nonies. Tra questi, diversamente dall’ipotesi generale di cui all’art. 21 nonies, comma 1, della l. n. 241 del 1990[20], non rientra la valutazione degli interessi dei destinatari del provvedimento, dal momento che non si pongono esigenze di tutela nei confronti di soggetti che abbiano ottenuto un vantaggio sulla base di dichiarazioni false o mendaci[21].
In realtà, nel caso di specie, in apparente contraddizione, la pronuncia in commento chiarisce che sarebbe stato necessario tenere in considerazione il subentro nella proprietà della figlia della sig.ra B, “in apparenza estranea ai fatti di causa, non potendosene presumere la connivenza per il solo fatto del rapporto di filiazione con la precedente proprietaria”.
In questo modo, la pronuncia in commento va a sottolineare come la conservazione della discrezionalità nell’esercizio dei poteri di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis svolge un’essenziale funzione garantista nel caso, non infrequente nella pratica, in cui non vi sia coincidenza tra autore del reato e destinatario dell’autotutela, venendo così in considerazione il suo affidamento incolpevole[22].
In tale prospettiva, il Collegio evidenzia come tra gli elementi oggetto di valutazione in queste ipotesi assuma un significato pregnante il fattore temporale. In considerazione del lungo lasso di tempo che può intercorrere tra l’emanazione di un provvedimento favorevole e l’accertamento in sede penale della dichiarazione falsa o mendace, secondo il Consiglio di Stato l’Amministrazione non potrà esimersi dal valutarne l’incidenza, tornando così a espandersi l’operatività della ragionevolezza del termine.
3. Le critiche all’interpretazione del Giudice di primo grado.
Come accennato nella ricostruzione in fatto, il Giudice di prime cure aveva accolto il ricorso valorizzando la tesi per cui, nel caso di specie, ci si troverebbe dinnanzi a un’ipotesi di autotutela doverosa, che impone all’Amministrazione l’adozione di un provvedimento espresso.
A sostegno di tale lettura, è stata offerta un’elencazione di disposizioni normative. Si è fatto riferimento, in particolare, all’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, richiamato dall’art. 19 bis della l. n. 241 del 1990, che pone sull’Amministrazione precisi doveri di diligenza. È stato richiamato, inoltre, il combinato disposto degli artt. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 con gli artt. 537, 651 e/o 654 c.p.p. disciplinanti gli effetti del giudicato penale sull’attività amministrativa. Infine, veniva fatta leva sulla portata compulsiva delle possibili ripercussioni risarcitorie in caso di accertata responsabilità erariale dei dipendenti del Comune.
Il Consiglio di Stato, chiarito come l’ipotesi di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis costituisca un caso di autotutela doverosa, da intendersi non come individuante un obbligo di emanare senz’altro un provvedimento di secondo grado, ma solo nel senso di imporre la valutazione dell’istanza di autotutela presentata dal privato interessato, oltre i termini di legge, verificando la sussistenza dei presupposti di cui al suo primo comma, offre ampie riflessioni volte a superare l’interpretazione del T.A.R.
In primo luogo, viene esaminato l’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 e confrontato con l’art. 21 nonies, comma 2 bis della l. n. 241 del 1990[23].
L’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, come noto, stabilisce che, qualora emerga, all’esito di un controllo, la non veridicità del contenuto di una dichiarazione, il dichiarante decade automaticamente dai benefici conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera.
Secondo il Collegio è errato estendere tale automatismo al caso di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis della l. n. 241 del 1990. Eliminando i profili di discrezionalità insiti in tale ultima disposizione, attraverso una rigida applicazione dell’art. 75, verrebbe infatti snaturato l’istituto dell’autotutela, benché conseguente a un accertamento penale.
Una simile lettura porterebbe, infatti, a una sostanziale interpretatio abrogans dell’art. 21 nonies, comma 2 bis“derubricandolo a mero richiamo a un meccanismo sanzionatorio rinvenibile aliunde”, che si mostra incompatibile con il dato letterale già sopra evidenziato, in relazione all’utilizzo del verbo servile potere.
Secondo l’interpretazione offerta nella pronuncia in commento, la clausola di salvaguardia contenuta all’art. 21 nonies, comma 2 bis della l. n. 241 del 1990 “fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonchè delle sanzioni previste dal Capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 245” evoca più propriamente un cumulo di sanzioni/conseguenze della declaratoria falsa, ma non la sovrapposizione delle due ipotesi, con conseguente assorbimento di quella più rigorosa di cui all’art. 75, comma 1, in quella meno rigorosa di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis.
Passando all’argomento legato ai profili di responsabilità erariale, va chiarito che la lettura del T.A.R., per cui questi contribuirebbero a sostenere l’automatismo caducatorio insito nell’art. 21 nonies, comma 2 bis, deriva dall’ultimo periodo del suo comma 1, in forza del quale “rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”. Tale disposizione, in ragione della sua collocazione sistematica, sarebbe applicabile a tutti i casi di autotutela[24].
Secondo il Giudice d’appello, tuttavia, tale lettura non è condivisibile. La citata disposizione di cui all’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 21 nonies, pur costituendo una clausola di salvaguardia, che contribuisce a limitare la discrezionalità dell’Amministrazione, non può essere intesa come capace di rendere doveroso l’annullamento in autotutela.
Questa, infatti, impone all’Amministrazione semplicemente di tenere in considerazione, in fase di valutazione discrezionale, la necessità di evitare effetti pregiudizievoli per la stessa, mirando quindi a prevenire comportamenti negligenti nell’esercizio della funzione pubblica.
Infine, viene posto a vaglio critico il richiamo all’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, sempre finalizzato a sostenere la doverosità dell’annullamento d’ufficio a seguito dell’accertamento penale. Si ricorda che la sig.ra A aveva presentato due differenti istanze al Comune, l’una di autotutela ex art. 21 nonies, comma 2 bis, l’altra di esercizio dei poteri di vigilanza, ai sensi dell’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Nel confutare tale argomento il Consiglio di Stato pone in risalto la sostanziale differenza sussistente tra attività di controllo del territorio e attività di controllo sulla legittimità degli atti, profili profondamente intricati e spesso indebitamente sovrapposti[25].
Chiarisce il Consiglio di Stato che l’art. 27 citato, rubricato “Vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia” costituisce uno strumento conferito per dare effettività alle scelte di pianificazione urbanistica e “attiene alla verifica, effettuabile senza limiti di tempo, della conformità degli interventi al regime di edificabilità dei suoli, per come cristallizzati nei titoli edilizi, ove rilasciati, ovvero all’illecita realizzazione in assenza degli stessi di modifiche che in qualche modo impattino sul territorio”. Il controllo sulla legittimità e quindi l’esercizio del potere di autotutela, invece, implica esclusivamente la possibilità di annullamento dei provvedimenti, sussistendone i presupposti di legge.
Secondo il Collegio, nonostante la difficoltà ermeneutica che comporta distinguere tra le due ipotesi, si tratta questo di uno sforzo che il Comune è chiamato necessariamente a compiere “così da distinguere i profili di illegittimità, rilevabili ex post nei limiti dell’autotutela, da quelli di illiceità, stigmatizzabili in qualunque momento”.
Evidenzia, infine, che il Giudice di primo grado ha sostanzialmente sovrapposto le richieste di autotutela e di controllo, operando così un’indebita commistione dei due diversi piani, arrivando “a giustificare la doverosità della prima in ragione della sussistenza dei compiti di controllo”.
4. La decisione del Consiglio di Stato e brevi osservazioni conclusive.
A seguito della complessa ricostruzione del fatto, nonché della definizione dell’istituto dell’autotutela doverosa, capace di chiarirne la portata applicativa, il Consiglio di Stato procedeva all’accoglimento del ricorso del Comune di Barletta.
Il Collegio, in particolare, mostrava di non condividere la decisione del Giudice di primo grado che, di fatto, aveva imposto l’annullamento in autotutela dei titoli edilizi sopra descritti, evidenziando che nel giudizio avverso il silenzio non è consentito al Giudice, in presenza di attività discrezionale, valutare la fondatezza della pretesa azionata. Ciò in quanto, come sopra chiarito, i poteri di autotutela di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis della l. n. 241 del 1990 sono caratterizzati da discrezionalità, imponendo doverosamente solo l’esame dell’istanza del privato, ma non l’emanazione di un provvedimento di annullamento in secondo grado.
Chiariva, quindi, che il Comune era tenuto a riscontrare l’istanza di autotutela della sig.ra A, potendo poi stabilire, nell’esercizio della propria discrezionalità, se procedere o meno all’annullamento d’ufficio dei titoli edilizi.
Nell’esercizio dei poteri di vigilanza di cui all’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, invece, era obbligato, in ogni caso, ad attivare il relativo procedimento sanzionatorio, dando riscontro alla richiedente dell’eventuale adozione di provvedimenti demolitori ovvero della loro mancata adozione.
Va osservato che, nonostante nella pronuncia in commento il Consiglio di Stato abbia dato credito all’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale dell’istituto dell’autotutela doverosa, di fatto, nel definirne i confini, ne ha condivisibilmente evidenziato la sua ontologica inconsistenza.
Non condividendo l’automatismo caducatorio nelle ipotesi di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis della l. n. 241 del 1990 ed evidenziando la natura discrezionale insita nelle valutazioni propedeutiche all’eventuale emanazione del provvedimento di annullamento in autotutela, infatti, il Giudice ha riportato tale disposizione nell’ordinaria categoria dell’annullamento d’ufficio.
Anche nei casi di cui al citato art. 21 nonies, comma 2 bis, l’Amministrazione è chiamata a effettuare un bilanciamento tra l’interesse al ripristino della legalità violata e quello alla conservazione del titolo. Uniche differenze rispetto alle ipotesi di autotutela “tradizionali” sono legate, da un lato, al superamento dei limiti temporali dettati dal comma 1 dell’art. 21 nonies, dall’altro, al ridotto onere motivazionale – in caso si decidesse di optare per l’annullamento – conseguente all’assenza di una posizione di affidamento in capo al privato e alla presunzione della sussistenza dell’interesse pubblico.
Per quanto suggestivo possa apparire il richiamo a una forma di autotutela doverosa, è evidente come questa ricostruzione possa risultare fuorviante, inducendo, come nel caso della sentenza del T.A.R Puglia, a vincolare l’Amministrazione in ogni caso a esercitare i propri poteri di annullamento d’ufficio, andando così ad arbitrariamente forzare il testo legislativo[26].
Certo è che la sentenza in commento, pur avendo fornito un’interpretazione della disposizione controversa coerente con il dato letterale – oltre che con la dottrina maggioritaria – e capace di contemperare i diversi interessi in gioco attraverso il “salvataggio” della discrezionalità, avrebbe forse preferibilmente potuto spingersi fino a contestare in radice la configurabilità, in tali ipotesi, dell’autotutela doverosa.
Come evidenziato, l’unica vera doverosità presente nel caso di specie si ritrova nell’elemento dell’an, cioè nel necessario avvio di un procedimento di secondo grado, il cui esito, tuttavia, non è vincolato dal giudicato penale. Questa lettura va a uniformarsi a quell’interpretazione dottrinale, nell’opinione di chi scrive del tutto condivisibile, che, come sopra accennato, imporrebbe all’Amministrazione in ogni caso di autotutela di emanare un provvedimento espresso a seguito dell’istanza del privato portatore di un interesse qualificato[27].
[1] Sull’autotutela doverosa, in dottrina, tra i più recenti contributi, si vedano, ex multis, N. Posteraro, Il dovere di provvedere a fronte di una richiesta di annullamento in autotutela, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, 2023, 359-361; M. Giavazzi, Legalità, certezza del diritto e autotutela: riflessioni sulla funzionalizzazione dell’annullamento d’ufficio all’effet utile, in CERIDAP, 4, 2020; F.V. Virzì, La doverosità del potere d’annullamento d’ufficio, in www.federalismi.it, 14, 2018; S. Tuccillo, Autotutela: potere doveroso?, ivi, 16, 2016; N. Posteraro, Sulla possibile configurazione di un’autotutela doverosa (anche alla luce del codice dei contratti pubblici e della Adunanza Plenaria n. 8 del 2017), ivi, 20, 2017; G. Manfredi, Annullamento doveroso?, in P.A. Persona e Amministrazione, 2017; C. Deodato,L’annullamento d’ufficio, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 1190 ss.
[2] Più precisamente, come si legge nella ricostruzione in fatto svolta dal Consiglio di Stato, le autorizzazioni edilizie rilasciate avevano ammesso che alla palazzina, originariamente articolata su tre piani fuori terra e uno seminterrato, venisse aggiunto un piano, costruendovi in adiacenza un ulteriore locale, coperto integralmente da un lastrico solare, così da trasformare la residua parte della terrazza in una specie di portico chiuso su tre lati, reso accessibile mediante un “torrino”, funzionale all’allocazione delle scale.
[3] L’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, rubricato “Sanzioni penali”, al suo comma 1, lett. b) prevede che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato e ferme le sanzioni amministrative, si applica […]” “b) l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 5164 a 51645 euro nei casi di esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso o di prosecuzione degli stessi nonostante l’ordine di sospensione”.
[4] Si precisa che entrambi i capi di imputazione si riferivano a una d.i.a. del 2007 per lavori di manutenzione straordinaria e a un permesso di costruire in sanatoria del 2008, che ne mutava l’inquadramento riconducendoli a una ristrutturazione leggera.
[5] L’art. 21 nonies, comma 2 bis prevede che “I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertante con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali, nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, 445”.
[6] Secondo la difesa civica, questa lettura troverebbe conferma sia nella giurisprudenza costituzionale sia nella formulazione dell’art. 21 nonies, comma 2 bis, che espressamente parla di potere e non di dovere delle Amministrazioni “di annullare i provvedimenti conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”, anche dopo la scadenza del termine di cui al suo comma 1. Inoltre, inconferenti sarebbero i richiami – effettuati da controparte a sostegno della tesi dell’autotutela doverosa – all’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, che farebbe riferimento al diverso compito di vigilanza sul territorio gravante sul Comune, sia all’art. 654 c.p.p., che estende la portata del giudicato penale al solo responsabile civile (o parte civile) che abbia preso parte al procedimento penale, diversamente dal caso di specie, in cui il Comune se ne è mantenuto estraneo.
[7] Successive alla già citata d.i.a. del 2007 e al permesso di costruire del 2008 sono due sanatorie rilasciate nel 2011. La prima finalizzata ad azzerare l’originario procedimento sovrapponendone un altro, la seconda, invece, assentita in variante al permesso di costruire del 2008 e successiva d.i.a. in variante, più volte modificata.
[8] Si segnala, tra le più recenti pronunce in tal senso, Cons. Stato, Sez. V, 9 gennaio 2024, n. 301, in Red. Giuffrè, 2’24, secondo cui “In caso di presentazione di istanza di autotutela, l’amministrazione non ha l’obbligo di pronunciarsi in maniera esplicita in quanto la relativa determinazione costituisce una manifestazione tipica della discrezionalità amministrativa, di cui è titolare in via esclusiva l’amministrazione per la tutela dell’interesse pubblico; non è quindi configurabile un obbligo di provvedere a fronte di istanze di riesame di atti precedentemente emanati, conseguente alla natura officiosa e ampiamente discrezionale, soprattutto nell’an, del potere di autotutela ed al fatto che, rispetto all’esercizio di tale potere, il privato può avanzare solo mere sollecitazioni o segnalazioni prive di valore giuridicamente cogente”.
In dottrina, recentemente, si sono affermate talune posizioni contrarie a questo consolidato indirizzo. Cfr. M. Sinisi, La nuova azione amministrativa: il “tempo” dell’annullamento d’ufficio e l’esercizio dei poteri inibitori nel caso di s.c.i.a. Certezza del diritto, tutela dei terzi e falsi miti, in www.federalismi.it, 24, 2015 e M. Allena, La facoltatività dell’instaurazione del procedimento di annullamento d’ufficio: un “fossile vivente” nell’evoluzione dell’ordinamento amministrativo, ivi, 8, 2018. Alcune delle argomentazioni offerte, in tal senso, come si dirà nel prosieguo, sono state utilizzate dalla sig.ra A. e poi dal T.A.R Puglia, a sostegno della natura doverosa dell’autotutela di cui all’art. 21 nonies, che vincolerebbe, inoltre, come sopra chiarito, l'Amministrazione ad annullare i provvedimenti viziati.
[9] Sulla distinzione, in tema di autotutela doverosa, tra diversi profili si veda N. Posteraro, Sulla possibile configurazione di un’autotutela doverosa, cit., 4 ss. L’ A., invero, ritiene più corretto fare riferimento alla doverosità nel quid, anziché nel quomodo, per riferirsi all’obbligo di adottare un dato provvedimento. C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, cit., 1193 fa riferimento al doveroso rispetto del quomodo nell’autotutela intendendo, con tale espressione, le regole d’azione cogenti.
[10] Va precisato che, come accennato nella ricostruzione in fatto, il T.A.R. Puglia, riconoscendo la natura doverosa dell’autotutela di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis, ritenuta applicabile al caso di specie, ne aveva altresì esteso la portata al quomodo, così inteso. Il Giudice di primo grado aveva fatto discendere tale interpretazione dalle seguenti disposizioni: l’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, relativo alla decadenza dei benefici conseguiti tramite dichiarazioni menzognere, richiamato dall’art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990; l’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, rubricato “Vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia”; gli artt. 19 e 20 della l. n. 241 del 1990, in materia, rispettivamente, di s.c.i.a. e silenzio assenso. Venivano valorizzati, inoltre, i profili legati alla responsabilità amministrativa, che esponendo l’Amministrazione ad azioni di rivalsa per i danni erariali dei propri dipendenti, imporrebbero di determinarsi espressamente al fine di evitarli. Infine, il giudicato penale esplicherebbe i propri effetti ai sensi degli artt. 537, 651 e/o 654 c.p.p, obbligando all’assunzione di una posizione in forma espressa.
[11] Sulla configurabilità, in termini generali, dell’autotutela doverosa, tra le più recenti pronunce si vedano Cons. Stato, Sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2207, in Riv. giur. ed., 2021, 2, 467; Id, 31 dicembre 2019, n. 8920, ivi, 2020, 1, 97; Id, 29 maggio 2019, n. 3576, in Red. Giuffrè, 2019 e Cons. Stato, Ad. Plen., 17 ottobre 2017, n. 8, in Riv. giur. ed., con nota di N. Posteraro.
[12] L. 11 febbraio 2005, n. 15, recante “Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa”.
[13] L. 15 maggio 1997, n. 127 “Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo”, pubblicata in G.U. n. 113 del 17 maggio 1997 – Suppl. Ordinario n. 98. L’art. 6, comma 17, prevede che “Entro il 30 settembre 1998 gli enti locali sono tenuti ad annullare i provvedimenti di inquadramento del personale adottati in modo difforme dalle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 25 giugno 1983, n. 347, e successive modificazioni ed integrazioni, e a bandire contestualmente i concorsi per la copertura dei posti resisi vacanti per effetto dell’annullamento. […]”
[14] D.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 “Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136”. Più precisamente, l’art. 94 del d.lgs. n. 159 del 2011, al suo comma 2 stabilisce che “Qualora il prefetto non rilasci l'informazione interdittiva entro i termini previsti, ovvero nel caso di lavori o forniture di somma urgenza di cui all'articolo 92 comma 3 qualora la sussistenza di una causa di divieto indicata nell'articolo 67 o gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa di cui all'articolo 84, comma 4, ed all'articolo 91, comma 6, siano accertati successivamente alla stipula del contratto, i soggetti di cui all'articolo 83, commi 1 e 2, salvo quanto previsto al comma 3, revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”. In giurisprudenza si veda, ex multis, Cons. giust. Amm. Sicilia, 30 marzo 2020, n. 223, in www.giustizia-amministrativa.it, che afferma che “L’amministrazione, qualora l’informativa antimafia sia stata rilasciata dopo la conclusione di un contratto o dopo l’erogazione di un contributo, ha il dovere imprescindibile di revocare il contributo già erogato, con efficacia ex tunc, essendo in questa ipotesi l’interesse pubblico alla revoca in re ipsa. Infatti, la revoca del contributo costituisce un vero e proprio dovere dell’amministrazione che è tenuta a porre rimedio alle sfavorevoli conseguenze derivate all’erario per effetto di una erogazione non dovuta di contributi pubblici, non sussistendo in questo caso uno specifico obbligo di motivazione, atteso che l’interesse pubblico all’adozione dell’atto è “in re ipsa” quando ricorre un indebito esborso di denaro pubblico con vantaggio ingiustificato per il privato”.
[15] In giurisprudenza si rimanda, ex multis, a Cons. Stato, Sez. IV, 11 marzo 2022, n. 1737, con la nota di N. Posteraro, Alcune considerazioni critiche su due questioni inerenti alla tutela del terzo leso da una SCIA a partire da una recente pronuncia del Consiglio di Stato, in Dir. proc. amm., 4, 2022, 957, in cui si legge che “L’autotutela di cui al comma 4 dell’art. 19 della legge n. 241/1990 presenta alcune peculiarità rispetto al generale potere di autotutela, in quanto, mentre di regola si assume che questo sia ampiamente discrezionale nell’apprezzamento dell’interesse pubblico che può imporne l’esercizio e non coercibile (al punto che la p.a. non ha neanche l’obbligo di rispondere a eventuali istanze con cui il privato ne solleciti l’esercizio), ciò non vale in questo caso laddove, anche per l’intima connessione di tale potere col più generale dovere di vigilanza che incombe al Comune sull’attività edilizia ai fini dell’ordinato assetto del territorio, a fronte di un’istanza di intervento ai sensi dell’art. 19, comma 4, l’Amministrazione ha il dovere di rispondere, essendo la sua discrezionalità limitata solo alla verifica della sussistenza o meno dei presupposti di cui all’art. 21 nonies”. Più recentemente si veda, anche, Cons. Stato, Sez. IV, 30 giugno 2023, n. 6837 con la nota di P. Otranto, Quando “tempus non regit actum”. Ancora sulla c.d. “autotutela” in materia di s.c.i.a., in questa Rivista, 20 dicembre 2023.
[16] Cfr. N. Durante, L’autotutela doverosa, in www.giustizia-amministrativa.it, 2022.
[17] L. 30 dicembre 2004, n. 311, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria)”, in G.U. Serie Generale n. 306 del 31 dicembre 2004. L’art. 1, comma 136 citato stabiliva che “Al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, può sempre essere disposto l’annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l’esecuzione degli stessi sia ancora in corso. L’annullamento di cui al primo peridio di provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall’eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall’acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante”.
Nel vigore di tale disposizione la giurisprudenza aveva elaborato il principio di diritto per cui “l’interesse pubblico all’annullamento d’ufficio dell’illegittimo inquadramento di un pubblico dipendente è in re ipsa e non richiede specifica motivazione, in quanto l’atto oggetto di autotutela produce un danno per l’Amministrazione consistente nell’esborso di denaro pubblico senza titolo, con vantaggio ingiustificato per il dipendente, né in tali casi rileva il tempo trascorso dall’emanazione del provvedimento di recupero dell’indebito” (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. III, 20 giugno 2012, n. 3595, in Foro amm. – CdS, 2012, 6, 1550.)
[18] Il sopra richiamato caso di abrogazione di un’ipotesi di autotutela doverosa è preso a esempio dal Consiglio di Stato per evidenziare come, nel tempo, sia mutato l’approccio verso il tema del riesame degli atti amministrativi, in ragione del differente contesto socio-economico. Nella pronuncia viene esplicato che attualmente si sta affermando una visione responsabilizzante delle Amministrazioni pubbliche, per cui viene attribuita una maggiore importanza alla completezza dell’istruttoria sulle istanze del privato, dato che va a dequotare l’impiego dei provvedimenti di secondo grado.
[19] Sull’art. 21 nonies, comma 2 bis, in dottrina si vedano, ex multis, M. Sinisi, Il potere di autotutela caducatoria, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, cit., 565 ss.; M.A. Sandulli, Edilizia, in Riv. giur. ed., 2022, 3, 171; Id, Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, ivi, 18, 2019; V. Di Iorio, Osservazioni a prima lettura sull’autotutela dopo la l. n. 124/2015: profili di incertezza nell’intreccio tra diritto amministrativo e diritto penale, in www.federalismi.it, 21, 2015; M.A. Sandulli, Gli effetti diretti della l. 7 agosto 2015, n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in www.federalismi.it, 17, 2015, 9.
[20] Il comma 1 dell’art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990 stabilisce che “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
[21] In tal senso anche Cons. Stato, Sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2329, in Riv. giur. ed., 2021, 3, 921; T.A.R. Campania, Salerno, Sez. II, 5 gennaio 2021, n. 18, ivi, 2021, 2, 559; T.A.R Lombardia, Brescia, Sez. I, 12 giugno 2018, n. 574, ivi, 2018, 4, 1100 per cui “L’interesse pubblico all’eliminazione, ai sensi dell’art. 21 nonies l. n. 241 del 1990, di un titolo abilitativo illegittimo è in re ipsa, a fronte di falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini del provvedimento ampliativo, non potendo l’interessato vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un titolo ottenuto attraverso l’induzione in errore dell’amministrazione procedente”.
[22] Cfr., M. Sinisi, Il potere di autotutela caducatoria, cit., 566.
[23] Per un’interpretazione del rapporto tra art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990 e art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2207, cit.
[24] In tal senso in dottrina si è espressa, ad esempio, M. Sinisi, La nuova azione amministrativa: il “tempo” dell’annullamento d’ufficio e l’esercizio dei poteri inibitori nel caso di s.c.i.a. Certezza del diritto, tutela dei terzi e falsi miti, in www.federalismi.it, 24, 2015.
[25] Afferma il Consiglio di Stato, nella sentenza in commento, che “nella pratica, accade spesso che il richiamo all’imprescindibilità dei poteri di vigilanza divenga il grimaldello attraverso il quale legittimare controlli postumi, ovvero spostare in avanti il dies a quo di decorrenza del termine di silenzio assenso dilatando a dismisura il concetto di requisiti formali e sostanziali che la domanda deve possedere per poter essere valutata”.
[26] In tal senso, M. Giavazzi, Legalità, certezza del diritto e autotutela: riflessioni sulla funzionalizzazione dell’annullamento d’ufficio all’effet utile, cit., afferma che “è da escludere che esistano, nel diritto interno, fattispecie di annullamento d’ufficio doveroso, atteggiandosi sempre l’atto di autotutela come provvedimento discrezionale, sia pure con diversi gradienti di discrezionalità in funzione del differente grado di rilevanza costituzionale degli interessi pubblici a tutela dei quali quell’atto interviene, potendosi al più immaginare che, in particolari vicende, vi sia una presunzione (iuris tantum) della ricorrenza di un interesse pubblico alla rimozione prevalente rispetto a quello che milita alla sua conservazione”.
[27] Questa interpretazione, oltre a risultare maggiormente in linea con il mutamento della relazione pubblico-privato, potrebbe garantire una consistente riduzione del contenzioso. In questa prospettiva, di interesse sono le conclusioni offerte da M. Allena, La facoltatività dell’instaurazione del procedimento di annullamento d’ufficio, cit., 24-25, per cui “in un sistema democratico in cui l’amministrazione è al servizio dei cittadini (art. 98 Cost.), va superata una visione strettamente unilaterale dell’autotutela decisoria. […] Tuttavia, appaiono maturi i tempi per superare l’idea che tale istituto serva essenzialmente a garantire l’interesse della p.a. in quanto tale, rendendole più facile e immediata la possibilità di eliminare i propri atti illegittimi, senza alcuna (o, comunque, estremamente limitata) attenzione per l’interesse del cittadino che tale illegittimità subisce”.
Notificazione per pubblici proclami e integrità del contraddittorio nel processo amministrativo (commento a Cons. di Stato, Sez. VII, 12 febbraio 2024, n. 1414)
Sommario: 1. Premessa. – 2. Una breve ricostruzione della vicenda processuale. – 3. La notificazione per pubblici proclami nel processo amministrativo. – 4. L’orientamento “restrittivo” del T.A.R. Lazio sull’applicazione dell’istituto. – 5. La soluzione “garantista” adottata dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento. – 6. Alcune interessanti precisazioni sull’ordine di esame delle questioni in rito e sulla priorità della tutela del contraddittorio. – 7. Alcune brevi considerazioni conclusive sui dicta della sentenza.
1. Premessa
La sentenza in commento offre delle interessanti precisazioni sul perimetro applicativo dell’istituto della notifica per pubblici proclami nel processo amministrativo con riferimento alla tutela del contraddittorio processuale[1].
Il Consiglio di Stato, in antitesi ad un orientamento maggiormente restrittivo del TAR Lazio, ritiene che l’applicazione di tale forma di notificazione possa essere richiesta anche in assenza della previa instaurazione del contraddittorio nei confronti di almeno un controinteressato, sempre che la relativa istanza venga richiesta tempestivamente (entro il termine decadenziale per la proposizione del ricorso) e che vi sia una situazione di particolare difficoltà nel procedere alla notificazione nelle forme ordinarie (a causa del numero delle persone da chiamare in giudizio).
La sentenza, inoltre, si sofferma sull’ordine di esame delle questioni in rito a seguito di rinvio ex art. 105, comma 1 c.p.a. in presenza di contraddittorio non integro[2]. Più precisamente, viene evidenziato come la decisione del giudice di primo grado di pronunciare l’irricevibilità del ricorso a contraddittorio non integro, cambiando il precedente ordine di esame delle questioni in rito, possa comportare la necessità di un ulteriore rinvio al giudice di primo grado nel caso in cui detta decisione venga riformata in appello, con evidente detrimento della ragionevole durata del processo[3].
2. Una breve ricostruzione della vicenda processuale.
La vicenda processuale da cui origina il caso di specie si è sviluppata attraverso due pronunciamenti del TAR Lazio a cui si sono susseguite altrettante sentenze del Consiglio di Stato, l’ultima delle quali è la pronuncia in commento[4].
Con il ricorso introduttivo proposto dinanzi al TAR del Lazio, il ricorrente impugnava una graduatoria regionale per il reclutamento a tempo indeterminato di personale docente nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, lamentando il mancato riconoscimento del punteggio per il servizio prestato nella scuola con contratto a tempo indeterminato. Il Collegio investito della questione, però, non entrando nel merito della controversia, dichiarava il ricorso inammissibile per la mancata notifica ad almeno uno dei controinteressati, senza aggiungere null’altro nella motivazione della sua decisione[5].
Detta sentenza veniva appellata da parte ricorrente che sosteneva di aver tempestivamente proposto l’istanza di autorizzazione alla notifica per pubblici proclami, ai sensi dell’art. 41, comma 4 c.p.a., istanza sulla quale il TAR adito non si era pronunciato né in sede collegiale, né in sede monocratica. Veniva, cioè, evidenziato come l’omessa notifica non fosse imputabile al ricorrente, ma al giudice che non si era pronunciato sull’autorizzazione alla notifica per pubblici proclami. In accoglimento di tale motivo di gravame il Consiglio di Stato annullava la decisione di primo grado con rinvio al medesimo giudice ex art. 105, comma 1 c.p.a.[6].
Il TAR Lazio – reinvestito della questione con ricorso notificato anche nelle forme ordinarie a due controinteressati – non si uniformava alla sentenza del Consiglio di Stato e, dopo aver meglio argomentato le motivazioni che lo avevano portato a determinarsi per l’inammissibilità del primo ricorso a causa dell’omessa notifica ad almeno uno dei controinteressati, riteneva di non dover comunque procedere all’estensione del contraddittorio in considerazione della manifesta irricevibilità del ricorso originario, eccepita dall’amministrazione resistente nell’ambito del primo giudizio (ma non presa in esame nella prima sentenza)[7].
Questa seconda sentenza (di irricevibilità) del TAR Lazio veniva impugnata nuovamente in Consiglio di Stato dove il Collegio adito, trattenendo la decisione nel merito, ha definito la vicenda conteziosa con la sentenza in commento[8]. Con detta pronuncia il giudice d’appello, superate le eccezioni di inammissibilità (per omessa notifica ad almeno uno dei controinteressati) e di irricevibilità (per tardività nella notifica del primo ricorso), ha accolto l’appello dichiarando fondato il ricorso di primo grado, con il conseguente annullamento dei provvedimenti originariamente impugnati dal ricorrente.
3. La notificazione per pubblici proclami nel processo amministrativo.
Per comprendere adeguatamente il portato di questa decisione appare utile effettuare una breve analisi dell’istituto della notifica per pubblici proclami nell’ambito del processo amministrativo[9].
Detta modalità di notificazione è prevista in due distinte disposizioni del codice del processo amministrativo: nell’art. 41 c.p.a., relativo alla “Notificazione del ricorso e suoi destinatari”, il cui comma 4, prevede che “Quando la notificazione del ricorso nei modi ordinari sia particolarmente difficile per il numero delle persone da chiamare in giudizio il presidente del tribunale o della sezione cui è assegnato il ricorso può disporre, su richiesta di parte, che la notificazione sia effettuata per pubblici proclami prescrivendone le modalità”; e nell’art. 49 c.p.a., relativo alla “Integrazione del contraddittorio”, il cui comma 3 prevede che “Il giudice, nell’ordinare l’integrazione del contraddittorio, fissa il relativo termine, indicando le parti cui il ricorso deve essere notificato. Può autorizzare, se ne ricorrono i presupposti, la notificazione per pubblici proclami prescrivendone le modalità”. La notifica per pubblici proclami, quindi, è prevista: sia anteriormente all’instaurazione del giudizio, quando può essere chiesta dal ricorrente ed autorizzata dal Presidente con riferimento alla notifica del ricorso introduttivo; sia posteriormente all’instaurazione del giudizio, quando può essere disposta d’ufficio dal giudice successivamente alla notifica del ricorso nelle forme ordinarie ad alcuno dei controinteressati, ma sia necessario darne notizia anche ad altri soggetti[10].
Con l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, pertanto, le concrete modalità effettuazione della notifica per pubblici proclami sono state rimesse integralmente al giudice che le dispone liberamente a seconda del caso concreto[11]. Consolidata giurisprudenza, però, ha precisato come, in mancanza di specifiche indicazioni da parte del giudice, debba ritenersi senz’altro applicabile, in forza c.d. “rinvio esterno” di cui all’art. 39, comma 2 c.p.a.[12], la disciplina contenuta nel codice di procedura civile, secondo la quale la notificazione per pubblici proclami si perfeziona mediante il deposito di copia dell’atto nella casa comunale del luogo in cui ha sede l’ufficio giudiziario davanti al quale si promuove o si svolge il processo e con l’inserimento di un estratto di esso nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica[13].Quindi, in assenza di diverse prescrizioni da parte del giudice che la dispone, la notifica per pubblici proclami può ritenersi perfezionata soltanto mediante il rispetto del suddetto iter procedimentale e con la prova del deposito della documentazione ad essa relativa nella Segreteria del giudice che ha ordinato l’incombente, con la conseguenza che l’omissione di tale ultimo adempimento comporta l’improcedibilità del ricorso[14].
La notificazione del ricorso per pubblici proclami, per sua natura eccezionale in relazione alle minori garanzie che presenta rispetto alla notificazione in forma ordinaria, deve essere eseguita in modo da rendere più probabile e meno disagevole la conoscenza effettiva da parte dei destinatari; quindi, in linea generale (ossia salva l’ipotesi di difficoltà di identificazione dei controinteressati), il relativo annuncio deve contenere l’indicazione dei nominativi dei controinteressati, oltre che degli estremi del ricorso, del nome del ricorrente e dell’amministrazione intimata, dei provvedimenti impugnati e di un sunto dei motivi di gravame in carenza dei quali la notifica è inesistente[15].
4. L’orientamento “restrittivo” del T.A.R. Lazio sull’applicazione dell’istituto.
Ciò premesso sulla disciplina normativa e sull’applicazione giurisprudenziale relative all’esercizio di detta modalità di notificazione, occorre evidenziare come una parte della giurisprudenza ne confini l’operatività solo previo esperimento della notifica nelle forme ordinarie ad almeno uno dei controinteressati.
Secondo tale orientamento viene dichiarato inammissibile il ricorso che non sia stato notificato ad alcun controinteressato non essendo sufficiente, in mancanza di detta notifica, la mera istanza di autorizzazione alla notifica per pubblici proclami, la quale sarebbe idonea solo a consentire l’integrazione del contraddittorio, ma non l’instaurazione del giudizio[16].
A tale impostazione ermeneutica sono ispirate anche le due sentenze del TAR Lazio intervenute nel caso di specie[17]. Mentre con la prima pronuncia la Sezione Terza Bis del TAR Lazio si è limitata a sancire l’inammissibilità del gravame per “omessa notifica ai controinteressati”, nella seconda sentenza il Collegio adito ha spiegato più diffusamente le ragioni di detta inammissibilità. A tal riguardo viene evidenziato come, nell’istanza presentata per l’autorizzazione alla notifica per pubblici proclami, non vi fosse traccia delle difficoltà incontrate dalla parte ricorrente nel reperire l’indirizzo di almeno uno dei controinteressati per ottemperare alla disposizione di cui all’art. 41, comma 2 c.p.a. Inoltre, viene rimarcato come non siano state depositate prove circa l’avvenuta richiesta di tali recapiti all’amministrazione, non potendosi così ritenere assolto l’obbligo di diligenza che grava sulla parte ricorrente nell’instaurazione del contraddittorio minimo previsto dalla legge. In altri termini, secondo il Collegio, la circostanza dell’elevato numero dei controinteressati avrebbe potuto rilevare in sede di integrazione del contraddittorio, legittimando l’autorizzazione alla notificazione per pubblici proclami ai sensi dell’art. 49, comma 3 c.p.a., ma non anche ai fini della verifica circa l’instaurazione del contraddittorio minimo prevista, a pena di inammissibilità, dall’art. 41, comma 2 c.p.a., costituendo quest’ultima un vero e proprio onere processuale incombente sulla parte ricorrente rispetto al quale, in caso di errori, omissioni o carenze imputabili alla parte, al giudice non è consentito supplire in via officiosa[18].
Il TAR Lazio, in sostanza, non esclude sic et simpliciter la notifica per pubblici proclami ex art. 41, comma 4 c.p.a. antecedentemente all’instaurazione del giudizio, ma la assoggetta a stringenti requisiti nel caso in cui vi siano dei soggetti controinteressati individuati nell’atto, limiti consistenti nel dovere di fornire la prova che l’instaurazione del giudizio nelle forme ordinarie (con la notifica ad almeno un controinteressato) non sarebbe stata altrimenti possibile o sarebbe stata quantomeno difficoltosa (dovendo la parte dare una prova della difficoltà incontrata). Secondo tale impostazione, pertanto, in presenza di più controinteressati individuati nell’atto impugnato, il disposto dell’art. 41, comma 2 c.p.a. escluderebbe la possibilità di utilizzare la notifica per pubblici proclami ex art. 41, comma 4 c.p.a. per l’instaurazione della lite[19], residuando solamente quella esperibile ex art. 49, comma 3 c.p.a., previa notifica ordinaria del ricorso in via ordinaria ad almeno uno dei controinteressati[20].
Tale opzione interpretativa appare francamente non condivisibile, come autorevolmente chiarito dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento.
5. La soluzione “garantista” adottata dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento.
La Settima Sezione del Consiglio di Stato, con le due sentenze che sono intervenute nel caso di specie, ha censurato con fermezza questo filone ermeneutico[21].
Già con la sentenza n. 3657/2022 il giudice d’appello aveva prescritto con chiarezza che l’omessa notifica del ricorso ai controinteressati (su cui si fondava la dichiarazione di inammissibilità della sentenza gravata) non poteva essere imputata ad un errore della parte ricorrente (poi appellante), ma era attribuibile al giudice adito che non si era pronunciato sull’istanza di autorizzazione alla notifica per pubblici proclami contenuta nel ricorso. Il ricorrente, infatti, aveva inteso assolvere al suo onere di instaurazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 41, comma 4 c.p.a. in ragione della presenza, affermata nell’istanza, dell’“immenso numero dei destinatari”, necessitando l’autorizzazione del giudice per effettuare la notifica per pubblici proclami, autorizzazione che, però, non è stata mai comunicata.
Con la sentenza in commento, poi, la Settima Sezione del Consiglio di Stato, richiamando il proprio consolidato orientamento sul punto, ha confermato come la corretta interpretazione da dare all’art. 41, comma 4 c.p.a. sia quella secondo la quale l’istituto della notifica per pubblici proclami debba trovare applicazione in tutti i casi nei quali “la notificazione del ricorso nei modi ordinari sia particolarmente difficile per il numero delle persone da chiamare in giudizio” e come questa notifica, contrariamente a quanto ritenuto da un diverso orientamento, non sia affatto prevista per le sole ipotesi di integrazione del contraddittorio, né che la stessa esiga la rigorosa prova delle “difficoltà incontrate dalla parte ricorrente nel reperire l’indirizzo di almeno uno dei controinteressati per ottemperare alla disposizione di cui all’art. 41, co. 2, c.p.a.” come, invece, parrebbe imporre la sentenza impugnata.
Tale impostazione pare assolutamente condivisibile da chi scrive, in quanto maggiormente coerente con il dettato normativo vigente e più affine alla ratio semplificatoria propria dell’istituto[22]. Infatti, l’art. 41 c.p.a. (dedicato alla notifica del ricorso) prevede (al più volte citato comma 4) la notifica per pubblici proclami come modalità alternativa a quella tradizionale. Confinare tale modalità alternativa di notificazione solo ad un momento successivo all’instaurazione della lite (in presenza di più controinteressati individuati nell’atto) non pare una soluzione compatibile con la disposizione dell’art. 41 c.p.a. che non pone alcun limite a tale forma di notifica se non quelli previsti dal comma 4, ossia, la preventiva tempestiva richiesta al Presidente e l’esistenza di un numero di persone che renda difficile la notificazione nei modi ordinari. La norma, infatti, consente al ricorrente di instaurare tempestivamente il ricorso nei confronti di tutti i destinatari, ma qualora tale facoltà gli venga preclusa a causa del silenzio serbato sulla richiesta di autorizzazione alla notifica per pubblici proclami, non si potrà considerare ad esso addebitabile l’omessa regolare instaurazione del contraddittorio.
Ovviamente, resta fermo in capo al Presidente il potere di verifica sulla sussistenza dei presupposti per la concessione dell’autorizzazione alla notifica per pubblici proclami. In ragione di un tanto è importante che detta domanda di autorizzazione sia effettuata in maniera tempestiva (come è avvenuto nel caso di specie), in modo da non incorrere in decadenze che possano determinare la gravissima conseguenza dell’inammissibilità dell’azione proposta[23].
6. Alcune interessanti precisazioni sull’ordine di esame delle questioni in rito e sulla priorità della tutela del contraddittorio.
La portata della pronuncia in oggetto non si limita esclusivamente a definire il perimetro applicativo della notifica per pubblici proclami, ma offre anche degli interessanti spunti di riflessione sull’importanza della corretta instaurazione del contraddittorio[24] e sull’ordine di esame delle altre questioni in rito in presenza di un rinvio al giudice di primo grado[25].
L’occasione per tale riflessione è stata offerta, al Consiglio di Stato, dalla pervicacia della Sezione Terza Bis del T.A.R. Lazio che, ricevuta nuovamente la controversia per effetto del rinvio ex art. 105 c.p.a., invece di uniformarsi al giudicato, ha deciso di non disporre l’estensione del contraddittorio nei confronti di tutti i soggetti controinteressati, in considerazione dell’asserita manifesta irricevibilità dell’atto introduttivo del primo giudizio[26]. Va detto, però, che nella prima sentenza del TAR Lazio[27] il Collegio aveva definito la controversia pronunciando l’inammissibilità del ricorso per omessa corretta instaurazione del contraddittorio invece che pronunciarsi sull’irricevibilità dello stesso.
Come evidenza correttamente il giudice d’appello investito (per la seconda volta) della questione, a fronte del chiaro vincolo processuale stabilito dall’art. 105 c.p.a.[28], il TAR adito avrebbe dovuto consentire la realizzazione del pieno contraddittorio con i controinteressati mediante lo strumento della notificazione per pubblici proclami prima di assumere qualsiasi ulteriore decisione di rito o di merito. Il giudice di primo grado, invece, ha deciso di anteporre la questione dell’irricevibilità del ricorso a quella della corretta instaurazione del contraddittorio, sovvertendo l’ordine di esame delle questioni (in rito) che aveva posto alla base della sua prima decisione.
La scelta di definire il giudizio con una pronuncia di irricevibilità senza prima consentire l’integrazione del contraddittorio mediante la notificazione per pubblici proclami viene fortemente criticata dal Consiglio di Stato sotto plurimi aspetti.
Innanzitutto, viene stigmatizzato il dissenso interpretativo in ordine all’applicazione dell’istituto della notifica per pubblici proclami che è stato (ri)manifestato dal giudice di primo grado successivamente al pronunciamento sul punto del giudice d’appello, evidenziando come “la fisiologica dialettica tra i collegi giudicanti, che possono esprimere soluzioni interpretative disomogenee, deve contemperarsi con il vincolo endoprocessuale derivante dall’applicazione dell’art. 105 del c.p.a. Una volta cristallizzata la decisione del giudice di appello, esigenze ovvie di certezza impediscono che lo stesso tema possa essere rimesso in discussione, ancorché in termini dubitativi o ipotetici”[29].
Secondariamente, il giudice d’appello ritiene che la soluzione interpretativa sposata dal giudice di prime cure, secondo la quale l’integrazione del contraddittorio potrebbe essere evitata in caso di manifesta irricevibilità del ricorso originario ai sensi dell’art. 49 c.p.a., non sia comunque meritevole di accoglimento. Così ragionando, infatti, non si tiene conto del rapporto tra la citata previsione dell’art. 49 c.p.a. e i vincoli derivanti dall’annullamento con rinvio, come stabilito dall’art. 105 c.p.a. Inoltre, viene evidenziato pure come nella presente vicenda processuale detta opzione non sembra comportare alcun effettivo vantaggio in termini di “economia processuale” anche alla luce della semplificazione correlata alla notificazione per pubblici proclami che avrebbe comportato, al più, una breve e ragionevole dilazione della fissazione dell’udienza di discussione.
In terzo luogo, il Collegio evidenzia come, nel corso dell’originario giudizio davanti al TAR, l’amministrazione aveva eccepito (tra l’altro, in modo errato[30]) la tardività del ricorso, ma il Collegio aveva rilevato d’ufficio l’asserita inammissibilità dello stesso per omessa notifica ai controinteressati. In altre parole, il giudice di prime cure aveva ritenuto di assegnare alla verifica dell’integrità del contraddittorio carattere prioritario rispetto alla valutazione sulla ricevibilità del ricorso (in relazione all’eccezione sollevata dall’amministrazione), secondo il normale ordine logico delle questioni, presumibilmente non reputando il ricorso “manifestamente irricevibile”[31]. Nel giudizio di rinvio, invece, il TAR, anche prescindendo dal mancato rispetto del vincolo di cui all’art. 105 c.p.a., ha deciso di invertire l’esame delle questioni, valutando prima il tema della ricevibilità rispetto a quello della ritualità e della completezza del contraddittorio[32].
Infine, sempre secondo il Collegio, da tale inversione discenderebbe anche un inconveniente di ordine “pratico”. Infatti, nel caso di una nuova sentenza di appello che statuisca la tempestività del gravame (come quella in commento), si dovrebbe effettuare un nuovo rinvio (il terzo) al giudice di primo grado per consentire alle parti controinteressate di esercitare i propri diritti di difesa in relazione alle questioni di rito e di merito della controversia, con palese compressione dell’irrinunciabile valore costituzionale della ragionevole durata del processo[33].
7. Alcune brevi considerazioni conclusive sui dicta della sentenza.
Il primo aspetto di interesse della sentenza in commento è costituito dalla chiara definizione dell’ambito applicativo della notifica per pubblici proclami nel processo amministrativo, istituto che non può essere confinato a mero strumento di integrazione del contraddittorio in presenza di un ingente numero di controinteressati individuati nell’atto. Sul punto bisogna rilevare come l’art. 41, comma 2 c.p.a. non preveda che la notifica ad almeno uno dei controinteressati debba essere effettuata in una specifica forma e, pertanto, a parere di chi scrive, perché si ritenga correttamente integrato il contraddittorio, tale notifica può benissimo essere effettuata anche per pubblici proclami, previo ottenimento della richiesta autorizzazione. La notifica per pubblici proclami, quindi, deve considerarsi a tutti gli effetti alternativa alla notifica nelle forme ordinarie e non necessariamente successiva alla stessa, costituendo, in presenza di un’obiettiva difficoltà nella notifica ordinaria, uno strumento idoneo ex se ad instaurare correttamente il giudizio e non un mero strumento di integrazione del contraddittorio[34].
Il secondo aspetto di interesse della pronuncia riguarda, invece, la “dialettica” tra i giudici amministrativi in caso di accoglimento dell’appello e di rinvio al giudice di primo grado ex art. 105, comma 1 c.p.a. Nel caso di specie, in sede di rinvio, è stato prescritto un vicolo conformativo al giudice di primo grado in merito alla necessaria integrazione del contraddittorio. Secondo la pronuncia in commento, tale vincolo conformativo deve estendersi anche al rispetto dell’ordine di analisi delle questioni in rito. Pertanto, all’esito del rinvio, il giudice di primo grado che abbia già deciso (in prima istanza) la controversia basandosi su una questione di rito, non potrà (in seconda istanza) invertire l’ordine di esame delle questioni dedotte in giudizio, ponendo a fondamento della decisione una diversa pronuncia in rito[35]. Infatti, a seguito di rinvio ex art. 105, comma 1 c.p.a. con un espresso vincolo conformativo in merito all’integrazione del contraddittorio, il giudice di primo grado avrebbe dovuto preliminarmente dare esecuzione a tale incombenza e, solo a contraddittorio integro, avrebbe dovuto affrontare le altre questioni di rito e di merito dedotte in giudizio. Altrimenti, si corre il rischio che il giudice d’appello, riformando la nuova sentenza, si trovi a dover disporre un ulteriore rinvio, situazione che si è verificata nel caso di specie[36].
Questa inversione nell’ordine di analisi delle questioni in rito non può essere condivisa neanche alla luce del disposto dell’art. 49, comma 2 c.p.a., che esclude l’integrazione del contraddittorio in caso di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso. A parte il fatto che, in tale circostanza, la tardività posta alla base della seconda sentenza del TAR non era così manifesta (come emerso, poi, nel relativo giudizio di appello), tale meccanismo non sembra comunque poter operare in presenza di un rinvio al primo giudice con un ben individuato effetto conformativo in merito alla prescritta integrazione del contraddittorio[37]. L’integrità del contraddittorio, pertanto, assume in questo contesto una rilevanza “rafforzata” nell’ambito della dinamica processuale, non solo in quanto fondamentale all’attuazione del diritto di diritto di difesa delle parti in giudizio, ma anche come strumento per il perseguimento di un altro ineludibile principio, ossia quello della ragionevole durata del processo.
[1] Sulla disciplina generale della notificazione nel processo civile si segnalano: M.S. GIANNINI, Certezza pubblica, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, p. 773 ss.; C. PUNZI, Notificazione (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, 642 ss.; G. BALENA, Notificazione e comunicazione, in Dig. civ., XII, Torino, 1995, 259 ss.; S. LA CHINA, Notificazione (diritto processuale civile), Postilla, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2006. Sul tema della notifica del ricorso nel processo amministrativo si segnala F. DE LEONARDIS, Notificazione del ricorso (giur. amm.), in Dig. Disc. Pubbl., IV Agg., 2010, p. 296 ss.
[2] Sull’istituto della rimessione al primo giudice nel processo amministrativo si rinvia a: S. CASSARINO, Il rinvio al giudice di primo grado nella sentenza amministrativa di appello, in Dir. proc. amm., 1995, p. 10 ss.; S. MENCHINI, La rimessione della causa al primo giudice nell’appello amministrativo, in Dir. proc. amm., 1996, p. 336 ss.; S. PERONGINI, L’annullamento della sentenza appellata con rinvio al primo giudice, secondo il codice del processo amministrativo, in Riv. trim. dir. proc. amm., 2010, p. 1109 ss. Per un commento all’art. 105 c.p.a. si segnala: R. DE NICTOLIS – M. NUNZIATA, Commento all’art. 105 c.p.a., in G. MORBIDELLI (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, p. 965 ss.
[3] Sulla ragionevole durata del processo, tra i tanti contributi, si segnalano: F. AULETTA, La ragionevole durata del processo amministrativo, inDir. proc. amm., 2007, p. 959 ss.; M. ALLENA, Art. 6 CEDU. Procedimento e processo amministrativo, Napoli, 2012; M.A. SANDULLI, Il tempo del processo come bene della vita, in Federalismi.it, n. 18/2014.
[4] Cons. di Stato, Sez. VII, 12 febbraio 2024, n. 1414, in www.giustizia-amministrativa.it.
[5] T.A.R. Lazio (Roma), Sez. Terza Bis, 21 ottobre 2020, n. 10724, in www.giustizia-amministrativa.it.
[6] Cons. di Stato, Sez. VII, 10 maggio 2022, n. 3657, in www.giustizia-amministrativa.it.
[7] T.A.R. Lazio (Roma), Sez. Terza Bis, 24 marzo 2023, n. 5194, in www.giustizia-amministrativa.it.
[8] Cons. di Stato, n. 1414/2014, cit.
[9] Sul tema della notifica per pubblici proclami nel processo amministrativo si rinvia ai contributi di: G. FARRELLI, La nuova frontiera del processo amministrativo telematico: la notifica per pubblici proclami, in www.giustamm.it, 2014; N. PAOLANTONIO, Autorizzazione alla notifica per pubblici proclami e tutela del contraddittorio, in Dir. proc. amm., 1991, p. 103 ss., a cui si rimanda anche per un’interessante e completa analisi storico-evolutiva dell’istituto (pur se anteriore all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo).
[10] In altre parole, questa forma eccezionale di notifica può essere utilizzata in due momenti diversi e con presupposti applicativi differenti: in base all’art. 41, comma 4 c.p.a., può essere richiesta dalla parte e concessa dal Presidente per la notifica del ricorso introduttivo al fine dell’instaurazione della lite; in base all’art. 49, comma 3 c.p.a., può essere concessa d’ufficio dal giudice per ordinare l’integrazione del contraddittorio tramite l’invio del ricorso, già notificato nelle forme ordinarie ad almeno un soggetto controinteressato, anche a tutti gli altri soggetti controinteressati.
[11] La notificazione per pubblici proclami era già prevista nel r.d. n. 642/1907 (Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato), all’art. 14, secondo il quale: “Quando la notificazione del ricorso nei modi ordinari sia sommamente difficile per il numero delle persone da chiamarsi in giudizio, il presidente della sezione adita può disporre che sia fatta per pubblici proclami, autorizzando il ricorrente a far inserire nel foglio degli annunzi della Provincia ove ha sede l’autorità che emise il provvedimento e nella Gazzetta ufficiale del Regno, un sunto del ricorso e le sue conclusioni, con le cautele consigliate dalle circostanze, e designando, se sia possibile, alcuni fra gli interessati ai quali la notificazione debba farsi nei modi ordinari”. Questa disposizione è stata abrogata dall’art. 4 dell’all.4 al d.lgs. n. 104/2010.
[12] Sull’operatività e sui limiti del rinvio alle norme processualcivilistiche previsto dall’art. 39 c.p.a. si rinvia a: W. GIULIETTI, Commento all’art. 39 c.p.a., in G. MORBIDELLI (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, cit., p. 553 ss.
[13] In tal senso vedasi, tra le tante: Cons. di Stato, Sez. VI, 31 agosto 2016, n. 3764, in www.giustizia-amministrativa.it.
[14] In tal senso vedasi: Cons. Stato, Sez. IV, 29 luglio 2008, n. 3759, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] Così prevede T.A.R. Calabria (Catanzaro), Sez. II, 31 maggio 2018, n. 1159, in www.giustizia-amministrativa.it. In senso analogo si vedano anche: Cons. di Stato, Sez. V, 14 ottobre 2014, n. 5089 e Cons. di Stato, Sez. VI, 23 gennaio 2013, n. 384, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[16] T.A.R. Lazio, (Roma), Sez. I, 17 aprile 2020, n. 4013, in www.giustizia-amministrativa.it.
[17] T.A.R. Lazio, n. 10724/2020, cit. e T.A.R. Lazio, n. 5194/2023, cit.
[18] Sull’impossibilità di tale soccorso, la sentenza T.A.R. Lazio, n. 5194/2023, cit., richiama la sentenza T.A.R. Lazio (Roma), Sez. Prima Quater, 15 giugno 2017, n. 7048, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] O meglio, la notifica ex art. 41, comma 4 c.p.a., in assenza di una previa notificazione nelle forme ordinarie, sarebbe astrattamente possibile (rectius idonea ad evitare l’inammissibilità) solo nei casi ove la parte ricorrente sia in grado di fornire una concreta prova dell’impossibilità (o della concreta difficoltà) di provvedere a detta preventiva notifica ordinaria ad almeno un controinteressato.
[20] Bisogna, però, dare atto che la giurisprudenza del TAR Lazio sul punto non è stata univoca negli ultimi anni. Una maggiore apertura all’applicazione dell’art. 41, comma 4 c.p.a., per esempio, è riscontrabile nella pronuncia T.A.R. Lazio (Roma), Sez. Prima Bis, 30 agosto 2018, n. 9089, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale, per evitare l’inammissibilità del ricorso, parte ricorrente avrebbe dovuto “partecipare il ricorso, ad almeno uno di essi, ovvero, in subordine, chiedere, nel termine decadenziale, l’autorizzazione alla notifica del gravame per pubblici proclami”.
[21] Il riferimento è alle pronunce: Cons. di Stato, n. 3657/2022, cit. e Cons. di Stato, n. 1414/2024, cit.
[22] La ratio di tale norma, infatti, è quella di tutelare il diritto di difesa del ricorrente (facilitando la sua attività notificatoria) e non, sicuramente, quella di gravarlo di una doppia attività di notificazione, prima quella ordinaria ad almeno un controinteressato e, poi, quella per pubblici proclami a seguito dell’instaurazione del contraddittorio.
[23] Sul punto si segnala: Cons. Stato, Sez. IV, ord., 18 ottobre 2019, n. 5263, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale: “osservato che il ricorso per motivi aggiunti svolto in prime cure, nel corpo del quale è stata formulata istanza di autorizzazione alla notifica per pubblici proclami, risulta essere stato spedito per la notifica l’ultimo giorno utile; [e] rilevato che la parte ricorrente ha l’onere di sollecitare l’autorizzazione alla notifica per pubblici proclami in tempo utile per poter procedere all’incombente entro il termine decadenziale per la proposizione dell’impugnazione, come stabilito dall’art. 29 c.p.a. […] non ricorrono le condizioni per la concessione della rimessione in termini, giacché […] gli impedimenti di fatto relativi all’esatta individuazione dei contro-interessati, in disparte l’effettiva gravità, potevano essere superati con una più sollecita proposizione dell’azione giurisdizionale”.
[24] Sul principio del contraddittorio nel processo amministrativo si segnalano: L. MIGLIORINI, Il contraddittorio nel processo amministrativo, Napoli, 1996; E. FOLLIERI, Il contraddittorio in condizioni di parità nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2006, p. 499 ss.
[25] Sul rapporto tra il rinvio al primo giudice e l’integrità del contraddittorio si segnala: C.E. GALLO, Omessa integrazione del contraddittorio e rinvio al giudice di primo grado nel giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 1996, p. 336 ss.
[26] Sul punto la sentenza T.A.R. Lazio, n. 5194/2023, cit., ha così argomentato: “In disparte la questione di inammissibilità di cui sopra [quella relativa all’inammissibilità ex art. 41, comma 1 c.p.a. per omessa notifica ad almeno un controinteressato nelle forme ordinarie], nell’odierno giudizio in riassunzione il Collegio ritiene di non dover comunque procedere con l’estensione del contraddittorio nei confronti di tutti i soggetti controinteressati ex art. 49, co. 2 c.p.a., in considerazione della manifesta irricevibilità dell’atto introduttivo del giudizio, così come eccepita dall’Amministrazione resistente con memoria depositata il 31 luglio 2020 nell’ambito del giudizio originario iscritto al r.g. n. 05139/2020, alla quale parte ricorrente non ha replicato in nessuno dei suoi scritti difensivi successivamente presentati”.
[27] T.A.R. Lazio, n. 4013/2020, cit.
[28] Infatti, la sentenza Cons. di Stato, n. 3657/2022, cit., ha annullato con rinvio al giudice di prime cure ex art. 105, comma 1 c.p.a. la prima pronuncia di primo grado (T.A.R. Lazio, n. 10724/2020, cit.), sostenendo che la mancata formazione del contraddittorio nei confronti dei soggetti controinteressati fosse imputabile non già alla parte ricorrente quanto, piuttosto, alla circostanza che il TAR non avesse considerato la tempestiva istanza di autorizzazione alla notificazione per pubblici proclami ritualmente proposta nel ricorso.
[29] Cons. di Stato, n. 1414/2024, cit.
[30] Non si ritiene, in tal sede, di entrare nel merito della vicenda controversa. Ci si limita ad evidenziare come, con la sentenza in commento, il giudice abbia conclusivamente accolto l’appello e, in riforma della sentenza appellata, abbia dichiarato ricevibile e fondato il ricorso di primo grado, con consequenziale annullamento dei provvedimenti impugnati.
[31] Sul punto la sentenza Cons. di Stato, n. 1414/2024, cit., precisa che: “in ogni caso, il carattere “manifesto” della asserita irricevibilità non sembra affatto emergere dagli atti, esigendo, semmai, un accurato esame dei dati fattuali e della normativa di proroga dei termini, applicabile nella presente vicenda. Non solo: la decisione del TAR è, anche sotto questo profilo, errata, per le ragioni indicate in prosieguo”.
[32] Secondo Cons. di Stato n. 1414/2024, cit.: “Questo modo di operare, secondo il collegio d’appello, ha accresciuto le incertezze sul corretto modo di sviluppo del giudizio, complicandone, irragionevolmente, l’esito fisiologico”.
[33] Nel caso di specie, il Collegio, proprio per evitare un ulteriore rinvio al giudice di primo grado, ha deciso di trattenere in decisione la controversia evidenziando come “la circostanza che il TAR, per ben due volte consecutive, abbia erroneamente impedito la rituale formazione del contraddittorio processuale, induce il Collegio a ritenere che il giudizio debba essere trattenuto, per la trattazione del merito, in questo grado. Va ricordato, infatti, che, nella presente fase di appello, il contraddittorio è stato realizzato nei confronti di tutti i controinteressati, mediante la notificazione per pubblici proclami. Pertanto, il diritto di difesa di tali parti risulta comunque garantito, ancorché, non riferito all’effettiva pienezza del diritto al doppio grado di giudizio” (Cons. di Stato n. 1414/2024, cit.).
[34] In altre parole, la notifica per pubblici proclami ex art. 41, comma 4 c.p.a. deve essere intesa come un vero e proprio strumento di instaurazione del contraddittorio minimo previsto dall’art. 41, comma 2 c.p.a. e non va confusa con la notifica per pubblici proclami ex art. 49, comma 3 c.p.a., che è successiva alla notifica nelle forme ordinarie ad almeno uno dei controinteressati e che costituisce uno strumento di integrazione del contraddittorio.
[35] Si rammenta riassuntivamente che il TAR Lazio, in prima battuta, aveva statuito l’inammissibilità del gravame per omessa notifica ad almeno uno dei controinteressati e, in seconda battuta, aveva rilevato la manifesta irricevibilità del gravame.
[36] A tal proposito va precisato che, nella sentenza in commento, il giudice ha deciso di trattenere la causa e di deciderla nel merito, pur dando atto che, in questa situazione, sarebbe stato corretto un terzo rinvio al giudice di prime cure. La scelta di non effettuare tale rinvio – quantomeno “forzata” a parere di chi scrive – è stata giustificata con la scelta di adottare “una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 105 del c.p.a., delimitando ragionevolmente le ipotesi concrete di annullamento con rinvio al T.A.R.”, anche avuto riguardo al “valore costituzionale irrinunciabile della ragionevole durata del processo tanto più rilevante quando la dilatazione dei tempi del processo deriva da reiterati errori ed omissioni di valutazione e decisione compiuti dal giudice”.
[37] Ciò non toglie che il giudice di primo grado, integrato il contraddittorio come prescritto dal giudice d’appello, poi, avrebbe ben potuto porre alla base della sua seconda decisione la questione della tardività del primo ricorso.
Sul tema si leggano anche: Audizione di Claudio Castelli in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura, L'audizione di Armando Spataro alla Camera dei Deputati del 25 gennaio 2024 sulla separazione delle carriere dei magistrati, Collegialità del giudice della misura cautelare e separazione delle carriere: due tasselli di uno stesso mosaico di Costantino De Robbio, Mozione sul d.d.l. costituzionale in materia di separazione delle carriere, Separazione delle carriere a Costituzione invariata. Problemi applicativi dell’art. 12 della legge n. 71 del 2022 di Pasquale Serrao d’Aquino, La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum di Paola Filippi, La separazione delle carriere dei magistrati: una proposta di riforma anacronistica ed inutile di Armando Spataro, La separazione delle carriere dei magistrati? una riforma da evitare di Armando Spataro, La mafia si combatte con investimenti tecnologici, non con la separazione delle carriere di Maurizio De Lucia, Separazione delle funzioni dei magistrati vs. celerità dei processi e tutela dei diritti. Intervista di Marta Agostini al prof. David Brunelli.
Il presente contributo costituisce un aggiornamento e un ampliamento dell'articolo pubblicato il 29 maggio 2024.
Il disegno di legge costituzionale sulla separazione delle “distinte carriere” dei magistrati.
Eterogenesi dei fini, aporie e questioni aperte [1]
di Giovanni Canzio
I) Nel breve saggio Il pubblico ministero «parte imparziale»?, pubblicato in Questione Giustizia, nn. 1-2/2024, avevo svolto, fra l’altro, alcune considerazioni critiche in replica alla proposta di legge costituzionale n. 23 del 13 ottobre 2022, d’iniziativa del deputato Enrico Costa, in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura, cui ha fatto seguito di recente il – non sovrapponibile - disegno di legge costituzionale presentato il 13 giugno 2024 dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dal Ministro della giustizia in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare (Atto n. 1917/C).
Il progetto, che prevede la sostanziale destrutturazione di larga parte del vigente modello costituzionale sull’ordinamento e del sistema di governo autonomo della magistratura, sembra potenzialmente destinato a determinare, di riflesso, una più spiccata autoreferenzialità (anche nei rapporti con la narrazione mediatica e con l’opinione pubblica) e un ancora più accentuato distacco o indifferenza della pubblica accusa rispetto alle sorti del processo e all’accertamento della verità.
L’organo di giustizia sarebbe naturalmente sollecitato ad assumere il ruolo di incontrastato vertice della polizia giudiziaria, con la disponibilità di rilevanti risorse di personale e tecnologiche e con la funzione di dirigere indagini finalizzate al raggiungimento di obiettivi concreti e immediati, che potrebbero pure apparire sconnessi dalla lontana nel tempo e imprevedibile opera del giudice – terzo e imparziale - di ricostruzione probatoria dei fatti e della verità nel contraddittorio fra le parti.
Sembra evidente il rischio che, per una paradossale eterogenesi dei fini, prevalgano vieppiù logiche di chiusura corporativa, opposte alla linea, tracciata dalla Costituzione, dell’attrazione ordinamentale del pubblico ministero nel sistema e nella cultura della giurisdizione.
In poche parole, con il distacco del pubblico ministero dal perimetro della cultura della giurisdizione si viene prospettando la costituzione di un secondo e autonomo potere giudiziario, indipendente da ogni altro potere dello Stato e dallo stesso potere pertinente alla giurisdizione in senso stretto, sulla base di un eccentrico e inedito modello nel panorama della giustizia internazionale, nel quale non è dato rinvenire il riconoscimento di un così largo statuto di autonomia e indipendenza a favore di un pubblico ministero “separato” dal giudice e dalla giurisdizione. Con l’effetto collaterale, certamente non auspicato dai promotori dell’iniziativa riformatrice, di legittimare, con l’ulteriore frammentazione dei poteri dello Stato, l’obiettivo rafforzamento, oltre ogni ragionevole limite, della sfera di influenza nel sistema di giustizia dell’organo di accusa, al quale, munito di ampie risorse investigative e di forti garanzie di autonomia e indipendenza, resta attribuito il ruolo di titolare esclusivo dell’inchiesta e dell’azione penale.
La smisurata implementazione della figura e dei poteri di questo organo di giustizia potrebbe a questo punto rendere inefficace – nelle dinamiche dei comportamenti concreti, pure extrafunzionali – il precetto, preminente e valido per ogni magistrato, di «agire e apparire agire liberi» da ogni condizionamento o influenza esterna indebita.
Un duro colpo, dunque, al delicato equilibrio dell’architettura costituzionale disegnata per la Magistratura nel Titolo IV del Capo II della Costituzione, nei termini approvati dai Costituenti e fortemente voluti, in particolare, da Piero Calamandrei (con altri eccelsi giuristi, quali Leone e Bettiol), allora presidente del ricostituito Consiglio Nazionale Forense dopo la sconfitta del fascismo, nonché alle reali esigenze di tutela dei diritti della persona.
En fin, un risultato certo non esaltante per il complessivo assetto delle garanzie della difesa a fronte della inedita ampiezza dei poteri del magistrato inquirente.
Anziché proporre interventi destinati ad esaltare vieppiù la logica di separatezza e autoreferenzialità dell’ufficio del pubblico ministero e a rivelarsi inoltre compressivi dell’indipendenza interna dei singoli magistrati di quell’ufficio, meriterebbe attenzione, viceversa, la proposta alternativa di aprire ulteriori, ancora più pregnanti finestre di controllo di legalità del giudice – questo sì davvero «terzo e imparziale» – fin nei momenti topici delle indagini preliminari, non soltanto, quindi, molto più tardi e spesso infruttuosamente nel giudizio.
Come pure andrebbe perseguito con determinazione il valore della condivisione della missione di giustizia e dell’organizzazione della giurisdizione da parte della magistratura e dell’avvocatura, che, nel reciproco riconoscimento dei rispettivi ruoli e funzioni, ne accrescerebbe l’autorevolezza e ne rafforzerebbe l’indipendenza rispetto al potere politico (essendo l’una sinergicamente custode e garante dell’indipendenza dell’altra), insieme con l’idea di una comune cultura della giurisdizione che dovrebbe virtuosamente contaminare i pur differenti mestieri del giudice, del pubblico ministero e dell’avvocato.
Le suesposte considerazioni, che riguardano la cornice, i contenuti e le finalità del disegno legislativo di riforma costituzionale, vanno tuttavia integrate da una serie di specifici rilievi critici attinenti agli aspetti strettamente tecnico-giuridici della relativa legistica.
Occorre, da un lato, sgomberare il terreno del confronto politico e culturale da talune premesse fattuali empiricamente non verificate e per ciò stesso non vere (post-truth) e, dall’altro, avanzare alcune domande su temi finora inesplorati, poiché - va rimarcato con forza - restano senza risposta numerose, rilevanti questioni di straordinario rilievo istituzionale e organizzativo, pure strettamente collegate e conseguenziali al disegno costituzionale di separazione delle distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti.
II) Talune premesse del ragionamento, che talora vengono anche pubblicamente enunciate, a fondamento del disegno di riforma costituzionale sono storicamente non corrispondenti alla verità.
- “Soltanto grazie alla separazione delle carriere, il giudice sarà davvero terzo e imparziale”: come dire “fino ad oggi i giudici si sono dimostrati non terzi rispetto alla posizione di parità delle parti e parziali”.
L’affermazione non risponde a verità e ciò è testimoniato dall’elevato numero di decisioni giudiziarie che non confermano l’ipotesi formulata dall’accusa sia in primo grado (oltre il 40%), sia nei gradi di impugnazione in appello e in cassazione.
- “La separazione delle carriere realizza finalmente la riforma epocale della giustizia”.
La separazione delle carriere dei magistrati non ha alcuna influenza, diretta o indiretta, sulla qualità e sull’efficace funzionamento della macchina della giustizia. La riforma strutturale e organica del sistema giudiziario italiano, in adesione a quanto concordato con l’Unione Europea (sulla base del Next Generation EU e del PNRR), è stata realizzata negli anni 2021-2022 dal Governo Draghi e dal Ministro della Giustizia, Marta Cartabia, e viene oggi faticosamente attuata nelle aule di giustizia da magistrati e avvocati, nonostante le persistenti criticità organizzative in materia di organici del personale di magistratura e di cancelleria, di risorse materiali, di logistica e di procedure informatiche, tutte ascrivibili alla competenza del Ministro della giustizia.
- “La riforma in senso accusatorio del codice di procedura penale del 1989 non ha avuto successo perché non è stata allora completata dalla riforma ordinamentale sulla separazione delle carriere dei magistrati”.
Invero, fino ad oggi non si era dubitato che il progetto riformatore del 1989 avesse evidenziato criticità e disfunzionalità -innanzitutto- per la debolezza dei poteri e delle funzioni, perciò della figura, del giudice nelle fasi delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare, mirata al controllo del corretto e non superfluo esercizio dell’azione penale, anche a causa del filtro a maglie larghe previsto per il decreto di rinvio a giudizio. Fattori, questi, che hanno altresì impedito il pieno dispiegarsi dei riti alternativi, alla cui larga attivazione era condizionato il successo del nuovo rito.
- “Le finestre di giurisdizione, oggi recepite dalla legge Cartabia, sono frutto di una lettura creativa della giurisprudenza di legittimità diretta a contrastare la proposta di riforma della separazione delle carriere”.
Il termine “finestre di giurisdizione”, viceversa, risale ai lavori del Progetto del disegno di legge delega di riforma del processo penale, elaborato dalla Commissione “Riccio” (fra i componenti accademici si ricordano i professori di procedura penale G. Spangher, G. Giostra, G. Illuminati, F. Caprioli) e definitivamente approvato il 19/12/2007 con l’allegata relazione di accompagnamento, in funzione del rafforzamento del controllo giurisdizionale durante le indagini preliminari. E ciò per realizzare il “diritto al giudice” anche in quella fase, che già al tempo risultava egemonizzata dal ruolo del Pubblico Ministero, ancor prima della deriva del processo mediatico e del populismo penale.
- “La giurisdizione disciplinare della magistratura ordinaria va sottratta al Consiglio superiore della magistratura perché sarebbe stata fino ad oggi esercitata secondo logiche correntizie di pregiudiziale favore o sfavore nei confronti dei magistrati incolpati”.
Sono invece noti, soprattutto ai magistrati e agli avvocati loro difensori, il sistematico, talora esasperato, rigore e l’efficace funzionamento - salvo rarissimi e deprecabili episodi che non vanno certamente oscurati - sia in primo grado della Sezione disciplinare del CSM, presieduta dal Vicepresidente, che in sede d’impugnazione di legittimità delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione, e ancora prima l’equilibrato e corretto esercizio del potere d’inchiesta disciplinare riservato, oltre che al Ministro della giustizia, al Procuratore generale presso la Corte di cassazione.
III) A questo punto, vanno elencate, secondo un doveroso ordine logico, quelle che si configurano a prima lettura come aporie, contraddizioni, lacune o questioni aperte del disegno di legge di riforma costituzionale, che invece si ritiene meritino puntuali risposte e soluzioni esplicite e coerenti.
1. Una volta separate le distinte carriere dei magistrati e istituiti i due organi di governo autonomo della magistratura, giudicante e inquirente, in quali modi e termini verrebbero regolati e decisi gli eventuali conflitti fra i due organi, entrambi presieduti dalla medesima persona del Presidente della Repubblica?
2. In quali forme sarebbero disciplinate le necessarie esigenze di coordinamento fra i due organi di governo autonomo della magistratura e fra ciascuno di essi e il Ministro della giustizia, ai fini dell’efficace funzionamento e del buon andamento del complessivo sistema di giustizia?
3. A un’analoga sorte di separazione delle carriere non dovrebbero andare incontro tanto la giustizia militare quanto quella contabile, per le quali sono parimenti previste le distinte funzioni inquirenti e giudicanti? Si perverrebbe così a un’ulteriore moltiplicazione e frammentazione, a livello costituzionale, dei Poteri dello Stato?
4. In quale proporzione sarebbe distribuita fra giudici e pubblici ministeri la quota di un terzo dei giudici della Corte costituzionale nominati dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrativa, ai sensi dell’art. 135, commi 1 e 2, Cost.?
5. Quale sorte sarebbe riservata allo speciale ufficio della Procura Generale presso la Corte di cassazione, che, com’è noto, non svolge un ruolo di inchiesta o di accusa nel processo, bensì quello di autorevole collaboratore nell’esercizio della funzione nomofilattica e nella formazione del diritto vivente ad opera dei Giudici di legittimità, sia civili che penali, nonché di titolare, insieme col Ministro della giustizia, del potere d’inchiesta disciplinare nei confronti di tutti i magistrati ordinari, sia inquirenti che giudicanti?
6. A quale ufficio sarebbe attribuito il ruolo di vertice/dirigente/coordinatore, a livello nazionale, della complessa struttura e articolazione organizzativa della magistratura inquirente? Allo stesso organo di governo autonomo della magistratura inquirente o al Ministro della giustizia o a un’Autorità indipendente o, indistintamente, a ciascuno dei capi delle singole Procure della Repubblica?
7. A quale speciale e indipendente Autorità sarebbe attribuito il potere di inchiesta disciplinare nei confronti dei magistrati giudicanti, che viene oggi esercitato dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione e dal Ministro della giustizia nei confronti di tutti i magistrati, sia inquirenti che giudicanti?
8. All’Alta Corte disciplinare, composta anche da magistrati del pubblico ministero e da giudici, viene attribuita la giurisdizione disciplinare, sia in primo che in secondo grado, per tutti i magistrati della giurisdizione ordinaria, benché separati e facenti capo a distinti e autonomi organi. Dunque, le distinte figure dei magistrati ordinari, giudicanti e requirenti, prima si separerebbero e poi si riunificherebbero nell’ambito di un’unica giurisdizione disciplinare? Perché restano estranei all’Alta Corte i procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati appartenenti ai plessi delle giurisdizioni speciali (militare, amministrativa, contabile), che pure sono notoriamente connotati da storiche e vistose criticità?
9. Se il procedimento disciplinare conserverà, come sembra, il suo tradizionale carattere “giurisdizionale” e non sarà degradato a mera procedura di tipo amministrativo, sopravviverà il giudizio di legittimità riservato alle Sezioni unite civili della Corte di cassazione avverso le decisioni di appello (anche per motivi di merito) dell’Alta Corte disciplinare nei confronti di tutti i magistrati, sia inquirenti che giudicanti. A prescindere dall’evidente appesantimento (ben tre gradi di giudizio!) di una procedura che dovrebbe essere ispirata a criteri di semplificazione e di ragionevole durata per il rilievo dei valori in gioco, come si costituirebbe il collegio dell’Alta Corte disciplinare in caso di cassazione con rinvio di una sua decisione?
10. Sarebbe prevista una regola di proporzione fra magistrati inquirenti e giudicanti ai fini del collocamento fuori del ruolo organico della magistratura, soprattutto nelle funzioni apicali di rilievo presso il Ministero della giustizia?
11. Come si articolerebbe il concorso di accesso alla magistratura: in termini di unità o di separazione delle materie e delle prove per i candidati alla magistratura inquirente o giudicante? E prima ancora come si atteggerebbe l’insegnamento delle materie giuridiche nelle Università: in termini di comune cultura della giurisdizione o di anticipata e funzionale specializzazione degli studi?
12. Come si realizzerebbe la formazione professionale, iniziale e continua, dei magistrati: presso un’unica Scuola superiore della magistratura, articolata in plurimi e coordinati segmenti, o presso due differenti e autonome Scuole?
13. Sarebbe prevista una differente collocazione logistica degli uffici dei magistrati inquirenti e di quelli giudicanti oppure questi continuerebbero ad operare nei medesimi edifici e uffici destinati all’attività giudiziaria?
14. La distinzione degli organi di governo autonomo si rispecchierebbe anche nella composizione e nelle funzioni dei Consigli giudiziari distrettuali (uno o due distinti Consigli giudiziari)?
15. In quali forme e tempi sarebbe prevista la doverosa disciplina intertemporale per consentire l’ordinata transizione, su domanda ed eventualmente anche in sovrannumero, dagli uffici attualmente rivestiti dai magistrati, inquirenti e giudicanti?
IV) Si tratta di aporie, contraddizioni e questioni aperte a differenti soluzioni legislative che evidenziano silenzi, lacune e vuoti progettuali del disegno costituzionale di riforma dell’ordinamento giurisdizionale in ordine ad aspetti di assoluto rilievo, sia istituzionale che organizzativo, rispetto ai quali non appare affatto confortante l’astratta e generica disposizione transitoria, secondo cui “Le leggi del Consiglio superiore della magistratura, sull’ordinamento giudiziario e sulla giurisdizione disciplinare sono adeguate alle disposizioni della presente legge costituzionale entro un anno dalla sua entrata in vigore”.
Dunque, in pervicace ossequio a una scelta di matrice politica e ideologica si prospetta la destrutturazione della sapiente e ineguagliabile architettura della Costituzione repubblicana, con l’obiettivo consapevole o meno (che sembra leggersi dalla profilazione mediatica delle persone dei singoli magistrati ai test psico-attitudinali dei candidati magistrati, alla scandalosa estrazione “a sorte” dei componenti chiamati a far parte di un organo costituzionale secondo la pessima regola “uno vale uno”, alla ingiustificata sottrazione della giurisdizione disciplinare dei magistrati ordinari al suo alveo naturale) della delegittimazione della magistratura ordinaria e, va sottolineato, solo di quella ordinaria, come Ordine autonomo e indipendente da ogni altro Potere, e del declino della fiducia dei cittadini nell’opera dei magistrati.
Un’operazione, questa, che certamente non fa bene all’equilibrio fra i Poteri dello Stato e alla tenuta complessiva dello Stato di diritto e della democrazia.
[1] Testo, riveduto e ampliato, dell’intervento svolto nel convegno organizzato il 27 giugno 2024 presso l’Università degli Studi di Milano: “Separare e sorteggiare. Primo confronto sul disegno di legge costituzionale di riforma del Consiglio superiore della magistratura”.
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Greenwich Village, New York, una notte di agosto. Al numero 115 di Mac Dougal Street una coppia di giovani sposi scende trepidante le scale illuminate del "Cafe Wha?". Lui ha una Vintage acustica color ciliegia e una Hohner Blues Harps in tonalità do. Poco prima, sotto Washington Square, hanno comprato una copia pirata di Blonde On Blonde e lei ha scattato una foto in direzione di 4th Street. L'ultimo musicista ha terminato le sue canzoni, ha riposto la dodici corde nella custodia, e ha assaporato la prima tirata della Lucky che aveva tenuto sull'orecchio, contando i pochi dollari nel suo cappello. Albert ha una stanza al St. James Hotel, vorrebbe finire il caffè e andare a dormire ma non sa resistere alla curiosità. "Sai suonare, ragazzo?" Ho viaggiato dalla foresta di sequoie alle acque della corrente del Golfo, ma sapevo di trovarti qui, sull'isola di New York. Ho scritto per te una canzone, ora la canto e la saprò bene prima di cominciare. Ma non chiedermi di restare: ho un lungo viaggio da fare. Non ho una casa, ma anche se l'avessi non saprei trovare la strada per tornarci. Non ho una storia, anzi una volta ero vecchio, ora sono giovane. Non ho parole per risponderti, il vento le soffia via dalla mia armonica. Vorrei venirmene dietro a te, in un viaggio infinito il mio vero amore sarebbe ghiaccio e fuoco. E tutto il bene del mondo porterei con i miei occhi nei tuoi. Tristezza è un sassofono che suona lontano ma sempre giovani sono i velieri che fanno ritorno sul mare. L'unica cosa che resta sono tamburi arabi e la musica blues, che nessuno sa suonare come me. "Da dove vieni, ragazzo?" Volevo viaggiare verso sud. Ad Omaha presi un treno, credo fosse diretto ad Albuquerque. Ma a Sterling incontrai un pittore. Immagino dipingesse il suo capolavoro. E sul quadro volle disegnare i miei occhi. Così lo abbandonai. Rimediai un passaggio fino a Topeka, non volevo andarci ma era destino incontrarla. Guidava una vecchia Chevy e mi disse sorridendo che viaggiava verso il mare. Quando le chiesi un passaggio si chinò ad annodare i lacci delle mie scarpe. Mi lasciò sulla riva dell’oceano della Louisiana guardandomi salire su un peschereccio, appena fuori Delacroix. Il resto lo sai, sono tornato appena ho potuto. Non sapevo stare senza la mia armonica e i suoi versi erano veri e splendenti, come se fossero scritti nella mia anima. "E dove andrai, ora, ragazzo?" I ricordi portano diamanti e ruggine. Andremo via prima che la pioggia ricominci a cadere. Sulle anime delle persone che abitano le foreste ci aspetta il volto celato del boia. Nelle prigioni umide bevono acqua contaminata e le acceca il sole sui promontori che affondano negli abissi. Lasciano marcire i venti preziosi e scambiano i loro averi ognuno desiderando le cose dell'altro. Tra principesse e principi irreali, lascerò che all'alba il mio amore venga da me e mi racconti i suoi sogni. E in una canzone infinita saranno sempre cantati. "Parli bene, ragazzo, ma non vedo nulla, oltre questa vecchia chitarra e questa armonica stonata. Nulla, oltre il tuo corpo nudo. Chi sei dunque ragazzo?" Una poesia è una persona nuda. Qualcuno dice che sono un poeta.
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