ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’estinzione del reato per prescrizione e il regime delle impugnazioni in grado di appello.
Paolo Carfì
Ho seguito con interesse in questo periodo il dibattito che è seguito alla proposta di rivedere , per l’ ennesima volta negli ultimi 13 anni, l’ istituto della prescrizione stabilendo la definitiva interruzione al momento della pronuncia della sentenza di I° grado . Alla fine sono giunto alla conclusione che così come si è dipanato – cioè isolatamente considerato - è un tema che non mi appassiona più di tanto. Cerco di spiegarmi. Partirei da una affermazione che a me sembrava e sembra scontata : la tematica della prescrizione del reato non ha nulla a che vedere con il principio costituzionale della “ ragionevole durata del processo “ il cui conseguimento la nostra Costituzione con l’ art. 111 ha affidato alla legge ( “ la legge ne assicura la ragionevole durata “) . Se , come da qualcuno anche tra i colleghi magistrati , è stato osservato che la nuova riforma si pone in contrasto con il principio costituzionale (cosa che non mi vede d’ accordo) allora mi chiedo perché questa osservazione non sia stata fatta in precedenza visto che nel nostro attuale sistema proliferano , dopo che si è messo progressivamente riparo agli effetti nefasti della legge ex Cirielli , moltissime ipotesi di prescrizioni sospese non in eterno ma comunque molto vicine all’ eternità secondo i parametri umani .
1. Dal 2005 ad oggi si sono succedute infatti un numero spropositato di modifiche legislative: nel 2005 la famosa legge ex Cirielli accompagnata da una norma transitoria studiata non per dare attuazione al principio della ragionevole durata “ del processo “ bensì per abbreviare i termini di “ due o tre processi “ allora in corso . L’ intervento dell’ allora Presidente della Repubblica portò attraverso la norma transitoria alla attenuazione degli effetti ma le conseguenze furono comunque nefaste per l’ intero sistema. Basti pensar che con la ex Cirielli i termini di prescrizione per la grande maggioranza dei delitti , a partire da quelli contro la PA ma non solo , fu abbattuta , non trovo altro termine , da 15 a soli 7 anni e mezzo . Poi ci si è resi evidentemente conto che oltre alla corruzione a prescrizione certa erano avviati anche una serie di delitti di grande impatto sociale e mediatico e allora nel 2008 si sono raddoppiati i termini per le più gravi ipotesi di omicidio colposo stradale o in violazione delle norme antinfortunistiche sul lavoro . E più di recente sono stati raddoppiati anche i termini della corruzione.
Sull’ onda dell’ incremento dei reati di maltrattamenti in famiglia e di abuso sessuale nel 2012 la prescrizione è stata raddoppiata per questi delitti nonché per quelli di cui all’ art. 51 co. 3 bis e quater.
Successivamente sono stati raddoppiati anche i termini per i reati di corruzione (in realtà più che raddoppiati se si pone mente all’ aumento della pena edittale massima) e infine nel 2017 la cd riforma Orlando ha introdotto due nuove ipotesi di sospensione che decorrono dalla emissione della sentenza di I° grado e di quella di II° grado , sospensione che complessivamente può arrivare a 3 anni e che si cumula al termine interrotto.
Non solo : sempre nel 2017 la riforma Orlando ha previsto , al nuovo art. 159 cp , che la prescrizione decorre dal compimento del 18° anno di età delle vittime dei reati di cui agli artt 572 , quelli in tema di pedopornografia , 609 ter , 612 bis salvo che l’ azione penale sia stata esercitata precedentemente nel qual caso il termine di prescrizione decorre dalla acquisizione della notizia di reato . Il che mi fa pensare che estendere questa ultima soluzione a tutta una serie di reati il cui momento consumativo quasi mai coincide con quello della emersione giudiziaria (non solo i reati contro PA ma anche ad esempio molti reati in materia ambientale) potrebbe presentarsi come più utile rispetto ad una sospensione “ definitiva “ della prescrizione.
Vero che gli effetti della riforma Orlando non sono ancora noti essendo la nuova normativa applicabile ai soli reati commessi a partire dal 4 Agosto 2017. Ma non ci vuole molto, a mio avviso, per immaginarli.
Basta qualche esempio :
il reato di maltrattamenti ( art. 572 cp ) si prescrive nella più breve delle ipotesi in 15anni per i fatti ante riforma Orlando , ( 12 anni di prescrizione base + 1/ 4 per la interruzione. ) Ma se l’ imputato è recidivo non dico reiterato ma anche solo specifico il termine di scadenza sale a 22 anni e 6 mesi che diventeranno 25 anni e 6 mesi a seguito della riforma Orlando per i fatti commessi dopo la data del 4 agosto 2017 e forse anche di più se la vittima è un minorenne; Una violenza sessuale commessa dopo il 2012 , senza aggravanti ad effetto speciale o recidiva qualificata si prescrive in 25 anni , per i fatti ricadenti sotto la riforma Orlando in 28 anni anni ; se poi commessa a danno di minore ex art. 609 ter u.c. cp ( infradecenne ) si prescrive in 32 anni , con la riforma Orlando in 35 ma decorrenti da quando il minore ha compiuto 18 anni o da quando è stata acquisita la notitia criminis .
Per rimanere un po’ più vicini alla durata media della carriera di un magistrato un furto pluriaggravato commesso da un non recidivo – un furto di una autovettura sulla pubblica via per intenderci - si prescrive con la riforma Orlando in non meno di 15 anni e 6 mesi . Tutti gli altri delitti puniti con pena non superiore ai 6 anni con la riforma Orlando si prescrivono in non meno di 10 anni e 6 mesi (7 anni e mezzo + 3 anni di sospensioni ) e tutte le contravvenzioni in non meno di 8 anni.
Il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione si prescrive in 60 anni solo per il disposto dell’ art. 157 co. 6 (non ho fatto ulteriori calcoli).
Insomma io penso che la proposta di fermare la prescrizione alla data della sentenza di I° grado , al di là della sua natura di “ spot “ svincolato da una qualsiasi disegno di complessiva riforma del sistema , può avere al più il merito di rendere l’ istituto più leggibile e meno caotico, sia pur nell’ arco di diversi anni trattandosi di istituto di diritto sostanziale. Ma penso anche che se oggi come oggi siamo ancora qui a parlare di riforma della prescrizione ( ma in realtà soprattutto di “ non ragionevole durata del processo “ , perché cosa può esserci di ragionevole in un processo che si chiude , pur nel rispetto dei termini di prescrizione , in una ventina o in trentina di anni dai fatti ) , il problema non sta nel ritornello del “ lassismo dei magistrati o delle strumentali manovre delle difese “ , che l’ uno e l’ altro esistono ma in misura del tutto fisiologica e non patologica ; bensì in una elefantiasi processuale che il sistema non è in grado di sostenere.
2. Certamente un buona organizzazione del lavoro da parte di noi magistrati – parlo per quanto mi compete del settore giudicante ovviamente – in uno con una accettabile , anche se mai completa , dotazione organica del personale di magistratura e di quello amministrativo può aiutare a salvaguardare in modo almeno dignitoso il binomio “ effettività del processo/ diritto delle parti ad una ragionevole durata“. A Milano , limitando le mie considerazioni all’ ufficio della Corte di Appello della quale faccio parte , ci siamo in qualche modo riusciti sia pur con grandissimi sacrifici personali non facilmente reiterabili nel tempo , se è vero che a fronte di una stabile sopravvenienza annuale, le pendenze sono scese dalle oltre 17.000 del 2011 alle attuali scarse 8000 con un decremento dunque di oltre il 50% . Contestualmente è grandemente diminuita la declaratoria di NDP per prescrizione che si attesta su percentuali di molto inferiori alla media nazionale e questo grazie
- ad un attento controllo sui tempi di trasmissione dei fascicoli dalle sedi periferiche alla Corte. E’ noto infatti come i “ tempi morti “ incidano pesantemente su quelli strettamente processuali. L’ attività di controllo esercitata dal Consiglio Giudiziario e la collaborazione negli anni passati tra la Presidenza della Corte e i dirigenti degli uffici del distretto ha consentito di ridurli grandemente ;
- alla predisposizione di criteri automatici di attribuzione alle diverse sezioni e conseguentemente alla celere trasmissione da parte della Cancelleria Centrale della Corte alle sezioni competenti per materia ;
- allo spoglio settimanale delle nuove sopravvenienze da parte dei Presidenti di Sezione o di loro delegati . Il che permette di individuare da subito i processi a rischio di prescrizione e dunque di fissarli tempestivamente oltre che , in generale , di procedere ad una oculata programmazione del lavoro . Il che ci consente di dire che degli 8.000 processi attualmente pendenti presso la Corte di Appello di Milano solamente l’ 1% sono pervenuti nel 2015 , il 9% sono pervenuti nel 2016 , il 32 % nel 2017 e il 57% quest’ anno. Rimane un 1% di processi pervenuti prima del 2015 ma si tratta esclusivamente si processi sospesi ex art. 420 ter cpp per irreperibilità dell’ imputato . Il che vuol dire in conclusione che i tempi medi di smaltimento dal momento del pervenimento in Corte del fascicolo sono inferiori ai 2 anni e sono in continuo calo.
E se l’ organico dei magistrati dovesse continuare ad essere adeguatamente coperto , quello del personale amministrativo incrementato e magari qualche aspetto processuale rivisto , questo trend che garantisce non solo quantità ma anche qualità delle decisioni , potrebbe essere anche ulteriormente migliorato.
3. Il che mi permette di passare al tema che riguarda le misure che a mio parere dovrebbero non seguire ma accompagnare la nuova riforma della prescrizione E cominciamo dalle risorse umane perché la realtà giudiziaria italiana è come noto assai variegata.
Parlo di risorse umane , sia del personale di magistratura che di quello amministrativo , perché al di là del “ processo penale telematico “ che chissà se e quando sarà mai introdotto , per far funzionare la macchina ci vogliono pur sempre uomini . Ma di questo si parla sempre molto poco e solo di recente per il personale amministrativo si è fatto qualcosa , ma ancora non sufficiente .
Ho letto poco tempo fa un messaggio di un collega di Venezia , Presidente di sezione penale della Corte, persona seria ed affidabile : 5870 fascicoli pendenti , 1 Presidente e 5 magistrati ; in cancelleria un funzionario applicato dal 1° grado, 1 assistente , una operatrice esterna , un ex cancelliere volontario che cura le prescrizioni predibattimentali. Credo di non dover fare commenti se non ricordare un dato complessivo che rimane ormai costante dal 2004 .
La legge prevede per il personale di magistratura un organico di 10.151 unità. Dall’ ultimo dato riportato sul sito del CSM i posti vacanti ammontano però a ben 1130 , ovvero ad una percentuale media che supera l’ 11% . Un dato pressoché costante dal 2004 allorquando dopo che l’ allora Ministro Castelli ebbe a sostenere che i magistrati erano troppi e lavoravano poco , i concorsi vennero bloccati per ben 3 anni , fino al 2007. Siccome ogni anno la media di assunzioni è di circa 300 , 320 unità , i conti sono presto fatti . Come in passato il Ministero dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di indire per due o tre anni due concorsi l’ anno per provare a ripianare, anche solo parzialmente , una scopertura di organico che non può non incidere proprio sul principio della “ ragionevole durata del processo “ .
Quanto al personale amministrativo alle scoperture di organico ha finalmente cominciato a far fronte il precedente governo ,anche se ancora solo parzialmente , e speriamo che si proceda su questa strada senza dimenticare che se non sbaglio nel 2006 alle scoperture di organico di questo fondamentale settore ( da cui dipendono ad esempio i tempi di trasmissione dei fascicoli da un grado all’ altro ) si fece fronte semplicemente diminuendo l’ organico per legge , con conseguenze che si avvertono ancora oggi.
4. Venendo al sistema delle impugnazioni e in particolare al grado di appello. Mi rendo conto ormai , dopo 35 anni di carriera , che in Italia non si riuscirà mai non dico a superare ma forse neppure a semplicemente contenere il principio “ non costituzionale “ della possibilità da parte dell’ imputato di appellare le sentenze penali senza alcun limite e senza alcuna conseguenza anche in caso di palese pretestuosità dell’ impugnazione . Però almeno si potrebbe pensare a binari diversi a seconda della tipologia di reati e dei motivi di appello.
Per esempio :
- l’ art. 599 cpp indica i casi in cui è possibile che l’ appello sia trattato con la procedura in CdiC ex art. 127 cpp ovvero quando i motivi riguardano solamente “ specie e misura della pena , comparazione fra circostanze, applicazione delle attenuanti generiche , sanzioni sostitutive , benefici di legge “ . Si tratta di un numero assai consistente di appelli ai quali se ne potrebbero anche aggiungere sicuramente altri . Devo dire che non ci si ricorre e non ci si ricorrerà praticamente mai ma per un motivo per me molto semplice : perché nel grado di appello quasi nulla cambia tra la fissazione “ di una camera di consiglio ex art. 127 cpp” e la trattazione in una normale udienza pubblica : le parti vanno citate , hanno il diritto di presenziare all’ udienza camerale, se sussiste un legittimo impedimento la CdiC va rinviata, la presenza dell’ assistente di udienza è necessaria . In sostanza quello che capita in una normale udienza pubblica. Mi chiedo se non si possa fare , in casi come questi ove non si discute della responsabilità dell’ imputato , un ulteriore passo in avanti ovvero prevedere la trattazione in CDiC ma senza le forma del 127 cpp come capita ad esempio per le istanze de libertate : parere scritto del PG e un semplice avviso via Pec al difensore che quel giorno verrà trattata la sua impugnazione in CdiC con la possibilità di presentare entro un certo termine una memoria scritta integrativa dell’ atto di appello. Un procedimento camerale solo cartaceo dunque , senza partecipazione fisica delle parti , dove senza alcuna violazione del diritto di difesa si potrebbe concentrare un consistente numero di questi appelli e che , non necessitando della presenza del cancelliere , ben potrebbero essere trattati con udienze bis – e dunque con incremento delle definizioni complessive e accelerazione dei tempi - con conseguente alleggerimento delle udienze pubbliche riservate a quei procedimenti ove i motivi di appello riguardano la responsabilità dell’ imputato o comunque questioni di rilievo.
- Mi chiedo ancora se una procedura di appello solo camerale e solo cartacea non possa essere prevista per la maggior parte delle contravvenzioni che sono quelle maggiormente colpite dalla prescrizione . , al limite con qualche eccezione per quelle che riguardano complesse competenze specialistiche . Davvero pensiamo che in un sistema costituzionale che prevede per tutte le sentenze la sola possibilità del ricorso in Cassazione , sarebbe un vulnus ai diritti e alle garanzie difensive che un processo per guida in stato di ebrezza magari con tasso alcolemico pari a 0,81 , ovvero di uno 0,1 superiore alla soglia di non rilevanza penale , debba essere trattato con la stessa identica procedura di un processo per mafia o per terrorismo ?
-E ancora : in un sistema che prevede senza limite alcuno tre gradi di giudizio per qualunque ipotesi di reato ( quattro se ci aggiungiamo l’ udienza preliminare ) , perché non pensare ad una competenza monocratica anche per la Corte di Appello per le fattispecie più semplici impegnando il Collegio in ciò per cui veramente ne vale la pena ? Ne guadagnerebbero i tempi e soprattutto la qualità delle decisioni , tema questo della qualità che , sotto il peso insopportabile dei numeri, sembra essere un po’ caduto nel dimenticatoio . Naturalmente questo comporterebbe quanto meno nell’ immediato un adeguamento del personale amministrativo e in prospettiva un vero potenziamento del processo penale telematico , oggi ben al di là dal venire.
- Ancora mi chiedo se non sia possibile rivedere la procedura del concordato in appello ex art. 599 bis cpp e 602 co. 1 bis cpp : nella mia personale esperienza il ricorso al concordato prima della udienza è modestissimo anche se questo consentirebbe la definizione in camera di consiglio e senza le forme del 127 cpp ( visto che in tal caso la norma non le richiama ) . Si aspetta regolarmente la citazione a giudizio – e del resto se fossi io il difensore farei lo stesso consentendomelo il codice - e la proposta viene praticamente sempre fatta in udienza ex art. 602 co. 1 bis cpp o se tutto va bene il giorno prima. Con un notevole dispendio di energie non solo da parte del relatore e degli altri componenti la Corte ma anche da parte della cancelleria , l’ inutile inserimento in ruolo di procedimenti che potevano essere decisi fuori udienza e che dunque prendono il posto di altri che avrebbero potuto essere utilmente fissati al loro posto . La realtà è che non c’è alcun interesse da parte della difesa e da parte dell’ imputato ad accedere al concordato prima della fissazione dell’ udienza che certamente comporta una accelerazione del procedimento e una ovvia riduzione dei motivi di ricorso in Cassazione . E allora mi dico che forse l’ istituto avrebbe maggior successo e anche un effetto realmente deflattivo ed acceleratorio se si stabilisse un termine di decadenza oltre il quale la richiesta non può più essere avanzata. Non so , entro un termine dalla trasmissione degli atti alla Corte di Appello o anche , se si vuole essere più garantisti , entro sette giorni dalla notifica del decreto che dispone il giudizio , un termine che consentirebbe in caso di accoglimento la revoca della citazione , che normalmente viene effettuata due o tre mesi prima , e dunque l’ inserimento di altri processi in quella udienza .
- inoltre sempre con riferimento al 599 bis trovo priva di una logica spiegazione l’ esclusione dalla possibilità di concordato in appello di una serie di delitti certamente odiosi ma peraltro puniti con pene anche meno pesanti di altri per i quali invece il concordato in appello è ammesso . Mi riferisco ai delitti di abuso sessuale di cui agli art. 609 bis , ter ed octies che coprono, come ben sanno tutti coloro che , magistrati e avvocati , trattano questa materia , una infinita varietà di condotte , dalle più gravi ed odiose ad altre sicuramente infinitamente meno gravi . Si va dagli abusi sessuali più odiosi nei confronti di bambini ad un semplice bacio sulle labbra o al fugace palpeggiamento strappati con repentinità , dalle violenze di gruppo al’ atto lascivo della classica mano morta . Il legislatore , senza alcuna distinzione o eccezione neppure per i fatti qualificabili di “ minor gravità “ ai sensi dell’ ult. co. dell’ art. 609 bis , ha escluso in qualunque caso la possibilità di ricorrere al concordato in appello che è invece consentito , se non vado errato , in casi di forse anche maggior gravità come ad esempio le più efferate rapine aggravate , con armi e magari con annessi ferimenti o uccisioni. Si può concordare la pena per un omicidio e non per un palpeggiamento per quando odioso sia. Questa limitazione comporta un ennesimo appesantimento del giudizio di appello che già risente della necessaria rinnovazione istruttoria ex art. 603 co. 3 bis cpp che maggiormente riguarda proprio la stessa categoria di delitti.
- Da ultimo non voglio affrontare la tematica della “ revisione del divieto di reformatio in peius“. Si tratta di un tema di grande complessità che alle volte viene approcciato più sul piano emotivo che su quello strettamente giuridico e di sistema. Dico solo però che per come è congegnato oggi il giudizio di appello , compresa l’ autocertificazione dei redditi per il gratuito patrocinio senza possibilità alcuna di seri controlli , non c’è ragione alcuna per cui ogni sentenza di I° grado , anche la più inattaccabile , non venga appellata . Ancor più oggi che accanto al divieto di reformatio in peius si è ritenuto di dover limitare ex art. 593 cpp ( Dlvo 6.2.2018 nr. 11 ) il potere del PM di appellare le sentenze di condanna solo quando “ modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato” . Con conseguenze tra l’ altro singolari : se il giudice di I° grado sbaglia ( e ogni tanto capita ) e irroga una pena detentiva sotto il limite edittale minimo nessuno potrà porvi rimedio visto che il PM non può impugnare ( non trattandosi di pena di specie diversa bensì della stessa specie ma errata ) e la Corte non può riformare in peius. O ancora se il giudice di I° grado , nella sua discrezionalità e sensibilità ritiene che un abuso sessuale ripetuto nel tempo a danno di una bambina di 7 od 8 anni sia meritevole della concessione dell’ attenuante di cui all’ ult. co. dell’ art. 609 bis cp prevalente sull’ aggravante speciale dell’ art. 609 ter cp , il PM non potrà impugnare questo punto della sentenza perché il giudice non ha escluso l’ aggravante speciale ma solamente ritenuto prevalente l’ attenuante con l’ irrogazione magari di una pena quasi irrisoria . Mi domando : quale è la ratio di una così marcata limitazione dei poteri di impugnazione del PM , se non quello di rendere sempre più conveniente impugnare da parte dell’ imputato qualsiasi sentenza.
Concludo : qualsiasi riforma che razionalizzi l’ istituto della prescrizione riportandolo alla sua originaria funzione e sottraendolo a sempre possibili usi strumentali , va benissimo . Ma se manca un sentire comune tra gli operatori del diritto ed una vera e precisa volontà da parte del potere legislativo ( che da molto tempo manca a mio parere ) , di razionalizzare un sistema processuale a dir poco farraginoso , alle volte quasi contorto e di ben difficile gestione , ci ritroveremo tra qualche anno a discutere in che modo , a fronte della prescrizione interrotta o sospesa ( non è tanto chiaro… ) a tempo indeterminato con la sentenza di I° grado , si debba e possa porre fine “ in tempi ragionevoli “ a processi pendenti per un tempo indefinito .
(Le parole bugiarde e la democrazia)
Quasi cento anni fa nasceva a Canicattì l’Accademia del Parnaso. Quando fu deciso di inserire nello stemma un leone, si pose il problema di come realizzarlo, poiché, non essendoci ad Agrigento uno zincografo, ci si sarebbe dovuti recare a Palermo e, soprattutto, si sarebbero dovuti improntare denari. Il problema fu risolto con disinvoltura: poiché tra i vecchi cliché c'era un cane, lo si utilizzò come emblema, apponendo l'avvertenza: «Questo cane è un leone, a norma del decreto n. 34256 del 2 luglio 1925».
A distanza di un secolo, il circolo goliardico canicattinese torna quasi ogni giorno alla mente per l’incessante creatività con cui la politica ci ripropone l’arguto artificio: questo condono è una pace fiscale; questa licenza di uccidere il malintenzionato violatore di domicilio è una legittima difesa; questo drammatico cercare di sopravvivere è una pacchia; queste odissee di dolore e di morte sono crociere; questa incostituzionale immodificabilità della carcerazione è la certezza della pena; questo criminogeno e discriminatorio provvedimento è un decreto sicurezza.
Beninteso, da sempre la politica fa affidamento su una sorta di prestidigitazione verbale per conquistare o per non perdere consensi. Una volta ci si affidava ad un certo esoterismo linguistico che teneva lontano il volgo, non in grado di comprendere “la convergenza delle parallele”. Poi è arrivato il tempo dell’edonismo disinvolto e della corruzione nascosta sotto il tappeto di un garantismo peloso. Poi il tempo delle magnifiche sorti e progressive: i problemi non c’erano e, se c’erano, erano tutti in via di provvidenziale risoluzione. Poi questo tempo d’oggi, in cui di fronte ad ogni problema si individua un capro espiatorio e si ostenta una muscolarità repressiva.
Interpellato su quale sarebbe stata la riforma prioritaria qualora fosse stato nominato Primo ministro, il saggio cinese disse che avrebbe messo i nomi giusti alle cose: il più efficace antidoto contro la mistificazione politica e la necessaria premessa affinché il popolo abbia una reale possibilità di scelta. Naturalmente, sta anche a noi cittadini saper “battere – come insegnava Salvemini – con le nocche sull’intonaco delle parole per sentire quel che c’è dietro: il gesso, la pietra viva o il vuoto”. Ma proprio in ciò risiede la pericolosità della stagione presente, in cui si saldano due preoccupanti contingenze. Da un lato, la desertificazione culturale di quest’ultimo quarto di secolo ci ha privato degli strumenti per smascherare slogan e mistificazioni. Dall’altro, l’attuale retorica politica, a differenza delle precedenti, di cui alla lunga finivano per pagare il conto gli stessi imbonitori, sta deteriorando in maniera profonda la società – sempre più divisa, diffidente e ringhiosa – e il nostro Stato di diritto.
Non vorremmo sentirci spiegare in un giorno non lontano: questo nostro sistema illiberale e autoritario è una democrazia.
(dal quotidiano” Il dubbio” del 4.12.2018)
Glauco Giostra
di Gianni Caria edito da Bibliotheka
“Un romanzo sulla gloria pubblica e sulla miseria privata, sulla passione politica che rende tutto immobile se non si alimenta. Per la prima volta nella storia d’Italia a ricoprire la più alta carica dello Stato è una donna, Anita Bertoli. Colpita da un grave malessere viene ricoverata in ospedale. Da quel momento il Paese si paralizza: senza la sua approvazione, il Governo non può operare, e le cariche dello Stato, per tornaconto o ignavia, non fanno niente per risolvere lo stallo creatosi. Alla sua vita (il difficile rapporto con il padre, partigiano e politico influente; la madre Kate, l’Americana; l’intenso rapporto con Aldo, vecchio collaboratore di Bertoli) si intreccia quella di un corazziere incaricato di vegliarla durante la degenza. Un romanzo politico che interseca pubblico e privato, memorie personali e storia collettiva, che riesce a parlare dell’apatica stasi di un Paese, senza retorica e sensazionalismi ma quasi con rassegnato e mesto pudore. Gianni Caria dipinge con efficaci pennellate un’Italia meschina ed egoista, dove ogni mossa nello scacchiere politico è condotta sul filo di una sconcertante ambiguità.”
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Cap. 29 da p. 150 a p. 152
Il vecchio tavolo rettangolare della sala riunioni accoglie i resti del partito. Intorno volti rancorosi si contraggono a ogni insulto che proviene dall’esterno, attraverso l’imposta chiusa del balcone. Non c’è modo di ignorarli, non c’è modo di insonorizzarsi e aumentare la distanza fra la folla e i capi. Il segretario fa ruotare uno sguardo sospettoso. Sa che fuori vogliono la loro testa e pensa che possano accontentarsi della sua. Aspetta che qualcuno proponga di tagliarla.
Il presidente propone di inviare un comunicato stampa dove si spiega l’estraneità del partito alle iniziative illecite di un iscritto e si sottolinea comunque la strana coincidenza della vicinanza dell’incriminazione con le prossime elezioni politiche.
Aldo poggia la schiena ampia contro il muro freddo, è un armadio a muro, un armadio a scomparsa per la precisione, come aveva detto qualcuno una volta. È accanto a un vero armadio con le vetrine di legno antico; all’interno, immagini e reperti di altri tempi gloriosi. Aldo guarda Bertoli che si guarda le mani. Prima il dorso bruno, appena segnato da vene e tendini, poi i palmi, tenuti bene aperti. Sembra quasi che li studi, che cerchi risposte nei reticoli casuali delle linee. Aldo immagina ciò che Bertoli pensa: secondo tradizione c’è tutto in quelle linee, amore, vita, salute. Ma non c’è la linea della coerenza, non si intreccia con la linea della passione, non si interpreta con la linea della dignità. La risposta è assente alla domanda muta: gli intrecci della mia vita sono sufficienti a dimostrare la mia coerenza, a giustificare la mia passione, a rafforzare la mia dignità?
Il presidente parla ancora cercando conforto nei visi contratti degli altri. Solo Bertoli sembra non ascoltare, il volto sereno e concentrato, perso nella sua ricerca. Rigira le mani e tocca come una carezza i vecchi solchi nel legno del tavolo, macchie di inchiostro, segni di bicchiere, bruciature di sigarette. Segue ogni rilievo, ogni asperità, come se leggesse in braille la storia e le storie che in quel luogo e attorno a quel tavolo si sono dipanate.
Nessuno gli rivolge direttamente la parola, ogni tanto qualcuno gli butta di sbieco uno sguardo per capire che cosa passa nella testa di quell’uomo che pare rimpicciolirsi dentro ai suoi pensieri.
Poi Bertoli solleva la testa, e la sua è una voce ferma quando dice: “Dunque è così”. Non è una domanda, Aldo lo capisce subito, è una constatazione. Dunque è così che è andata, il fratello del ministro arrestato per tangenti, il ministro non ancora perché ha l’immunità parlamentare. Il ministro che è sempre stato il braccio operativo, in tutti i sensi, del segretario.
Dunque è così, volete far finta di scaricare su una sola persona ogni responsabilità per salvare sedia e didietro. Il viso di Bertoli vira in un’espressione di dolore trattenuto: che ho fatto, pensa, che ho fatto io per impedire tutto questo, qui sopra i ladri e là sotto l’indignazione. Dov’ero quando è successo tutto, eppure ero sempre qui, mi avevano anche detto che al prossimo giro sarei stato il candidato naturale per il Quirinale. La facciata pulita del palazzo cadente, la statua del santo portata in processione al momento buono, un segno della croce, un padrenostro e poi tutti di nuovo a fare i propri affari.
Bertoli tira indietro la sedia e si alza, ed è come se il suo corpo minuto si riespandesse, come se il suo sguardo che ora diventa lucido venisse scoccato da un’altezza superiore a quella sua naturale. In pochi passi va verso la finestra e la apre, poi apre la persiana. Il vociare della folla fa ingresso con prepotenza, seguito dalla luce livida del giorno. Si avvicina al balcone, lo stesso dei festeggiamenti dopo le elezioni, della vittoria al referendum per la Repubblica. Il balcone della gloria e dell’ideale, al secondo piano della sede del partito. Fuori la gente lo vede e a poco a poco arresta il suo vociare. Bertoli guarda giù e poi davanti a sé, dove hanno issato uno striscione con la scritta “Ladri”.
Aldo alle sue spalle lo osserva, leggermente curvo dentro la giacca grigia. Avrebbe l’istinto di avvicinarsi, di sostenere con la sua mole la violenza che Bertoli sta per farsi, ma sta fermo perché capisce che lui non vorrebbe. Bertoli inizia a parlare, senza microfono. Il silenzio è ora assoluto, tutti ascoltano, anche se sembra quasi che stia parlando solo a se stesso.
Abstract: La riflessione si incentra sulla funzione dell’autonomia negoziale nella gestione preventiva della crisi familiare. L'indagine non si limita agli aspetti patrimoniali della gestione della crisi, ma include anche gli elementi esistenziali dei componenti il nucleo familiare tipico o atipico. Il riferimento va alla capacità dell’autonomia negoziale di dar vita a contratti e/o accordi regolativi anche delle relazioni familiari atipiche quali ad esempio quelle tra genitore sociale e figli del coniuge, unito o convivente, alle altre persone e agli altri rapporti che hanno rilevanza giuridica e che, tuttavia, sono privi di tutela specifica nel momento della crisi familiare. L'obiettivo è dimostrare che l’autonomia negoziale, nella regolamentazione della crisi familiare, può svolgere una funzione di tutela anche sussidiaria e, talvolta, creativa rispetto alla legge di una disciplina per la protezione di interessi meritevoli. L'interpretazione scaturisce dalla lettura congiunta – e in prospettiva diacronica – degli artt. 160 e 161 c.c., delle norme di diritto internazionale nonché della normativa dell’U.E., che consentono alla coppia di scegliere la legge e gli strumenti di ordinamenti stranieri da applicare ai rapporti patrimoniali e nel contempo esistenziali della comunità di vita nel rispetto del limite dell’ordine pubblico.
Premessa
Un argomento che ha suscitato grande interesse nelle più recenti discussioni dottrinali in ambito civilistico e internazionalprivatistico è quello dei c.dd. «accordi preventivi sulla crisi», cioè i patti tra i nubendi o coniugi – o, più in generale, tra le parti di una comunità di vita[2] –, destinati a regolare l’eventuale futura crisi. È necessario oggi riflettere sull’ammissibilità e sulla vincolatività della regolamentazione negoziale in vista della crisi perché nel corso degli ultimi decenni è mutato il sistema giuridico di riferimento. Quest’ultimo, sotto il profilo diacronico, presenta da un lato interventi di semplificazione[3], e dall’altro un’integrazione con l’ordinamento dell’Unione Europea e con quello più ampio del Consiglio d’Europa. Occorre esaminare, quindi, il fondamento di tale negozialità valutando la meritevolezza degli interessi regolamentati convenzionalmente nel mutato contesto normativo, integrato e semplificato.
1. Analisi retrospettiva sugli accordi in vista della “crisi” tra i coniugi ed il limite tradizionalmente individuato nell’art. 160 c.c.
Nonostante il mutamento del quadro normativo e le aperture della dottrina, la Suprema Corte continua a ribadire l’orientamento restrittivo nei confronti degli accordi in vista del divorzio. Con la sentenza n. 2224 del 2017 (sez. I), il giudice di legittimità afferma che
gli accordi con i quali i coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico – patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio sono invalidi per illiceità della causa, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale, espresso dall’art. 160 cod. civ. Pertanto, di tali accordi non può tenersi conto non solo quando limitino o addirittura escludono il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto è necessario per soddisfare le esigenze della vita, ma anche quando soddisfino pienamente dette esigenze, per il rilievo che una preventiva pattuizione – specie se allettante e condizionata alla non opposizione al divorzio potrebbe determinare il consenso alla cessazione degli effetti civili del matrimonio[4].
A fondamento dell’interpretazione appena esposta, si è ritenuto che l’accordo preventivo produce l’effetto di condizionare il comportamento delle parti nel futuro giudizio di divorzio e di rendere disponibile anche lo status di coniuge, con violazione dell’art. 160 c.c.
L’esame della giurisprudenza mette quindi in luce i gravi inconvenienti cui dà origine la lettura dell’art. 160 c.c. in relazione ai patti sulla crisi. L’applicazione di quella norma, considerata prescrittiva, ad inderogabilità assoluta e totale, ha portato sia a qualificare come nulli per illiceità della causa gli accordi in vista del divorzio se perfezionati in patria da coniugi italiani, sia a considerare validi i medesimi patti in vista del divorzio perfezionati da cittadini stranieri residenti in Italia[5].
2. Accordi domestici ed accordi con elementi di estraneità nel quadro legislativo interno
La prima decisione della Suprema Corte nella quale si afferma compiutamente la nullità degli accordi “domestici” in vista del divorzio risale al 1981[6]. La pronuncia ha ad oggetto sia gli accordi sull’assegno divorzile spettante all’ex moglie sia quelli per il mantenimento dei figli minorenni affidati alla madre conclusi durante la separazione per il futuro divorzio. In deroga all’art. 9 della legge sul divorzio, i coniugi avevano previsto nell’accordo che «a nessuna revisione dell’assegno né per l’ex moglie, né per i figli a lei affidati si sarebbe potuto far luogo per tre anni». L’invalidità del regime economico era dettata dal contrasto con la previsione dell’art. 9 «in quanto il movente che li ha determinati appare legato al condizionamento del contegno processuale tra le parti». La Corte afferma che lo scioglimento del matrimonio non poteva dipendere dalla mera volontà delle parti, non esistendo all’epoca «un divorzio consensuale».
Come è noto, l'unico processo divorzile sino a quel momento previsto dalla legge era quello contenzioso e vigeva ancora l’istituto dell’opposizione al divorzio del coniuge «incolpevole»[7] (art. 3, n. 2 lett. b, l. div.). L’accordo preventivo sull’assegno divorzile poteva, quindi, vincolare il coniuge incolpevole a non far valere l’opposizione. La illiceità si faceva discendere dalla «funzione di prezzo o contopartita per il consenso al divorzio – anche per quanto attiene alla volontà stessa di divorziare»[8].
A distanza di pochi anni, nel 1984, la Cassazione ritorna sui medesimi accordi economici anteriori al divorzio[9]. Come nel precedente caso domestico del 1981, la questione della contrarietà all’ordine pubblico interno sollevata dall’ex marito riguarda le clausole dell’accordo relative alla misura dell’assegno per l’ex coniuge e per il figlio minorenne. Questa volta, però, si tratta di «convenzione familiare tra cittadini stranieri» soggetta alla disciplina di diritto internazionale privato (previgenti artt. 19 e 20 delle disp. prel. c.c.). Per il giudicante, l’accordo de quo, pur diretto «a regolare i diritti e doveri delle parti dopo lo scioglimento del matrimonio, non può ritenersi illecito quando la legge straniera ad essi applicabile (legge statunitense comune alle parti) preveda il divorzio e la validità di detti accordi». Quest’ultimo è un accordo di natura privatistica che “senza alcuna omologazione” è efficace nel territorio nazionale secondo l’ordine pubblico internazionale. Gli accordi in esame infatti non possono ritenersi illeciti quando la legge straniera applicabile e nel contesto storico-sociale-giuridico il divorzio non sia considerato «vulnus deprecabile e gli accordi non siano intesi come diretti a far deviare il giudizio divorzile dalla reale volontà delle parti e dalla sua disciplina legale». In tali circostanze, la Cassazione non individua «una violazione dell’art. 5 legge n. 898 del 1980 in tema di competenza esclusiva del giudice nel disporre l’obbligo dell’assegno divorzile e la sua entità», limite di ordine pubblico esclusivamente interno.
I fenomeni socioeconomici di mondializzazione che investono anche il diritto[10] consentono oggi una rimeditazione del rapporto tra autoregolamentazione e regola eteronoma nella crisi familiare. Nell’attuale fase delle relazioni interpersonali, anche transnazionali, l’eccezione dell’ordine pubblico (o quella di abuso del diritto o di frode alla legge) è il limite all’autonomia negoziale familiare non soltanto nell’applicazione diretta dell’ordinamento nazionale, ma anche sul piano del riconoscimento di situazioni, decisioni, provvedimenti ed accordi originati all’estero.
L’individuazione del ruolo e della portata dell'ordine pubblico nonché l’effettività della applicazione nel sistema integrato spetta anche alle giurisdizioni europee. La tutela dello status di cittadino europeo e delle situazioni ad esso connesse potranno essere oggetto di valutazione della Corte di giustizia così come le misure interne in violazione dei diritti umani fondamentali possono essere vagliate anche dalla Corte di Strasburgo. In tale contesto, che oggi appare profondamente mutato, le disposizioni del diritto di famiglia tradizionalmente inderogabili per ragioni di ordine pubblico sono suscettibili di variare in base alle circostanze del caso ed alla luce della considerazione dei diritti fondamentali dell’uomo[11]. L’analisi della giurisprudenza della Corte di Cassazione concernente la riconoscibilità di accordi stranieri aventi ad oggetto la regolamentazione di situazioni familiari esistenziali e familiari in vista della rottura del rapporto ha messo così in luce che le argomentazioni giuridiche poste dal giudice di legittimità a fondamento delle proprie decisioni ruotano tutte intorno alla dicotomia ordine pubblico interno/ordine pubblico internazionale.
Tuttavia, il modello tradizionale di famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna non è più l’unico modello possibile nel sistema nazionale; il pluralismo dei modelli familiari o matrimoniali formati per scelta in un altro Stato secondo regole diverse da quelle in vigore nello Stato del riconoscimento potrebbe dar luogo ad un contrasto con l’ordine pubblico interno. Il limite dell’ordine pubblico tout court va ridefinito con prevalente riguardo “alle esigenze di tutela dei diritti fondamentali”[12], il che implica una modifica dei parametri di riferimento, escludendosi da tali ambiti la rilevanza di norme nazionali non più corrispondenti a principi inviolabili.
La più volte richiamata sentenza della Cassazione n. 2224 del 2017, in ragione del principio tempus regit actum, chiarisce di non aver tenuto conto delle innovazioni: «esulano dal presente esame le recenti aperture sugli accordi in vista del divorzio, anche in relazione alle nuove forme processuali, come quella c.d. ‘congiunta’, attraverso le quali la relativa domanda può essere proposta».
Il tema della liceità dei patti in vista del divorzio richiede, quindi, l’esame del quadro legislativo sotto il profilo diacronico[13].
3. L’autonomia negoziale nella gestione della crisi e l’introduzione del c.d. divorzio privato
Il modello familiare tradizionale era fondato, com’è noto, sia nel diritto italiano sia nel diritto internazionale privato, sull’autorità della legge. Confinata per lungo tempo nella disciplina dei contratti, l’autonomia negoziale oggi ha assunto invece una portata generale nel diritto civile. L’ordinamento (così come da tempo anche la dottrina) riconosce spazi sempre più ampi all’autodeterminazione del singolo negli ambiti non strettamente patrimoniali[14]. Questa apertura all’autonomia negoziale ha direttamente inciso anche sulle relazioni familiari: si pensi agli strumenti stragiudiziali per la dissoluzione dei legami tra coniugi, conviventi o uniti civili, o, ancora, alle forme ammissibili di destinazione familiare ex art. 2645-ter c.c., al patto di famiglia, alla legge sul “dopo di noi”[15]. Inoltre, si pensi anche alla legge sul consenso informato al trattamento sanitario (l. 219/2017)
Si assiste quindi ad un processo di progressiva “privatizzazione” e semplificazione della composizione della crisi fondata sulla regola dell’accordo. In tale contesto, intervengono le diverse forme di “divorzio privato”, ossia senza la partecipazione, di natura costitutiva, di un giudice o di un’autorità pubblica o senza il loro controllo di merito, che hanno ampliato i margini di autoregolamentazione nella vita familiare.
Vi è, quindi, la necessità di coordinare tale profilo di autonomia con la effettiva tutela dei soggetti coinvolti nella crisi familiare. Le recenti aperture sugli accordi di divorzio sono la conseguenza di interventi relativi alle forme processuali con la previsione del divorzio a domanda congiunta[16], che non prevede alcun intervento del giudice per le pattuizioni tra i coniugi, se non quello sul controllo di equità relativo all’assegno una tantum, dall’altro – più importante – quello stragiudiziale dinanzi all’ufficiale di stato civile ad istanza c.d. “congiunta” per i coniugi e anche “disgiunta” per gli uniti civili (art. 1 comma 24 l. 76 del 2016).
Nel quadro degli strumenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie tra coniugi, l’art. 12 del d.l. 12 settembre 2014 n. 132 (convertito con modificazioni dalla l. 10 novembre 2014 n. 162), ha introdotto misure di degiurisdizionalizzazione relative alla separazione, al divorzio o alla modificazione delle condizioni della crisi che consistono in un procedimento semplificato davanti all’ufficiale di stato civile. Tale procedimento si esaurisce nella duplice comparizione dei coniugi davanti all’ufficiale di stato civile ed è consentito soltanto in mancanza di figli di entrambi i coniugi (o uniti) minorenni o maggiorenni non economicamente autosufficienti o con grave disabilità (ex art. 3, 3° comma, l. 104/92).
Le riforme sui procedimenti per lo scioglimento del vincolo matrimoniale hanno prodotto importanti riflessi sul matrimonio “more italico” e sul ruolo dell’autonomia negoziale nella gestione giudiziale dei conflitti familiari. La procedura “municipale” riconosce all’accordo dei coniugi[17] il potere di estinguere lo status coniugale (o di unito) e di concordarne le condizioni. È così superato il dogma della giurisdizione necessaria costitutiva. La doverosità delle attribuzioni tra i coniugi si può fondare sulle loro decisioni comuni[18]. Di qui l'irragionevolezza sopravvenuta della presunzione del commercio di status. Quanto sostenuto vale ancor di più per le unioni civili, rispetto alle quali il dispiegarsi dell’autonomia trova ulteriori aperture in virtù delle previsioni dello scioglimento per mera volontà anche di un partner (art. 1 co. 24 l. 76/2016).
La disciplina stragiudiziale apre al riconoscimento dell’accordo preventivo che guarda al futuro[19]. L’ufficiale di stato civile riceve la dichiarazione dei coniugi di far cessare gli effetti civili del matrimonio e di ottenerne lo scioglimento «secondo le condizioni tra di esse concordate» (art. 12 comma 3), in analogia con la legge sul dopo di noi. Il tempo del perfezionamento dell'accordo non ha nessuna rilevanza, al contrario del suo contenuto, che dev’essere precostituito prima della richiesta di divorzio[20]. L’accordo potrà essere allegato al verbale, farne parte integrale in quanto trascritto nel medesimo, o ancora, richiamato genericamente in esso. La formula «secondo le condizioni tra di esse concordate» lascia che le parti decidano in merito. La trascrizione o l’allegazione dell'accordo nel verbale non muta la natura privatistica della regolamentazione. L'inserimento o richiamo nel verbale non è, infatti, né una forma di omologazione né un requisito di efficacia delle pattuizioni concluse tra le parti. La vincolatività discende perciò dall'atto negoziale e, come in qualsiasi atto di autonomia, è possibile che vi sia un controllo ex post.
Sussiste ancora il problema di individuare quali siano i limiti oltre il quale l'interesse comune dei coniugi non giustifica le conseguenze dello scioglimento. L’accordo infatti «non può contenere patti di trasferimento patrimoniale». Il divieto[21], secondo una condivisibile lettura restrittiva, si riferisce esclusivamente ai trasferimenti immobiliari[22]. La convenzione può regolare una pluralità di rapporti esistenziali e/o patrimoniali tra i coniugi.
Il secondo limite è dato dalla non esistenza di figli di entrambi i coniugi minorenni o maggiorenni con gravi disabilità o non autosufficienti economicamente. Non rileva la presenza di c.dd. figli della famiglia in analogia a quanto previsto dalla legge sul divorzio (v. art. 4, co. 4 l. div.). La circolare del Ministero dell’Interno n. 6/2015, ai fini dell’operatività della procedura, qualifica come figli solo quelli comuni dei coniugi richiedenti. I rapporti del genitore sociale nei confronti del figlio del coniuge o del partner non sono sottoposti espressamente ai controlli giurisdizionali[23]. Tale interpretazione, però, non tiene conto della rilevanza del rapporto di fatto esistente tra il genitore sociale ed il figlio del coniuge e del diritto quanto meno alla continuità affettiva[24]. Un argomento in tal senso può trarsi dalla giurisprudenza delle Corti europee e dalla loro visione funzionale della famiglia. Concezione questa ultima che si basa sulla valutazione del rapporto sociale affettivo instauratosi tra genitore e figlio, anche in assenza di vincoli biologici ed adottivi. I coniugi potranno regolamentare i rapporti (esistenziali e/o patrimoniali) tra genitore sociale e figlio della famiglia mediante un accordo in vista del divorzio.
Gli accordi per la gestione preventiva della crisi possono così intervenire per regolamentare anche le future misure nell’interesse “dei figli della famiglia”; quest’ultimo, previsto dalla section 25, par. 1 del Matrimonial Causes Act 1973 quale criterio da tenere in particolare considerazione nella ripartizione del patrimonio in caso di crisi familiare, comprende tutti i minorenni che sono stati trattati come figli dal coniuge o dal partner[25].
Riconosciuta l’operatività dell’accordo "domestico" per lo scioglimento del vincolo matrimoniale, il negozio può svolgere la funzione creativa di una regola per il preminente interesse in concreto del figlio di famiglia.
Se il mero fatto della procreazione crea effetti anche tra i genitori biologici (art. 30 Cost.), pur in assenza di legami affettivi o di reciproca assistenza tra di loro[26], il rapporto di "genitorialità sociale" può fondare il regolamento negoziale. Il principio di solidarietà discendente dall’affetto e dalla consuetudine di vita giustifica le attribuzioni patrimoniali del genitore sociale nei confronti del figlio del partner e le condizioni per la continuità affettiva concordate nei patti pre-crisi. Si determina quindi una conseguenza: “la concezione funzionale della famiglia che guarda al rapporto prima che all’atto”[27].
4. Dalla famiglia-istituzione tipizzata (atto-status-effetti) alle famiglie funzionali (rapporto-effetto)
La soluzione enunciata dalla giurisprudenza di legittimità sui casi domestici citati in precedenza[28] si pone nell’ottica savignyiana che collega all’acquisto dello status di coniuge (ora anche a quello unito civile) effetti inderogabili ex lege. La soluzione discende in principio dalla relazione di dipendenza logica e cronologica tra atto-status-effetti che tuttavia non corrisponde alla attuale realtà giuridica. La concezione funzionale delle "famiglie" ha messo infatti in luce che gli effetti possono, anche in assenza di un valido atto dichiarativo, fondarsi sulla solidarietà e sull’affetto esistente tra i membri del gruppo familiare[29].
Dalla lettura dell'art, 160 c.c. si qualificano contra legem le «condizioni anche soltanto patrimoniali [in vista] di un [...] eventuale divorzio poiché in tal modo verrebbero a modificare inevitabilmente il tipo di matrimonio [...] disciplinato dal diritto italiano»[30]. Il tipo di matrimonio va letto in una prospettiva diacronica. Esso si caratterizza per il regime che il legislatore prevede in costanza del vincolo e per il modo nel quale esso può sciogliersi. Va detto però che oggi tanto il regime in costanza del vincolo quanto l’an e il quomodo dello scioglimento sono rimessi all’autodeterminazione dei coniugi in virtù della libertà di indirizzo familiare. Il riconoscimento del diritto potestativo di separarsi e di divorziare per garantire la libertà di status e le condizioni "semplificate" per riacquistarla hanno perciò modificato in maniera significativa la natura stessa del vincolo. Il tipo astratto di matrimonio così come modificato va poi calato nel ‘contesto sociale’ dei coniugi[31]. L’art. 144 c.c. lascia all’autonomia dei coniugi, con l’eventuale partecipazione dei figli anche minorenni (artt. 145, 316, 336-bis c.c.), le modalità e la concretizzazione delle situazioni inderogabili (art. 160 c.c.).
I coniugi, nel rispetto del regime primario inderogabile, possono concordare il regime secondario e modificarlo ad libitum per fronteggiare le mutevoli esigenze nello specifico contesto familiare. Le soluzioni “imposte” dall’esterno (art. 145 c.c.) finalizzate «alle esigenze dell’unità e della vita della famiglia», intervengono esclusivamente in caso di disaccordo dei coniugi, se investono “affari essenziali” (non diretti a tutelare gli interessi dei figli) e se entrambi i coniugi ne fanno richiesta.
L’art. 161 c.c., non novellato nella riforma del diritto di famiglia del 1975[32] (richiamato dall’art. 210 c.c), prevede che gli sposi possono pattuire che i loro rapporti patrimoniali siano in tutto o in parte regolati da leggi straniere o dagli usi. La condizione per l'applicazione del regime straniero è l'enunciazione espressa del contenuto di esso. Tale articolo non è richiamato per le unioni civili e si è ritenuto ammissibile anche un rinvio per relationem a discipline straniere[33]. Tuttavia, l'applicazione dell'art. 210 c.c. alle unioni civili rimette in gioco l'art. 161 c.c. Gli uniti possono convenzionalmente modificare il regime della comunione legale dei beni alle condizioni dell'art. 210 c.c., perciò la modifica potrà avvenire «purché i patti non siano in contrasto con le disposizioni dell'art. 161». Pertanto, tale richiamo indiretto ha reso inutile quello espresso nel citato comma 13 della l. n. 76/2016.
Benché l’articolo 161 c.c. abbia trovato scarsa applicazione nella prassi, esso svolge una funzione importante in quanto consente anche alle coppie “statiche” di scegliere il regime patrimoniale secondario, cosicché l’autonomia delle coppie risulta notevolmente ampliata.
Il dettato dell'art. 161 c.c. contiene in nuce il fenomeno di “privatizzazione” e di “semplificazione” della composizione della crisi fondata sulla regola dell’accordo anche mediante l'imitazione-importazione di modelli provenienti da altri sistemi.
Il regime atipico della regolamentazione patrimoniale mediante il richiamo della legge straniera non può tuttavia tradursi come strumento di elusione dei limiti di ordine pubblico.
5. Il regime giuridico delle coppie internazionali
Il rinvio a disposizioni di altri Stati, contemplato nell’art. 161 c.c., è in linea con l’art. 30, co.1, l. 218 del 1995, che, nel diritto internazionale privato, concede alle c.dd. coppie internazionali (miste o per quelle a distanza) la scelta della legge applicabile ai loro rapporti patrimoniali in base alla residenza o alla cittadinanza. Tale regime dettato per i coniugi transnazionali è stato esteso alle parti delle unioni civili dall’art. 32-ter l. 218 del 1995 (pactum de lege utenda)[34]. Questa apertura alla scelta della legge applicabile è prevista anche nel diritto privato internazionale europeo.
Il fenomeno dell’importazione-imitazione può avvenire anche mediante il riconoscimento di provvedimenti, decisioni o atti perfezionati all’estero nel paese di origine con la richiesta di riconoscimento nel paese di residenza o cittadinanza. La volontà di sottrarsi alla lex fori può essere considerata nell’ambito della cittadinanza europea e può trovare giustificazione nella libertà di circolazione e di soggiorno, cioè nello svolgimento delle situazioni connesse allo status di cittadino europeo[35].
L’art. 160 c.c. collega all’acquisto dello status di coniuge (ora anche a quello di unito civile) effetti inderogabili ex lege. Tuttavia, non tutte le inderogabilità sono assolute e totali, cioè colorate da illiceità. L’inderogabilità degli effetti dipende dal sistema, in virtù del quale muta la qualificazione dell’effetto e/o il suo grado di inderogabilità.
Le disposizioni del diritto di famiglia tradizionalmente inderogabili per ragioni di ordine pubblico sono suscettibili di variare in base alle circostanze del caso ed al rispetto dei diritti e libertà fondamentali dell’uomo.
La norma che indica l’origine della genitorialità/filiazione nel matrimonio da due persone di sesso diverso non ha più carattere di ordine pubblico, così come anche quella che attribuisce la maternità alla partoriente (art. 269 c.c., co. 3 c.c.).
L’operatività dell’ordine pubblico si definisce con prevalente riguardo alle «esigenze di tutela dei diritti fondamentali [e libertà] dell’uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dal Trattato sui diritti fondamentali dell'U.E. e dai trattati fondativi dell'U.E. e dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo».[36] «[P]ertanto, l’accettazione o il rifiuto della norma straniera, rectius dei suoi effetti, avverrà sulla scorta di una valutazione di compatibilità o meno con i valori costituzionali e con quelli condivisi con la comunità internazionale, e non già con singole norme imperative»[37]. Un contrasto con l’ordine pubblico è ravvisabile esclusivamente per il fatto che l’accordo sia in violazione dei valori riconosciuti come fondamentali nell’ordinamento costituzionale, anche acquisiti nel sistema nazionale mediante il mobile rinvio a fonti internazionali.
Merita di essere ricordata, a questo punto, in relazione all’applicazione diretta dei principi fondamentali della persona umana, che sono alla base dell’ordinamento interno e integrato, l’affermazione della Corte di Strasburgo[38], secondo la quale «alla luce dell’importanza fondamentale rivestita dal divieto di discriminazione fondata sul sesso, non si può ammettere la possibilità di rinunciare al diritto a non costituire l’oggetto di una siffatta discriminazione, in quanto una siffatta rinuncia si scontrerebbe con un interesse pubblico importante». L’affermazione è stata ripresa dall’Avvocato generale della Corte di Giustizia in relazione a un caso di ripudio secondo la sharia, che non conferisce alla moglie pari condizioni di accesso al divorzio. Se al marito è concesso un diritto a divorziare unilateralmente, tale diritto è negato alla moglie che può far ricorso ad un divorzio giudiziale sulla base di specifiche condizioni, ossia una malattia o un’affezione del marito. Nelle conclusioni, l’Avvocato Generale nella causa c-372/16, decisa dalla Corte di Giustizia il 20 dicembre 2017[39] mette in luce che neppure il consenso della moglie al ripudio incide e può superare la violazione del principio di non discriminazione in base al sesso. Il giudice tedesco del rinvio aveva sostenuto invece il superamento in concreto della discriminazione, avendo la moglie ripudiata accettato con una dichiarazione scritta le pattuizioni economiche previste nel contratto prematrimoniale. In tal modo, l’autorità tedesca avrebbe disapplicato l’art. 10 del regolamento n.1590 del 2010.
Dunque, se il patto in vista del divorzio deve ritenersi astrattamente ammissibile in quanto non è accettabile il concetto di indisponibilità dello status di coniuge, la Corte di Strasburgo spiega che vanno verificate in concreto sia la liceità sia la meritevolezza della singola pattuizione, che non può contenere una rinuncia al diritto di non essere discriminati. Proprio nel caso di contratto prematrimoniale in vista del ripudio si può applicare l’arresto della Corte di Cassazione, che nel 2017 si è pronunciata sui patti in vista del divorzio: «di tali accordi non può tenersi conto non solo quando limitino o addirittura escludono il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto è necessario per soddisfare le esigenze della vita, ma anche quando soddisfino pienamente dette esigenze, per il rilievo che una preventiva pattuizione – specie se allettante e condizionata alla non opposizione [al ripudio] potrebbe determinare il consenso» alla discriminazione e alla limitazione della libertà di stato.
Inoltre, il consenso alla discriminazione incide sulla libertà di status della donna. Quest’ultima può ottenere la libertà di stato solo se sussistano le condizioni tassativamente previste dalla legge islamica ossia una malattia o un’affezione grave del marito: ciò configura la lesione della fondamentale libertà di stato. Se ne può dedurre che l’art. 160, e quindi le situazioni inderogabili da esso discendenti, si collocano fuori dalla sfera di libera disposizione dei diritti anche da parte dei soggetti interessati solo se basate sui valori considerati fondamentali in una visione diacronica, quali il divieto di discriminazione (fondato sul sesso) e la libertà di status.
[1] Questo articolo è una versione ridotta del contributo che apparirà nella raccolta degli atti del XIII convegno SISDiC, svoltosi a Napoli tra il 3 e il 5 maggio 2017.
[2] Le riflessioni che seguono riguardano anche le unioni civili introdotte dalla l. 20 maggio 2016 n. 76, nonchè le comunità di vita c.d. internazionale (che presentano elementi di estraneità o sono coppie transnazionali). L'indagine toccherà solo incidenter tantum, le convivenze tipiche (disciplinate dalla l. 76 del 2016) ed atipiche, stante il riconoscimento legislativo del contratto di convivenza. Sulle convivenze atipiche, U. Perfetti, Autonomia privata e famiglia di fatto: Il nuovo contratto di convivenza, in La Nuova Giur. Civ: Comm., 2016, p. 1749 e ss.
[3] Intendendo con semplificazione gli interventi legislativi di degiurisdizionalizzazione della gestione della crisi familiare tra i quali si collocano: il d.l. 12 settembre 2014 n. 132 (convertito con modificazioni dalla l. 10 novembre 2014 n. 162), che ha introdotto misure stragiudiziali relative alla separazione, al divorzio o alla modificazione delle loro condizioni. La semplificazione ha avuto come conseguenza il riconoscimento di spazi sempre più ampi all’autonomia negoziale dei membri di una comunità di vita i quali saranno esaminati infra.
[4] Cass. 2017 n. 2224 che richiama le precedenti sentenze dell’11 giugno 1981 n. 3777, in Foro it., I, 1982, c. 184 e ss., e Cass. 18 febbraio 2000, n. 1810.
[5] V. Cass. 3 maggio 1984 n. 2682, riportata per esteso in Giur. It., 1984, c. 370 e ss.
[6] Cass. 11 giugno 1981 n. 3777, cit. Prima di questa sentenza, la Cassazione aveva in germe toccato la questione; così: Cass. 1977, n. 1305 e 1980, n. 4223. Tuttavia, dato il valore innovativo dell’arresto del 1981, il giudice di legittimità ha posto il principio enunciato a fondamento delle successive sentenze, assegnandogli quasi il valore di precedente vincolante.
[7] L'opposizione del coniuge incolpevole allungava di altri due anni il periodo di separazione quinquennale già maturato nel caso di separazione per colpa. L'accordo preventivo sull'assegno divorzile poteva, quindi, vincolare il coniuge incolpevole a non far valere l'opposizione[7]. La dottrina aveva sollevato sollevi dubbi di legittimità dell'istituto in relazione agli art. 2 e 29 Cost. affermando che «l'opposizione e l'elevazione del termine, ha dato a taluni coniugi uno strumento per far sopravvivere per due anni un matrimonio che ormai non è più tale da oltre cinque anni, impedendo all'altro di esprimere la propria personalità in una nuova famiglia legittima». Così F. Cipriani, L'opposizione del convenuto nel processo di divorzio, in Foro it., 1979, c. 69 e ss.
[8] Cass. 2000 n. 1810, cit. Se il coniuge convenuto affermava: «non mi oppongo se mi dai cento», la sua dichiarazione era tamquam non esset: Così, Trib. Roma 29 gennaio 1972, in Dir. fam., 1972.
[9] V. Cass. 3 maggio 1984 n. 2682, cit.
[10] Sul fenomeno, sia consentito il rinvio al mio Status personae e familiae nella leale collaborazione tra le corti, in Famiglie e minori, Napoli 2010, passim. V. anche D. Damascelli, L'evoluzione dei rapporti di filiazione e la riconoscibilità dello status da essi derivante tra ordine pubblico e superiore interesse del minore, in Riv. Dir. Int., 2017, p. 1071 e ss.; S. Marino, Il diritto all'identità personale e la libera circolazione delle persone nell'unione europea, in Riv. Dir. Int., 2016, p. 797 e ss.
[11] Così la norma che indica l’origine della genitorialità/filiazione nel matrimonio da due persone di sesso diverso non ha più carattere di ordine pubblico, così come anche l'art. 269, co. 3 c.c. che attribuisce la maternità alla partoriente (v. Cass. 30 settembre 2016 n. 19599, e Cass. 15 giugno 2017, n. 14878.). L’interesse superiore di ciascun minorenne è elemento di costruzione dell’ordine pubblico, interesse riferibile anche alla continuità dello status acquisito (filiationis di cittadino europeo) e di conoscere le proprie origini.
[12] Cass. 30 settembre 2016 n. 19599, cit.
[13] Influenzano il modello del matrimonio nazionale l'abrogazione dell'opposizione al divorzio, la riduzione del tempo della separazione per il c.d. divorzio breve (introdotto nel 2015), la previsione della sentenza non definitiva "immediata" per lo scioglimento del vincolo nella procedura contenziosa (art. 4, co. 12 della l. div.) e gli altri interventi di semplificazione.
[14] Ad esempio, le direttive di fine vita contemplate nella l. 2017 n. 1. 219, l’anonimato materno e la sua revocabilità riconosciuto dalla Corte Cost. con la sentenza additiva di principio n. 278 del 2013.
[15] Legge 22 giugno 2016 n. 112, Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare.
[16] In sede di divorzio congiunto (art. 4, 16° comma, l. 898/1970) la legge non prevede alcun controllo di merito del giudice sulla congruità degli accordi raggiunti, quanto ai rapporti patrimoniali tra i coniugi. Solo l’art. 5, 8° comma, l. 898/1970 prevede un controllo di equità sull’accordo relativo all’assegno una tantum.
[17] Residua il dubbio se gli accordi relativi alle famiglie transnazionali siano inglobati nelle “decisioni” secondo il regolamento 2201 del 2003 ai fini del riconoscimento in ordinamenti dell’U.E.
[18] L'ufficiale di stato civile non svolge la funzione del Presidente del Tribunale non avendone i poteri. Infatti, non può tentare la conciliazione tra i coniugi (ex artt. 708 c.p.c. e 4, 7° comma, l. div.); né la decisione della separazione presuppone l’accertamento della intollerabilità della convivenza, o il divorzio quello dell’impossibilità di mantenimento o conservazione della comunione spirituale e materiale tra i coniugi (ex artt. 1 e 2 l. div.).
[19] Così, Cass. 15 giugno 2017 n. 14878.
[20] Il contenuto dell'accordo è mutevole. Esso può prevedere, tra le altre cose, la prestazione di un assegno per garantire il tenore precedentemente goduto al coniuge, regolamentare la sorte dei beni della famiglia e l'assegnazione della casa, la continuità del cognome maritale o della coppia unita civilmente.
[21] Cons. di Stato, sez. III, 26 ottobre 2016, n. 4478, in Foro it., 2016, III, 636, n. G. Casaburi. Il Consiglio di Stato ha affermato che il divieto dei patti di trasferimento patrimoniale deve ritenersi limitato ai soli accordi traslativi della proprietà o di altro diritto reale su un bene determinato o di altri diritti, mediante la previsione di un assegno una tantum.
[22] Ciò in ragione dei dubbi di ammissibilità dei medesimi trasferimenti in sede giurisdizionale.
[23] Ciò discende dall’esame della disciplina della filiazione. L’inderogabilità delle situazioni nella fase fisiologica ed in quella della crisi si profila nel rapporto genitoriale indipendentemente dal matrimonio, unione o convivenza di fatto (ex art. 30 Cost., artt. 148, 158, 315 e 337 e ss. c.c.).
[24] Sul diritto del figlio sociale alla continuità affettiva, anche in assenza di vincoli biologici ed adottivi con gli adulti di riferimento all'interno del nuceo familiare, v. Cass. 15 giugno 2017, n. 14878, che si colloca sulla scia delle Corti europee: v. Corte Giust. Caso O. e S. 6 dicembre 2012 C 357/11 sulla possibilità del permesso di soggiorno al c.d. genitore sociale di un bambino cittadino UE per preservare l'unità della famiglia e garantire al bambino i diritti connessi alla cittadinanza ed al rispetto vita privata e familiare.
[25] «25. Matters to which court is to have regard in deciding how to exercise its powers under ss. 23, 24. It shall be the duty of the court in deciding whether to exercise its powers under section 23, 24 above and, if so, in what manner, to have regard to all the circumstances of the case, first consideration being given to the welfare while a minor of any child of the family who has not attained the age of eighteen». Per la disciplina del child of the family, si vedano le seguenti leggi britanniche: Children Act 1989, sez. 105(1); Domestic Proceedings and Magistrates Courts Act 1978, sez. 88; Matrimonial Causes Act 1973, sez. 52; Civil Partnership Act 2004, sez. 75(3).
[26] Si instaura una vita familiare tra genitori i quali devono darsi “l’indirizzo” per concordare le scelte nell’interesse del figliominorenne, salvi i casi di decadenza o di provvedimenti incidenti sulla stessa. Così A. Gorassini, Convivenze di fatto e c.d. famiglia di fatto. Per una nuova definizione dello spazio topologico di settore, in Riv. dir. civ., A. 63 (2017), n. 4, pp. 854-879.
[27] Sulla scia della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, si v. il decreto del Tribunale per i Minorenni di Firenze 7 marzo 2017, Proc. N. 211/2015 A + 212/2015 A, sul riconoscimento di sentenza straniera di adozione ex art. 36 comma 4 l. 184/1983: http://www.articolo29.it/wp-content/uploads/2017/03/Trib-min-fi-1.pdf [link consultato il 29 novembre 2018].
[28] Cass. 3777 del 1981, cit., nella quale si afferma la illicetià degli accordi domestici in vista del divorzio e quella del 1984 n. 2682, cit., che al contrario qualifica leciti i medesimi accordi transnazionali.
[29] Le Corti europee hanno riconosciuto al genitore "sociale" la situazione (diritto) al ricongiungimento familiare con permesso di soggiorno per garantire il preminente interesse del figlio minorenne, v. le sentenze della Corte di Giustizia citate alla nota 24; Corte di Strasburgo, Jeunesse c. Paesi Bassi 2014.
[30] V. Cass. 3 maggio 1984 n. 2682, cit.
[31] Cass. Civ. SS.UU. 11 luglio 2018 n. 18287.
[32] Il punto di partenza nella formulazione dell’art 161 dell’attuale codice civile è costituito dall’art. 1390 del codice civile francese, il quale, nel testo in lingua italiana per il Regno d’Italia Napoleonico, prescrive: «Non è più permesso ai conjugi di stipulare in un modo generico che la loro associazione verrà regolata da una delle consuetudini, leggi o statuti locali che per lo addietro fossero state in vigore nelle diverse parti del territorio del Regno, e che dal presente Codice sono abrogate». A questa formulazione si ricollegano sostanzialmente i codici preunitari. Esso è stato sostanzialmente ripreso dall’art. 1414 del Progetto del codice civile del 1865: «Non è permesso agli sposi di stipulare in modo generico che il loro matrimonio verrà regolato da alcuna delle leggi o consuetudini locali, che per lo addietro fossero in vigore nel Regno». Ma in sede di Commissione di coordinamento (verbale n. 36 della seduta pomeridiana del 16 maggio 1865, n. 4, in S. Gianzana, Codice civile, III, Verbali, Torino, 1887, p. 319) fu approvata la sostituzione delle ultime parole del testo sopra riferito con queste altre: «da consuetudini locali o da leggi, alle quali non sono legalmente sottoposti» (art. 1381), al fine di evitare che «sposi cittadini del Regno facciano regolare le loro convenzioni, in quanto ai beni, da una legge estera». L’art. 159 del libro primo del codice civile (Riferimento generico a leggi o a consuetudini) prescrive: «Gli sposi non possono pattuire in modo generico che i loro rapporti patrimoniali siano in tutto o in parte regolati da leggi alle quali non sono sottoposti o da consuetudini, ma devono enunciare in modo concreto il contenuto dei patti con i quali intendono regolare questi loro rapporti». Il corrispondente art. 161 del codice civile del 1942, che non ha subito modifiche ad opera della l. dir. fam., ha ripreso il testo del riferito art. 159 con la sola sostituzione della parola “usi” a quella “consuetudini”: Art. 161 (Riferimento generico a leggi o agli usi). Da quanto precede dovrebbe risultare confermata la derivazione dell’art. 161 dal modello francese piuttosto che da quello tedesco (BGB §1409 già §14331). Si v. E. Pacifici Mazzoni, Istituzioni di diritto civile italiano, Firenze 1873, pp. 375-376; E. Bianchi, Del contratto di matrimonio, Torino 1914.
[33] Per gli uniti civili il mancato richiamo al 161 c.c. ha portato a considerare lecito anche un rinvio per relationem.
[34] La forma negoziale richiesta è la scrittura privata, che per essere opponibile ai terzi dev’essere annotata a margine dell'atto di matrimonio o di costituzione dell'unione civile.
[35] Corte di Giustizia, sentenza c-165/14 Alfredo Redon Marin, sentenza C-304/14 – CS.
[36] Cass. 30 settembre 2016 n. 19599.
[37] Trib Napoli decr. 1 luglio 2011.
[38] Corte Strasburgo 22 marzo 2012 Konstantin Markin c. Russia Par. 150.
[39] Così Corte Strasburgo 22 marzo 2012 Konstantin Markin c. Russia Par. 150, richiamata dall'Avvocato Generale, presentate il 14 settembre 2017 nelle Conclusioni nella causa C-372/16 decisa dalla Corte di Giust. il 20 dicembre 2017 cit. che sostiene l'irrilevanza del consenso eventuale del coniuge discriminato.
1. La normativa censurata 2. La sua logica ispiratrice 3. L’intervento della Corte Costituzionale 4. Gli effetti immediati 5. La prospettiva
1. La normativa censurata
Il D.lgs. 4 marzo 2015 n.23, in attuazione della delega conferita con la l. n. 183 del 2014, aveva previsto per i licenziamenti non sorretti da giusta causa e giustificato motivo nel nuovo contratto c.d. a tutele crescenti (diversi da quelli discriminatori e disciplinari in cui sia insussistente il fatto materiale contestato) un’indennità pari a due mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, con un minimo di 4 ed un massimo di 24 mensilità. L’art. 3 del d.l. 12 luglio 2018 n. 87 (c.d. decreto dignità) ha rivisto in aumento tali limiti, portandoli da un minimo di sei ad un massimo di 36 mensilità.
2. La sua logica ispiratrice
La riforma manifestava, in modo inequivoco, l'intendimento di garantire la certezza per l'impresa dell'entità del c.d. “costo di separazione”, così riducendo al minimo possibile l'alea dell'esito del giudizio e con questa l'entità del contenzioso giudiziale. In tal modo esso segnava una svolta significativa, non solo nell’ambito della valutazione demandata al giudice nell’individuazione del tipo e della misura della sanzione, ma anche nel rovesciare la prospettiva basata sul risarcimento del danno in funzione riparatoria e dissuasiva, in quanto, se è vero che secondo gli approdi dell'analisi economica del diritto, l'obiettivo di optimal deterrence è raggiunto solo se la misura del risarcimento superi il profitto sperato, la sanzione, discrasica rispetto ai canoni tradizionali del risarcimento civilistico, non presentava un aspetto di effettiva deterrenza , così manifestando che altre erano state le priorità valorizzate nel caso dal legislatore.
Imponendo un indennizzo certo nel quantum, l’intervento era teso anche ad eliminare la discrezionalità del giudice, i cui approdi erano spesso ritenuti privi di affidabilità e di tenuta temporale.
3. L’intervento della Corte Costituzionale
La scelta così espressa dal legislatore non ha superato indenne il vaglio della Corte Costituzionale, che con la sentenza n. 194 del 25.9.2018 ha dichiarato incostituzionale il criterio di determinazione dell’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato ancorato solo all’anzianità di servizio.
I contrasti con la Carta Costituzionale sono stati individuati nella violazione dell’art. 3, sotto l’aspetto dell’ingiustificata identità di tutela assicurata per situazioni che possono essere molto diverse, quanto alla gravità del pregiudizio subito dal lavoratore. Inoltre, la qualificazione come indennizzo non fa perdere all’importo stabilito la primaria funzione riparatorio-compensativa del danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato, e sotto tale aspetto la norma contrasta altresì con il principio di ragionevolezza, stante l’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo; essa neppure determina un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente, così negando un equilibrato componimento degli interessi in gioco.
La previsione è stata ritenuta inoltre in contrasto con il «diritto al lavoro» , sancito dall’art. 4, primo comma, Cost. e con la «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.), che comportano la garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, che risulterebbero di difficile realizzazione in un sistema caratterizzato dalla mancanza di un’adeguata salvaguardia del posto di lavoro.
Valorizzando l’integrazione tra le fonti, la Corte Costituzionale ha infine ritenuto la norma in contrasto con gli artt. 76 e 117 della Costituzione, tramite l’art. 24 della Carta Sociale Europea del 3.5.96, ratificata dall’Italia con l. 30/99, che, in armonia con l’art. 35 della Costituzione, impegna le parti a bilanciare la facoltà di licenziamento senza valido motivo con il riconoscimento al lavoratore di un congruo indennizzo. Dopo avere richiamato le precedenti affermazioni sull’idoneità della Carta sociale europea a integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost. e sul riconoscimento dell’autorevolezza delle decisioni del Comitato, ancorché non vincolanti per i giudici nazionali (sentenza n. 120 del 2018), ha affermato che l’art. 24, che si ispira alla Convenzione OIL n. 158 del 1982, non fa che esplicitare sul piano internazionale, in armonia con l’art. 35, terzo comma, della Costituzione e con riguardo al licenziamento ingiustificato, l’obbligo di garantire l’adeguatezza del risarcimento, in coerenza con quanto affermato sulla base del parametro costituzionale interno dell’art. 3 Cost.
4. Gli effetti immediati
l nuovo testo “sforbiciato” dalla Corte costituzionale è ora il seguente: “Nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”.
L’ intervento della Consulta non impone quindi il risarcimento in forma specifica della reintegrazione, né rivede i limiti minimo e massimo dell’indennità come individuati dal legislatore, ma opera sul meccanismo della sua determinazione, che non sarà più automatico: in motivazione, indica il modo in cui il giudice dovrà quantificarla, all’interno dei limiti previsti, tenendo conto, oltreché dell’anzianità di servizio, anche degli altri criteri desumibili dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti, vale a dire il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti.
5. La prospettiva
La disciplina delle conseguenze del licenziamento illegittimo dettata dal Jobs act, pur denotando un arretramento del sistema di tutele, si è posto nel contesto di una regolazione europea della cd. governance economica, operando una comparazione di interessi e valori costituzionali con esito che propendeva per la valorizzazione delle esigenze dell’economia.
La Corte Costituzionale ha voluto ristabilire la logica che deve permeare tale comparazione ed individuare i limiti che incontra la discrezionalità del legislatore, ribadendo che il punto di equilibrio deve comunque essere trovato nell’equo contemperamento di valori contrapposti, senza che i diritti fondamentali posti a tutela della libertà e dignità delle persone, quali il diritto al lavoro, possano essere irragionevolmente compressi o sacrificati. Ha inoltre ribadito il ruolo fondamentale della discrezionalità del giudice, che “all’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa... risponde all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza”.
Sono principi fondanti, che responsabilizzano così il legislatore come i giudici e che riportano al centro dell’attenzione il sistema delle tutele e i valori della persona, principi dei quali , anche al di là del caso affrontato, dovremo tenere conto.
Paola Ghinoy
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