ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
1. La variabile tempo e i rapporti giuridici. - 2. L’attenzione mediatica sul reiterarsi degli esiti estintivi di vicende processuali. - 3. La posizione dell’imputato. – 4. La soluzione
1. La variabile tempo e i rapporti giuridici.
La variabile tempo assume un rilievo fondamentale nello sviluppo dei rapporti giuridici. In particolare, il mancato esercizio di diritti e di poteri può determinare la perdita degli stessi.
Il discorso riguarda anche il processo ed il diritto penale: il mancato accertamento delle responsabilità entro i tempi fissati dal legislatore fa estinguere il fatto illecito per prescrizione. Si ritiene, a giustificazione della previsione, che la lontananza dalla decisione definitiva dal momento del fatto, faccia perdere rilievo all’episodio criminale, confinandolo in una dimensione non più significativa. Una specie di oblio. Per altro verso, l’incapacità dell’ordinamento di perseguire il crimine, determinerebbe il riespandersi di un diritto dell’imputato a non essere sanzionato considerata la sottoposizione a processo penale, di per sé una sanzione, una sofferenza che non può essere protratta nel tempo al di là di certi limiti cronologici.
La consapevolezza che l’estinzione del reato per effetto della prescrizione possa costituire e costituisca una “sconfitta” dello Stato di diritto, ha portato progressivamente il legislatore ad introdurre strumenti di sospensione, di interruzione e di allungamento dei termini idonei a far maturare l’estinzione del reato.
Nonostante queste iniziative legislative, i processi hanno continuato a prescriversi.
Sono varie e molteplici le cause di questa situazione. Fra le altre: l’elefantiasi del nostro sistema punitivo, condizionato dall’obbligatorietà dell’azione penale, dalle disfunzioni organizzative della macchina giudiziaria, da iniziative di parte tendenti a differire i tempi processuali.
Si sono conseguentemente accentuate anche operazioni “tecniche” per ridurre gli effetti negativi della prescrizione: valutazioni sugli effetti delle declaratorie di inammissibilità delle impugnazioni; riqualificazione in malam partem dei reati giudicati per superare le situazioni più gravi e delicate di estinzione del reato.
Si è cercato di definire in termini più restrittivi il momento dal quale far decorrere la prescrizione, soprattutto in tema di reato continuato. Si è previsto che comunque gli effetti estintivi non riguardino anche la responsabilità civile ovvero la possibilità dei sequestri e delle confische. Si sono trasferiti in sede di prevenzione le risultanze processuali dei procedimenti estinti. Si è escluso l’effetto estensivo al coimputato per lo stesso fatto. E così via.
2. L’attenzione mediatica sul reiterarsi degli esiti estintivi di vicende processuali.
Il reiterarsi di esiti totalmente o parzialmente estintivi di vicende processuali particolarmente sensibili, amplificati spesso dall’impatto mediatico hanno richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica, anche in relazione che questo elemento si inseriva in vicende processuali connotate dalla presenza incidente sulle posizioni personali delle persone offese.
Il combinarsi di questi due elementi è stato sicuramente decisivo nella percezione di un problema che poneva la questione della prescrizione in termini parzialmente diversi dal passato.
Invero, medio tempore, rispetto al passato si è venuta rafforzando la posizione processuale della persona offesa. E’ stato un dato che si è progressivamente e significativamente incrementato anche sulla scorta di orientamenti europei.
Sono molteplici i segnali di questa fase degli sviluppi evolutivi del processo penale. Basterebbe pensare alle misure cautelari a tutela della vittima, i riferimenti ai soggetti vulnerabili, i diritti di cui la persona è titolare ai sensi dell’art. 2 Cost., al diritto di informazione sulle indagini, al potere di opporsi al provvedimento archiviativo, e così via.
Questa “trasformazione” del ruolo della vittima del reato ha portato la persona offesa a farsi interprete di quella pretesa punitiva, cioè sanzionatoria, che era ed è patrimonio del pubblico ministero. Si è così determinato uno “spostamento” dall’interesse patrimoniale risarcitorio a quello sanzionatorio (cioè, legato alla pena da applicare, effettiva ed elevata) giustizia o vendetta che fosse da punizione era un elemento ritenuto necessario.
Appare evidente che a fronte di queste aspettative, la possibilità della prescrizione del reato (ma anche d’un processo senza fine) risultava non accettabile.
In altri termini, quello che più o meno fisiologicamente poteva essere valutato dall’ufficio del pubblico ministero, in una prospettiva generale, non poteva essere considerato in termini positivi dalla persona offesa.
Si è pertanto intervenuti prevedendo la sospensione del decorso della prescrizione, nonché con l’allungamento dei suoi tempi.
3. La posizione dell’imputato.
Questo dato, naturalmente, finisce per pregiudicare la posizione dell’imputato che rischia di restare sottoposto per lungo tempo al processo penale, senza che questo sia definito.
Il momento limite è stato individuato, nella contrapposizione di diverse opzioni (iscrizione della notizia; formulazione dell’imputazione; provvedimento che dispone il giudizio) dapprima nella sentenza di condanna di primo grado (l. n. 103 del 2017) ora nella sentenza sia di condanna sia di proscioglimento di primo grado.
Si tratta di soluzione irrazionale nella misura in cui parifica due situazioni diverse e con riflessi diversificati il proscioglimento prevale sulla prescrizione, la prescrizione prevale sulla condanna.
In questo contesto, le modifiche alla riforma della disciplina della prescrizione appaiono, politicamente, problematiche essendo intervenuta una ridefinizione del rapporto tra istanze sociali e classe politica.
Il superamento della mediazione dei corpi intermedi rende – attualmente – questo passaggio problematico, considerata anche e soprattutto la visione ideologica e culturale della compagine governabile.
Il timore che si prospetta è costituito da una spinta a considerare la prescrizione riformata, inserita nella riforma processuale, un istituto governato dal principio del tempus regit acta e non da quello sostanziale dell’irretroattività.
4. La soluzione.
La soluzione che si prospetta non può essere che quella costituzionale della durata ragionevole del processo.
La scansione di tempi certi – ancorché elasticizzabili in relazione alle vicende ed alle patologie prospettabili delle fasi o dei gradi appare l’esser in grado – unita ad elementi idonei ad assicurare efficienza al sistema, almeno con superamento dei troppi tempi morti che lo contraddistinguono – di garantire il sistema processuale penale, l’imputato evitando di trasformarlo in una vittima del processo e la persona offesa che verrebbe assicurato lo vanifica dal giudizio di responsabilità, consentendo di non mettere in discussione i profili sanzionatori. La prescrizione del processo, cioè, il superamento della sua scansione potrebbe dar luogo a risarcimenti ovvero a riduzione della pena, sul modello operante in Germania.
SOMMARIO: 1. Clausola di salvaguardia interpretativa: un problema complesso. 2. I rapporti tra responsabilità civile e responsabilità disciplinare. 3. Le deroghe alla clausola di salvaguardia interpretativa. 4. Il concetto di abnormità deontologica e l’evoluzione giurisprudenziale. 5. La non plausibilità della scelta interpretativa e l’obbligo di esternazione della scelta giurisprudenziale. 6. Alla ricerca di un equo contemperamento tra istanze corporative ed istanze giustizialiste. 7. Giustizia e società. 8. Conclusioni.
1. Clausola di salvaguardia interpretativa: un problema complesso.
Parafrasando George Bernard Shaw è difficile offrire ad un problema complesso una soluzione semplice che non sia sbagliata.
Però, per ridurre i margini di errore nella risposta ad un problema complesso, si potrebbe cominciare a ridurre la complessità del problema.
Ora, io credo che l’ordinanza interlocutoria 12215 del 2018 abbia reso più complesso il problema al quale le Sezioni unite sono chiamate a rispondere.
Lo ha reso più complesso perché, in una fattispecie alla quale ratione temporis deve applicarsi il vecchio testo della legge 117, nell’ottica di una generale sistemazione della materia, ha auspicato l’intervento delle Sezioni unite coinvolgendo, oltre che la nuova disciplina della legge 18/2015 ed i principi dell’ordinamento eurounitario, anche la disciplina degli illeciti disciplinari.
Il tutto, quasi a voler parificare il senso e la portata della clausola di salvaguardia interpretativa prevista nel codice disciplinare e della clausola interpretativa prevista in materia di responsabilità civile.
Vero è che la clausola di salvaguardia prevista dal secondo comma dell’art. 2 del d.lgs. 109/2006 va calata in un sistema, quello disciplinare, diverso e non sovrapponibile con il sistema della responsabilità civile.
2. I rapporti tra responsabilità civile e responsabilità disciplinare.
Proprio alcune settimane fa, l’Ufficio della Procura generale ha trasmesso al Ministro della giustizia un importante decreto di archiviazione che - come noto - non è ostensibile, tanto meno in un pubblico dibattito.
Mi preme però sottolineare che con questo decreto di archiviazione la Procura generale ha recepito quanto da me sostenuto in un contributo fornito al Commentario alla legge 117 recentemente pubblicato, a cura di Auletta, Boccagna e Rascio, a proposito della interpretazione dell’art. 9, così come modificato dalla legge 18 del 2015.
Sono considerazioni molto tecniche e articolate, non compatibili con la sintesi che mi impone l’intervento.
Quel che può rilevare in questo dibattito è che sono state evidenziate molteplici ragioni per le quali non è più sostenibile - nel sistema post riforma del 2006 - l’interpretazione letterale dell’art. 9 laddove prevede che il Procuratore generale presso la Corte di cassazione debba (sottolineo, debba) esercitare l'azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento.
Non è sostenibile, anzitutto, perché non coincidono le fattispecie tipizzate previste dai rispettivi sistemi di responsabilità e perché non è detto che una ipotesi di responsabilità civile implichi sempre la corrispondente responsabilità disciplinare, e viceversa.
Per non parlare della mancanza di interferenze di possibili giudicati tra procedimento civile e procedimento disciplinare, come evidenzia l’art. 20 del codice disciplinare.
Una interpretazione logico-sistematico-evolutiva porta dunque a ritenere che la permanenza del dettato letterale dell’art. 9 della legge 117 sia dovuta al mancato coordinamento di una norma nata nel vigore del sistema disciplinare atipico abrogato, con il sistema disciplinare tipizzato vigente dal 2006.
Ampia autonomia, quindi, dei due diversi sistemi di responsabilità magistratuale.
La responsabilità civile del magistrato di cui all’art. 2 della legge 117, si sa, è fondata esclusivamente sull’errore provvedimentale, sulla errata scelta giurisdizionale che, per forza di cose, deve essere sindacata in sede di giudizio risarcitorio, sia pure nei limiti della clausola di salvaguardia interpretativa.
3. Le deroghe alla clausola di salvaguardia interpretativa.
Nel codice disciplinare, invece, accanto ad una fattispecie più propriamente riconducibile alla categoria dell’atto processualmente abnorme (prima parte della lett. ff), vi sono altre fattispecie attinenti più genericamente agli errori di diritto (o nella ricostruzione del fatto e nella valutazione delle prove), caratterizzate dal comune denominatore della grave violazione di legge determinata (quanto meno) da errore inescusabile.
La responsabilità disciplinare dunque tende a sanzionare, non necessariamente, il c.d. atto abnorme processuale, quanto piuttosto il comportamento del magistrato sottostante alla scelta giurisprudenziale, tanto che in dottrina si è parlato di c.d. abnormità deontologica, che è termine evidentemente atecnico giacché il codice disciplinare nulla ha a che fare con il codice deontologico.
Questa fattispecie ricorre, peraltro, nella stragrande maggioranza delle condotte sanzionate ai sensi della lett. g) dell’art. 2 del codice disciplinare, che è l’illecito senz’altro più ricorrente nel panorama delle variegate condotte di possibile rilievo disciplinare che derogano al dettato della clausola di salvaguardia interpretativa di cui al successivo secondo comma.
4. Il concetto di abnormità deontologica e l’evoluzione giurisprudenziale.
Il concetto di abnormità deontologica è stato mirabilmente espresso dalla sentenza delle Sezioni unite 20159 del 2010, resa a chiusura di quella delicatissima vicenda di storia giudiziaria nota con il termine giornalistico della guerra tra procure (di Salerno e Catanzaro).
Con quella sentenza è stato affermato il principio, che si è ormai consolidato in sede disciplinare, secondo cui l'insindacabilità del provvedimento giurisdizionale viene meno non solo nei casi in cui il provvedimento sia abnorme, ma anche nei casi di grave e inescusabile negligenza, nel qual caso l'intervento disciplinare ha per oggetto non già il risultato dell'attività giurisdizionale, ma il comportamento deontologicamente deviante posto in essere dal magistrato nell'esercizio della sua funzione.
Mi pare appena il caso di sottolineare che, in quel caso, l’intervento disciplinare aveva ad oggetto la condotta di alcuni pubblici ministeri che avevano disposto un atto di perquisizione e sequestro che era stato convalidato dal GIP ed aveva poi trovato definitiva conferma giurisdizionale.
E ciononostante i magistrati furono sanzionati in maniera molto grave.
Nella vicenda definita dalle Sezioni unite, infatti, si ritenne integrata la grave violazione di legge rilevante sul piano deontologico nella ipotesi di un provvedimento con motivazione che, ancorché sovrabbondante - in quanto costituita dalla integrale riproduzione di relazioni, verbali di interrogatorio, articoli di stampa ed altro - si era rivelata apparente ed incomprensibile per la totale assenza di vaglio critico delle fonti di prova riprodotte con la nota tecnica del copia-incolla; inoltre, il provvedimento si era rivelato “eccedente i limiti della proporzionalità rispetto al fine” in quanto produttivo di effetti giuridici lesivi dei diritti altrui o vietati o contenenti riferimenti inutili a soggetti estranei al procedimento e perciò lesivi del loro diritto alla privacy e della loro reputazione.
La citata sentenza delle Sezioni unite rappresenta una tappa importante di una evoluzione giurisprudenziale, in sede disciplinare, che ha progressivamente eroso i limiti della clausola di salvaguardia interpretativa - nel solco di un indirizzo ormai più che consolidato - sino a giungere ad una serie di recenti pronunce di legittimità riferibili a casi di pubblici ministeri resisi responsabili della omessa o ritardata iscrizione di soggetti nel registro degli indagati.
Mi riferisco alle sentenze delle Sezioni unite 134 del 2017, nella vicenda della farmacista bolognese poi morta suicida dopo essere stata sentita a s.i.t., 13700 del 2018, nel caso dell’agente assicuratore del magistrato, rimasto non perseguibile per prescrizione del reato, e 22408 del 2018, nel caso delle ritardate indagini relative alla morte di Giuseppe Uva.
Ma andiamo con ordine.
Già con la sentenza 3759 del 2009, le Sezioni unite avevano posto fine ad un’altra vicenda oggetto di discussione e dibattiti. Il caso Izzo, o meglio il caso dei magistrati di sorveglianza che avevano posto il noto criminale del Circeo in regime di semilibertà, con la conseguenza che il detenuto aveva compiuto alcuni omicidi.
I magistrati di sorveglianza furono sanzionati perché non avevano considerato, in motivazione, elementi di fatto che avrebbero potuto in ipotesi condurre ad una diversa decisione e che avevano l’obbligo di considerare.
Di qui, l’esercizio di una interpretazione non conforme ai protocolli della professione magistratuale e la violazione del dovere di diligenza.
Dunque, la Cassazione ritenne sindacabile l’esercizio di un potere discrezionale, quello di porre in semilibertà un detenuto, perché tale potere non si era estrinsecato attraverso una adeguata motivazione che desse conto di tutti gli elementi acquisiti nel fascicolo processuale, quelli favorevoli, ma anche quelli sfavorevoli al detenuto.
Ricordo le polemiche che accompagnarono quella decisione.
E ricordo che, se all’interno della magistratura quelle polemiche erano mirate a contestare la responsabilità di quei giudici, a Strasburgo l’intervento disciplinare fu ritenuto troppo blando in relazione alla lesione dei diritti fondamentali che ne era derivata dalla loro condotta (CEDU, 15 dicembre 2009, Maiorano e altri c. Italia).
Questo orientamento di legittimità non è più cambiato e le Sezioni unite hanno confermato numerose volte questo principio, come ad esempio con la sentenza 11069 del 2012, all’esito di una vicenda che aveva riguardato un giudice delle esecuzioni civili, sanzionato non tanto o non solo per le singole violazioni di legge corrispondenti a specifici momenti procedimentali, quanto per il comportamento complessivo riguardante l’intera procedura esecutiva.
In quel caso, aveva affermato il giudice disciplinare che ciò che caratterizza l'illecito deontologico, accompagnato o meno dalla irregolarità processuale, è la circostanza che esso è frutto di un atteggiamento del magistrato di ribellione alla legge, ovvero di una caduta di professionalità sotto un livello che deve essere considerato irrinunciabile.
5. La non plausibilità della scelta interpretativa e l’obbligo di esternazione della scelta giurisprudenziale
Successivamente, si è andata facendo strada, al fine di meglio specificare i confini dell’illecito disciplinare, la non plausibilità della scelta interpretativa, concetto utilizzato dalle Sezioni unite nella sentenza 7379 del 2013, in una fattispecie in cui era stato sanzionato un pubblico ministero per ritardata scarcerazione conseguente non ad una mera dimenticanza, ma ad una implausibile attività interpretativa di una norma ai fini del calcolo dei termini di custodia cautelare.
L’arresto giurisprudenziale di legittimità è sintomatico del fatto che, in sede disciplinare, in tema di salvaguardia interpretativa, non si nega certo al giudice il potere di discostarsi dal costante orientamento, anche di legittimità, ma si pone un obbligo di esternare, in motivazione, le ragioni della diversa scelta giurisprudenziale.
La diversa ed originale opzione interpretativa deve essere sorretta quindi da una motivazione non soltanto plausibile, ma anche consapevole dei diversi orientamenti. Il magistrato che dissente ha l’obbligo deontologico di esprimere la consapevolezza dell’opinione che non condivide e delle ragioni per le quali ritiene di andare di avviso contrario.
Deve trattarsi di una scelta interpretativa autentica e non apparente che dia conto di una effettiva riflessione del magistrato sulla decisione adottata.
6. Alla ricerca di un equo contemperamento tra istanze corporative ed istanze giustizialiste.
Si tratta di un principio di diritto del tutto condivisibile, che tra l’altro rappresenta un equo contemperamento tra le istanze garantiste provenienti all’interno della magistratura e le istanze giustizialiste provenienti dall’esterno e, in genere, dalla società.
Perché, vedete, estendere la responsabilità magistratuale al di là di questo principio, rappresenterebbe non una garanzia, ma un pericolo per la stessa società.
Vi sono state negli ultimi anni decisioni giurisprudenziali, di merito e di legittimità, che hanno spostato verso orizzonti più lontani le frontiere dei diritti fondamentali dell’uomo.
Si è trattato, a volte, di decisioni che hanno suscitato il dibattito dell’opinione pubblica, anche perché hanno disatteso precedenti giudiziari di segno contrario, anche consolidati e di legittimità.
A volte, si è trattato di decisioni coraggiose, anche delle Sezioni unite, in mancanza di specifiche leggi che regolamentino specifiche materie. Perché, purtroppo, a noi magistrati non è consentito il non liquet.
E perché l’interpretazione logico-sistematica-evolutiva è il cuore del nostro lavoro ed è la garanzia più autentica dei diritti umani, in continua evoluzione.
E’ un dato di fatto che il diritto a volte precede le riforme legislative per il semplice motivo che i casi concreti e la evoluzione della società viaggiano a velocità più elevata rispetto alle leggi generali e astratte.
E una giustizia troppo conformista, forse, non rende un buon servizio ai cittadini.
Così come non rende un buon servizio ai cittadini, ad esempio, la medicina difensiva.
Per altro verso, però, dire che tutto è interpretazione, anche ciò che non è plausibile, anche ciò che non è esternato in una motivazione che dia conto di tutti gli elementi acquisiti, pro e contro la decisione assunta e che dia conto altresì dell’eventuale dissenso dal c.d. diritto vivente, significherebbe di fatto rendere i magistrati legibus soluti. Il ché francamente mi sembra una strada non percorribile.
7. Giustizia e società.
La Giustizia, oggi, è molto distante dalla società. Certo, la Costituzione assicura importanti guarentigie alla magistratura. In primo luogo, assicura autonomia e indipendenza all’ordine giudiziario ed ai singoli magistrati.
Ma queste guarentigie, per non apparire come incomprensibili privilegi, devono essere correlate ad un sistema di responsabilità che, in ogni settore e, particolarmente, nel settore civile e disciplinare, sia in grado di assicurare i necessari controlli sul corretto esercizio delle funzioni e, in generale, su ogni comportamento del magistrato di ogni grado e funzione.
Altrimenti, si determinano incomprensione, insofferenza, diffidenza, sfiducia, che vanno di pari passo con la delegittimazione crescente non solo o non tanto dei singoli magistrati, quanto dell’Ordine giudiziario nel suo complesso o, peggio ancora, proprio verso la funzione giurisdizionale che dovrebbe invece rappresentare una garanzia per i cittadini e le Istituzioni democratiche.
8. Conclusioni.
L’auspicio è, dunque, nel senso che, tanto il sistema disciplinare, quanto il sistema della responsabilità civile, siano in grado di assicurare un ragionevole bilanciamento tra l’esigenza di salvaguardare l’indipendenza dei magistrati e l’esigenza di renderli responsabili in conseguenza delle loro condotte.
Molto dipenderà da come verranno interpretate le prospettate interpretazioni.
Con il ché spero di non aver fornito al problema complesso che mi è stato sottoposto una soluzione semplice e, per giunta, sbagliata.
Mario Fresa
sostituto Procuratore generale
della Corte di cassazione
Sommario: 1. Premessa. – 2. Natura della revocazione ex art. 397 c.p.c. – 3. Ambito della proponibilità. – 4. I provvedimenti revocandi: le sentenze in senso sostanziale. – 5. Segue: le pronunce della Corte di cassazione.- 6. I motivi di revocazione del p.m.: omesso intervento. - 7. Segue: collusione delle parti – 8. Sul giudizio di revocazione promosso dal p.m.
1. Premessa.
Il tema della revocazione del pubblico ministero ai sensi dell’art. 397 c.p.c. completa, nel presente seminario, il quadro delle impugnazioni del pubblico ministero in materia civile.
Esso appare forse marginale rispetto a quello su cui il corso in particolare si sofferma, e cioè il ricorso nell’interesse della legge. E tuttavia, ancorché siano pochi i casi pervenuti all’esame della Corte di Cassazione relativi alla revocazione ex art. 397 c.p.c., quest’ultimo rimedio partecipa, sia pure in un ambito ben delimitato e circoscritto, alla medesima generale funzione del p.m. a tutela dell’ordinamento,[1] con la rilevante differenza però, rispetto al ricorso ex art. 363 c.p.c., che la revocazione viene ad incidere su una concreta decisione, passata in giudicato.
Il codice di rito (approvato il 28 ottobre 1940), che per la prima volta introdusse il rimedio della revocazione proponibile dal p.m., venne tenuto in considerazione (ancorché sia entrato in vigore il 21 aprile 1942) al momento dell’adozione dell’ordinamento giudiziario (r.d. 30 gennaio 1941, n. 12), tant’è che l’art. 77 dell’ord. giud. ad esso rimanda quando menziona la revocazione da parte del p.m. (“Il pubblico ministero, nei casi e nelle forme stabiliti dalle leggi di procedura, può proporre ricorso per cassazione nell'interesse della legge, ed impugnare per revocazione le sentenze civili, nonché chiedere la revisione delle sentenze penali”).
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* Testo della relazione tenuta il 17 ottobre 2018 all’incontro organizzato a Roma, presso la Corte di cassazione, dalla Scuola Superiore della Magistratura, Struttura di formazione decentrata, nell’ambito del corso “Le impugnazioni del pubblico ministero ed il ricorso nell’interesse della legge (art. 363 c.p.c.)”.
La disposizione di cui all’art. 397 c.p.c., che prevede appunto la “revocazione proponibile dal pubblico ministero” (come recita la sua rubrica), non ha subìto alcuna modifica dalla sua entrata in vigore. La norma dispone che “Nelle cause in cui l'intervento del pubblico ministero è obbligatorio a norma dell'articolo 70 primo comma, le sentenze previste nei due articoli precedenti possono essere impugnate per revocazione dal pubblico ministero: 1) quando la sentenza è stata pronunciata senza che egli sia stato sentito; 2) quando la sentenza è l'effetto della collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge.”
L’analisi della revocazione proponibile dal p.m., per quanto sommaria, non può comunque prescindere dalle modifiche normative o anche dall’interpretazione delle altre disposizioni del codice di rito, alle quali l’art. 397 c.p.c. espressamente o implicitamente rinvia.
2. Natura della revocazione ex art. 397.
Giungere a definire la natura del rimedio revocatorio concesso al p.m. significa necessariamente trarre le conclusioni rispetto all’analisi della disciplina con lo prevede.
Il presente paragrafo è quindi in qualche modo anticipatorio ovvero di sintesi rispetto alle peculiarità dell’istituto che saranno prese in esame nei paragrafi seguenti.
Si tratta indubbiamente di una “revocazione” a carattere speciale, sia con riferimento alla legittimazione del soggetto che la può proporre (il p.m., e non le parti), sia con riferimento ai due specifici motivi.
Questi due motivi danno alla revocazione proponibile dal p.m., invero, una connotazione peculiare; tale revocazione non avrebbe in effetti “carattere univoco: mentre nella prima ipotesi compete al p.m. che non fu parte, e, quindi, ha qualche punto di contatto con la opposizione di terzo, nella seconda ipotesi compete al p.m. che partecipò al procedimento impugnato, ed ha non lievi punti di affinità con altri casi revocazione (si pensi, soprattutto, ai nn. 1 e 2 dell’art. 395).” [2]
Indubbiamente la revocazione ex art. 397 c.p.c. ha connotati propri della “revocazione straordinaria” concessa alle parti dall’art. 395 c.p.c., là dove si è soliti distinguere, appunto, le ipotesi di “revocazione straordinaria” ex nn. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c. (in quanto attinenti a fatti “occulti”, non conosciuti, “esteriori” alla sentenza, non impeditivi del passaggio in giudicato, da far valere con revocazione soggetta a termini decorrenti dalla scoperta di tali fatti, e quindi “in qualsiasi momento in un futuro imprecisabile”) da quelle di “revocazione ordinaria” nei nn. 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c. (in quanto attinenti a fatti intrinseci alla sentenza, impeditivi del passaggio in giudicato ex art. 324 c.p.c., da far valere entro termini fissi di ammissibilità). In questo senso la revocazione del p.m., in quanto proponibile dalla scoperta delle due fattispecie integranti i motivi previsti dall’art. 397 c.p.c., ed in quanto incidente su una decisione ormai in giudicato, può dunque ritenersi a “carattere straordinario”. [3]
E tale è stato l’orientamento anche della Suprema Corte secondo cui “la norma di cui all'art. 397 cod. proc. civ. configura il ricorso per revocazione del p.m. non già come un mezzo di impugnazione che sostituisca quelli ordinari o ne precluda la esperibilità ad iniziativa delle parti, bensì come un rimedio ulteriore, di carattere straordinario, riservato esclusivamente al p.m. e proponibile dal medesimo anche nell'ipotesi in cui la sentenza pronunciata senza che egli sia stato sentito non sia più suscettibile di impugnazione nei modi ordinari ed abbia quindi acquistato efficacia di cosa giudicata”. [4]
3. Ambito della proponibilità
L’art. 397 c.p.c. circoscrive l’ambito della proponibilità della revocazione da parte del p.m. alle sole controversie in cui l'intervento del pubblico ministero è obbligatorio a norma del primo comma dell'articolo 70 c.p.c.
Sia pure per rinvio a tale ultima disposizione (e non anche all’ultimo comma dello stesso art. 70, che prevede l’intervento cd. facoltativo del p.m. “in ogni altra causa in cui ravvisa un pubblico interesse”), il rimedio della revocazione del p.m. può dirsi concesso quindi ratione materiae (in relazione cioè all’oggetto della controversia).[5]
Tuttavia, il primo comma dell’art. 70 c.p.c. a sua volta stabilisce che “il pubblico ministero deve intervenire, a pena di nullità rilevabile d'ufficio: 1) nelle cause che egli stesso potrebbe proporre; 2) nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale dei coniugi; 3) nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone; 4) (abrogato); 5) negli altri casi previsti dalla legge”.
In disparte l’importante ambito costituito dalle “cause matrimoniali” e da quelle “sullo stato e la capacità delle persone”, il riferimento (o meglio il rinvio) alle singole disposizioni di legge (e quindi ad altre materie) è previsto in generale anche per l’individuazione delle cause che il p.m. può proporre (il potere di azione del pubblico ministero è previsto dall’art. 69 c.p.c. “nei casi stabiliti dalla legge”).
Ciò nonostante, occorre tenere distinte le disposizioni ora ricordate dirette a stabilire l’ambito del potere del p.m. per la proponibilità della revocazione, da quelle previste in generale sul potere di impugnazione da parte del p.m., ex art. 72 c.p.c. (ancorché vi siano indiscutibili affinità, con riferimento al potere di azione del pubblico ministero, ex art. 72, primo comma, c.p.c. ovvero alle “cause matrimoniali” ex art. 72, terzo comma, c.p.c.).
Questo per dire come gli orientamenti formatisi sul ruolo del p.m. in ordine al potere di impugnazione non siano di per sé estensibili alla proponibilità del rimedio particolare di cui all’art. 397 c.p.c., tant’è vero che nell’ultimo comma dell’art. 72 c.p.c. si chiarisce, proprio per differenziare i due ambiti, che “restano salve le disposizioni dell’art. 397”.
Ciò consente di rilevare come, a differenza del potere di impugnazione riconosciuto al p.m. in pendenza di giudizio (avente carattere eccezionale [6]), il potere di proporre la revocazione da parte del p.m. abbia un oggetto sicuramente più ampio del primo, comprendendo infatti tutte le controversie in cui l’intervento del p.m. è obbligatorio.
In linea con tale distinguo, può osservarsi dunque come, ad esempio, la pronuncia della Suprema Corte,[7] che in un giudizio per l'attribuzione del cognome paterno ha negato il potere di impugnazione in cassazione da parte del p.m. sul rilievo secondo cui l’intervento del P.M., per quanto obbligatorio, non era connesso ad un potere di azione e di impugnazione, non è estensibile alla eventuale proponibilità della revocazione da parte del p.m. (sussistendone ovviamente gli specifici motivi), giacché per l’art. 397 c.p.c. è sufficiente trattarsi di una causa in cui l’intervento è obbligatorio (ai sensi dell’art. 70, primo comma, c.p.c.).
4. I provvedimenti revocandi: le sentenze in senso sostanziale.
Nell’ambito delle controversie in cui l’intervento del p.m. è obbligatorio (cfr. sub n. 3), la revocazione da parte del p.m. può avere per oggetto “le sentenze previste nei due articoli precedenti” (all’art. 397 c.p.c.). Segnatamente quindi le “sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado” (ex art. 395 c.p.c.) ovvero le “sentenze per le quali è scaduto il termine per l’appello (ex art. 396 c.p.c.).
Due sembrano i problemi che al riguardo possono porsi: in primo luogo, se il riferimento al termine “sentenza” adoperato dal legislatore sia preclusivo della revocabilità di altri tipi di provvedimento, pur allorquando debbano intendersi “sentenze in senso sostanziale” (a contenuto cioè avente carattere definitivo e decisorio, rispetto ai quali è proponibile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost); in secondo luogo, se il riferimento agli artt. 395 e 396 c.p.c. (e non anche agli artt. 391-bis e 391-ter c.p.c. sulla revocazione dei provvedimenti della Cassazione) sia ostativo alla revocabilità ex art. 397 c.p.c. dei provvedimenti della Suprema Corte.
Quanto al primo dei due problemi interpretativi, la Corte di cassazione, in qualche pronunzia, ha escluso, in particolare, la proponibilità della revocazione da parte del p.m. dei decreti con cui il tribunale fallimentare concede o rifiuta gli acconti sul compenso richiesti dal curatore (o dal commissario giudiziale): e ciò, ad avviso di chi scrive, non già perché la revocazione prevista dall’art. 397 c.p.c. sia preclusa, in linea di principio, nei confronti di provvedimenti qualificabili come “sentenze” in senso sostanziale, ma perché detti decreti non implicano, in concreto, tale qualificazione, non comportando definitivi accertamenti in fatto e in diritto in ordine alla spettanza o alla misura del compenso, senza, quindi, alcun pregiudizio rispetto alla futura decisione sul compenso dovuto (per la stessa ragione tale decreti non sono infatti neppure ricorribili per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost.). [8]
D’altro canto, la revocazione ex art. 395 c.p.c. è generalmente ammessa non solo, come previsto, nei confronti di “sentenze” vere e proprie, ma anche di provvedimenti definitivi e decisori (sentenze in senso sostanziale, ricorribili ex art. 111 Cost.).[9]
Non sembrano pertanto emergere ragioni per ritenere inammissibile la proposizione della revocazione dei provvedimenti aventi contenuto decisorio con carattere di definitività qualora la revocazione sia proposta dal p.m.
5. Segue: le pronunce della Corte di Cassazione.
a) Il secondo problema (sulla proponibilità della revocazione del p.m. di sentenze della Corte di cassazione) si pone a seguito della evoluzione interpretativa e normativa intervenuta sulle citate norme di riferimento, soprattutto sull’art. 395 c.p.c., dopo l’approvazione del codice di procedura civile: invero, posto che l’art. 397 c.p.c. è rimasto invariato, si tratta di vedere se le modifiche delle disposizioni cui rinvia il suddetto art. 397 c.p.c. abbiano o meno inciso sull’ambito dei provvedimenti oggetto di revocazione da parte del p.m. (segnatamente quelli emessi dalla Cassazione).
Invero, al momento dell’entrata in vigore del codice di rito era del tutto chiaro che il rimedio ex art. 397 c.p.c. era esperibile solo “contro tutte le sentenze dei giudici di merito di primo, di secondo grado o di unico grado”,[10] ma non invece contro le sentenze della Corte di cassazione, giacché la revocazione delle sentenze della Suprema Corte non era prevista.
A prima vista il carattere eccezionale del rimedio stabilito dall’art. 397 c.p.c. dovrebbe far propendere per una interpretazione restrittiva, di modo che l’art. 397 c.p.c., contenendo un rinvio statico o non recettizio, non rimarrebbe inciso dall’evoluzione interpretativa e normativa che ha portato ad ammettere la revocazione anche delle sentenze (e poi delle ordinanze) della Corte di cassazione (con la disciplina da ultimo introdotta con gli artt. 391- bis e 391-ter c.p.c.).
E tuttavia proprio il lungo percorso interpretativo che ha condotto alla revocazione anche dei provvedimenti definitivi della Corte di cassazione sembra far propendere per l’ammissibilità della revocazione da parte del p.m. (ex art. 397 c.p.c.) anche nei confronti di sentenze o ordinanze della Suprema Corte.
Invero, non può non rilevarsi come l’istituto della revocazione delle sentenze della Corte di cassazione venne introdotto non a seguito di modifiche normative, ma a seguito di ben due sentenze additive della Corte costituzionale che operarono sul testo dell’art. 395 c.p.c. (con la sentenza n. 17 del 1986 la Corte costituzionale dichiarò infatti “l'incostituzionalità dell'art. 395 prima parte e n. 4 c.p.c. nella parte in cui non prevede la revocazione di sentenze dalla Corte di Cassazione rese su ricorsi basati sul n. 4 dell'art. 360 c.p.c. e affette dall'errore di cui al n. 4 dell'art. 395 dello stesso codice”; con la sentenza n. 36 del 17 gennaio 1991, dichiarò “l'illegittimità costituzionale dell'art. 395, n. 4, codice di procedura civile, nella parte in cui non prevede la revocazione di sentenze della Corte di cassazione per errore di fatto nella lettura di atti interni al suo stesso giudizio”).
La parziale incostituzionalità dell’art. 395 c.p.c. (norma così integrata dalle due pronunce additive della Corte costituzionale) in uno con il rinvio “testuale” dell’art. 397 c.p.c. alle “sentenze previste nei due articoli precedenti” e, quindi, all’art. 395 c.p.c. come “emendato” dalla Corte costituzionale (inclusivo, quindi, delle sentenze della Corte di cassazione) sono elementi di valutazione che sembrano deporre per la tesi secondo cui la revocazione da parte del p.m. dovrebbe ritenersi ammissibile (sussistendo gli altri presupposti di proponibilità e i motivi previsi dall’art. 397 c.p.c.) anche nei confronti di sentenze (o di ordinanze definitorie) della Corte di cassazione.
b) Le considerazioni che precedono appaiono sufficienti a ritenere revocabili da parte del p.m. le pronunzie della Corte di cassazione che si dimostrassero “l’effetto della collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge” (art. 397, n. 2, c.p.c.); esse non esauriscono, d’altra parte, la questione con riferimento all’omesso intervento del p.m. (art. 397, n.1, c.p.c.), dovendosi prendere in esame un altro dato normativo, che in definitiva riguarda il ruolo stesso del Procuratore generale della Corte di cassazione nei giudizi civili avanti alla Corte medesima: il combinato disposto costituito dagli artt. 397 e 70, primo comma, c.p.c.
Punto di partenza è l’art. 397 c.p.c. che, nel disciplinare la revocazione proponibile dal p.m., richiama solo il primo comma dell’art. 70 c.p.c. (che prevede le cause in cui l’intervento del p.m. è obbligatorio) e non anche il secondo comma che riguarda l’intervento del p.m. “davanti alla Corte di cassazione” (cioè l’intervento del Procuratore generale della Corte di cassazione a norma dell’art. 76 dell’ordinamento giudiziario).
Appare ragionevolmente difficile sostenere che l’art. 397 c.p.c., tenuto conto dell’epoca della sua emanazione, abbia voluto escludere, con tale limitato richiamo al primo comma dell’art. 70 c.p.c., la revocazione nel caso del mancato intervento del pubblico ministero avanti alla Corte di cassazione, proprio perché, come sopra visto (fino cioè alle cit. pronunzie di incostituzionalità), la revocazione delle sentenze della Corte di cassazione non era prevista. Sembra quindi plausibile l’interpretazione secondo cui il richiamo (dell’art. 397 c.p.c.) al solo primo comma dell’art. 70 c.p.c. sia indicativo solo dell’ambito delle controversie, nei gradi di merito, in cui era ipotizzabile la revocazione del p.m. (testualmente “nelle cause in cui l’intervento del pubblico ministero è obbligatorio a norma dell’art. 70 primo comma…”). Per altro verso, l’obbligatorietà dell’intervento in udienza in tutte le cause civili da parte del Procuratore generale della cassazione rendeva di scarso rilievo concreto l’ipotesi di un vulnus arrecato alla funzione di vigilanza sulla “regolare osservanza della legge” spettante al pubblico ministero, anche nel caso in cui il ricorso per cassazione non fosse stato notificato al Procuratore generale della Corte di appello (nelle controversie in cui il pubblico ministero ha potere di azione e di impugnazione) e la Cassazione non se ne fosse avveduta.
Se il sistema così delineato aveva una sua intrinseca coerenza (pur attribuendosi in tal modo, in definitiva, al Procuratore generale della Corte di cassazione il ruolo, alquanto anomalo in sede di legittimità, di rappresentante anche del pubblico ministero di merito) v’è da chiedersi se tale coerenza permanga nel momento in cui, da un lato, le pronunzie della cassazione sono divenute revocabili e, dall’altro, il Procuratore generale della corte di cassazione non “deve” più “intervenire in ogni causa davanti alla Corte di cassazione” (ma solo “nei casi stabiliti dalla legge”, ex art. 70, secondo comma, c.p.c. come modificato dall’art. 75, comma 1, lett a, del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, conv. in l. 9 agosto 2013, n. 98). Devesi in particolare tenere conto che, nei procedimenti avanti alla sezione sesta civile, egli non è neppure messo in condizione di intervenire (non ricevendo più, a decorrere dal 21 agosto 2013, alcuna comunicazione della convocazione in camera di consiglio – cfr. le modifiche di rito apportate in particolare all’art. 380-bis c.p.c., poi confermate sul punto dalla riforma di cui al d.l. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in l. 25 ottobre 2016, n. 197 -).
Proprio tale ultima ipotesi, relativa ai provvedimenti emessi dalla sezione sesta civile, rende evidente la criticità della soluzione interpretativa tendente ad escludere la revocabilità della pronunzia di legittimità per il mancato intervento del p.m. in Cassazione. In tale contesto normativo infatti il ruolo del pubblico ministero nelle cause in cui la legge ne prevede l’intervento obbligatorio verrebbe irragionevolmente pretermesso proprio nel momento in cui la decisione di merito diventa definitiva.
D’altra parte, risulta realisticamente non prevedibile (se non al prezzo di vanificare in parte qua gli effetti acceleratori o di “smaltimento dell’arretrato” in Cassazione perseguiti dal legislatore con la riforma del rito civile di legittimità del 2016) la soluzione di ritenere, di per sé, non percorribile l’iter procedimentale avanti alla sezione sesta civile per tutti i procedimenti in cui l’intervento del p.m. sia obbligatorio (pena la revocabilità da parte del p.m. ex art. 379 n.1 c.p.c.).
In conclusione, potrebbe prospettarsi l’interpretazione di una proponibilità del rimedio ex art. 379 n. 1 c.p.c. anche nei riguardi delle pronunzie della Corte di cassazione limitatamente a quelle decisioni adottate avanti alla sezione sesta civile (in cui il Procuratore generale della Cassazione non è posto in condizione di intervenire), allorquando, in materia in cui l’intervento del p.m. è obbligatorio, il ricorso per cassazione non sia stato notificato al Procuratore generale della Corte di appello.
6. I motivi di revocazione del p.m.: omesso intervento
Centrale, per la comprensione e la qualificazione del rimedio in parola, è, come si è detto (cfr. sub 2), l’analisi dei motivi per i quali esso è ammesso.
Si tratta di due motivi previsti ad hoc, sì che è presto risultato chiaro per la Corte di Cassazione che “per la proponibilità della revocazione da parte del pubblico ministero non è necessaria la ricorrenza di uno dei motivi per i quali la revocazione è consentita alle parti; è necessario e sufficiente, invece, che il pubblico ministero non sia stato sentito, nonostante che si versasse in un caso in cui il suo intervento è obbligatorio, ovvero che la sentenza sia l'effetto della collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge”. [11]
Non è inutile sottolineare che ciascuno dei due motivi (distinti e autonomi) può essere fatto valere solo ove sussistano, congiuntamente, gli altri presupposti previsti dalla legge di cui si è detto (cfr. sub 3, 4 e 5).
Il primo dei due motivi, consistente nell’omesso intervento del p.m. in giudizio (“quando la sentenza è stata pronunciata senza che egli sia stato sentito”)[12], richiede qualche chiarimento rispetto ad altre disposizioni (in apparenza) sovrapponibili.
Invero gli artt. 70, 158 e 161 c.p.c. qualificano come nullità insanabile e rilevabile d’ufficio l’omesso intervento in giudizio del p.m. (nei casi in cui è obbligatorio). È chiaro che “le parti possono far valere [detta nullità] soltanto nei limiti dell’appello o del ricorso per cassazione; il pubblico ministero dispone invece del rimedio di questa istanza di revocazione proponibile anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza.”[13]
È altrettanto chiaro che se il pubblico ministero viene per tempo a conoscenza del procedimento nel quale egli non è stato posto in condizione di intervenire deve far valere detta nullità attraverso l’impugnazione ordinaria (appello o ricorso per cassazione), rappresentando la revocazione ex art. 397 c.p.c. un “rimedio ulteriore, di carattere straordinario, riservato esclusivamente al P.M. e proponibile dal medesimo anche nell’ipotesi in cui la sentenza pronunciata senza che egli sia stato sentito non sia più suscettibile di impugnazione nei modi ordinari ed abbia quindi acquistato efficacia di cosa giudicata.” [14]
D’altra parte, come sopra già osservato (cfr. sub 3) l’ambito di impugnazione del p.m. nel corso del giudizio è più circoscritto [15] rispetto a quello consentito nella revocazione ex art. 397 c.p.c. Con la conseguenza che il rimedio ex art. 397 n. 1 c.p.c. può rappresentare l’unico mezzo per ovviare all’omessa interlocuzione (obbligatoria) del p.m. come espressamente previsto dall'ultimo comma dell'art. 72 del c.p.c., “il quale può essere considerato norma di chiusura della disciplina dell'attività del pubblico ministero”. [16]
Nell’ipotesi in parola la revocazione proposta dal p.m. può però affiancarsi all’esercizio delle facoltà delle parti nel far valere detta carenza, senza che la composizione dell’eventuale concorso tra l’appello, proposto dalla parte privata per mancato intervenuto del p.m. e la revocazione del p.m. ex art. 397 n.1 c.p.c. sia disciplinata dall’art. 398, quarto comma, c.p.c. (che prevede il concorso tra ricorso per cassazione e revocazione). Autorevole dottrina ha optato per la “preminenza dell’appello sulla revocazione del p.m.”, “stanti la natura d’impugnazione illimitata dell’appello e la mancata comprensione, tra i casi di rimessione al primo giudice, elencati negli artt. 353 e 354” c.p.c.[17]
In realtà, quando il mancato intervento del p.m. è relativo a cause in cui il p.m. è titolare del potere di azione si realizza un’ipotesi di difetto del litisconsorzio necessario, con conseguente rimessione del procedimento al primo giudice, qualora detto difetto sia fatto valere con gli ordinari mezzi di impugnazione.[18] Viceversa, il mancato intervento del p.m. fatto valere con il rimedio della revocazione ex art. 397 c.p.c. comporta che “la causa deve essere nuovamente decisa con l’intervento del pubblico ministero per il solo fatto che non fu presente nel passato giudizio, senza necessità che sussistano altri motivi o condizioni di ammissibilità.”[19]
Il motivo di revocazione in parola darebbe in effetti “vita ad una singolare nullità, la quale sopravvive alla formazione della cosa giudicata formale sol per l’iniziativa del p.m.” [20]
È per tale peculiarità che autorevole dottrina osservò che “per il caso del n. 1 sarebbe stato, a dir vero, più coerente al sistema del codice ammettere il ricorso per cassazione (propter errorem in procedendo).”[21]
7. Segue: collusione delle parti.
Il secondo motivo di revocazione proponibile dal p.m. riguarda l’ipotesi in cui “la sentenza è l'effetto della collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge”.
Anche con riferimento a questa seconda ipotesi (come per la prima) non appare inutile ricordare che il motivo di revocazione può essere fatto valere solo ove sussistano, congiuntamente, gli altri presupposti previsti dalla legge di cui si è detto (cfr. sub 3, 4 e 5).
Nell’ambito dei procedimenti nei quali l’interesse pubblico alla corretta decisione appare determinante - e, quindi, prefissato dal legislatore attraverso la previsione dell’intervento obbligatorio del p.m. -, la norma in parola vuole colpire, a dispetto di un giudicato formale, i casi in cui, le parti, d’accordo fra loro, abbiano raggiunto tale giudicato attraverso l’affermazione di fatti non veri e mediante l’impiego di prove false.
Il terreno in cui un tempo prosperavano queste cause era quello del matrimonio, quando si cercava per questa via di ottenerne l’annullamento; perciò l’introduzione del divorzio ha tolto gran parte dell’importanza pratica alla disposizione.[22] In effetti, i casi pervenuti all’attenzione della Suprema Corte riguardano in gran parte la collusione delle parti in controversie matrimoniali. [23]
In tali pronunzie, così come in quella concernente la collusione delle parti in una controversia di disconoscimento di paternità, la Suprema Corte ha avuto modo rilevare che “il rimedio straordinario della revocazione di cui all'art. 397 cod. proc. civ. può essere attivato solo dal pubblico ministero, con la conseguenza che detto organo è l'unico soggetto legittimato ad impugnare la sentenza che abbia rigettato l'istanza di revocazione e che la parte intervenuta o comunque convenuta nel giudizio non può far valere una sua concorrente legittimazione all'impugnazione”. [24]
In particolare, inoltre, sono stati chiariti i rapporti, quanto alla posizione e alle conclusioni del p.m., tra il giudizio in cui è stata adottata la decisione oggetto di revocazione e il giudizio sulla istanza di revocazione ex art. 397 c.p.c.: “il p.m. è legittimato ad esperire il rimedio della revocazione di cui all'art. 397, numero 2), cod. proc. civ. indipendentemente da quali siano state le sue conclusioni nel giudizio, nel quale è intervenuto, definito con la sentenza revocanda, e quindi anche quando abbia assunto una posizione processuale favorevole alle conclusioni delle parti, accolte nella medesima sentenza, perché, essendo questa il risultato della sottostante volontà delle parti di realizzare uno scopo non consentito dalla legge attraverso l'artificiosa rappresentazione di una situazione diversa da quella reale, anche il p.m. è da ritenersi vittima della collusione, al pari del giudice contro il quale la frode è in via principale rivolta”. [25]
Da rimarcare la differenza di tale ipotesi (rimessa alla revocazione del p.m.), nella quale occorre la collusione di entrambe le parti, rispetto alla revocazione straordinaria ad iniziativa di parte prevista dall’art. 395, n. 1, c.p.c. per la quale occorre il “dolo di una delle parti in danno dell’altra” (che deve rimanerne inconsapevole per tutta la durata del giudizio, altrimenti ciò incidendo sui termini per l’esperibilità della revocazione, che decorrono dalla “scoperta” del dolo o, come esplicitato nel caso di revocazione sulle prove false, “dopo la sentenza” revocanda).
8. Sul giudizio di revocazione promosso dal p.m.
In conclusione, meritano di essere segnalate alcune pronunzie di legittimità in ordine ad aspetti processuali del giudizio di revocazione proposto dal p.m.
Innanzitutto, qualche riferimento sulla norma relativa alla proposizione della domanda. Invero, l’art. 398 c.p.c. prevede al riguardo alcune disposizioni che si riferiscono alla revocazione in generale. Una delle prime pronunzie della Suprema Corte in tema di revocazione proposta dal p.m. ebbe modo di rilevare che “le disposizioni contenute nell'art 398 cod. proc. civ., relative alla proposizione della domanda per revocazione, sono limitate ai casi previsti dall'art. 395, e non si riferiscono alle speciali impugnazioni per revocazione da parte del pubblico ministero, previste dall'art. 397. Deve, pertanto, ritenersi ammissibile la domanda di revocazione, ancorché il PM non abbia indicato nell'atto di citazione, la prova relativa alla collusione ordita dalle parti per frodare la legge ed al giorno della scoperta della collusione. Il PM è tenuto, per la proposizione della domanda di revocazione all'osservanza del termine stabilito dall'art. 326 cod. proc. civ., e deve provvedere nel corso del giudizio, ove sorga contestazione, ad indicare le prove della collusione e del giorno della scoperta di essa”. [26] In effetti il dato testuale della norma che prevede a pena di inammissibilità l’indicazione dei fatti e delle prove si riferisce solo ai “fatti di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395” (e non anche ai fatti di cui all’art. 397 c.p.c.).
In secondo luogo, va ricordato, quanto alla decorrenza del termine dalla scoperta, che non occorre che il p.m. abbia una conoscenza formale (della sentenza o del fatto collusivo) essendo sufficiente che ne abbia notizia “da qualunque fatto o fonte tale conoscenza provenga”.[27]
In terzo luogo, si è detto che il giudizio di revocazione proposto dal p.m. è proponibile (come ogni revocazione straordinaria) senza un termine definito a priori (essendo incerto il momento della scoperta del fatto revocatorio). E tuttavia si è affermato dalla Suprema Corte che “dopo la morte di uno dei coniugi, pretesi colludenti nel giudizio di divorzio, non è più consentito al Pubblico Ministero impugnare per revocazione, ai sensi dell'art. 397 n. 2 cod. proc. civ., la sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, in quanto, trattandosi di diritti personalissimi, la estinzione del soggetto cui essi erano riferibili determina il consolidamento e la definitiva irreversibilità della situazione prodottasi mentre quest'ultimo era in vita”.[28] Il principio è stato affermato partendo dalla considerazione secondo cui, con riferimento alla revocazione da parte del p.m., al di là delle peculiarità che la contraddistinguono, “si tratta pur sempre di un mezzo di impugnazione che presenta gli stessi lineamenti ed ha la stessa funzione della revocazione di cui all'art. 395”, per cui, come per quest’ultimo rimedio, anche quello affidato al p.m. si pone come “un prosieguo (straordinario) del processo definito con la sentenza impugnata”, che “deve svolgersi necessariamente tra le stesse parti (i soggetti originari del giudizio o i loro successori)”. Nel caso di azione di divorzio, non trasmissibile agli eredi “attesa la sua natura personalissima quali che possano essere gli interessi di costoro al riguardo”, il giudizio rescissorio non può essere infatti esperito dopo la morte di uno dei due coniugi, senza che possa rilevare la posizione “super partes” del p.m. “trattandosi di interessi di fatto che la legge non ha inteso di proteggere ad oltranza, in considerazione dell'interesse, giudicato preminente, a non modificare situazioni personali che il diretto interessato poi deceduto non è più in grado di difendere”. [29]
Infine, nel giudizio di revocazione promosso dal p.m. ex art. 397 c.p.c., ogni altro interessato alla causa può solo intervenire nel giudizio ai sensi dell'art 105, secondo comma, cod. proc. civ., con la conseguenza che, trattandosi di intervento adesivo dipendente, all'intervenuto non compete il diritto di impugnare la sentenza che ha deciso sull'istanza di revocazione, spettando tale diritto unicamente al p.m.[30] Il principio vale, ovviamente, per il solo giudizio rescindente che si sia concluso con il rigetto dell’istanza di revocazione avanzata dal p.m. ex art. 397 c.p.c.[31]; ove invece l’istanza venga accolta, il giudizio rescissorio fa riespandere i poteri delle parti, alla stessa stregua dell’originario giudizio di merito.
[1] Si ricorda l’art. 73 dell’ord. giud. sulle “attribuzioni generali del pubblico ministero”: “Il pubblico ministero veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci, richiedendo, nei casi di urgenza, i provvedimenti cautelari che ritiene necessari (…)”.
[2] Così Andrioli, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, p. 938.
[3] Si veda Redenti, Diritto processuale civile, Milano, 1953, volume II, p. 495, secondo cui “la legge ammette finalmente ac sine die la speciale istanza di revocazione straordinaria da parte del pubblico ministero di cui all’art. 397”.
[4] Così Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2324 del 21/10/1961; nello stesso senso della qualificazione di rimedio a carattere straordinario anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 799 del 20/03/1971; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7686 del 23/06/1992; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11960 del 02/12/1993; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6302 del 16/03/2007.
[5] Con riferimento al potere di impugnazione del p.m., e quindi con riferimento anche al primo coma dell’art. 70 c.p.c., la Corte di cassazione ha osservato che “il potere di impugnazione trova il confine della materia in cui può esercitarsi il potere di azione, …, non potendosi inoltre fondare la legittimazione al ricorso su un generico obbligo di tutela dell'"interesse della legge" incombente sul P.M., tale interesse essendo previsto solo in relazione al ricorso del Procuratore generale presso la Corte di cassazione ex art. 363 cod. proc. civ.” (così Cass. Sez. 1, Sentenza n. 10779 del 04/11/1997).
[6] Così Cass. Sez. 1, Sentenza n. 13281 del 07/06/2006, secondo cui: “Nel giudizio avente ad oggetto il diritto del minore ad assumere il cognome del padre che lo ha riconosciuto, il P.M. interviene a pena di nullità, ai sensi dell'art. 70, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., trattandosi di controversia in materia di stato, ma non può esercitare l'azione né proporre impugnazione, avendo il relativo potere carattere eccezionale, ed essendo esso esercitabile solo nei casi espressamente previsti dalla legge” (massima tratta dal CED della Cassazione).
[7] Cit. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 13281 del 07/06/2006.
[8] Cass. Sez. 1, Sentenza n. 19711 del 02/10/2015; Cass., Sez. I. 7 ottobre 2011, n. 20652; Cass., Sez. 1. 31 agosto 2010. n. 18916.
[9] Si vedano, ad esempio, Cass. Sez. 1, Sentenza n. 8438 del 25/08/1998, con riferimento all’ordinanza sulla opposizione al decreto di liquidazione del compenso a periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori; Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 14622 del 13/06/2017, con riferimento all’ordinanza, ex art. 348-bis c.p.c., dichiarativa dell'inammissibilità dell'appello, qualora assuma il carattere sostanziale di sentenza e sia, quindi, ricorribile per cassazione.
[10] Così Redenti, Op. cit., p. 495.
[11] Così Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2993 del 09/11/1960.
[12] Pacifico nella giurisprudenza di legittimità l’orientamento secondo cui «Per l'osservanza delle norme che prevedono l'intervento obbligatorio del P.M. nel processo civile … è sufficiente che gli atti siano comunicati all'ufficio del P.M. per consentirgli di intervenire nel giudizio, mentre l'effettiva partecipazione e la formulazione delle conclusioni sono rimesse alla sua diligenza» (si veda da ultimo Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 15928 del 2018, che richiama a sua volta Sez. 2, Sentenza n. 19727 del 23/12/2003; conf. Sez. 3, Sentenza n. 9713 del 21/05/2004; Sez. 1, Sentenza n. 25722 del 2008 e n. 24684 del 04/11/2013.
[13] Liebman, Manuale di diritto processuale civile, Milano, 1984, volume II, p. 377.
[14] Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2324 del 21/10/1961.
[15] A volte il legislatore, in determinati ambiti, ha espressamente limitato il potere di impugnazione da parte del p.m. solo su determinate questioni oggetto della decisione; si veda l’art. 5, quinto comma, della legge n. 898 del 1970, che disciplina i casi di scioglimento del matrimonio, secondo cui: “Il pubblico ministero può, ai sensi dell'articolo 72 del codice di procedura civile, proporre impugnazione limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci”.
[16] Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4780 del 02/05/1991, secondo cui “L'audizione del P.M., richiesta dall'art. 32 della legge 4 maggio 1983 n. 184 per la dichiarazione di efficacia nello Stato, a titolo di affidamento preadottivo, della sentenza di adozione di un minore emessa da un'autorità straniera, è prevista a pena di nullità, il che abilita lo stesso P.M., nell'ipotesi di pronuncia del provvedimento - per il quale è stabilito un procedimento in unico grado - senza che tale audizione sia avvenuta, alla proposizione non del ricorso per cassazione, ma di quello per revocazione ex art. 397 n. 1 cod. proc. civ., a norma dell'ultimo comma dell'art. 72 cod. proc. civ.” (massima tratta dal CED della Cassazione).
[17] Andrioli, Op. cit., p. 939.
[18] Gli effetti sul procedimento conseguenti alla nullità (per omesso intervento obbligatorio del pubblico ministero) sono diversi a seconda che il pubblico ministero rivesta o meno la qualità di litisconsorte necessario: nel primo caso si ha una lesione del contraddittorio tale da giustificare la rimessione degli atti al primo giudice ex art. 354 c.p.c.; nel secondo caso, l’omesso intervento obbligatorio comporta una nullità rilevabile d’ufficio che si traduce in motivo di gravame ai sensi dell’art. 161 c.p.c. (in tal senso da ultimo Cass. Sez. 1 - , Sentenza n. 3638 del 14/02/2018; Cass. Sez. U, Sentenza n. 1093 del 18/01/2017).
[19] Liebman, Op. cit., p. 377.
[20] Andrioli, Op. cit., p. 939.
[21] Redenti, Op. cit., p. 496.
[22] Così Liebman, Op. cit., p. 378.
[23] Ad es. Sez. 1, Sentenza n. 2126 del 29/07/1963; Sez. 1, Sentenza n. 7686 del 23/06/1992; Sez. 1, Sentenza n. 11960 del 02/12/1993.
[24] Sez. 1, Sentenza n. 6302 del 16/03/2007, in Dir. di famiglia e delle persone, 2008, 3, 1, p. 1097, con nota di DANOVI Filippo, Gradazioni della prova e costituzione di status: la revocazione del P.m. come rimedio agli accordi collusivi tra le parti.
[25] Cit. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6302 del 16/03/2007.
[26] Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2126 del 29/07/1963.
[27] Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1969 del 23/07/1964, secondo cui “Ai fini della impugnazione per revocazione, da parte del pubblico ministero, ai sensi dell'art. 397 n.1 cod. proc. civ., in relazione all'art.326 dello stesso codice, il termine per la proposizione di detta impugnazione decorre dal giorno in cui il PM ha conoscenza (ossia notizia) della sentenza pronunciata, senza che egli sia stato sentito, in cause in cui il suo intervento sarebbe stato, invece, obbligatorio, da qualunque fatto o fonte tale conoscenza provenga” (massima tratta dal CED della Cassazione).
[28] Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7686 del 23/06/1992, in 1992, in Foro it. 1993, 1, 1, p. 11, con nota di CIPRIANI FRANCO, L'agonia del pubblico ministero nel processo civile.
[29] Cfr. motivazione cit. Cass. n. 7686 del 1992.
[30] Cass. Sez. 1, Sentenza n. 799 del 20/03/1971.
[31] Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11960 del 02/12/1993.
Sommario: 1.Una riflessione sul ruolo della nostra funzione.- 2. Il ruolo del magistrato quale garante del rispetto della dignità delle persone coinvolte nel processo. - 3. Esercizio della giurisdizione nella consapevolezza di incidere “sulla pelle” dei cittadini.
1. Una riflessione sul ruolo della nostra funzione.
Il dibattito che iniziato dopo l’uscita del film “Sulla mia pelle”, che tratta della vicenda Cucchi, e le polemiche a proposito della opportunità di partecipare a discussioni, dibattiti o iniziative che riguardino quella vicenda, o, più in generale, processi ancora in corso, o vicende comunque ancora in qualche modo aperte, suggeriscono, al di là del caso contingente, e anche del dibattito a proposito della possibilità e della opportunità di discutere pubblicamente di vicende non concluse, una riflessione più ampia e di carattere più generale, sul nostro ruolo e la nostra funzione, sul modo di intenderli, vederli e viverli, e, soprattutto, a proposito del modo di esercitare quotidianamente la giurisdizione.
Per un insieme di ragioni il modo quotidiano di esercitare la giurisdizione, di svolgere la nostra funzione, di fare il “mestiere” del giudice, la stessa consapevolezza della fatica e della difficoltà del giudicare (di cui tanto parla Dante Troisi nel suo libro, Diario di un giudice, che continua a essere sempre attuale, nella illustrazione delle dinamiche psicologiche e relazionali insiste nel nostro lavoro), sono, progressivamente ma costantemente, mutati in modo profondo.
Questo mutamento è dovuto a un insieme di ragioni, difficili da individuare tutte e complesse da analizzare, tra cui, oltre ai cambiamenti della società, più competitiva, più frenetica, più individualista, ci sono sicuramente i mutati modelli ordinamentali e organizzativi e una diversa visione del lavoro giudiziario.
La riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006/2007, con l’introduzione della scansione quadriennale delle valutazioni di professionalità e la strutturazione in modo più gerarchico degli uffici di Procura, ha indubbiamente determinato, specie nei colleghi più giovani, “nati” con questo ordinamento, un atteggiamento di maggior cautela e prudenza nelle decisioni da prendere e molta più attenzione per gli esiti numerici del lavoro svolto, proprio in funzione delle valutazioni dei dirigenti e del rapporti con i capi, in particolar modo negli uffici di Procura.
La riforma della disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati ha determinato, anch’essa, atteggiamenti ispirati a conformismo, timori circa la valutazione e gli esiti del proprio lavoro, e il desiderio, al di là dei risultati concreti della propria azione, di essere non criticabili, non censurabili e esenti da responsabilità.
La disciplina sulla eccessiva durata dei processi, con le connesse e conseguenti responsabilità dello Stato, e le possibili rivalse verso i singoli, ha concorso anch’essa a determinare una mutata sensibilità verso la durata dei processi, certamente apprezzabile, ma che ha finito per diventare quasi un feticcio, al quale, se necessario, sacrificare, in nome del rispetto dei tempi massimi di durata delle singole fasi processuali, le esigenze di approfondimento, quando si pongono in conflitto con i “tempi”.
La mutata visione della prospettiva del lavoro giudiziario, nel quale, come avviene nella produzione dei beni e dei servizi, occorre avere riguardo ai risultati, come reso palese, nel settore civile, dai programmi di gestione ex art. 37, nei quali i dirigenti devono dare conto, a consuntivo, dei risultati raggiunti rispetto ai programmi degli anni precedenti, e proporre i risultati da perseguire con il programma per l’anno successivo, ha ulteriormente concorso a introdurre una, a volte esasperata, attenzione verso i risultati meramente numerici e quantitativi del nostro lavoro.
La quasi ossessiva attenzione per i risultati numerici del lavoro giudiziario, con la sistematica e regolare diffusione di statistiche sempre più dettagliate (corredate da grafici, torte e indici di ricambio), ha concorso a determinare lo sviamento, dal contenuto della attività giudiziaria ai numeri in cui essa può rappresentata o sintetizzata.
E’ risalente, ma sempre acceso, il dibattito al nostro interno tra i sostenitori degli standard di rendimento e quelli dei carichi esigibili, entrambi non ancora realizzati e, forse, irrealizzabili, ma è significativo del peso, ormai insopportabile, che il carico di lavoro e la pressione per il suo rapido esaurimento determinano sul nostro lavoro e sul nostro modo di intenderlo.
Il mutato quadro disciplinare e, soprattutto, l’attenzione, anch’essa sempre più penetrante, verso la tempestività del deposito dei provvedimenti, hanno concorso a determinare il timore per i ritardi nei depositi e la tendenza a cercare di depositarli “pur che sia”, spostando l’attenzione dal loro contenuto alla tempestività.
Tutto questo ha finito per determinare quel mutamento di approccio alla giurisdizione, al modo di intenderla e di esercitarla quotidianamente, che si manifesta in varie forme: con la giurisprudenza c.d. difensiva e il conformismo interpretativo; con l’attenzione esasperata alla produttività, alla durata dei procedimenti e alla tempestività del deposito dei provvedimenti; soprattutto con il venir meno della visione della giurisdizione come servizio per il cittadino, di cui ascoltare le istanze e salvaguardare i diritti, ponendo in essere tutti gli sforzi necessari e impiegando tutte le energie a disposizione per dare una risposta adeguata alla domanda di giustizia.
2. Il ruolo del magistrato quale garante del rispetto della dignità delle persone coinvolte nel processo.
In questo quadro, in quella che da molti è stata definita la “deriva burocratica della magistratura”, si inserisce la riflessione suggerita dal film e dal dibattito che ne è seguito: senza alcun riferimento al caso specifico, e anche alle prassi di singoli uffici, ciò su cui occorre fermarsi a riflettere è il venir meno del senso della giurisdizione come servizio per i cittadini, che devono poter trovare ascolto e protezione quando si trovino davanti a un giudice in un’aula di Tribunale.
Si pone, dunque, il problema di recuperare il senso della giurisdizione come servizio per i cittadini, fondata sulla attenzione per la loro condizione, le loro esigenze, le loro domande, soprattutto i diritti.
Mi riferisco, anzitutto, al diritto alla dignità degli arrestati, all’obbligo e alla necessità per i pubblici ministeri e i giudici di vagliare attentamente l’effettiva esistenza dei presupposti per la limitazione della libertà personale e di verificare le condizioni degli imputati; alle aspettative delle vittime e delle persone offese; ai diritti dei terzi nel processo penale; ma anche alle reali condizioni dei richiedenti una forma di protezione internazionale (cioè dello status di rifugiato o della protezione internazionale, essendo stata radicalmente trasformata la protezione umanitaria, che consentiva, al di là della esistenza dei presupposti per il riconoscimento delle forme di protezione tipizzate, di prestare attenzione alle condizioni di persone disperate e meritevoli di attenzione e tutela da parte dello Stato); alle condizioni delle parti della cause di sfratto, o dei procedimenti fallimentari e di esecuzione civile; alle situazioni familiari e dei minori e dei soggetti deboli.
Tendiamo, sopraffatti dal carico di lavoro e da mille pressioni, a dimenticare che “dietro le carte” ci sono persone, diritti, aspettative, vicende umane spesso tristi e dolorose, sulla cui pelle le nostre decisioni sono destinate a incidere, spesso irreversibilmente, a volte frustrando quelle aspettative o non tutelando appieno quei diritti, facendo prendere alle esistenze delle persone che ci troviamo a giudicare direzioni diverse.
3. Esercizio della giurisdizione nella consapevolezza di incidere “sulla pelle” dei cittadini.
Occorre, allora, ritornare all’idea e alla pratica della giurisdizione come servizio per i cittadini, con la necessaria e doverosa attenzione alle loro condizioni, alle loro esigenze, ai diritti che rivendicano o di cui sono titolari e che rischiano di essere conculcati, nella consapevolezza che l’esercizio della giurisdizione è destinata a incidere sulla loro “pelle”, e, quindi anche “sulla nostra pelle”.
Perciò occorrono una diversa e rinnovata consapevolezza della funzione e dello scopo della giurisdizione, abbandonando visioni burocratiche e prospettive carrieristiche del nostro lavoro, a cominciare dai dirigenti (o “capi”, come li definisce sempre Dante Troisi nel Diario), che spesso determinano l’ansia produttivistica e l’attenzione esasperata per gli esiti meramente numerici del lavoro giudiziario, e anche dai colleghi più esperti, meno soggetti al timore delle cicliche valutazioni quadriennali, che possono essere promotori di tale rinnovato approccio.
Si può pensare a prassi da instaurare negli uffici, a seconda della tipologia di affari da trattare, che stimolino una rinnovata attenzione alle esigenze delle persone (per esempio per quello che riguarda l’esercizio del potere del pubblico ministero di disporre l’immediata liberazione degli arrestati; i criteri di priorità nella trattazione degli affari; i criteri da adottare nell’esame delle domande di protezione internazionale, e anche per la valutazione delle situazioni dei paesi di origine dei richiedenti asilo e per formulare il giudizio sulla loro credibilità; le prassi da seguire nelle istruttorie prefallimentari; le priorità nella trattazione degli affari civili), che tengano conto dei diritti e delle esigenze delle persone, siano essi imputati, parti, persone offese o terzi.
Si possono intensificare i contatti e le collaborazioni con i servizi sociali e, più generale, con le associazioni e gli enti che rappresentano i soggetti deboli, per avere contezza delle realtà sottostanti le vicende di cui ci occupiamo e della incidenza su di esse delle nostre decisioni.
Pur non dovendo ricercare il consenso popolare, è necessario tentare di invertire la rotta rispetto alla deriva che rischiamo di prendere, per riportare al centro della giurisdizione la persona.
1. La diffidenza. - 2. La prudente attuazione. -3. I sorprendenti effetti.
1. La diffidenza.
L’approvazione della circolare sulle tabelle per il triennio 2017/2019 ha costituito per me, e immagino per la maggioranza dei dirigenti, un momento di dovuto impegno ma anche di correlato stress.
Ogni nuova circolare, infatti introduce innovazioni, regolamenta best practies già diffuse, in sostanza disegna un assetto in parte nuovo alla struttura organizzativa dell’ufficio che impone uno sforzo innanzitutto interpretativo e poi attuativo non indifferente, considerato che in molti casi occorre cambiare prassi, magari non del tutto corrette che si erano frattanto stabilizzate, e far abituare al nuovo modello sia il dirigente che tutti gli attori coinvolti, i magistrati, il personale amministrativo, i giudici onorari, gli avvocati.
E’ dunque un documento consiliare atteso ma anche temuto.
Immaginiamo quindi la reazione del dirigente allorché in quel temuto documento oltre ad essere inserite una serie di regole precise e con confini ben delimitati vengono espresse talune disposizioni che, oltre a regolare casi precisi, introducono una sorta di filosofia organizzativa che come tale non è codificata con precisione ma rimessa alle determinazioni concrete del capo dell’ufficio.
Sto ovviamente riferendomi al contenuto del titolo IV della circolare 2017/2019 intestato appunto «del benessere organizzativo, della tutela della genitorialità e della salute».
Ovviamente la difficoltà non è stata determinata dalle disposizioni di tutela della maternità o della salute dei magistrati che già erano presenti nelle precedenti circolari e che comunque erano già entrate, sebbene mai adeguatamente, nell’ottica organizzativa dei dirigenti, quanto piuttosto nelle norme di principio che costituivano invece assoluta novità.
E allora non posso sottrarmi dall’ammettere che, come spesso accade quando ci si confronta con nuove regole, ho avuto una reazione piuttosto infastidita osservando che probabilmente si trattava della solita demagogia che avrebbe semplicemente comportato fiumi di parole, magari ben scritte, ma di ben poca utilità.
Insomma una reazione a caldo di chiara tendenza conservatrice.
Fatta questa breve premessa, utile però a comprendere l’approccio, occorreva lavorare e, volente o nolente, adeguarsi.
2. La prudente attuazione.
Innanzitutto, proprio in conseguenza della reazione conservatrice che ho descritto, ho ritenuto opportuno documentarmi sul concetto stesso di benessere organizzativo nella sicura convinzione che se devi operare un’innovazione innanzitutto è necessario comprenderne il senso.
La circolare, se l’avevo letta bene, offriva la possibilità di una libera interpretazione delle modalità attraverso le quali il dirigente può realizzare in concreto l’obiettivo del benessere organizzativo, sicché occorreva approfondire proprio questo concetto per costruire un insieme di regole che avesse una chiara direzione.
Il senso delle regole è infatti il presupposto della loro efficacia.
Proprio in questa prima fase mi rendevo conto che la magistratura è arrivata al benessere organizzativo più tardi di altre amministrazioni pubbliche ma anche del settore privato, dove invece il tema era già sostanzialmente scontato. Addirittura, ma è abbastanza ovvio, il benessere psico-fisico dei lavoratori è considerato da tempo un fattore di crescita della produttività per i benefici che un positivo ambiente di lavoro produce sul singolo.
Mi sono chiesta allora se questa introduzione del benessere organizzativo tra i principi di fondo della circolare fosse un ulteriore sintomo di quella che alcuni, anche tra noi, indicano come “deriva produttivistica” o invece avesse un significato positivo, ossia quello di considerare lo star bene nell’ambiente di lavoro come un requisito imprescindibile di un’amministrazione che non punta solo al rendimento ma che tiene conto dell’uomo nella sua globalità.
Ho scelto senza particolari dubbi la seconda interpretazione anche perché sono fermamente convinta che la “deriva produttivistica” nel nostro settore sia una frettolosa generalizzazione frutto di una visione reazionaria ed egocentrica di qualche “antico” dirigente in quanto invece le statistiche, il controllo della produttività sono solo strumenti che servono al giudice per conoscere il lavoro che fa, per esserne davvero padrone e questo sia in funzione dell’utenza ma anche per un maggiore “benessere” organizzativo perché chi conosce usa meglio il suo tempo.
Cominciavo così, lentamente però, a vedere in quella modifica degli aspetti positivi.
Ma ancora non ne avevo compreso il senso.
Con dovuta pazienza provvedevo quindi a svolgere le consuete riunioni con i vari partecipi alla formazione delle tabelle, primi fra tutti ovviamente i magistrati togati ed onorari dell’ufficio, iniziando innanzitutto a confrontarmi in concreto con le esigenze specifiche dei colleghi in tema di maternità, prole minore, eventuali problemi di salute, raccogliendo le loro richieste e le loro prospettive.
Fin qui tutto abbastanza ordinario.
Ma ovviamente non poteva essere questo il significato della circolare.
«L’organizzazione dell’ufficio deve garantire il benessere fisico, psicologico e sociale dei magistrati» (art. 271) e, soprattutto «E’ compito del dirigente dell’ufficio attivarsi, oltre che per raggiungere obiettivi di efficacia e di produttività, anche per mantenere il benessere fisico e psicologico dei magistrati, attraverso la costruzione i ambienti e relazioni di lavoro che contribuiscano al miglioramento della qualità della loro vita professionale» (art. 274).
Queste due norme non potevano essere interpretate restrittivamente, prevedendo semplicemente una serie di regole in ordine ai vari metodi per assicurare la tutela della genitorialità, della maternità, di situazioni specifiche di infermità o comunque di particolari necessità familiari.
Era chiaro che con la circolare il Consiglio Superiore chiedeva molto di più, un mutamento di passo.
Non so se quello che ad un certo punto mi è venuto in mente è il senso vero della circolare ma in ogni caso questa è stata la mia interpretazione, ovviamente partendo dal tenore della normativa secondaria.
Per stare ad un parallelo esemplificativo, ho pensato che in questa circolare si volesse fare esattamente il contrario di quello che il legislatore aveva fatto con la disciplina della recidiva nell’ambito penale.
Come è a tutti noto, in base ad un presunto intendimento di rigore verso chi ricadeva nel reato, il legislatore, a poco a poco correttamente sconfessato dalla Consulta, aveva stabilito una serie di infernali regolette dirette a ridurre la discrezionalità nella determinazione della pena, sicché il ruolo importantissimo demandato al giudice di conformare la pena alle specificità del caso concreto era stato pericolosamente ridotto.
Qui invece, per fortuna, il messaggio appariva, forte e chiaro, di segno opposto.
A fronte della struttura fondamentale delle tabelle dirette a garantire con le loro regole piuttosto rigide una organizzazione il più possibile omogenea di tutti gli uffici giudiziari, si configurava una nuova disciplina che invece, dovendo tenere conto delle diversità di ogni realtà organizzativa, delle esigenze dei magistrati di un determinato ufficio, delle loro peculiarità - in sintesi dell’umanità dell’ufficio - inseriva una sorta di soggettivizzazione delle tabelle dando al dirigente la possibilità di interpretare queste peculiarità per rendere il progetto tabellare la migliore e più “umana” organizzazione di quello specifico ufficio. Potremmo dire, magari con un po’ di enfasi, la “fantasia al potere”.
Da qui le disposizioni in tema di flessibilità organizzativa (art. 278), di risoluzione accorta e specifica di eventuali conflitti (art. 276), la voluta assenza di regole predeterminate per affrontare le difficoltà soggettive dei magistrati, affidando invece, con prudenza e fiducia, la soluzione al dirigente in relazione alle particolarità e alle esigenze del caso concreto (misure organizzative indicate in modo solo esemplificativo dagli artt. 279 e 280).
Sulla base di questa interpretazione provvedevo quindi a redigere le mie tabelle.
Utilizzando una disciplina molto flessibile, rispettosa delle esigenze dei colleghi ma idonea ad essere modificata all’occorrenza, anche tenendo conto dei bisogni complessivi dell’ufficio. Ovviamente il tutto con il pieno accordo dei colleghi.
Ma ancora qualcosa mi sfuggiva o meglio non avevo ancora trovato quella che poteva essere la scelta di fondo per il mio ufficio in base alle caratteristiche dei soggetti che lo componevano e non soltanto con riferimento alle situazioni patologiche che potevano di volta in volta riguardarli ma invece a regime.
La base dell’ispirazione però l’ho trovata nelle stesse norme del titolo IV - appunto quelle intestate al benessere organizzativo - in particolare negli articoli 275 e 276 che codificano la gestione partecipata dell’ufficio, che non si declina solo, come emerge dalle stesse, nella partecipazione dei colleghi alle scelte nel corso delle riunioni ma in una gestione partecipata dell’organizzazione, demandando ad ogni singolo giudice fette di responsabilità.
In effetti godevo e godo di colleghi con significative capacità di autorganizzazione dei loro specifici ruoli, segno evidente di una attitudine organizzativa in generale ed è di questo tesoretto peculiare che mi sono avvalsa.
E così, parte fondamentale della scrittura del capitolo sul benessere organizzativo l’ho concentrata proprio sul coinvolgimento dei colleghi nelle scelte organizzative dell’ufficio attraverso un loro diretto apporto in diversi progetti organizzativi, si badi bene però, non diretti a evitarmi il lavoro, quanto piuttosto a sviluppare altri filoni di intervento.
Solo per esemplificare, perché l’elenco sarebbe lungo, tenendo conto delle inclinazioni dei singoli, ho attribuito ad alcuni l’incarico di rapportarsi con gli enti territoriali per la realizzazione di progetti che coinvolgono le realtà locali, ad altri il compito di favorire i rapporti con il mondo della scuola attraverso progetti di vario tipo (ad esempio realizzazione da parte degli alunni di processi simulati per introdurli concretamente all’interno del funzionamento dei tribunali), ad altri ancora compiti di innovazione non solo informatica, ad altri poi gli incarichi codificati (Magrif); li ho inseriti in stabili osservatori nel settore civile e penale, composti unitamente ai colleghi del pubblico ministero e agli avvocati del Foro, per scambiare opinioni sulle riforme e per controllare l’andamento dell’ufficio in quei settori, li ho chiamati a far parte dell’ufficio statistico che mensilmente redige il c.d. cruscotto ed il bollettino statistico, tenendo sotto controllo i flussi per attuare gli opportuni correttivi e molto altro ancora.
Ogni incarico è stato preceduto da apposito interpello al quale i colleghi, in assoluta maggioranza, hanno partecipato in maniera entusiasta, tanto che in alcuni casi ho dovuto aumentare i partecipanti alle diverse iniziative perché non volevo frustrare quella così corale risposta.
Alla fine praticamente tutti i magistrati dell’ufficio, colleghi e colleghe, hanno un progetto da realizzare.
Ovviamente insieme a questa struttura partecipata ho previsto, con non poche difficoltà operative, una serie di innovazioni dirette ad assicurare un migliore ambiente di lavoro. Si tratta di progetti ancora in divenire perché talune novità (realizzazione della nursery, di un punto cardiologico, di una zona relax) sono strettamente collegate al passaggio nel nuovo palazzo di giustizia, mentre in quello attuale ci si confronta giornalmente con strutture molto precarie e con condizionatori che si bloccano con effetti evidenti sull’umore dei colleghi.
Peccherei tuttavia di scarsa onestà intellettuale se mancassi di dire che inizialmente non avevo ben chiaro dove tutto questo mi avrebbe condotto e se i risultati sarebbero stati positivi ed in che termini.
3. I sorprendenti effetti.
Veniamo quindi al momento più delicato, ossia quello degli effetti di questa impostazione tutta calibrata sulla partecipazione organizzativa, intendiamoci bene però, come metodo per migliorare la vita relazionale all’interno dell’ufficio.
Ebbene i risultati non si sono fatti attendere e devo dire che li ho visti manifestarsi plasticamente in una occasione ufficiale, ossia nel corso della visita del Consiglio Giudiziario, nell’ambito dei poteri di vigilanza sul buon andamento degli uffici, presso il mio ufficio il 7 giugno dell’anno in corso.
In quella occasione mi sono limitata ad un breve inquadramento generale della situazione organizzativa mentre i veri protagonisti sono stati i colleghi del penale come del civile, tutti manifestando una consapevolezza dei metodi di gestione dell’ufficio, dei risultati che si volevano ottenere, dell’utilità del controllo statistico di cui conoscevano sistemi e potenzialità in modo davvero inimmaginabile, descrivendo ognuno il suo progetto ed ambito di intervento con competenza e, ribadisco, consapevolezza, contenti – è opportuno utilizzare questo termine – di far parte di questo ufficio e l’uno soddisfatto dei risultati dell’altro.
Ma non solo, al di là di questo momento di sintesi, sono stati fatti tantissimi passi avanti in tema di rapporti con il territorio (ad esempio nel delicato settore della tutela delle famiglie in crisi e attraverso la realizzazione dei c.d. sportelli di prossimità), con la scuola, in progetti per la tutela della salute, nei rapporti con il Foro e tanto altro.
Peraltro la presenza di numerosi progetti e di conseguenziali momenti di confronto ha avuto l’incommensurabile pregio di incentivare l’aggregazione in verità entrata in crisi con l’introduzione del giudice monocratico.
Direi, più scambio e meno diffidenza reciproca. Una crescita culturale per l’intero ufficio.
Tutti sono stati coinvolti nell’organizzazione e ne hanno anche beneficiato perché molti progetti sono stati anche efficaci a meglio gestire ed organizzare il lavoro dei singoli.
Naturalmente non è la soluzione di ogni male, chiariamoci, però è un metodo che può far stare meglio.
Non nego peraltro, questa volta nell’ottica egoistica del dirigente, che la consapevolezza e la conoscenza dei problemi dell’ufficio tendono a rendere i colleghi molto meno rissosi ma anzi pronti a collaborare. Se si comprende bene perché c’è crisi in un dato settore si capisce anche che in taluni casi protestare è vano ed addirittura controproducente.
L’organizzazione partecipata in questi termini opera a monte anche sulle conflittualità.
Sul punto occorre però dire subito che quello delle conflittualità e del ruolo del dirigente per risolverle mi pare un terreno minato. E’ troppo facile entrare in dinamiche personali e addirittura in conflitti di tipo strettamente privato; un invasione di campo che, a mio avviso, va attentamente evitata.
Va sorvegliata certo l’incidenza dei contrasti sull’andamento dell’ufficio ma con molta attenzione a mantenere il giusto rispetto per la vita privata dei colleghi.
Allora mi pare di potere dire che il benessere organizzativo passi innanzitutto dal rispetto per le giuste esigenze di ogni singolo giudice e poi dalla condivisione organizzativa.
Se poi come credo – e come accadrà – sarà possibile garantire anche luoghi di lavoro che assicurino maggiori confort è evidente che vi sarà anche un benessere organizzativo di ritorno, ossia il magistrato vivrà meglio nell’ambiente di lavoro, sarà più realizzato e tutto il funzionamento dell’ufficio ne risentirà positivamente.
Restano invariate le problematiche connesse alla carenza di organico, al temuto e ricorrente turn-over, alla carenza di personale amministrativo, alle strutture fatiscenti.
Certo in questi anni ci siamo adoperati e continuiamo a farlo attraverso convenzioni con il Foro o con altri soggetti (anche) per migliorare i luoghi di lavoro. Pensiamo agli asili nido realizzati negli uffici, ai collegamenti skype per consentire al collega in difficoltà di partecipare da casa alle riunione dell’ufficio, ai punti ristoro realizzati artigianalmente portando magari da casa piccoli attrezzi ginnici o altri oggetti idonei a tali fini.
Ma di certo non ci possiamo sostituire agli organi competenti che restano i responsabili fondamentali del nostro benessere lavorativo in termini di carico di lavoro, di struttura, di personale della magistratura e amministrativo.
Tutto questo non ci esime certo dal fare il nostro e dal dimostrare che, anche grazie allo spirito delle nuove tabelle, una buona organizzazione (sia del dirigente che di ogni singolo magistrato) migliora la gestione del ruolo in termini quantitativi e qualitativi e rende l’ufficio più solidale, che un ambiente di lavoro può essere più sereno e fattivo se ognuno partecipa ad organizzarlo. Il tutto condito con luoghi di lavoro dotati dei dovuti confort.
In altri termini, i tentativi di ottimizzazione del lavoro d’ufficio passano attraverso una sintesi tra il benessere lavorativo inteso come ricerca di un agio, di un confortevole ambiente di lavoro, e il benessere organizzativo, quest’ultimo di ben più complessa attuazione e rimesso a precise scelte gestionali-organizzative del dirigente.
Nei circoscritti ambienti di provincia, poi, in cui l’inserimento dei colleghi che vengono da realtà metropolitane o comunque più composite può comportare delle difficoltà, l’opera del dirigente può anche indirizzarsi ad affettuose e comunque misurate incursioni nella vita privata dirette a facilitare i rapporti anche esterni, sicché confesso – ma qui il serio cede il passo ad un aspetto di frivola leggerezza – che…di tanto in tanto mi presto anche a cercare partners per i colleghi, così contravvenendo platealmente all’obiettivo di farmi i fatti miei pocanzi nobilmente declamato.
E così un po’ dirigente e un po’ wedding planner!
Buona organizzazione a tutti.
Alessandra Camassa
Presidente del Tribunale di Marsala
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