Natura “strumentale” del potere sanzionatorio amministrativo e riparto di potestà legislativa (Nota a Corte Cost., sentenza n. 19 del 10 gennaio 2024)
di Maria Baldari
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il giudizio a quo e le argomentazioni difensive – 3. La questione di legittimità costituzionale e il quadro normativo di riferimento. – 4. La decisione della Corte - 5. Il riparto della potestà legislativa in materia di sanzioni amministrative – 6. La natura “strumentale” del potere sanzionatorio amministrativo: compatibilità della funzione afflittiva con il perseguimento di pubblici interessi
1. Premessa
Su rimessione del T.a.r. Lombardia – Sezione distaccata di Brescia, la Corte Costituzionale affronta il tema dell’attribuzione della potestà legislativa in materia di sanzioni amministrative e delle conseguenti limitazioni in capo alle Regioni.
Un’analoga questione di legittimità costituzionale, peraltro, era già stata sollevata in una diversa controversa tra le medesime parti; in relazione a quel giudizio, tuttavia, la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 22 del 2023, aveva dichiarato la questione inammissibile per difetto del requisito della rilevanza atteso che, all’atto della rimessione, il T.a.r. aveva già deciso i due unici motivi di ricorso, respingendoli entrambi.
La vicenda in esame, invece, si differenzia in quanto la questione costituisce il presupposto di una specifica censura di illegittimità del provvedimento sanzionatorio impugnato, dedotta con il terzo motivo di ricorso non ancora deciso dal T.a.r.; quest’ultimo, pertanto, conserva ancora integra la propria potestas iudicandi.
2. Il giudizio a quo e le argomentazioni difensive
In via del tutto preliminare, è opportuno soffermarsi sulla vicenda fattuale e sul giudizio nel cui ambito è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale.
Una società attiva nel campo dell’edilizia è proprietaria di un complesso industriale ubicato nel Comune di Mantova, in un’area parzialmente assoggettata a vincolo paesaggistico. In ragione dello stato di abbandono in cui versava lo stabilimento, la società ha eseguito una serie di interventi di ristrutturazione edilizia e industriale finalizzati al riavvio dell’attività produttiva.
Il Comune e la Provincia di Mantova hanno adottato provvedimenti sanzionatori in relazione ad alcuni di tali interventi, in quanto realizzati in assenza di autorizzazione paesaggistica o, comunque, in difformità da essa; tali provvedimenti sanzionatorio sono stati impugnati dalla società.
In dettaglio, il ricorso introduttivo dinnanzi al T.a.r. ha per oggetto l’ordinanza n. 74/2020 del 18 maggio 2020, con la quale il Comune di Mantova ha intimato alla società il pagamento della somma di 709.204,16 euro a titolo di sanzione pecuniaria, relativamente ad opere compiute negli impianti di ventilazione dello stabilimento, in quanto eseguite in assenza di autorizzazione paesaggistica, oltre che di permesso di costruire. Rispetto a tali opere, la società aveva presentato istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 nonché domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 cod. beni culturali; sicché, una volta accertata tale compatibilità, il Comune ha emesso il provvedimento - impugnato nel giudizio a quo - con cui ha applicato la sanzione pecuniaria prevista al comma 5, terzo e quarto periodo, del citato art. 167.
Nello specifico, l’importo della sanzione veniva determinato ai sensi dell’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, in ossequio al quale «l’applicazione della sanzione pecuniaria, prevista dall’articolo 167 del D.Lgs. n. 42/2004, in alternativa alla rimessione in pristino, è obbligatoria anche nell’ipotesi di assenza di danno ambientale e, in tal caso, deve essere quantificata in relazione al profitto conseguito e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro»[1].
La società, dal canto suo, ha chiesto l’annullamento dell’atto impugnato e la rideterminazione della sanzione nella misura minima di cinquecento euro per ogni singola trasgressione; in particolare, con il terzo motivo di ricorso che viene in rilievo in questa sede, ha dedotto l’illegittimità derivata del provvedimento impugnato, conseguente all’eccepita illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 23, 25, 117, secondo comma, lettere l), m) e s), e 118 Cost., della disposizione regionale applicata per determinare l’importo della sanzione.
Ebbene, rispetto a tale questione, il T.a.r. rimettente osserva, innanzitutto, che l’apparato sanzionatorio previsto per un determinato settore dell’ordinamento, lungi dal costituire una materia a sé stante, accede alla disciplina sostanziale il cui rispetto intende assicurare, con la conseguenza che la definizione del regime sanzionatorio spetta al medesimo soggetto nella cui sfera di competenza rientra la disciplina oggetto di violazione[2].
Inoltre, distingue la tutela dell’ambiente e del paesaggio dalla loro valorizzazione, ritenendole due funzioni diverse: la prima, mira infatti alla conservazione di un bene complesso e unitario; la seconda, a migliorarne la funzione e la conoscenza. Per quanto qui d’interesse, le norme di cui alla Parte terza del codice dei beni culturali e del paesaggio perseguirebbero «scopi di conservazione dei beni paesaggistici» in quanto vietano espressamente qualsivoglia intervento che li distrugga o li pregiudichi, e al medesimo scopo di tutela sarebbero preordinate le sanzioni previste per la violazione delle stesse norme. Ne consegue, pertanto che, in ragione dell’appartenenza di tale ultima disciplina alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, sarebbe precluso alle regioni di introdurre sanzioni ulteriori o diverse rispetto a quelle contenute nella legge statale.
Nel giudizio a quo si è costituita anche la società, chiedendo l’accoglimento della questione sulla base delle stesse ragioni esposte dal rimettente. La parte privata, ritiene inoltre che la quantificazione della sanzione introdotta dalla norma regionale censurata sia del tutto estranea ai principi contenuti nella norma statale e «soprattutto del tutto svincolata da qualsivoglia relazione con l’interesse leso e con la finalità perseguita dagli artt. 146 e 167 D.Lgs. n. 42/2004».
La Regione Lombardia è intervenuta in giudizio chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata. Innanzitutto, la questione sarebbe inammissibile per la sua irrilevanza nella definizione del giudizio a quo, che verterebbe solo sulla quantificazione della sanzione amministrativa, e «che ben potrebbe trovare soluzione indipendentemente dall’applicazione della normativa regionale». In particolare, secondo la difesa regionale, il rimettente non avrebbe fornito elementi idonei a ricostruire né il procedimento amministrativo avviato dal Comune di Mantova per calcolare il quantum né la valutazione tecnica posta a base della perizia di stima eseguita dal consulente della società, limitandosi a «indicare i diversi criteri adottati e gli esiti dell’applicazione di tali criteri raggiunti nelle rispettive valutazioni» e non rendendo noti gli elementi posti a base delle differenti quantificazioni. Neppure sarebbe stata tentata un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata.
Nel merito, la Regione richiama il contenuto del comma 5, terzo periodo, dell’art. 167 cod. beni culturali sottolineando che l’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 – nella versione originaria, che non conteneva le previsioni oggetto di censura – sarebbe stato adottato per superare le difficoltà applicative sorte in relazione a opere abusive che non arrecano alcun danno e dalle quali, parimenti, non deriva alcun profitto per il trasgressore; pertanto, la norma regionale non si sarebbe sovrapposta a quella statale ma l’avrebbe completata, colmando una lacuna che ne vanificava l’applicazione. Successivamente l’art. 27 della legge reg. Lombardia n. 17 del 2018, nel ridefinire i parametri per il calcolo della sanzione paesaggistica, avrebbe introdotto nell’art. 83 una «innovazione legata alla sola quantificazione».
Quanto all’ascrivibilità della disciplina del potere sanzionatorio a tutela del paesaggio alla competenza legislativa esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.[3], la Regione rileva come, secondo la giurisprudenza della stessa Corte, non è esclusa la possibilità per il legislatore regionale di assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela del bene paesaggistico, qualora siffatte prescrizioni elevino il livello di tutela ambientale. Il caso in esame, del resto, ricadrebbe proprio in una di queste ipotesi in quanto, ad avviso della Regione, il censurato art. 83 non si porrebbe «in contraddizione» con la potestà legislativa esclusiva dello Stato, né ridurrebbe i livelli di tutela dell’ambiente.
La Regione sostiene inoltre che lo stesso art. 83, nel prevedere il criterio di determinazione della sanzione in assenza di danno ambientale, potrebbe essere ascritto alla competenza legislativa concorrente in materia di «valorizzazione dei beni culturali e ambientali», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto intenderebbe sanzionare quelle ipotesi in cui il bene, pur non essendo compromesso, ha comunque subito una alterazione. Tali ipotesi ricadrebbero nell’ambito della gestione dei beni culturali e ambientali, distinta dalla funzione di tutela riservata allo Stato, e da ascrivere a quella di valorizzazione degli stessi beni. Ancora, le stesse considerazioni riferite alla mancanza di un danno ambientale varrebbero a ricondurre la norma censurata anche alla potestà legislativa concorrente in materia di «governo del territorio», attribuita alle regioni dal medesimo art. 117, terzo comma, Cost., trattandosi di potestà che, comprendendo tutto ciò che attiene all’uso del territorio e alla localizzazione di impianti o attività e, collegandosi trasversalmente alla materia della tutela ambientale, potrebbe essere esercitata senza violare la competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Da ultimo, la società ha depositato una memoria illustrativa nella quale innanzitutto, con riferimento all’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa regionale, osserva come il giudice a quo abbia puntualmente motivato sulla rilevanza della questione, atteso che l’accoglimento della questione determinerebbe l’illegittimità del provvedimento impugnato nel processo principale.
Quanto al merito, la parte privata ritiene che la sanzione amministrativa pecuniaria risulti «correlata intimamente» all’istituto dell’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica, il quale produce un effetto “sanante” dell’abuso e, al contempo, svolge una funzione diretta a semplificare e rendere efficiente l’azione amministrativa. In siffatto quadro, allora, risulterebbe chiara la potestà legislativa esclusiva dello Stato a determinare la sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 167, comma 5, cod. beni culturali, alla luce della giurisprudenza costituzionale sulla spettanza della disciplina sanzionatoria al medesimo soggetto nella cui sfera di competenza rientra la disciplina la cui inosservanza costituisce l’atto sanzionabile.
3. La questione di legittimità costituzionale e il quadro normativo di riferimento
La questione di legittimità costituzionale investe l’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, che si pone in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 146 e 167, comma 5, cod. beni culturali[4]. In dettaglio, la previsione oggetto di censura è quella che fissa la misura della sanzione con previsione di un minimo inderogabile di cinquecento euro.
Il giudice a quo ritiene che il legislatore regionale, adottando una disposizione difforme da quella stabilita dall’art. 167 cod. beni culturali, abbia invaso la competenza in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», attribuita in via esclusiva allo Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Il presupposto di tale ragionamento è che le norme di cui alla Parte terza del codice dei beni culturali e del paesaggio perseguono scopi di conservazione dei beni paesaggistici, alla cui realizzazione sarebbero preordinate anche le sanzioni (sia ripristinatorie, sia pecuniarie) previste dall’art. 167 cod. beni culturali. Con la conseguenza che, rientrando la disciplina delle sanzioni per la violazione del citato art. 146 cod. beni culturali nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, sarebbe precluso alle regioni di introdurre sanzioni ulteriori o diverse, anche solo nel quantum, rispetto a quelle fissate dalla legge statale.
In via preliminare la Corte, respingendo le plurime eccezioni sollevate dalla Regione, ritiene la questione rilevante. Innanzitutto, perché il provvedimento impugnato nel giudizio a quo ha determinato l’entità della sanzione esclusivamente sulla base del criterio previsto dall’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, sul presupposto dell’assenza di un danno ambientale; con la conseguenza che la definizione della controversia sul quantum non potrebbe prescindere dall’applicazione della norma regionale censurata. In secondo luogo, per quanto attiene all’asserita mancata indicazione, da parte della Regione, di elementi idonei a ricostruire il procedimento amministrativo avviato dal Comune di Mantova nonché alla paventata verifica della rilevanza effettuata solo in astratto senza tentativo di interpretare la norma in senso costituzionalmente orientato, la Corte osserva come trattasi di argomentazioni con cui la Regione contesta un difetto di motivazione sulla rilevanza, il quale, all’evidenza, non è un vizio censurabile.
Passando alla ricostruzione del quadro normativo di riferimento, la Corte prende le mosse dall’art. 167 cod. beni culturali, il quale, al comma 1 prevede che «in caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4». In altri termini, tale articolo sancisce la regola generale secondo la quale le opere realizzate senza autorizzazione paesaggistica, in violazione dell’art. 146 cod. beni culturali non sono suscettibili di “sanatoria” tramite il pagamento di una somma di denaro, ma comportano l’applicazione della sanzione di carattere reale della riduzione in pristino.
Le uniche deroghe alla sanzione ripristinatoria reale sono contemplate dal comma 4 dello stesso art. 167, secondo cui l’autorità amministrativa competente può accertare la compatibilità paesaggistica dopo la realizzazione delle opere - onde tale accertamento viene comunemente definito “postumo” - nei seguenti casi tassativi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’art. 3 t.u. edilizia.
Solo in queste ipotesi, dunque, può attivarsi la procedura di cui al comma 5 in base alla quale il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area è ammesso a presentare domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi. Qualora venga accertata tale compatibilità, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione; in tal caso, l’importo della «sanzione pecuniaria» è determinato previa perizia di stima. A tale disciplina si raccorda l’art. 146 cod. beni culturali, alla cui stregua, «fuori dai casi di cui all’articolo 167, commi 4 e 5, l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi».
Questo assetto normativo è il risultato della modifica introdotta dall’art. 27, comma 1, del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 157, che ha integralmente sostituito l’art. 167 cod. beni culturali[5]. Infatti, prima della novella del 2006, il trattamento delle violazioni degli obblighi e degli ordini a tutela del paesaggio era caratterizzato dalla titolarità in capo all’amministrazione del potere di scelta fra ripristino dello status quo ante e pagamento di una somma di denaro[6]. Sul punto, dunque, la modifica del 2006 ha significativamente innovato rispetto alla disciplina precedente negando tale facoltà all’amministrazione, nonché relegando la misura pecuniaria ad alcune fattispecie abusive minori, previo accertamento della loro compatibilità paesaggistica.
Tanto premesso, quello che viene in rilievo nel giudizio de quo sono i criteri di calcolo della somma dovuta dal trasgressore, che il legislatore statale ha individuato nel «maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione», nel caso in cui sopravvenga l’accertamento “postumo” di compatibilità paesaggistica.
Ebbene, secondo la Corte, ai fini della decisione, risulta di fondamentale importanza comprendere la natura della somma di denaro che qui viene in rilievo. Sul punto, sebbene la rubrica dell’art. 167 cod. beni culturali parli di «indennità pecuniaria», il medesimo art. 167 è inserito nel Capo II del Titolo I della Parte quarta del codice dei beni culturali e del paesaggio, dedicato alle «Sanzioni relative alla Parte terza» dello stesso codice. Inoltre, il comma 5 dell’art. 167, nel prevedere che l’importo della somma de qua sia determinato previa perizia di stima, contiene l’espressione «sanzione pecuniaria».
Anche secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza amministrativa, inoltre, non si tratta di una forma di risarcimento del danno ma di una sanzione amministrativa, applicabile a prescindere dalla concreta produzione di un danno ambientale. Ed in effetti, nella previsione normativa il danno viene in considerazione solo come criterio di commisurazione della sanzione – in alternativa al profitto conseguito – e non come parametro che ne condiziona l’an. In altri termini, l’assenza di un danno ambientale non ostacola, pertanto, il potere sanzionatorio, ma assume rilievo sotto il profilo della quantificazione dell’importo dovuto, che sarà ragguagliata al solo profitto conseguito[7].
4. La decisione della Corte
La Corte reputa fondata la questione. Per giungere a siffatta conclusione, precisa innanzitutto che la misura prevista dall’art. 167, comma 5, cod. beni culturali rappresenta una sanzione amministrativa pecuniaria di natura riparatoria; perimenti, ritiene che la norma regionale censurata incide sulla determinazione del quantum di tale sanzione.
Se così è, richiamando la propria costante giurisprudenza in ossequio alla quale «la competenza a prevedere sanzioni amministrative non costituisce materia a sé stante, ma “accede alle materie sostanziali” [...] alle quali le sanzioni si riferiscono, spettando dunque la loro previsione all’ente “nella cui sfera di competenza rientra la disciplina la cui inosservanza costituisce l’atto sanzionabile [...]» [8], rileva come, ai fini della risoluzione della questione, risulti fondamentale verificare quale sia la materia a cui si riferisce la sanzione e se in tale materia la competenza legislativa spetti allo Stato o alle Regioni.
In relazione a tale profilo, sulla scorta del quadro normativo sopra ricostruito, può dirsi che la sanzione consegue alla realizzazione di lavori, rientranti nei casi tassativi indicati al comma 4 dell’art. 167 cod. beni culturali, per i quali sia intervenuto l’accertamento “postumo” di compatibilità paesaggistica di cui al successivo comma 5. L’atto sanzionabile è costituito, dunque, dall’inosservanza della disciplina relativa alla tutela del vincolo paesaggistico-ambientale, e segnatamente dall’inosservanza delle norme che regolano l’autorizzazione paesaggistica, la quale, a sua volta, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, deve essere annoverata tra gli istituti di protezione ambientale uniformi, validi in tutto il territorio nazionale[9].
Pertanto, la disciplina sostanziale cui si riferisce la sanzione pecuniaria in esame deve necessariamente ascriversi alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., anche in ragione dell’esistenza di un evidente interesse unitario alla tutela del paesaggio e ad un eguale trattamento in tutto il territorio nazionale della tipologia di abusi paesaggistici suscettibili di accertamento di compatibilità.
Ebbene, come evidenziato, la quantificazione della sanzione in caso di assenza di danno ambientale, nella misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di costruzione «delle opere e/o lavori abusivi» con il minimo inderogabile di cinquecento euro, non è prevista dalla disciplina adottata dallo Stato nell’esercizio della sua competenza legislativa esclusiva ed in particolare dall’art. 167 cod. beni culturali. In siffatto contesto, le citate esigenze di uniformità di trattamento precludono allora al legislatore regionale l’intervento con norme difformi da quelle previste a livello statale.
Ancora, la Corte prosegue nel proprio ragionamento respingendo l’argomento sostenuto dalla Regione in base al quale la potestà legislativa statale non sarebbe violata in quanto l’art. 83, lungi dal porsi «in contraddizione» con essa o dal ridurre i livelli di tutela dell’ambiente, si limiterebbe solamente a colmare una lacuna della norma statale e, dunque, a completare «l’apparato di tutela di cui al D. Lgs. n. 42/2004». Ed in effetti, anche la potestà di colmare per via legislativa asserite lacune di norme sanzionatorie spetta al soggetto dotato di competenza nell’ambito materiale cui le sanzioni stesse si riferiscono e quindi, nella specie, allo Stato. Neppure può ritenersi che la norma sanzionatoria in oggetto rispetti la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella misura in cui innalza la tutela dell’ambiente, come pure è consentito fare alle Regioni a certe condizioni: nell’esercizio di competenze interferenti con quella ambientale, infatti, alla Regione è totalmente precluso interferire con la disciplina dettata dal codice dei beni culturali e del paesaggio[10].
In ogni caso, ritiene la Corte, non è corretto affermare che, sempre al fine di elevare la tutela ambientale, l’intervento legislativo regionale abbia effettivamente colmato una lacuna dell’art. 167, comma 5, cod. beni culturali, completandone il dettato per l’ipotesi di assenza sia di danno ambientale sia di profitto. La norma statale, infatti, ben può essere interpretata nel senso che in tale ipotesi non sia irrogabile alcuna sanzione, non senza considerare che la sfera di efficacia della norma censurata è più ampia di quella prospettata dalla Regione, poiché introduce «comunque» la sanzione pari all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione, anche nel caso in cui un profitto esista, ma sia quantificabile in misura inferiore.
Ancora, non è condivisibile la tesi, pure sostenuta dalla Regione, in base al quale l’art. 83, nella parte censurata, potrebbe essere ricondotto alle materie «valorizzazione dei beni culturali e ambientali» e «governo del territorio», attribuite alla competenza legislativa concorrente delle regioni dall’art. 117, terzo comma, Cost. Sul punto, la Corte sostiene infatti che la tutela dell’ambiente e del paesaggio prescinde dalla sussistenza di un danno ambientale, sostanziandosi nella predisposizione di strumenti di protezione di tali beni comuni, come i piani paesaggistici, le autorizzazioni o i divieti, tutti previsti dal codice dei beni culturali e del paesaggio; nella prospettiva indicata, l’eventuale assenza di un danno ambientale non costituisce una ragione idonea a scindere il collegamento tra la sanzione e la disciplina di tutela paesaggistica. L’atto sanzionabile, infatti, è costituito dall’inosservanza delle norme che disciplinano uno dei fondamentali istituti di protezione ambientale, quale l’autorizzazione paesaggistica; la conseguente sanzione riparatoria, alternativa alla riduzione in pristino nei casi tassativi indicati dal legislatore, partecipa della medesima natura di ricomposizione della legalità violata propria della misura di carattere reale, a prescindere dall’effettiva produzione di un danno ambientale. In siffatto contesto, pertanto, il danno si configura come un mero criterio di commisurazione della sanzione, senza condizionarne affatto l’applicabilità.
Così accertata la violazione del riparto di competenze tra Stato e Regioni, la Corte dichiara dunque l’illegittimità costituzionale dell’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, limitatamente alle parole «e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro».
Il percorso logico sotteso alla pronuncia in esame sembra dare per scontati due assunti, che si tenterà di approfondire nei paragrafi seguenti.
5. Il riparto della potestà legislativa in materia di sanzioni amministrative
Il primo assunto da cui parte la Corte è quello del riconoscimento di una potestà legislativa alle Regioni anche in materia di sanzioni.
Tanto è possibile in quanto, in ambito amministrativo, il fondamento costituzionale del principio di legalità in materia di sanzioni si rinviene nell’art. 23 Cost., in ossequio al quale la riserva legislativa è soddisfatta non solo dalla legge statale ma, appunto, anche da quella regionale[11].
E ciò diversamente da quanto accade in relazione alle sanzioni penali, rispetto alle quali sussiste invece la necessità di garantire allo Stato l’attribuzione di una potestà legislativa esclusiva. In tale settore, infatti, la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente escluso la competenza regionale sia in funzione ampliativa sia in funzione restrittiva dall’area di punibilità; e ciò non solo per esigenze di legalità ma, appunto, anche e soprattutto di uguaglianza sull’intero territorio nazionale[12].
Riconosciuta, dunque, l’ammissibilità di una potestà legislativa regionale in materia, ai fini della individuazione dell’effettivo soggetto titolare del potere de quo occorre guardare agli ordinari criteri di riparto di competenza Stato-Regioni.
Ne consegue, pertanto, che alle Regioni è concesso legiferare in materia di illeciti e sanzioni amministrative nelle materie di loro competenza, sia concorrente (art. 117, co. 3, Cost.), sia esclusiva (art. 117, co. 4 Cost.), sebbene con limiti diversi. In particolare, nelle materie di competenza concorrente, le Regioni sono vincolate dai principi fondamentali dettati dal legislatore statale; viceversa, nelle materie di competenza esclusiva (cd. residuali), il legislatore regionale sarebbe comunque tenuto a rispettare i limiti derivanti dalle leggi statali nelle materie trasversali, nelle materie-valore, nonché nelle materie ordinamentali[13].
Conseguenza di tale ragionamento è che, laddove vengano invece in rilievo materie attribuite alla competenza legislativa dello Stato – quale è, appunto, la «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. – risulta preclusa ogni forma di intervento regionale, anche nell’ottica di colmare eventuali lacune della disciplina nazionale. Inoltre, il venire in rilievo di competenze attinenti alla specifica materia ambientale, fa sì che risulti ulteriormente ristretto il raggio di azione delle Regioni, e tanto in forza del divieto, sancito dal costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, di interferire sulla materia prevista dal codice dei beni culturali e del paesaggio finanche al solo fine di innalzarne il livello di tutela.
A fronte di tale ripartizione, un cenno a parte meritano le sanzioni amministrative “punitive”, vale a dire quelle dotate di natura sostanzialmente penale, rispetto alle quali la questione dell’eventuale competenza legislativa regionale si pone in termini parzialmente diversi. Ed in effetti, in ossequio all’ormai costante indirizzo di derivazione sovranazionale in base al quale dal riconoscimento della natura sostanzialmente penale di una sanzione dovrebbe derivare l’applicazione dello statuto giuridico proprio delle pene, nella materia de qua non dovrebbe trovare spazio la legge regionale.
In verità, pochi anni fa, la Corte Costituzionale sembra aver ammesso la competenza regionale anche con riferimento a tale tipologia di sanzioni. In dettaglio, in occasione del ricorso presentato dal Governo avverso gli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge della Regione Veneto 16 luglio 2019, n. 25[14], nel richiamare la propria costante giurisprudenza[15], la Corte Costituzionale, pur riconoscendo in linea generale l’applicazione delle garanzie discendenti dall’art. 25, co. 2, Cost. anche agli illeciti e alle sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente punitivo, ha fatto salva l’eccezione «della riserva assoluta di legge statale, che vige per il solo diritto penale stricto sensu, come da ultimo precisato dalla sentenza n. 134 del 2019. Tale pronuncia ha altresì ribadito che il potere sanzionatorio amministrativo – che il legislatore regionale ben può esercitare, nelle materie di propria competenza – resta comunque soggetto alla riserva di legge relativa all’art. 23 Cost., intesa qui anche quale legge regionale»[16].
Una soluzione di tal fatta, che potrebbe essere percepita come una battuta d’arresto rispetto all’orientamento evolutivo cui si faceva poc’anzi riferimento, trova in realtà una propria coerenza alla luce del sistema delle fonti complessivamente inteso.
Per comprenderlo, basterà ricordare come le garanzie che originariamente previste nel settore penale, sono state oggetto di progressiva estensione anche alle sanzioni punitive, si identificano nelle sole riconducibili ai principi delineati dalla stessa CEDU; sicché, venendo in questo caso in rilievo un aspetto prettamente interno, quale risulta essere appunto il riparto tra potestà legislativa statale e regionale in materia penale, la sua mancata estensione anche alle sanzioni punitive non si pone in contrasto con il filone interpretativo avallato da Strasburgo.
6. La natura “strumentale” del potere sanzionatorio amministrativo: compatibilità della funzione afflittiva con il perseguimento di pubblici interessi
L’altro principio sotteso alla pronuncia della Corte è quello della riconducibilità del potere sanzionatorio amministrativo alla medesima materia cui la disciplina sostanziale, oggetto di violazione, si riferisce. Da tale assunto, deriva l’ulteriore corollario della compatibilità tra la funzione afflittiva, propria dei provvedimenti sanzionatori, e il perseguimento del pubblico interesse, cui l’azione amministrativa deve necessariamente tendere.
Ed in effetti, l’irrogazione di una sanzione, non risulta finalizzata esclusivamente a compensare l’illecito mediante l’inflizione di conseguenze dannose in capo all’autore, essendo funzionale altresì alla prevenzione di future lesioni da parte della generalità dei consociati[17]. La peculiarità che caratterizza la sanzione amministrativa, vale a dire il suo carattere afflittivo, non osta dunque acché attraverso di essa venga perseguito anche un pubblico interesse.
Del resto, in tal senso si è espressa ormai da tempo anche la giurisprudenza. La Cassazione ha infatti chiarito che la funzione amministrativa sanzionatoria garantisce i medesimi interessi tutelati dalla stessa p.a.; ciò avverrebbe grazie all’esercizio di una funzione cd. “sussidiaria”, che interviene cioè allorquando gli interessi perseguiti dalla funzione principale, cd. “sussidiata”, risultano lesi[18].
Nella medesima direzione, la Corte Costituzionale ha riconosciuto che le sanzioni amministrative rappresentano «un momento ed un mezzo per la cura dei concreti interessi pubblici affidati all’Amministrazione»[19]. Ancora, in tempi più recenti, anche la giurisprudenza sovranazionale è giunta ad analoghe conclusioni, sottolineando la non incompatibilità tra il perseguimento di un certo interesse pubblico e il carattere punitivo della sanzione[20].
In altri termini, anche la funzione sanzionatoria rientra tra gli strumenti di cui l’Amministrazione dispone per il perseguimento della propria azione specifica e, proprio in ragione della natura complementare della funzione in esame rispetto a quelle di amministrazione attiva, si giustifica il particolare interesse che la p.a. nutre all’esercizio della stessa[21].
Certo, non può nascondersi come per il tramite della funzione sanzionatoria l’interesse pubblico riceva una tutela soltanto indiretta: la sanzione rappresenta infatti uno strumento di perseguimento dell’interesse pubblico solo in via mediata, inidoneo a svolgere ex se una funzione di amministrazione attiva. Purtuttavia, nel momento stesso in cui si ammette tale profilo di complementarità, risulta difficile non attribuire anche al potere sanzionatorio una funzione di amministrazione attiva.
In tal senso, particolarmente esemplificativa sembra essere la disciplina dettata con riferimento ai provvedimenti sanzionatori emanati dalle Authorities. In questi settori, il collegamento tra funzione di regolazione/vigilanza da un lato, e funzione sanzionatoria dall’altro, emerge chiaramente grazie anche alla attribuzione di entrambe le funzioni ad un unico soggetto[22].
Si pensi ad esempio all’AGCM, i cui poteri sanzionatori risultano strumentali alla tutela della stessa concorrenza e del mercato: i provvedimenti sanzionatori, pur dotati di carattere afflittivo, divengono strumento per la cura dello specifico interesse pubblico attribuito all’Amministrazione.
Considerazioni analoghe, e per certi versi ancora più significative, valgono anche con riferimento alle sanzioni disciplinate in via generale dalla l. n. 689/1981: in tale sistema, il legislatore ha volutamente evitato di individuare una autorità amministrativa dotata di poteri specificatamente sanzionatori, attribuendo piuttosto tale competenza alle singole amministrazioni cui spetta la tutela dell’interesse di volta in volta preso in considerazione[23]. E ciò proprio a riprova della naturale strumentalità del potere sanzionatorio rispetto a quello di amministrazione attiva.
Tali considerazioni, inoltre, consentono di scongiurare l’idea che le sanzioni amministrative svolgano esclusivamente una funzione afflittiva e di prevenzione generale: se così fosse, infatti, sarebbe risultata più congeniale l’attribuzione della funzione in esame ad una Autorità amministrativa terza ed imparziale: viceversa, proprio l’appartenenza alla medesima Autorità amministrativa, consente di riconoscere la natura intrinsecamente connessa del potere sanzionatorio con quello di cura dei singoli interessi pubblici.
[1] Trattasi della versione di testo introdotta dall’art. 27 della legge della Regione Lombardia 4 dicembre 2018, n. 17.
[2] A tal proposito, cita la sentenza Corte Cost. n. 148 del 2018, nonché le precedenti sentenze n. 90 del 2013, n. 240 del 2007, n. 384 del 2005 e n. 12 del 2004.
[3] «Tutela dell’ambiente, dell’economia e dei beni culturali».
[4] Nello specifico, la disposizione censurata stabilisce che «l’applicazione della sanzione pecuniaria, prevista dall’articolo 167 del D.Lgs. n. 42/2004, in alternativa alla rimessione in pristino, è obbligatoria anche nell’ipotesi di assenza di danno ambientale e, in tal caso, deve essere quantificata in relazione al profitto conseguito e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro».
[5] Il previgente comma 1 di tale ultima disposizione prevedeva, infatti, che «in caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è tenuto, secondo che l’autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica ritenga più opportuno nell’interesse della protezione dei beni indicati nell’articolo 134, alla rimessione in pristino a proprie spese o al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. La somma è determinata previa perizia di stima».
[6] Ciò, in linea con quanto precedentemente disposto, in termini sostanzialmente identici, prima dall’art. 15 della legge 29 giugno 1939, n. 1497 (Protezione delle bellezze naturali), poi dall’art. 164 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352).
[7] Cfr, sul punto, Consiglio di Stato, sezione seconda, sentenza 30 ottobre 2020, n. 6678, sentenza 25 luglio 2020, n. 4755, sentenza 4 maggio 2020, n. 2840; sezione sesta, sentenza 8 gennaio 2020, n. 130. Lo stesso costante orientamento giurisprudenziale qualifica la misura in esame come sanzione riparatoria alternativa al ripristino dello status quo ante. A tal riguardo, il Consiglio di Stato osserva che, «proprio in funzione della sua natura di carattere ripristinatorio alternativa alla demolizione», la sanzione «viene ragguagliata “al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione” e, in base all’art. 167 del d.lgs. 42 del 2004, le somme “sono utilizzate per finalità di salvaguardia, interventi di recupero dei valori ambientali e di riqualificazione delle aree degradate”» (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenze 30 giugno 2023, n. 6380 e n. 6381; nello stesso senso, tra le molte, Consiglio Stato, sezione prima, parere definitivo 18 maggio 2022, n. 877; sezione seconda, sentenza 30 ottobre 2020, n. 6678).
[8] Così Corte Cost. sent. n. 121 del 2023.
[9] Sul punto v., ex multis, Corte Cost., sentenze nn. 201 del 2021, 246 del 2017, 238 del 2013 e 101 del 2010.
[10] Sul punto, v. Corte Cost. sent. n. 16 del 2024; in precedenza, anche Corte cost. sentenze nn. 163 del 2023, 66 del 2018, 212 del 2017, 210 del 2016, 171 del 2012 e 407 del 2002.
[11] In questo senso, si vedano le considerazioni di G. Corso, Sanzioni amministrative e competenza regionale, in AA. VV. (a cura di U. Pototschnig), Le sanzioni amministrative (Atti del XXVI Convegno di Studi di scienza dell’amministrazione), Milano, 1982, 78. Per una completa ricostruzione del dibattito dottrinario in materia, si rinvia a G. Colla- G. Manzo, Le sanzioni amministrative, Giuffrè, Milano, 2001, 247-248.
[12] Sul punto v. L Paladin L., Il problema delle sanzioni nel diritto regionale, in AA.VV., Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Cedam, Padova, 1975, 238.
[13] Così P. Cerbo, Sistemi sanzionatori e autonomia regionale, in Quaderni Costituzionali, 2021, fasc. 3, 271.
[14] Recante “Norme per introdurre l’istituto della regolarizzazione degli adempimenti o rimozione degli effetti nell’ambito dei procedimenti di accertamento di violazioni di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative”.
[15] Cfr. Corte Cost., sentenze nn. 134 del 2019, 223 del 2018, 121 del 2018, 68 del 2017, 276 del 2016 e 104 del 2014.
[16] Così Corte Cost., sent. del 18 gennaio 2021, n. 5 punto 5.1. del Considerato in diritto.
[17] In questo senso, v. F. Goisis, Discrezionalità ed autoritatività nelle sanzioni amministrative pecuniarie, tra tradizionali preoccupazioni di sistema e nuove prospettive di diritto europeo, in Rivista Italiana Di Diritto Pubblico Comunitario, 2013, 132. Per un approccio costituzionalistico del tema, si rinvia a L. Cuocolo, Le sanzioni amministrative tra caratteri afflittivi ed amministrazione attiva, in Quad. reg., 2003, 531 e ss.
[18] Cfr. Cass., Sez. un., 24 febbraio 1978, n. 926. Per un commento alla sentenza indicata, si rinvia a C.E. Paliero-A. Travi, voce Sanzioni amministrative, in Enc. dir., vol. XLI, Milano, 1989, 370.
[19] Così Corte cost., sent.14 aprile 1988, n. 447.
[20] Cfr. in tale direzione Corte EDU, 27 settembre 2011, caso n. 43509/08, Menarini c. Italia (spec. par. 40), in materia di tutela della concorrenza nel mercato tutelata dall’AGCM.
[21] Così A. Travi, Sanzioni amministrative e pubblica Amministrazione, Padova, 1983, 243.
[22] Sulla tematica, si rinvia alle considerazioni svolte da R. Lombardi, Autorità amministrative indipendenti: funzione di controllo e funzione sanzionatoria, in Dir. amm., 1995, 633.
[23] Si vedano in particolare gli artt. 7 e 17, co. 3 l. n. 689/1981.