Una stupefacente decisione dei giudici federali della F.I.S. e una nuova concezione del (non) habeas corpus
di Maurizio Fumo
A stunning decision by F.I.S. federal judges and a new understanding of (non) habeas corpus
(nota alla decisione della corte federale di appello della federazione italiana scherma, depositata 26/1/2024, nel procedimento 2/2023 CFA)
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ABSTRACT: La corte federale di appello della federazione italiana scherma ha confermato la condanna di un maestro di scherma, accusato di avere violentemente rimproverato una sua allieva minorenne e di averla aggredita fisicamente, afferrandola per gli indumenti e scuotendola energicamente. I giudici tuttavia hanno ritenuto di non esaminare la ragazza partendo dal presupposto, non dimostrato ma meramente ipotizzato, che la stessa, se interrogata, non avrebbe detto il vero, perché in stato di shock postraumatico per la presunta aggressione subita. La giovane atleta non è stata neanche convocata in giudizio. Tali decisioni sono commentate negativamente in quanto basate su petizione di principio ed espressive di un evidente cortocircuito logico. Esse, oltretutto, rischiano di costituire un pericoloso precedente.
Keywords: maestro di scherma – aggressione verbale e fisica – vittima minorenne – testimonianza – shock postraumatico – mera presunzione dei giudici – rifiuto di ammettere la testimonianza della presunta vittima – petizione di principio – pericolo del precedente.
ABSTRACT: The Federal Court of Appeal of the Italian Fencing Federation confirmed the conviction of a fencing master who was accused of violent rebuke against a minor girl fencer and of physical aggression. Indeed, according to the indictment, he grabbed her fencing uniform shaking it vigorously. Despite this, the judges thought it was useless to question the girl, because she would not have correctly described what happened. In fact they thought she had suffered post-traumatic shock. But this was a simple assumption, made by people not qualified as psychologists. Moreover the young athlete was not even summoned to the hearing. The author of the article comments negatively on such decision, as he thinks it is based on a petition of principle and on a logical short circuit. There is the risk that a dangerous judicial precedent may be established.
Keywords: fencing master – verbal and phisical aggression – minor victim – witness statement – posttraumatic shock – mere presumption of the judges –refusal to admit the alleged victim’s testimony – principle petition – dangerous judicial precedent.
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SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Il fatto – 3. In dettaglio: la decisione del primo giudice, ovvero nolo cognoscere – 4. Il reclamo – 5. La decisione in secondo grado, ovvero diabolica perseveratio – 6. Considerazioni finali.
1. Premessa
Non è consueto che il commento a una decisione di un giudice sportivo “chieda ospitalità” ad una rivista sulla quale si disquisisce di diritto penale sostanziale e processuale.
Tuttavia tanto il contenuto quanto la motivazione della decisione del 26 gennaio 2024, assunta dalla corte federale di appello della FIS nel procedimento 2/2023 CFA, entrano in così palese e frontale conflitto con i principi che regolano qualsiasi procedura di accertamento di responsabilità, che “il caso” merita di essere segnalato (e commentato) quali che siano la natura e i poteri del giudicante e a prescindere dalla specifica procedura che lo stesso è (o sarebbe) obbligato ad osservare.
D’altra parte, è pur vero che i “codici” delle varie federazioni rimandano, per quanto non specificamente previsto, al codice di procedura civile (cfr., per la FIS, “regolamento di giustizia”, art. 1 comma 7), tuttavia è indubbio che i rispettivi procedimenti disciplinari siano modellati sul codice di rito penale (iniziativa ad opera della Procura federale, indagini preliminari, ricusazione e astensione dei giudici, potere del giudice di assumere prove o indicare mezzi di prova da esperire, patteggiamento, revisione, incidenza del giudicato penale ecc.), così come è riconoscibile la derivazione dal diritto penale sostanziale di non pochi istituti dei codici sportivi (circostanze attenuanti e aggravanti, recidiva, prescrizione, amnistia, grazia, indulto ecc.). D’altronde è frequente leggere nelle decisioni dei giudici sportivi espliciti riferimenti alla giurisprudenza penale di legittimità. Per di più, i predetti testi normativi recano a chiare lettere l’impegno alla osservanza del principio del giusto processo (art. 1, comma 3 del sopra indicato “regolamento di giustizia” della federazione scherma). In ogni caso, tutti dovrebbero osservare, applicare e rendere operanti i principi della Costituzione repubblicana. Anche dunque (e persino!) i giudici sportivi della federazione italiana scherma.
Tanto premesso, è necessario procedere con ordine perché risalti in tutta la sua singolarità l’operato dei giudici federali.
2. Il fatto
Il maestro di scherma[1] Numerio Negidio (usiamo il formulario del diritto romano per coprire la reale identità di un signore le cui generalità sono state oscurate per volere della Corte) è stato accusato di aver maltrattato, nel corso di una gara, una sua allieva quattordicenne, che chiameremo Aula Ageria (diritto romano ecc.).
A suo carico la Procura della federazione italiana scherma (FIS) ebbe a formulare il seguente capo di incolpazione:
A) nella giornata di OMISSIS, il maestro OMISSIS incitava l’atleta OMISSIS, di anni 14, da lui allenata, in modo veemente, aggressivo, inadeguato al contesto ed all’età della ragazza, proferendo altresì durante la gara parole ingiuriose nei confronti della ragazza, che appariva visibilmente scossa;
B) nella giornata di OMISSIS, lo stesso maestro reiterava la condotta del giorno precedente, incitando l’atleta suddetta, da lui allenata, in modo veemente, aggressivo, inadeguato al contesto ed all’età della ragazza, proferendo altresì durante la gara parole ingiuriose nei confronti della ragazza, che appariva visibilmente scossa; il maestro, inoltre - hanno precisato alcuni testimoni - scuoteva l’atleta in modo forte continuando ad urlare e ponendole altresì le mani sul volto; tanto in violazione di plurime violazioni della normativa federale, e segnatamente dell’art. 2 del regolamento di Giustizia della FIS, nonché degli artt. 5 e 11 dello statuto della FIS e degli artt. 6 e 10 del Codice Etico della FIS, degli artt. 2, 5 e 7 del Codice di Comportamento Sportivo emanato dal CONI, nonché dell’art. 3 del regolamento SAFEGUARDING POLICY della FIS; il tutto con le aggravanti di cui all’art. 31 lett. a e b.
Ora, a parte la singolarità di aver inserito nel capo di incolpazione un accenno, per quanto ermetico, a una fonte di prova (“hanno precisato alcuni testimoni”), resta il fatto che l’addebito, per come contestato, appare piuttosto generico. Peccato veniale, per altro, dal momento che, nel corso del procedimento, l’incolpato ha potuto apprendere di quali espressioni ingiuriose lo si accusava e quale condotta violenta gli veniva addebitata.[2]
Dalla lettura della decisione di primo grado, si deduce che, durante una gara di scherma riservata agli adolescenti, il maestro Negidio, insoddisfatto del rendimento sportivo della sua allieva, la avrebbe apostrofata in malo modo e anche insultata, a voce alta e con espressioni volgari; l’avrebbe poi strattonata, afferrandola per la “bianca divisa da scherma”; avrebbe infine avvicinato il suo volto a quello della ragazzina e (forse) avrebbe tentato (o simulato) di morderle il collo (o una guancia). Da ultimo, il Negidio avrebbe intimato alla giovane atleta (in lacrime) di salire sugli spalti e di attenderlo lì. Non contento, raggiunta la povera Ageria, avrebbe continuato a inveire contro di lei. Tali deplorevoli condotte, in base alla originaria accusa, sarebbero state tenute in entrambi i giorni in cui si era sviluppato il torneo schermistico (l’episodio verificatosi sugli spalti, per vero, il secondo giorno).
Riconosciuto colpevole del secondo episodio e “assolto” dal primo, al maestro fu applicata la sanzione di 130 giorni di sospensione “da ogni attività federale” (così il dispositivo letto all’esito del giudizio). Con successivo provvedimento integrativo, il tribunale federale, avvertito del fatto che aveva irrogato una sanzione inesistente (pena illegale!), corresse il suo decisum, aggiungendo tra parentesi, dopo la parola “sospensione”, la parola “squalifica”.
3. In dettaglio: la decisione del primo giudice, ovvero nolo cognoscere.
“Alcuni testimoni”, per quel che si legge nel capo di incolpazione e nella decisione di primo grado, furono individuati in due arbitri di gara e in tre appartenenti alla Polizia di Stato, che, incaricati (questi ultimi) di guidare i pulmini messi a disposizione degli atleti del gruppo sportivo Fiamme Oro, si intrattenevano, durante i tempi morti, sul luogo di gara. Già da tali affermazioni si deduce che esistevano anche “altri testimoni”, tenuti – tuttavia – in scarsa considerazione dai giudicanti.
Per una migliore comprensione dei fatti, va chiarito che una gara di scherma, durante le fasi eliminatorie, vede la presenza contemporanea su più pedane di varie coppie di schermitori (schermitrici, nel nostro caso). Ciascun “assalto” è giudicato da un arbitro che, avvalendosi delle segnalazioni fornite dall’apparecchiatura elettrica, dirige lo scontro e assegna le stoccate e, dunque, determina il punteggio e attribuisce la vittoria a uno dei due (una delle due) contendenti.
Nel caso in esame l’arbitro che dirigeva lo scontro ebbe a riferire di non aver notato alcun comportamento anomalo da parte del maestro Negidio, precisando che i maestri di entrambe le atlete incitavano, da bordo pedana, le rispettive allieve, fornendo loro consigli. Il tono di voce era elevato, anche per la necessità di sovrastare i rumori di fondo che caratterizzano lo svolgimento di ogni competizione schermistica.
Altri arbitri, viceversa, (i due predetti “testimoni”) resero dichiarazioni ben diverse, addebitando al maestro Negidio le condotte poi sintetizzate nel capo di incolpazione sopra trascritto. Costoro, ovviamente, erano meno vicini ai protagonisti della vicenda rispetto al loro “collega” che aveva diretto l’assalto e, tuttavia, come premesso, riferirono fatti e particolari, negati dal primo “teste”.
Quanto ai poliziotti, essi resero dichiarazioni non completamente coincidenti, ma, nel complesso, affermarono di aver notato il comportamento improprio, aggressivo, scomposto e minaccioso del maestro Negidio; aggiunsero di aver chiesto spiegazioni ad alcuni arbitri che avrebbero riferito loro che il maestro in questione non era nuovo a simili performance. Sul punto, a quanto si apprende, essi approntarono relazione di servizio, nella quale, tuttavia, gli addebiti mossi al maestro risultano alquanto attenuati, anche perché gli appartenenti alla Polizia di Stato giustificarono il fatto di non essere intervenuti assumendo che nulla di penalmente rilevante era avvenuto in loro presenza.
Il direttore di torneo (soggetto diverso dai singoli arbitri e sul quale grava il compito della intera organizzazione della gara), che si trovava fisicamente lontano dal luogo nel quale si sarebbero verificati i fatti, riferì che uno degli arbitri (sempre uno dei due “testimoni”), informandolo dell’accaduto, esclamò: “se avessi sentito l’insulto, gli avrei dato il cartellino nero”. Se ne dovrebbe dunque dedurre che l’insulto egli non lo percepì.
Nella fase delle indagini, condotte, ovviamente, dalla Procura federale, fu (doverosamente) ascoltata anche la giovane atleta, alla presenza della madre. La ragazza negò che il maestro Negidio avesse tenuto la condotta che gli veniva addebitata. La madre (in altro contesto istruttorio) chiarì che, come sua abitudine, non aveva mai perso d’occhio la ragazza durante la gara e, con particolare riferimento a quanto accaduto sugli spalti, negò recisamente, a sua volta, che il maestro avesse inveito contro la figlia. Durante una pausa della gara, secondo il suo racconto, tutti (scil: ella stessa, la figlia, le altre giovani atlete, i genitori delle stesse e il maestro di scherma) erano andati a pranzo insieme, in un clima disteso e amichevole.
Nel corso del parallelo procedimento penale, attivato su iniziativa del maestro Negidio, che aveva proposto querela per diffamazione nei confronti dell’autore della segnalazione, furono sentiti dal difensore dello stesso, nel corso delle investigazioni difensive (dunque ai sensi dell’art. 391 bis e ss. c.p.p.), proprio i genitori delle altre atlete; tutti negarono di aver assistito a intemperanze verbali da parte del maestro di scherma o a condotte aggressive tenute dallo stesso.[3]
Tale materiale probatorio fu reso disponibile per i giudicanti sportivi.
Ebbene, in presenza di un così evidente contrasto tra le deposizioni, il tribunale federale decise che non era il caso di sentire la versione della giovane Ageria.
Questa la motivazione esibita sul punto: “In merito alle dichiarazioni rese dall’atleta OMISSIS, dopo corretta ed approfondita analisi, questo Collegio ritiene che le affermazioni della giovane sportiva confermano il convincimento circa la responsabilità dell’incolpato perché dimostrano come le stesse siano la reazione conseguente alla portata traumatica dell’episodio. In tale contesto l’atleta: (i) nega i fatti: in nessuna occasione della manifestazione mi ha dato della stupida sentono [tuttavia: NDR] direttamente frasi offensive, tra cui sei una testa di cazzo oltre a darle della scema e della stupida, cinque persone OMISSIS; gli stessi testi confermano che il maestro OMISSIS si avvicina al corpo dell’Atleta prendendole il volto/collo tra le mani quando le urla le frasi offensive; (ii) riferisce [il soggetto ora è nuovamente la ragazza NDR] che giustamente, da maestro, ha il compito di farle capire dove sbaglio …. il tono di voce era alto perché attorno a noi c’erano tantissime persone … In tale contesto è chiaro che la vittima dell’abuso psicologico non percepisce la condotta lesiva della propria dignità”.
Ora, a parte la non felicissima struttura sintattica del periodo (dopo “nega i fatti” il cui soggetto è l’atleta, la frase riprende, senza segno di interpunzione e con un cambio di soggetto: “sentono direttamente i fatti ecc.” e solo, alla fine del periodo si comprende di chi si sta parlando, vale a dire: cinque persone, poi il soggetto ritorna ad essere la giovane schermitrice), resta da capire quale sia stata l’analisi (che lo stesso giudicante qualifica come approfondita e, con immotivata autovalutazione, “corretta”) e, principalmente, in base a quali competenze tecnico-scientifiche essa sia stata condotta. Le dichiarazioni cui si riferisce il brano della motivazione appena trascritto sono quelle (appena sopra ricordate) che la ragazza rilasciò il 9.5.2023, in fase di indagini, in quanto, come più volte chiarito, il tribunale prima (e la corte poi) non hanno ritenuto di convocarla e ascoltarla. Particolare non da poco, Ageria, rese le predette dichiarazioni al procuratore federale, non solo in presenza di un avvocato, ma (come pure si è detto, ma è il caso di ribadirlo), essendo minore, anche in presenza della madre.
Insomma: qui si va molto oltre la (a volte necessaria) finzione del giudice peritus peritorum; qui si ipotizza addirittura il giudice aruspice, indovino, sciamano, vale a dire il giudice fornito di qualità divinatorie che gli consentono di valutare l’attendibilità di una persona, senza averla ascoltata, esaminata e nemmeno vista e, sia detto per inciso, ma nemmeno troppo, senza avere alcuna qualificazione professionale per diagnosticare disturbi psicologici, alterazioni emotive et similia.
È insomma evidente che il principio einaudiano del “conoscere per deliberare” non è condiviso dal tribunale federale FIS, che ritiene di poter deliberare senza conoscere.
La petizione di principio, per altro, è evidente: il quod erat demonstrandum (la inattendibilità di Ageria, perché quasi plagiata dal suo maestro, non meno della connivenza della madre), diventa la base “logica” (si fa per dire) della demonstratio. In altre parole: A) per sposare la tesi accusatoria, è necessario che sia smentita la ricostruzione dei fatti che la diretta interessata potrebbe esporre, B) per ritenere smentita tale ricostruzione, occorrerebbe esaminare la diretta interessata, accertandone la inattendibilità, ma C) poiché la diretta interessata è da presumere inattendibile, non occorre esaminarla e quindi D) la tesi accusatoria è fondata.
Una fantastica (fantasiosa?) scorciatoia probatoria, potremmo dire; e infatti, dopo la prova storico-fattuale, dopo la prova logica, dopo le presunzioni legali, dopo le massime di esperienza, il tribunale sportivo introduce una nuova categoria di prova, vale a dire – appunto – la petizione di principio.
Sembra l’applicazione al rovescio di un consolidato assunto elaborato dalla giurisprudenza penale di legittimità, in base al quale le dichiarazioni della persona offesa possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di responsabilità dell'imputato, previa verifica (corredata da idonea motivazione) della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto; verifica che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone.[4]
Nel caso che occupa, la situazione è inversa, ma, per così dire, parallela. Ma dove sono la previa verifica e la idonea motivazione? La prima manca del suo oggetto vale a dire le dichiarazioni (in dibattimento) della presunta vittima dell’abuso; la seconda è meramente apparente.
4. Il reclamo
Contro la decisione di primo grado ha proposto reclamo, tramite il Difensore, il maestro Numerio Negidio, deducendo, innanzitutto, la intrinseca contraddittorietà della motivazione, atteso che, riguardo al primo episodio, egli si è visto prosciogliere senza alcuna giustificazione motivazionale. Ciò è stato ritenuto - nel reclamo - particolarmente rilevante in quanto le fonti di accusa sono le medesime che hanno convinto i giudicanti della colpevolezza del maestro in ordine al secondo episodio. Dunque sarebbe stato necessario che il tribunale avesse chiarito perché in un caso “alcuni testimoni” sono stati, evidentemente, giudicati poco credibili e, nell’altro, perché le dichiarazioni provenienti dalle medesime persone, pur contraddette da altre, sono state poste alla base della decisione che ha ritenuto fondato l’addebito.
Quanto alla sanzione si faceva notare che la “sospensione” era sanzione inesistente, che la tardiva “correzione” del dispositivo era irrituale e che, conseguentemente, in danno di Numerio Negidio nulla era stato correttamente deciso.
Peraltro, sotto il profilo che in questa sede maggiormente interessa, la Difesa del reclamante aveva scritto che le espressioni utilizzate dal tribunale per descrivere le (presunte) condizioni psicologiche della giovane atleta sottendono “quello che la scienza medica qualifica come disturbo post traumatico da stress, individuato qui dal Tribunale nella sua forma più grave che è la negazione dell’evento. E tuttavia, si tratta di un accertamento che può essere condotto soltanto da psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili o altre figure professionali appartenenti dell’area sanitaria autorizzate a formulare diagnosi clinica. Concludendo sul punto che, “in assenza di diagnosi proveniente da soggetto abilitato, al giudicante era, ed è, precluso formulare affermazioni gravi quale quella contenuta nella decisione reclamata”.
In altre parole: su quali basi e con quali competenze, voi giudicanti (il collegio era composto da tre avvocati) avete - di fatto - emesso una diagnosi di disturbo postraumatico a carico della giovane schermitrice, cui è seguita la decisone di non ammetterla a testimoniare sulla vicenda che direttamente la riguardava? Il tutto senza averla nemmeno vista.
Naturalmente è stata formulata richiesta istruttoria di ascoltare – finalmente – la presunta vittima.
Di fronte ad una richiesta così stringente, precisa e determinante ci si sarebbe aspettati una risposta puntuale, dettagliata, compiutamente argomentata e una coerente decisione di ammettere finalmente la signorina Ageria a fornire la sua versione dei fatti.
E invece.
5. La decisone in secondo grado, ovvero diabolica perseveratio.
La corte di appello federale ha solo in parte accolto il reclamo del maestro di scherma. Ha innanzitutto sostenuto che avere (il tribunale) utilizzato l’espressione “sospensione” invece di “squalifica” è stato un mero errore materiale e che, da un punto di vista sostanziale, la squalifica comporta una sospensione. Dunque si poteva, sul punto, annullare e “correggere” la decisione di primo grado (il giudice sportivo può farlo). Per altro, la corte ha rimodulato in melius la sanzione (100 giorni di squalifica, invece di 130).
Ma sul punto relativo alle presunte competenze psichiatrico-psicologiche dei giudicanti di primo grado, la corte è stata quanto mai evasiva, sostenendo, come si può leggere nella decisone che si annota: “questo collegio ritiene di dover riesaminare le risultanze istruttorie, che appaiono già idonee e tali da offrire una ricostruzione completa delle vicende che sono oggetto del procedimento in corso, senza accogliere l’istanza istruttoria del reclamante di rinnovare l’audizione della minorenne atleta ….”.
Ora, a parte il fatto che “rinnovare l’audizione” appare espressione del tutto impropria, in quanto Ageria, come si è ampiamente premesso, non è mai stata “audita” nella fase del giudizio, resta il fatto che, con una giustificazione motivazionale, più che apparente, inesistente, i giudici di secondo grado hanno eluso quella che era la principale censura formulata dal reclamante, avallando, in tal modo, il grave cortocircuito logico che aveva afflitto la prima decisione.
Al proposito è agevole ribadire che il procedimento disciplinare sportivo presenta evidenti analogie col processo penale; e allora, forse, non è del tutto fuori luogo “una incursione” chiarificatrice nel codice di rito penale, il cui art. 603 prevede - come è noto - che, quando l’appellante richiede l’assunzione di nuove prove, il giudice, se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, dispone la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.[5] Nel caso di specie, infatti come ormai detto e ripetuto, la “nuova” prova invano richiesta era nientemeno che l’esame della presunta persona offesa, pretestuosamente omesso dal primo giudicante.
In un procedimento “normale” (civile o penale) nessun giudice avrebbe osato fare a meno di tale audizione, tanto che l’eventuale mancanza costituirebbe valido motivo di ricorso per cassazione (art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., art. 606 comma 1 lett. d c.p.p.). Ma nel procedimento disciplinare sportivo – a quanto pare – tutto è possibile, anche “l’invenzione”[6] di criteri di valutazione della prova (rectius: di esclusione di una prova per non valutarla).
Orbene, le domande (retoriche) che poniamo per l’ennesima volta (il lettore ci scuserà) sono: è mai possibile che il giudice decida di non esaminare la presunta persona offesa? È mai possibile che ciò faccia in presenza di versioni contraddittorie provenienti dagli altri testi? E - principalmente - è mai possibile che il giudice si arroghi la competenza ad emettere una diagnosi psicologica, per altro senza aver avuto alcun contatto con la persona nei cui confronti emette la diagnosi?
A queste domande la corte di appello federale non fornisce alcuna risposta, in questo sottraendosi a un suo preciso dovere, in quanto il giudicante dovrebbe indicare le emergenze procedimentali determinanti per la formazione del proprio convincimento, così da consentire l'individuazione dell'iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata.[7]). E, se pure non è necessaria l'esplicita confutazione delle specifiche tesi difensive disattese, è tuttavia richiesta una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione implicita delle stesse, senza lasciare spazio a una valida alternativa. Il fatto è, tuttavia, che, come ampiamente premesso, l’impugnante aveva lamentato nientemeno che l’omessa audizione delle presunta persona offesa, audizione che i giudici (di primo e secondo grado) hanno ritenuto inutile (e, forse, potenzialmente inquinante) perché avevano “deciso” che la stessa non era (né sarebbe stata) credibile.
Il che, è il caso di dire, ha dell’incredibile!
In sintesi i giudici di appello, secondo quanto si deduce dal testo stesso della loro decisone, hanno qualificato come corretta la motivazione del primo giudicante pur in presenza di non trascurabili divergenze tra diverse narrazioni, senza ritenere necessaria (rectius: indispensabile!) l’audizione della principale “spettatrice” (e presunta vittima minorenne) delle malefatte addebitate al maestro Negidio, ipotizzando (ma su quali basi? e in virtù di quale competenza tecnico-scientifica?) la presenza di fattori distorsivi mnestici e/o emotivi che avrebbero inquinato la sua deposizione, se mai fosse stata assunta. Ma il tutto, si badi bene, semplicemente a seguito a un esame delle “carte”, senza aver avuto (neanche essi) alcun contatto diretto con la ragazza, oggetto delle presunte intemperanze del maestro di scherma.
Sembrerebbe allora il caso di invocare il principio dell’habeas corpus, non solo in vantaggio dell’accusato, ma anche nei confronti della vittima (o presunta tale).
Insomma: non siamo semplicemente in presenza di “sentenze sportive” (quella che si annota e quella che l’ha preceduta) criticabili (come tutte le sentenze): non si tratta solo di non condivisibili ricostruzioni dell’accaduto e nemmeno di discutibile applicazione di principi di diritto o di massime di esperienza. Si tratta, appunto e come anticipato, della invenzione di un nuovo (e stupefacente!) criterio di valutazione a-valutativa e del conseguente canone decisorio.
6. Considerazioni finali
Se Numerio Negidio, maestro di scherma, abbia effettivamente tenuto nei confronti della sua allieva la condotta descritta nel capo di incolpazione è questione che, almeno in questa sede, non rileva affatto.
Ciò che rileva e che ci ha spinto a commentare la decisione della corte di appello federale della FIS e, di riflesso, quella del relativo tribunale, è il principio di diritto che, non sappiamo quanto consapevolmente, viene affermato in relazione all’ascolto della persona offesa (o presunta tale) e in relazione alla sua capacità/possibilità di ricordare un presunto episodio psichicamente traumatico.
Trattandosi di decisione che potrebbe “fare giurisprudenza” (ma chi scrive si augura il contrario), proviamo a estrarre una massima che cristallizzi il principio di diritto elaborato dai giudicanti. In tal modo emergerà, con ancora maggiore evidenza, la natura davvero singolare della decisione assunta (e reiterata) dai giudici chiamati a decidere “un caso” tutt’altro che infrequente nella prassi giudiziaria: il contrasto tra diverse deposizioni testimoniali.
Ebbene “il principio di diritto” potrebbe essere il seguente:
“In tema di mezzi di prova, è corretta la valutazione negativa delle dichiarazioni che la persona offesa - se fosse ascoltata - potrebbe rendere, atteso che il giudice, pur senza aver avuto contatto alcuno con la stessa, può desumerne aliunde la inaffidabilità sulla base del disturbo cognitivo post traumatico subito dalla vittima, disturbo congetturalmente diagnosticabile dal giudicante stesso.”
Il medesimo concetto potrebbe essere espresso anche così:
“È corretta la decisione del giudice che, nel selezionare il materiale probatorio sul quale fondare la sua decisione, scelga di non ascoltare la persona offesa, sul presupposto che la stessa - in quanto vittima di disturbo cognitivo post traumatico, diagnosticato dal giudice stesso sulla base di una mera presunzione – affermerebbe il falso o comunque negherebbe il vero. (In motivazione si sostiene implicitamente la inutilità di un contatto diretto, quanto meno visivo, tra giudicante e persona offesa, attesa la presupposta inattendibilità delle dichiarazioni che la stessa potrebbe rendere).”
Ma nulla vieta di adottare, in alternativa la seguente formula:
In tema di prove, il giudice non è tenuto ad ascoltare la persona offesa, né ad avere con la stessa contatto alcuno, quando, sulla base di sua insindacabile opinione, ritenga aprioristicamente che essa, in quanto vittima di disturbo cognitivo postraumatico - non accertato da soggetto professionalmente qualificato, ma diagnosticato dallo stesso giudicante – negherebbe l’accaduto, contraddicendo quanto affermato da altre persone presenti ai fatti.”
Quale che sia la “massima” che si intende scegliere (si tratta di costrutti verbali diversi, ma che esprimono il medesimo concetto), appare di tutta evidenza che ci si trova di fronte ad asserzioni surreali, in quanto si è deciso di affermare la responsabilità dell’incolpato, non solo prescindendo dalla parola della presunta persona offesa, ma, addirittura, negando a quest’ultima il diritto di parola.
Dunque una decisione “a prescindere”, come avrebbe detto uno dei più grandi comici del secolo XX, nei cui confronti, evidentemente, i giudicanti sportivi non hanno voluto essere da meno. Tuttavia tale decisione non predispone al buon umore. Invero, si parva licet componere magnis, è inevitabile pensare che, come nel pessimistico capolavoro di Orwell[8] è presente la psicopolizia, così sembrerebbe che negli organi di giustizia della federazione italiana scherma si stia facendo strada la figura professionale degli psicogiudici.
[1] Si diventa, in Italia, maestri di scherma, conseguendo il relativo diploma presso l’Accademia Nazionale di Scherma, ente costituito nel 1861, cui, a far tempo dal 1880, in base al regio decreto datato 21.11.1880, fu assegnato il compito di esaminare e, appunto, diplomare gli aspiranti al conseguimento di tale titolo professionale. Si sono poi succeduti altri interventi dell’autorità statale che, anche previo parere del Consiglio di Stato, hanno sempre confermato tale prerogativa in capo all’Accademia. Da ultimo, nell'ambito delle iniziative volte a completare e rafforzare il mercato del lavoro interno, la direttiva 2013/55/UE, recepita nel d.lgs 15/2013, che, riformulando la direttiva 2005/36/CE recepita le d.lgs. 206/2007, ha introdotto numerose modifiche alla disciplina relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali nell'Unione. L’Italia, quale Stato membro dell’Unione Europea, in ottemperanza all’art.59 della direttiva da ultimo citata, ha trasmesso alla Commissione Europea il “Piano nazionale di riforma delle professioni” che prende in considerazione, appunto, le professioni regolamentate in Italia. Fra queste, è riportata quella di “maestro di scherma”. Si chiarisce al proposito che: “Per diventare maestro di scherma professionista, quale Maestro d’Armi di cui al d.lgs .C.P.S.n.708/1947, la normativa italiana prevede che il candidato, in possesso di un diploma di istruzione secondaria superiore, superi l’esame abilitativo presso l’Accademia Nazionale di Scherma di Napoli, al quale è possibile accedere dopo la frequenza con esito positivo di corsi di istruzione e formazione tecnica della durata di 10 semestri comprensivi di tirocinio non inferiore a 36 mesi, coerenti con le attività professionali connesse all’istruzione nella lotta e nel combattimento, con il controllo dell’uso delle armi bianche”. Sul punto in dottrina: CANGELLI F., Riflessioni sulla natura giuridica dell’Accademia Nazionale di Scherma di Napoli, in Diritto dello sport, 3/4/2010, p. 307 ss. e, sulle origini storiche dell’Ente: CUTOLO P., Esercito e milizie a Napoli nel passaggio all’unità d’Italia: la funzione dell’Accademia Nazionale di Scherma. Atti del convegno per i 150 anni dalla fondazione dell’Accademia Nazionale di Scherma, 4.5.2001, Napoli – Scuola Militare Nunziatella.
[2] E qui il riferimento alla giurisprudenza penale di legittimità [operato da chi scrive] “conduce” a Sez. III, 2341/2013, Sez. V, 23609/2018 e altre, così come interpretato, per altro, nella sentenza della Corte EDU nel proc. Drassich c. Italia.
[3] In particolare la madre della minore ebbe a dichiarare: “Mia figlia ha appena 14 anni e non consentirei mai che chiunque, anche il suo maestro, possa toccare anche con un dito, mia figlia e analogamente non tollererei atti di maleducazione nei suoi confronti … posso dire che sia sabato che domenica non ho notato atti violenti nei confronti di mia figlia, né lei mi ha riferito qualcosa ….Il sabato, subito dopo la gara, mia figlia ci ha raggiunto in tribuna, ove ero con altri genitori e poi è arrivato anche il maestro …. era molto contrariata perché era convinta di vincere quella gara … quando il maestro OMISSIS ci ha raggiunto in tribuna, insieme l’abbiamo consolata e incoraggiata a fare meglio l’indomani e in effetti la domenica, che era molto più distesa, ha vinto diversi incontri, classificandosi tredicesima che è un ottimo risultato, considerato che gareggiava in una categoria superiore”.
[4] Cass. Sezioni unite, sent. 41461 del 19/7/2012, dep. 24/10/2012 e, da ultimo, Cass. sez. III, sent. 3239 del 4/10/22, dep. 25/1/2023.
[5] In realtà la giurisprudenza si occupa della mancata rinnovazione di prova dichiarativa – cfr., da ultimo, Sezioni unite 11586/2021 – ma mai ha avuto occasione di intervenire, per quanto a nostra conoscenza, sulla mancata audizione della persona offesa.
[6] “Invenzione”, come si sa, è una parola polisensa. Intesa in senso etimologico, è espressione con la quale si vuol significare il ritrovamento, anche casuale, di qualcosa che già esiste (es., nel linguaggio giuridico, la res inventa in litore maris o, in quello liturgico, la celebrazione della “Invenzione della Croce”, che cade il 3 maggio). Nel significato corrente, invece, invenzione sta a indicare “un progetto risolutivo originale nell’ambito di una funzionalità determinata” (Devoto-Oli, Vocabolario illustrato della lingua italiana). Gli esempi sono infiniti: invenzione della ruota, della scrittura, del fucile ad ago prussiano, del telegrafo, del personal computer ecc. Ma sta a significare anche “un suggerimento dell’immaginazione”, ovvero “l’individuazione e definizione degli elementi fantastici che costituiscono la trama di un’opera d’arte” (ibidem). E dunque: invenzione di una storia, di personaggi teatrali o cinematografici, di un mondo fantastico e parallelo, fino, ad esempio, al fantacalcio: invenzione di una squadra di football composta dai migliori giocatori di tutto il mondo. La fantasia, si sa, è libera fino al paradosso. E allora perché non anche la fantagiustizia (e magari il fantadiritto)? Invenzione ex nihilo di regole di giudizio e criteri di decisione che non troverebbero (e non hanno trovato) ospitalità in alcun ordinamento giuridico. L’invenzione del diritto, dunque, ma non come l’ha intesa Paolo Grossi (Laterza 2017), ma come libera creazione delle menti dei giudicanti, svincolati da regole pre-date e autofacultati ad inventarle.
[7] Tra le tante, la risalente Sezioni unite 6402/1997 e poi fino a Sez. I, 45331/2023.
[8] Ci riferiamo ovviamente a “1984”, scritto nel 1949.
Immagine: Dirck Volckertsz Coornhert after Maarten van Heemskerck, Two Fencers, from Fencers, plate 5, 1552, incisione, The Elisha Whittelsey Collection, The Elisha Whittelsey Fund, 1949, Metropolitan Museum of Art, New York.