ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. I soggetti attivi. Le Autorità di vigilanza. – 2. Le false informazioni all’Autorità di vigilanza. – 3. L’ostacolo alle funzioni dell’Autorità di vigilanza. – 4. Concorso di reati. Rapporto con gli illeciti amministrativi.
1. I soggetti attivi. Le Autorità di vigilanza
Una crescente importanza nella prassi giudiziaria ha assunto negli ultimi anni il reato di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle Autorità pubbliche di vigilanza, contenuto nell’art. 2638 c.c. (si veda ad es. A. Nisco, Il caso Bnl-Unipol: abuso di informazioni privilegiate e ostacolo alle funzioni di vigilanza, in Casi di diritto penale dell’economia, a cura di L. Foffani-D. Castronuovo, il Mulino, 2015, p. 199 ss.).
Anzi, è possibile affermare che dopo la riforma del 2015, la quale ha rivitalizzato il reato di false comunicazioni sociali, almeno dal punto di vista del trattamento sanzionatorio, il sottosistema del diritto penale societario è oggi imperniato sulle due figure dell’ostacolo all’attività di vigilanza e del falso in bilancio.
Il sottosistema penalsocietario risulta, invece, ineffettivo per quanto concerne l’ambito della regolare gestione della società e soprattutto in relazione agli “abusi degli amministratori”, nonostante la recente riforma del 2017 in materia di corruzione tra privati ex art. 2635 c.c. (in tal senso, v. A. Alessandri, Art. 2621 c.c.: False comunicazioni sociali, in Reati in materia economica, a cura di A. Alessandri, Giappichelli, 2017, p. 7 ss .).
Ora, con la riforma del diritto penale societario del 2002 si è optato per ricompattare nell’unica disposizione dell’art. 2638 c.c. le diverse figure di illecito in materia di vigilanza da parte di Autorità pubbliche sui mercati finanziari (cfr. S. Seminara, voce Reati societari (le fattispecie), in Enc. dir., Annali, IX, Giuffrè, 2016, p. 781 ss.; V. Saponara, in Diritto penale dell’economia, a cura di A. Cadoppi - S. Canestrari - A. Manna - M. Papa, Utet, 2017, p. 320 ss.; E. Musco, I nuovi reati societari, Giuffrè, 2007, p. 286 ss.). Si pensi, ad esempio, alla disciplina contenuta nei previgenti artt. 171 e 174 d.lgs. n. 58 del 1998 e nel t.u. bancario all’art. 134 (si veda B. Albertini, sub art. 2638 c.c., in I reati societari, a cura di A. Lanzi e A. Cadoppi, Cedam, 2007, p. 287 ss.).
Nella sistematica del 2002 va inoltre tenuta presente, in corrispondenza con l’art. 2638 c.c., l’ulteriore fattispecie criminosa di impedito controllo interno di tipo privatistico di cui all’art. 2625 c.c. (cfr. A. Rossi, Illeciti penali e amministrativi in materia societaria, Giuffrè, 2012, p. 232 ss.; N. Mazzacuva – E. Amati, Diritto penale dell’economia, Wolters Kluwer, 2018, p. 113 ss.; E.M. Ambrosetti-E. Mezzetti-M. Ronco, Diritto penale dell’impresa, Zanichelli, 2017, p. 234 ss.).
La scelta di incentrare in un’unica disposizione incriminatrice la tutela penale delle funzioni di vigilanza svolta da Autorità pubbliche è stata tuttavia contraddetta successivamente coll’introduzione di altre ipotesi di reato a protezione dell’attività di specifiche Autorità di vigilanza (ad esempio, l’art. 170-bis t.u.f.: su cui v. l’ultimo §).
Quanto al bene tutelato, si evidenzia la sua natura pubblicistica: il regolare funzionamento delle attività di vigilanza svolte da Autorità pubbliche (cfr. in proposito le considerazioni di S. Seminara, voce Reati societari (le fattispecie), cit., p. 781 ss.).
In realtà nella stessa disposizione si individuano due autonome figure di reato, disciplinate, rispettivamente, dal primo e dal secondo comma dell’art. 2638 c.c.: (i) il delitto di false informazioni all’Autorità di vigilanza; (ii) il vero e proprio delitto di ostacolo alle funzioni dell’Autorità di vigilanza (cfr. M. Gambardella, Condotte economiche e responsabilità penale, Giappichelli, 2018, p. 141 ss.).
In entrambe le incriminazioni, il soggetto attivo è qualificato: pertanto, rientrano all’interno della categoria del reato proprio.
Il legislatore prende in considerazione due classi di soggetti attivi propri, collegati dalla congiunzione (coordinante copulativa) “e”: anzitutto a) le persone che svolgono le loro funzioni all’interno dell’ente societario (amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione di documenti contabili, sindaci e liquidatori); poi b) “gli altri soggetti” sottoposti per legge alle autorità pubbliche di vigilanza: se il legislatore li identifica autonomamente, vuol dire che si tratta di soggetti che non svolgono la propria funzione all’interno della società o dell’ente. Potrebbero essere, per esempio, i promotori finanziari, i quali svolgono la loro attività anche fuori dalla società o dall’ente (in proposito, cfr. E. Montani, Le attività di ostacolo, in Reati in materia economica, a cura di A. Alessandri, cit., p. 198 ss.; R. Zannotti, Diritto penale dell’economia, Giuffrè, 2017, p. 194 ss.).
A questo punto, occorre verificare, in astratto, quali siano le figure riconducibili al concetto di “Autorità pubblica di vigilanza” (cfr. S. Seminara, voce Reati societari (le fattispecie), cit., p. 782 ss.; R. Zannotti, Diritto penale dell’economia, cit., p. 195 ss.). Non si pongono particolari problemi per quanto riguarda, ad esempio, la Consob o la Banca d’Italia, le quali rappresentano proprio il modello cui fare riferimento; più problematico è, invece, il discorso che riguarda le cosiddette Authorities.
Nel noto procedimento “Lande” si è precisato che sussiste la legittimazione della Consob a costituirsi parte civile nei procedimenti relativi al delitto di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, trattandosi di ente pubblico dotato di soggettività esponenziale per la rappresentanza degli interessi diffusi propri del mercato mobiliare, affidati alla sua tutela e costituiti dalla salvaguardia della fiducia nel sistema finanziario, dalla tutela degli investitori, dalla stabilità e buon funzionamento del sistema finanziario, dalla competitività di esso e dall’osservanza delle disposizioni in materia finanziaria in ordine ai quali il legislatore le ha affidato compiti di vigilanza informativa previsti dall’art. 8 T.U.F. (Cass., sez. V, 3 febbraio 2015, n. 28157, in C.E.D. Cass., n. 264915).
In dottrina, si nega che tali enti rientrino tra le Autorità pubbliche di vigilanza, quando sovraintendono settori che sono stati privatizzati, come quello dell’energia (cfr. A. Alessandri, Diritto penale e attività economiche, il Mulino, 2010, p. 270).
Il problema del significato da attribuire all’espressione “autorità pubbliche di vigilanza” è stato affrontato anche dalla giurisprudenza.
In una prima decisione, si è appunto sostenuto che non integra il delitto di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche l’omissione di comunicazioni dovute all’Autorità per l’energia elettrica ed il gas (Cass., sez. V, 11 febbraio 2013, n. 28070, in C.E.D. Cass., n. 255565).
La giurisprudenza ha invece reputato configurabile il delitto di cui all’art. 2638 c.c. con riferimento alla omessa informazione obbligatoria alla Federazione Italiana Gioco Calcio da parte di un presidente di una squadra di calcio professionistica, giacché alla FIGC è riconosciuta la titolarità di un potere ispettivo e di controllo di rilevanza pubblicistica attinente alla regolarità della gestione delle società professionistiche di calcio (Cass., sez. V, 31 ottobre 2014, n. 10108, in C.E.D. Cass., n. 262629).
Inoltre, si è ritenuto rientrante nella fattispecie di cui all’art. 2638 c.c., l’ostacolo frapposto all’esercizio delle funzioni della Commissione di Vigilanza sulle Società di Calcio Professionistiche (CO.VI.SO), organo che ai sensi dell’art. 20, comma 4, dello Statuto del C.O.N.I. assume specifica funzione pubblicistica; in un caso di bilancio infedele finalizzato a mascherare gli squilibri esistenti e a ottenere in tal modo l’iscrizione al campionato della società calcistica, nonché a trarre in inganno le verifiche della Commissione di Vigilanza (Cass., sez. III, 29 maggio 2013, n. 28164, in C.E.D. Cass., n. 257142).
Con il d.lgs. n. 180 del 2015 si è aggiunto il (estemporaneo dal punto di vista della numerazione) comma 3-bis, secondo cui «agli effetti della legge penale, le autorità e le funzioni di risoluzione di cui al decreto di recepimento della direttiva 2014/59/UE sono equiparate alle autorità e alle funzioni di vigilanza».
Ai sensi del decreto di recepimento, ovvero il d.lgs. 30 dicembre 2016, n. 254, l’Autorità investita dei poteri di risoluzione è la Banca d’Italia; inoltre, per poteri di risoluzione si intendono quelli conferiti a tale Autorità per poter avviare, in caso di crisi di una banca, un processo di ristrutturazione, al fine di evitare l’interruzione nei servizi offerti e la liquidazione della stessa.
Le due ipotesi criminose sono punite con la medesima pena: la reclusione da 1 a 4 anni.
Al comma 3 vi è una circostanza aggravante specifica: infatti si legge che la pena è raddoppiata se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’art. 116 del d.lgs. n. 58 del 1998 (circostanza aggiunta dalla l. n. 262 del 2005).
2. Le false informazioni all’Autorità di vigilanza
Si configurano due distinte fattispecie alternative di realizzazione del delitto di false informazioni all’autorità di vigilanza (comma 1), connotate entrambe da una finalità specifica (ostacolare le funzioni di vigilanza). Nelle comunicazioni alle Autorità di vigilanza “previste in base alla legge” (si è affermato in dottrina che nel concetto di “previste dalla legge” possono essere ricomprese anche le comunicazioni prescritte in via “regolamentare” o in via “particolare” dalle Autorità di vigilanza: E.M. Ambrosetti-E. Mezzetti-M. Ronco, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 237): (a) l’esposizione (da parte dell’agente qualificato) di fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni, sulla situazione economico-patrimoniale dell’ente; (b) l’occultamento con mezzi fraudolenti in tutto o in parte di fatti che (i soggetti attivi qualificati) avrebbero dovuto comunicare sulla medesima situazione (cfr. A. Rossi, Illeciti penali e amministrativi in materia societaria, cit., p. 242 ss.; R. Zannotti, Diritto penale dell’economia, cit., p. 202 ss.; M. Gambardella, Condotte economiche e responsabilità penale, cit., p. 143 ss.).
Si tratta di figure di reato a forma vincolata: la tecnica cui fa ricorso qui il legislatore per descrivere le condotte penalmente rilevanti è quella del c.d. “reato a forma vincolata”, esigendosi che esse siano realizzate con dettagliate modalità.
Nel comma 1 dell’art. 2638 c.c. l’interesse protetto – ossia l’ostacolo alle funzioni di vigilanza, al corretto funzionamento cioè degli organi pubblici di vigilanza posti dalla legge a tutela del mercato e del risparmio – viene fatto oggetto di un “fine (dolo) specifico” (descritto tramite l’inciso “al fine di ostacolare l’esercizio delle funzioni di vigilanza”), secondo un modello di tutela anticipata del bene giuridico; e si arretra la tutela perché, per definizione, il fine particolare per il quale il soggetto agisce non è necessario che si realizzi per l’integrazione dell’illecito penale. Si tratta pertanto di un reato di pericolo; un “pericolo concreto” giacché le condotte devono essere idonee a conseguire il fine (lo scopo) verso il quale si rivolge l’intenzione del soggetto agente per rispettare il principio di offensività (in tal senso in giurisprudenza, cfr. Cass., sez. V, 12 novembre 2015, n. 6884/2016, in Cass. pen., 2016, p. 3409, con nota di G. Stampanoni Bassi. Cfr. altresì A. Alessandri, Diritto penale e attività economiche, cit., p. 272; M. Gambardella, Condotte economiche e responsabilità penale, cit., p. 144 ss.).
Nella motivazione della sentenza del Tribunale di Siena, 31 ottobre 2014, n. 762 (caso MPS) si legge testualmente «il bene giuridico tutelato appare identificabile con il corretto esercizio delle funzioni di vigilanza delle autorità pubbliche cui è affidato il controllo dei singoli segmenti del mercato finanziario, e dunque, consiste nella correttezza dei rapporti tra soggetto vigilato ed ente vigilante al fine di consentire la piena legittimità ed efficacia dell’azione di vigilanza. La norma, pertanto, tutela obblighi informativi che, se correttamente adempiuti, garantiscono il corretto esercizio delle funzioni di pubblica vigilanza [...]». In tal senso si è più volte pronunciata la Corte di cassazione, affermando che l’interesse tutelato dalla norma è appunto quello alla «correttezza nei rapporti tra ente controllato ed ente controllante, al fine di consentire la piena legittimità ed efficacia dell’attività di controllo» (cfr. Cass. sez. V, 8 novembre 2002, n. 1252/2003; cfr. anche Cass., sez. VI, 24 ottobre 2005, n. 44234); quanto alla giurisprudenza di merito cfr. Trib. Milano Gip. 25 gennaio 2005, c.d. caso Parmalat: «il bene giuridico tutelato dal reato di cui all’art. 2638 c.c. è costituito dal regolare svolgimento del l’esercizio delle funzioni di vigilanza svolte dalle autorità pubbliche a dette funzioni preposte».
Il delitto di false informazioni all’autorità di vigilanza è dunque un reato di mera condotta, che si consuma nel momento in cui viene posta in essere una delle due condotte tipiche alternativamente previste dalla disposizione incriminatrice, celandosi così all’organo di vigilanza la realtà economica, patrimoniale o finanziaria dei soggetti sottoposti al controllo (cfr. Cass., sez. V, 4 luglio 2013, n. 51897, in C.E.D. Cass., n. 258033; Cass., sez. V, 21 maggio 2014, n. 26596, ivi, n. 262637. Cfr. al riguardo E. Montani, Le attività di ostacolo, cit., p. 206 ss.).
E sulla scorta che si tratti di un reato di mera condotta, si è asserito ad esempio che, in relazione ad un comportamento consistito nel rispondere ad una richiesta della Consob con una comunicazione scritta che negava falsamente l’esistenza di un accordo volto ad eludere l’obbligo di procedere ad O.P.A, la data di comunicazione del reato da cui decorre il termine di prescrizione è quella della ricezione della comunicazione da parte dell’Autorità di vigilanza (così Cass., sez. V, 4 luglio 2013, n. 51897, cit.).
Esaminando più avanti la finalità specifica perché attiene al piano soggettivo (o meglio, della tipicità soggettiva), analizziamo subito le due condotte dal punto di vista materiale-oggettivo.
(i) L’esposizione di fatti non rispondenti al vero. Quanto alla prima modalità di condotta che realizza le false informazioni all’autorità di vigilanza, essa ricalca molto da vicino il reato di false comunicazioni sociali nella versione del 2002 (cfr. S. Seminara, voce Reati societari (le fattispecie), cit., p. 783 ss.).
Anche a proposito di tale delitto, ci si è trovati di fronte al problema della rilevanza delle false valutazioni. La giurisprudenza, a tal riguardo, ha reputato penalmente apprezzabile, anche in questo caso, il c.d. falso valutativo nelle comunicazioni dirette alle Autorità di vigilanza.
Si è così sostenuto che – premesso che esiste continuità normativa tra la fattispecie dall’abrogato art. 134 d.lgs. n. 385 del 1993 e quella prevista dall’art. 2638 c.c. – deve ritenersi configurabile il reato anche nel caso in cui la falsità sia contenuta in giudizi estimativi delle poste di bilancio, atteso che dal novero dei “fatti materiali”, indicati dall’attuale norma incriminatrice come possibile oggetto della falsità, vanno escluse soltanto le previsioni o congetture prospettate come tali, vale a dire quali apprezzamenti di carattere squisitamente soggettivo. Invero, l’espressione, riferita agli stessi fatti, “ancorché soggetti a valutazione”, va intesa in senso concessivo, per cui, in ultima analisi, l’oggetto della vigente norma incriminatrice viene a corrispondere a quello della precedente, che prevedeva come reato la comunicazione all’autorità di vigilanza di “fatti non corrispondenti al vero” (Cass., sez. V, 28 settembre 2005, n. 44702, in C.E.D. Cass., n. 232535).
Come è noto, tale locuzione è stata utilizzata da una parte della giurisprudenza di legittimità per argomentare, in tema di falso in bilancio, a favore della abolizione dalla rilevanza penale del falso valutativo. Tuttavia, le figure in questione non possono essere messe a confronto, in quanto un parallelismo non può essere compiuto con riferimento a figure di reato tipizzate su elementi diversi e che tutelano interessi differenti (in questo caso, la funzione di controllo delle pubbliche autorità su determinati settori). Un ragionamento del genere, invero, appare fallace dal punto di vista logico.
(ii) L’occultamento di fatti con mezzi fraudolenti. Riguardo poi alla seconda modalità di realizzazione del delitto di false informazioni all’autorità di vigilanza, deve essere subito precisato che non si tratta di una condotta omissiva. È necessario, infatti, che la condotta di occultamento sia corredata dal ricorso a mezzi fraudolenti e non si risolva nel mero silenzio sull’esistenza dei fatti da comunicare; fatti che devono poi chiaramente essere rilevanti per la situazione economico-patrimoniale della società (cfr. Cass., sez. VI, 9 novembre 2010, n. 40164, in C.E.D. Cass., n. 248821). È sufficiente anche una condotta di occultamento parziale dei fatti la cui comunicazione è imposta da una fonte normativa.
Per quanto concerne lo scopo specifico tipizzato dal legislatore, il “fine di ostacolare le funzioni di vigilanza”, ha certamente la funzione di selezionare sul piano delle falsità quelle che incidono sullo svolgimento dell’attività di vigilanza, consentendo la rilevanza penalistica unicamente delle sole condotte idonee effettivamente a conseguire il fine indicato nel tipo (in tal senso, v. A. Alessandri, Diritto penale e attività economiche, cit., p. 272; S. Seminara, voce Reati societari (le fattispecie), cit., p. 784; R. Zannotti, Diritto penale dell’economia, cit., p. 206; M. Gambardella, Condotte economiche e responsabilità penale, cit., p. 146 ss. Per E.M. Ambrosetti-E. Mezzetti-M. Ronco, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 237, appare difficile ipotizzare la compatibilità del dolo eventuale con la fattispecie marcatamente fraudolenta prevista al comma 1 dell’art. 2638 c.c.).
3. L’ostacolo alle funzioni dell’Autorità di vigilanza
La seconda autonoma ipotesi di reato è contenuta nel comma 2 dell’art. 2638 c.c.
Questa figura criminosa, a differenza di quella prevista al primo comma, è a forma libera: il legislatore non descrive infatti le modalità di realizzazione della stessa. Stabilisce la disposizione in questione che sono puniti gli agenti qualificati che «in qualsiasi forma [...] ne ostacolano le funzioni».
La condotta tipica è polarizzata sull’evento naturalistico (l’ostacolo), ed è costituita dal realizzare comunque un ostacolo all’esercizio delle funzioni delle Autorità pubbliche di vigilanza. L’evento di “ostacolo” può essere dunque integrato con qualsiasi comportamento anche omissivo, che impedisce alla Autorità di vigilanza di esercitare le proprie funzioni.
Il reato previsto dal comma 2 dell’art. 2638 c.c. è dunque un “delitto di evento”, che richiede la verificazione di un effettivo ostacolo alle funzioni di vigilanza, quale conseguenza di una condotta che può assumere qualsiasi forma (anche omissiva) (così Cass., sez. V, 26 maggio 2017, n. 42778, Consoli, in C.E.D. Cass., n. 271442).
In pratica, la condotta vietata è identificata soltanto attraverso il nesso eziologico con l’impedimento alle funzioni di vigilanza, includendovi (oltre ipotesi attive) anche ipotesi di carattere omissivo. Il reato è infatti espressamente integrato anche dalla mera omessa comunicazione di informazioni dovute (Cass., sez. V, 7 dicembre 2012, n. 49362, in C.E.D. Cass., n. 254065).
Per meglio comprendere la fattispecie, è necessario analizzare il concetto di “ostacolo”. In italiano, “ostacolo” significa in senso figurativo “situazione, condizione, evento che costituisce un impedimento o un intralcio al raggiungimento di uno scopo, al verificarsi di un fatto, ecc.” (cfr. T. De Mauro, Grande dizionario italiano dell’uso, Utet, 1999. Al riguardo v. inoltre A. Rossi, Illeciti penali e amministrativi in materia societaria, cit., p. 249 ss.).
L’impedimento, ovviamente può essere graduabile ed assumere anche la forma della non superabilità, ma ad avviso di parte della dottrina (cfr. A. Alessandri, Diritto penale e attività economiche, cit., p. 270 ss.) e della giurisprudenza (cfr. Trib. Siena, 31 ottobre 2014, n. 762; Cass., sez. V, 7 dicembre 2012, n. 49362) per il configurarsi della fattispecie non è richiesta una tale intensità. Nonostante, infatti, l’ostacolo debba configurarsi come non momentaneo e non irrilevante, la condotta causativa dell’evento può configurarsi anche in un mero comportamento ostruzionistico che di fatto impedisce alle autorità vigilanti di esercitare le funzioni in modo corretto ed efficace. Si pensi che nel caso Bnl-Unipol, la Corte di cassazione ha ritenuto che configurasse la condotta generante ostacolo anche il comportamento di vertici societari i quali avessero fornito false spiegazioni, a richiesta dell’autorità di controllo, rispetto a “mere intenzioni”, poiché il nascondimento della volontà di tentare una “controscalata”, avrebbe indotto la Consob a non vigilare correttamente sul mercato, di fatto ostacolandone le sue funzioni (Cass., sez. V, 7 dicembre 2012, n. 49362).
In giurisprudenza si è sottolineato che l’ipotesi presa in considerazione dal comma 2 si configura come un reato di danno, e non già di pericolo concreto come quella del primo comma. Richiedendosi pertanto per la sua consumazione che si sia realizzato un effettivo ostacolo alle funzioni di vigilanza, quale conseguenza della condotta che può assumere qualsiasi forma, anche quella consistente nella omissione delle comunicazione dovute alle predette autorità; conformemente alle prescrizioni sulla incriminazione anche dei comportamenti omissivi contenute nell’art. 11, lett. b), della legge delega per la riforma del diritto societario, in base alla quale è stato emanato il d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, che, nel rimodulare la disciplina dei reati societari, ha modificato, tra gli altri, anche l’art. 2638 c.c. (così in motivazione Cass., sez. V, 12 novembre 2015, n. 6884/2016, cit.).
In altre parole, mentre il delitto di cui al comma 1 dell’art. 2638 c.c. è un reato di mera condotta, il reato previsto dal secondo comma è un delitto di evento, che richiede la verificazione di un effettivo e rilevante ostacolo alla funzione di vigilanza, quale conseguenza di una condotta che può assumere qualsiasi forma (cfr. Cass., sez. V, 12 novembre 2015, n. 6884/2016, cit. In dottrina, si esprimono perplessità in merito alla equiparazione legislativa tra un disvalore di condotta e un disvalore di evento: v. S. Seminara, voce Reati societari (le fattispecie), cit., p. 783).
L’ostacolo alle funzioni di vigilanza si trasforma da oggetto del c.d. dolo specifico (comma 1) ad evento naturalistico collegato eziologicamente alla condotta a forma libera, sicché è necessario accertare un nesso di causalità tra quest’ultima e l’evento-ostacolo.
Sul piano della tipicità soggettiva, il legislatore ha inserito nella descrizione del comportamento punito l’avverbio “consapevolmente”. La connotazione soggettiva determina una limitazione della configurabilità del delitto sotto il profilo dell’intensità del dolo: escludendo la realizzazione del reato a titolo di dolo eventuale (cfr. S. Seminara, voce Reati societari (le fattispecie), cit., p. 785; R. Zannotti, Diritto penale dell’economia, cit., p. 208; M. Gambardella, Condotte economiche e responsabilità penale, cit., p. 148.).
Il legislatore dà qui rilevanza a ogni comportamento umano che abbia cagionato con qualsiasi modalità l’evento naturalistico (reato c.d. “a forma libera”). Non sono state selezionate le modalità con cui può essere prodotta l’offesa: si è attribuita rilevanza penale alla causazione pura e semplice dell’evento.
La natura di reato di danno a forma libera della fattispecie di cui all’art. 2638, comma 2, c.c., ne legittima la costruzione anche in termini di reato eventualmente permanente. Un delitto che, nel concreto atteggiarsi della condotta criminosa, può assumere la forma tipica del reato permanente (con riflessi sulla maturazione del termine prescrizionale). La consumazione del reato, omettendo le comunicazioni dovute alle Autorità di vigilanza, si protrae per tutto il tempo in cui le comunicazioni, pur potendo ancora essere utilmente effettuate, continuano ad essere omesse; costituendo, per l’appunto, significativo indice rivelatore della permanenza la sistematica pluralità di omissioni di identico contenuto poste in essere dal soggetto agente, che trovano la loro ragione giustificatrice nel fattore unificante dell’ostacolo alle funzioni di vigilanza (in tal senso Cass., sez. V, 12 novembre 2015, n. 6884/2016, cit.).
4. Concorso di reati. Rapporto con gli illeciti amministrativi
Si è illustrato come all’interno dell’art. 2638 c.c. vi siano due distinte e autonome figure di reato: le false informazioni e l’ostacolo alle Autorità di vigilanza, rispettivamente al primo e al secondo comma. L’ipotesi delle false informazioni può essere integrata a sua volta attraverso due differenti modalità di condotta.
Si pongono dunque problemi attinenti alla materia del concorso di reati (cfr. M. Gambardella, Condotte economiche e responsabilità penale, cit., p. 148 ss.).
Innanzitutto, deve essere escluso il possibile concorso tra le due fattispecie contemplate al primo comma (l’esposizione di fatti falsi e l’occultamento). Si tratta di modalità alternative di realizzazione della stessa figura di reato; condotte che si escludono a vicenda e non possono concorrere tra loro neppure astrattamente.
Quanto invece al concorso tra le incriminazioni dei commi 1 e 2 dell’art. 2638 c.c., trovandoci al cospetto di autonome e distinte ipotesi di reato, l’eventualità non può in linea di principio essere esclusa.
Anzi in giurisprudenza si è asserito che tra le fattispecie dei commi 1 e 2 dell’art. 2638 c.c. è configurabile un concorso formale eterogeneo ex art. 81, comma 1, c.p. qualora la condotta illecita si concretizzi nella omessa comunicazione alle autorità di vigilanza di informazioni dovute. In tal caso, si configura la contemporanea violazione di diverse disposizioni di legge: violazione del comma 1, per quanto attiene all’omissione dell’informazione dovuta; del comma 2, allorché tale omissione determini di fatto un effettivo e rilevante ostacolo alle funzioni di vigilanza (Cass., sez. V, 26 maggio 2017, n. 42778, in C.E.D. Cass., n. 271442 e in Cass, pen., 2018, fasc. 11, con osservazioni di D. Federici; Cass., sez. V, 12 novembre 2015, n. 6884/2016, cit.).
Si è ritenuto pertanto integrato il concorso formale nella condotta dei legali rappresentanti di una società cooperativa che avevano omesso di indicare nei bilanci societari una fidejussione rilasciata in favore di un’altra società, altresì omettendo di darne comunicazione al competente organo di revisione (cfr. Cass., sez. V, 12 novembre 2015, n. 6884/2016, cit. In senso analogo per la possibilità di un concorso formale tra le due ipotesi previste al primo e secondo comma dell’art. 2638 c.c., v. Cass., sez. V, 26 maggio 2017, n. 42778, cit., ad avviso della quale integra il reato di cui all’art. 2638 c.c. la condotta dell’amministratore di un istituto di credito il quale, attraverso l’artificiosa rappresentazione nel patrimonio di vigilanza di elementi positivi fittizi, costituiti da azioni ed obbligazioni acquistate da terzi con finanziamenti erogati in loro favore dallo stesso istituto creditizio, senza che tale circostanza venisse resa nota agli organi di vigilanza, abbia in tal modo occultato l’effettiva situazione economica della banca amministrata e determinato un effettivo e rilevante ostacolo alle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza).
Veniamo adesso ai rapporti tra gli artt. 170-bis t.u.f. e 2638 c.c.
L’art. 170-bis t.u.f., rubricato “Ostacolo alle funzioni di vigilanza”, contiene una clausola di riserva esplicita, infatti prescrive il legislatore che lo stesso trova applicazione “fuori dai casi previsti dall’art. 2638 c.c.”. Il problema è individuare quindi, quali sono i casi in cui il 2638 c.c. non si considera applicabile.
Secondo parte della dottrina l’art. 170-bis t.u.f. troverebbe applicazione rispetto a quelle attività della Consob relative agli abusi di mercato, poiché tale articolo sarebbe contenuto nel titolo I bis. (cfr. ad es. R. Zannotti, Diritto penale dell’economia, cit., p. 196 ss.).
Questo orientamento è smentito però non solo dal tenore letterale della disposizione, ma altresì dalla sua collocazione sistematica non nella parte relativa agli abusi di mercato ma nel titolo I capo I, relativa più in generale alle sanzioni penali in materia di intermediari e mercato. Tale articolo potrebbe quindi essere considerato una norma di chiusura volta a coprire tutti quei casi di ostacolo alle funzioni di vigilanza della Consob non sussumibili nell’art. 2638 c.c.
Rispetto all’elemento oggettivo, va sottolineato che l’art. 170-bis t.u.f. è una fattispecie di danno, poiché ai fini della sua configurazione il legislatore richiede il verificarsi di un ostacolo.
Da ciò si ricava che il vero ambito di sovrapposizione con l’art. 2638 c.c. si riferisce esclusivamente al suo secondo comma essendo il primo una fattispecie di pericolo.
Premesso ciò, i casi che possono essere ricondotti alla norma del t.u.f. ricomprendono quelle condotte poste in essere da soggetti non qualificati e quindi non rientranti nel novero dei soggetti della norma codicistica, o quelle condotte che sono imputabili a titolo di dolo eventuale che non possono costituire, per gli argomenti già esposti sopra, reato ai sensi dell’art. 2638 c.c. (così in dottrina, E. Montani, Le attività di ostacolo, cit., p. 210 ss.).
Per fare un esempio, si pensi al potere conferito alla Consob, ex art. 187-octies t.u.f., di chiedere informazioni a chiunque possa essere informato su condotte manipolative o su fatti di abuso di informazioni privilegiate. In questo caso, se i soggetti non sono quelli rientranti nell’art. 2638 c.c., ovvero non vigilati o non tenuti ad obblighi informativi, qualora non rispondano alle richieste o lo facciano in modo mendace o reticente al punto da ostacolare le funzioni Consob risponderanno del reato ex art. 170-bis t.u.f. e non di quello codicistico poiché non rientrante tra i soggetti qualificati.
L’art. 2368 c.c. e l’art. 190 t.u.f., in relazione all’art. 10 t.u.f., puniscono entrambi, il primo sotto il profilo penale, il secondo sotto l’aspetto amministrativo, la medesima condotta, consistente nella trasmissione alla Consob di una relazione, dal contenuto non veritiero, inerente verifiche di conformità sul collocamento di un prestito obbligazionario, con conseguente applicazione della sola disciplina penale, ex art. 9, comma 1, della l. n. 689 del 1981 (Cass., sez. II civ., 5 aprile 2017, n. 8855, in Cass. pen., 2018, p. 357 ss., con nota di M. Pesucci).
Infine, bisogna analizzare i rapporti tra gli artt. 170-bis t.u.f. e 187-quinquiesdecies t.u.f. (in proposito, cfr. S. Seminara, voce Reati societari (le fattispecie), cit., p. 785.). Quest’ultimo, che ha natura di illecito amministrativo, punisce chiunque non ottemperi nei termini alle richieste della Banca d’Italia e della Consob o che ne ritardi l’esercizio delle funzioni. Dal dato testuale, emerge una sovrapposizione tra le condotte tipiche. Sotto il profilo dell’elemento oggettivo, ad avviso della dottrina (in questo senso E. Montani, Le attività di ostacolo, cit., p. 211 ss.), per garantire l’effettività dell’operatività di entrambe le norme risulta necessario forzare il dato testuale dell’art. 170-bis t.u.f., nel senso che il concetto di ostacolo deve essere interpretato come un vero e proprio impedimento alle Autorità nello svolgimento delle loro funzioni in modo tale da poter applicare la sanzione amministrativa nei casi in cui la condotta abbia provocato un mero ritardo. Dal punto di vista dell’elemento soggettivo, l’illecito penale è imputabile esclusivamente a titolo di dolo, di conseguenza residua l’applicazione dell’art. 187-quinquesdecies t.u.f. nei casi in cui l’agente abbia agito con colpa
ERAVAMO GIOVANI E BELLI (1989-1994)
Con piacere ritorno un po’ indietro nel tempo.
Mario Almerighi, grande magistrato e grande amico, alla fine degli anni ottanta frequentava all’ora di pranzo il Petit Bar, come coloro (alcuni, mica tanti) che si trattenevano nel pomeriggio a piazzale Clodio (Roma) per lavorare anche nel pomeriggio.
Con me non si limitava a parlare del Movimento, dei verdi (come noto dal colore dei fogli su cui era stato stilato il programma), ma venuto a conoscenza del mio hobby, caricature, schizzi ecc., mi coinvolse nel progetto della rivista.
In passato, dal giornalino studentesco del liceo ad un periodico di area cattolica (di sinistra) avevo avuto esperienze di tipografia, grafica ecc.
Fu così che mi ritrovai in uno stupendo gruppetto di colleghi e amici, che il più delle volte si riuniva in casa di Mario per elaborare i numeri della rivista: io, a fronte di amici ben più ferrati di me sul bello scrivere e sui temi da dibattere, mi concentrai sulla grafica.
Le riunioni avevano le caratteristiche del brain storming si parlava dei vari temi, arricchiti con l’apporto di tutti attribuendo poi a qualcuno l’incarico di scrivere l’articolo, mentre io ascoltavo intento ed od ogni tanto buttavo giù uno schizzo in punta di penna. A quel punto i prodotti venivano sottoposti all’attenzione del gruppo, qualcuno suggeriva ulteriori aspetti, finché si giungeva ad una approvazione di una vignetta, che provvedevo poi a mettere “in bella”. Talvolta poi accompagnavo qualche membro della redazione alla tipografia per la parte finale.
Via con le immagini….
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Dalle pagine 11 e 15
E passiamo al secondo numero del 1990, ove imperavano le polemiche sul nuovo metodo elettorale del Consiglio Superiore (e la soglia di sbarramento anti Movimento), in ordine sparso…:
E arriviamo alle elezioni del 1994, ove realizzammo il seguente cartoncino pieghevole (fonte di polemiche con alcuni colleghi di altre correnti, offesi - temo giustamente, ma era l’incoscienza, giovanile si fa per dire – perché si sentivano indirettamente accusati di connivenza con quel po’ po’ di pessimi soggetti)
Mi è stato chiesto un nuovo intervento dopo quello dell’estate del 2016 (su questa stessa rivista) nel quale riferivo delle mie impressioni dopo il primo quadrimestre di GEC.
Dopo un anno disintossicante come semplice componente del CDC, nell’aprile 2018 sono rientrato in GEC. Ho fatto “carriera”: ora sono addirittura vicesegretario nazionale. Nel frattempo in ANM le cose sono cambiate; dall’estate 2017 la Giunta Esecutiva Centrale non è più unitaria essendone uscita A e I.
Il terzo anno (del quadriennio previsto) è perciò iniziato con una giunta maggioritaria (3 componenti UNICOST, 3 AREADG e 3 MI con componente aggiunto nella persona della Direttrice della Rivista associativa la quale partecipa alle nostre riunioni). La presidenza è di UNICOST, la vicepresidenza di MI, la segreteria e la vicesegreteria di AREADG.
Rispetto al primo anno vi è una sostanziale differenza. Avevo scritto nelle mie precedenti riflessioni come si percepisse una notevole distanza sotto il profilo organizzativo tra il Presidente (Davigo) e gli altri 8 componenti. In particolare si percepiva un certo disinteresse del Presidente ad occuparsi delle questioni pratiche (che sono tante) ed anche un suo certo distacco nella redazione dei numerosi documenti della GEC per la sua assoluta preferenza per il momento “esterno” di cui si sentiva investito. L’attuale GEC ha un Presidente (Minisci) che non solo si occupa delle tante questioni pratiche (lo faceva già da Segretario nel primo anno) ma costituisce, per la sua immediata disponibilità al dialogo con gli altri componenti della giunta e la sua prontezza nel rilasciare brevi ma incisive dichiarazioni agli organi di stampa, un punto di riferimento non solo esterno (per i “media”) ma anche interno per i magistrati associati. E’ un Presidente sempre “sul pezzo”, cresciuto “politicamente” grazie all’esperienza del primo anno di GEC e che profonde un impegno assoluto per l’Associazione. Questo facilita non solo la redazione dei numerosi comunicati di GEC ma risolve anche alcune problematiche logistiche dovute al fatto che tutti gli altri componenti non lavorano a Roma (alcuni provengono da molto lontano).
Sotto il profilo del rapporto con le altre componenti associative nella GEC (ora maggioritaria) e ferme restando le distanze “politiche” su alcune questioni comunque fondamentali, continuo a rilevare una grande comunanza di “passione”. Il confronto è a volte aspro ma sempre costruttivo.
La componente di AREA continua nell’opera di rivalutazione del ruolo politico del CdC (di cui la GEC dovrebbe essere solo organo esecutivo) e dell’intera ANM; chiediamo di cadenzare a distanze più brevi le riunioni del CdC, anche rivitalizzando l’importanza attribuita ai “gruppi di studio” (coordinati da componenti del CdC); cerchiamo il confronto continuo (via CHAT e via Mail), quasi quotidiano, tra tutti i 36 componenti del CdC.
A differenza del primo anno finora non siamo riusciti a svolgere una attività itinerante per manifestare la vicinanza della GEC ai colleghi di base e per essere maggiormente consapevoli delle reali problematiche di ciascun distretto. La attuale GEC è andata solo a Bari per i noti problemi del Tribunale penale.
A differenza del primo anno (dove i primi mesi di attività erano stati densi di incontri istituzionali) l’attuale GEC ha incontrato (a giugno) soltanto il Ministro Bonafede. Si è trattato di un incontro lungo e cordiale dove abbiamo ascoltato le numerose (anche se generiche ed a volte contraddittorie) idee del Ministro ed abbiamo manifestato la disponibilità della ANM a portare le nostre articolate proposte in materia di processo penale e processo civile.
I rapporti personali tra noi componenti di AREADG al CDC si sono ulteriormente consolidati. Siamo il gruppo più coeso. Abbiamo le stesse sensibilità in ordine alle problematiche oggetto dell’attenzione dell’ANM. Insomma in ANM AREADG esiste; ed esiste proprio come AREADG e non come la mera sommatoria dei due gruppi storici che hanno contribuito a crearla. Anche i rapporti con il Coordinamento Nazionale di AREADG sono frequentissimi ed improntati ad uno spirito di stretta collaborazione. Vi è un confronto continuo.
Scrivo queste brevi riflessioni a pochi giorni di distanza dal prossimo CDC del 10 novembre. L’ordine del giorno è corposo. I nodi stanno venendo al pettine. L’ANM deve redigere documenti articolati in ordine alla riforma del processo penale, del processo civile, al disegno di legge cd. Pillon sulla bigenitorialità, al cd. decreto sicurezza. Poi dovremmo occuparci del reclutamento dei magistrati e della legge elettorale per il CSM. Su alcuni di questi punti i lavori delle commissioni sono in stato assai avanzato; su altri stiamo incominciando a discutere. Come sempre il momento essenziale sarà il dibattito in CDC dove si cercherà una difficile sintesi unitaria tra le varie sensibilità dei gruppi che fanno parte dell’ANM. Il nostro compito è cercare di spostare il più possibile il punto di questa sintesi verso le nostre sensibilità culturali. A volte ci riesce meglio a volte peggio ma abbiamo sempre la consapevolezza che ci sono dei principi cui, come rappresentanti di AREADG, non possiamo derogare. E’ un impegno quotidiano che va – per i componenti della GEC – ben al di là delle periodiche riunioni. E’ una immersione “full time” che parte la mattina con la lettura attenta della rassegna stampa e si conclude la sera con la lettura on line dei giornali del giorno dopo. Ed intanto si continua a svolgere il proprio lavoro di magistrato e si cerca di ritagliarsi qualche ora di tempo per gli affetti familiari. Ma è anche un impegno interessante, dinamico, che ci fa crescere umanamente e culturalmente; che ci porta a conoscere tanti colleghi ed a confrontarci con loro; che ci fa avere una visione complessiva dell’intero sistema giudiziario e non limitata al settore nel quale quotidianamente esercitiamo la giurisdizione. Insomma – parlo per me ma sono sicuro che anche per gli altri è così - lo facciamo per spirito di servizio ma facciamo una cosa che ci piace.
*il testo costituisce un aggiornamento dell’articolo “L’utilizzazione dei giudici onorari in tribunale secondo la riforma”, pubblicato su questa rivista prima dell’approvazione del d.lgs.vo n. 116/2017.
SOMMARIO: 1. Cenni generali del problema; 2. L’utilizzazione del giudice onorario nella circolare consiliare sulle tabelle e nella legge delega 29.4.2016 n.57; 3. Le novità contenute nel decreto legislativo; 4. La motivazione delle restrizioni nell’utilizzo dei giudici onorari; 5. L’ipotesi di “supplenza”; 6. Le disposizioni transitorie per i m.o. in servizio come g.o.t.; 7. Conclusioni e …attese
1. Cenni generali del problema.
Il dibattitto successivo alla divulgazione del decreto legislativo (n. 116/2917) attuativo della legge delega sulla riforma della magistratura onoraria è ancora in corso, e la sua rilevanza è proporzionata a quella dell’importanza che le nuove disposizioni avranno non solo sullo status dei magistrati onorari, ma anche sull’organizzazione degli uffici giudiziari di primo grado, per l’importanza dell’apporto offerto da giudici onorari di tribunale e vice procuratori onorari.
Sono note le polemiche derivate dalle valutazioni (prevalentemente negative) operate da parte delle organizzazioni sindacali dei magistrati onorari (che hanno condotto anche a forme di protesta ancora in atto), e la denunzia dell’inadeguatezza dell’impianto dello schema di decreto delegato operata da parte di un “movimento” di Procuratori della Repubblica, preoccupati sugli effetti che lo status dei vice procuratori di pace potrebbe avere sulla funzionalità degli uffici di Procura.
Minore attenzione sembra invece essere dedicata all’assetto ordinamentale dei giudici onorari di pace (già giudici onorari di tribunale), che pure costituiscono – laddove destinati all’ufficio per il processo o all’esercizio di funzioni giudiziarie - la quota di magistratura vicaria indispensabile per l’efficienza degli uffici giudicanti di primo grado.
Di qui l’opportunità, anche al fine di contribuire ad opportuni interventi correttivi del decreto all’esito del tavolo tecnico aperto tra ministero della giustizia ed organizzazioni sindacali della magistratura professionale ed onoraria, di sviluppare alcune schematiche riflessioni specificamente dedicate all’analisi del ruolo riservato dalla riforma all’attività del giudice onorario di pace all’interno del tribunale.
Le disposizioni concernenti l’attività del g.o.p. in funzione di sostituzione dei giudici professionali sono di grande importanza per l’assetto organizzativo dei tribunali e rischiano, ove asincrone rispetto alle esigenze di funzionalità dell’ufficio giudiziario, di scompaginarne la pianificazione progettuale operata dalla maggior parte dei dirigenti, in virtù del deposito delle “tabelle” per il prossimo triennio.
La preoccupazione sulle concrete criticità derivanti da alcune norme risulta fondata sulla sostanziale difformità del decreto rispetto ai criteri delineati dalla legge delega.
Né può rassicurare il differimento temporale delle principali disposizioni (che avranno efficacia solo dopo un quadriennio a far data dall’entrata in vigore del decreto legislativo).
Prescindendo dalla miopia di un’analisi che sottovaluti le potenziali criticità solo in ragione delle necessità contingenti, va rimarcato come alcune e fondamentali disposizioni relative ai g.o.p. in servizio siano immediatamente applicabili (artt. 29-32), e questo imponga urgenti interventi correttivi, per cui l’esame della problematica in oggetto prende le mosse dalle norme che diventeranno operative solo per i giudici onorari immessi in servizio dopo la data di vigenza del decreto legislativo e “a regime” per tutti solo dal quarto anno successivo (art. 32.1).
2. L’utilizzazione del giudice onorario nella circolare consiliare sulle tabelle e nella legge delega 29.4.2016 n.57.
Come è noto, la riforma prefigura l’utilizzazione del “nuovo” giudice onorario di pace (unificando anche lessicalmente le precedenti e distinte funzioni del giudice onorario di tribunale e di giudice di pace), in una triplice destinazione (art.9): a) nell’ufficio per il processo; b) nell’ufficio del giudice di pace; c) nel tribunale, come assegnatario della trattazione di procedimenti civili e penali monocratici e collegiali.
Con riferimento a quest’ultima e rilevante destinazione, notoriamente di ampia utilizzazione nei tribunali, gravati da costanti o periodiche carenze di organico dei magistrati professionali (vedi infra sub §7), non è inutile ricordare l’ultima disposizione prevista nella Circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari per il triennio 2017/2019, approvata dal C.S.M. il 25.1.2017 che, nel solco di un sempre maggiore ampliamento delle attribuzioni dei g.o.t. originato nel 2008, all’art. 187 (oltre alle ipotesi di supplenza…) prevede che può essere loro assegnato un ruolo autonomo “in caso di significative vacanze nell’organico dell’ufficio o in tutti i casi in cui per circostanze oggettive non si possa far fronte alla domanda di giustizia con i soli giudici togati “.
Il principio ispiratore della delega (legge n. 57 del 29.4.2016), con riferimento al ruolo del giudice onorario di pace (come disegnato all’art. 2.5), sembra potersi ricondurre al conferimento in capo al presidente del tribunale, quale titolare della gestione organizzativa dell’ufficio, della possibilità di stabilire sia i criteri di inserimento del g.o. all’interno dell’ufficio per il processo (art. 2.5 lett.a), sia di assegnarlo in applicazione nel tribunale in sede collegiale (art. 2.5 lett.b) che monocratica (art. 2.5 lett.c).
Il perimetro di utilizzazione del g.o. in tribunale da parte del presidente resta delimitato peraltro alla previsione di “casi tassativi, eccezionali e contingenti….in ragione della significativa scopertura dei posti di magistrato ordinario previsti dalla pianta organica del tribunale ordinario e del numero dei procedimenti assegnati ai magistrati ordinari ovvero del numero di procedimenti rispetto ai quali è stato superato il termine ragionevole di cui alla legge 24 maggio 2001, n. 89” (art. 2.5 lett.b).
Per quanto si tratti di principi intesi ad evidenziare la marginalità dell’impiego del g.o. in funzione vicaria all’interno del tribunale, a ben vedere non si tratta di criteri molto difformi rispetto a quelli dettati dalla previsione consiliare vigente, che viene riproposta letteralmente quanto all’indicazione (generica) di “significativa” scopertura dell’organico, e solo meglio specificata in riferimento al carico di lavoro.
L’ufficio per il processo, sede naturale di prima utilizzazione del g.o. in funzione di collaborazione del giudice togato, è individuato dalla delega come una sorta di “ufficio di genesi della professionalità” del giudice onorario, cui il presidente del tribunale può attingere in funzione delle contingenti necessità dell’ufficio alla cui organizzazione complessiva è preposto.
3. Le novità contenute nel decreto legislativo.
Orbene il decreto legislativo n. 116/2017i non risulta compiutamente ispirato ai criteri descritti nella delega, modificando l’opportuna destinazione del giudice onorario al servizio delle esigenze dell’ufficio, sulla base della pianificazione monitorata dal suo dirigente, privilegiando piuttosto la centralità del ruolo del g.o. all’interno dell’ufficio per il processo, e quindi spostando il principio guida dal servizio al tribunale a quello verso il singolo giudice professionale.
Si confina così ad ipotesi marginali (se non addirittura eccezionali) la sua destinazione alla trattazione di procedimenti all’interno del tribunale.
Direttrice operativa intrinsecamente discutibile, ma soprattutto viziata da una singolare eterogenesi dei fini, poiché a sopperire alle esigenze di apporto giudiziario precedentemente assolte dal giudice onorario dovrà essere costretto lo stesso giudice professionale che si intende agevolare incrementando le attività delegabili al m.o. nell’ufficio per il processo (e peraltro principalmente nel settore civile).
Si fa riferimento all’artt. 11.1 del decreto, laddove, estremizzando le condizioni previste dall’art.2.5 lett.b) della delega, si condiziona l’assegnazione dei giudici onorari di pace per la trattazione di procedimenti civili e penali di competenza del tribunale, alla sussistenza di una delle seguenti ipotesi alternative:
a) scopertura superiore al 30% dell’organico o delle presenze effettive dei magistrati del tribunale o della sezione (con conseguente limitazione all’utilizzazione dei giudici onorari solo nella sezione afflitta dalla peculiare criticità ex art. 11.2);
b) superamento della soglia percentuale del 50% (per il settore civile) e del 40% (per quello penale) del numero di procedimenti ultratriennali rispetto al numero di pendenze complessive dell’ufficio;
c) superamento del 70% del numero medio di pendenze civili (o del 50% di quelle penali) per ciascun giudice del tribunale rispetto alla media nazionale individuale di pendenze calcolata nell’anno precedente;
d) superamento del 70% del numero medio di sopravvenienze civili (o del 50% di quelle penali) per ciascun giudice del tribunale rispetto alla media nazionale individuale di sopravvenienze calcolata nell’anno precedente.
Risulta evidente la configurazione di “condizioni capestro” che è arduo prefigurare (anche attualmente) nella pur endemica situazione di difficoltà organizzativa in cui versano gli uffici giudicanti di primo grado.
Nè la pur prevista alternatività delle condizioni attenua il più che comprensibile disagio derivato dalla lettura di una norma che, nella sua siderale distanza rispetto alla concretezza della realtà operativa del quotidiano giudiziario, rischia di cancellare del tutto l’apporto (più che mai necessario) dei giudici onorari all’interno dei tribunali.
Non è difficile ipotizzare pertanto che le ipotesi applicative dei rigorosi criteri summenzionati consentiranno l’assegnazione di procedimenti civili e penali ai giudici onorari di pace solo in casi del tutto eccezionali.
Per tacere poi del coraggioso (ma forse velleitario) riferimento a “medie nazionali” allo stato del tutto virtuali, e consegnate alle capacità (ed all’affidabilità) di rilevazioni statistiche elaborate dal Ministero della giustizia di concerto con il C.S.M. da pubblicizzare annualmente (art. 11.8).
La formulazione di una norma così restrittiva contiene ulteriori limitazioni, laddove si riuscisse a valicare le barriere prefigurate, sia di tipo quantitativo (il divieto di assegnazione ai giudici onorari di un numero di procedimenti non superiore a un terzo della media nazionale per settore delle pendenze individuali del giudice di primo grado, ex art. 11.5) che qualitativo (nell’esclusione di tipologie di procedimenti, ex art. 11.6, mutuata dagli ordinari criteri tabellari).
Quanto alle esclusioni specifiche, la preclusione dell’art. 43bis dell’Ordinamento Giudiziario (riproposta dagli art. 183 e 184 della Circolare del C.S.M.) viene estesa dall’art. 11.6 per cui nei giudizi monocratici non possono essere assegnati ai giudici onorari (per il settore civile (anche) i procedimenti in materia di lavoro e previdenza, in materia di famiglia, ex art. 615.2 e 617 c.p.c.
Ma gli ostacoli all’utilizzazione dei g.o. non sono terminati, atteso che l’art.11.7 prescrive per il presidente del tribunale che verifichi la sussistenza dei presupposti, il rispetto di un termine di sei mesi per l’adozione del provvedimento di assegnazione degli affari, da corredare con l’indicazione “della non adottabilità di misure organizzative diverse”, e il tassativo limite massimo di tre anni (periodici) di efficacia del provvedimento, non reiterabile prima di (altri) tre anni (salvo il caso di cui sub a) indicato in precedenza).
Viene così esplicitamente codificato come in tribunale il ricorso ai giudici onorari debba intendersi come “extrema ratio” non solo per l’affidamento di un ruolo monocratico, ma anche per l’utilizzazione nei collegi.
Per la predetta destinazione difatti l’art. 12 del decreto mutua gli stessi criteri selettivi previsti per l’assegnazione dei procedimenti monocratici dall’art.11, con alcune modifiche.
Se difatti la peculiarità degli affari di trattazione collegiale ha indotto il legislatore delegato a consentire la permanenza del giudice onorario nel collegio “sino alla destinazione del procedimento” (e quindi in potenziale deroga al limite triennale previsto per la trattazione di affari monocratici), d’altro canto l’art. 12 contiene ulteriori demarcazioni per entrambi I settori della giurisdizione.
Così in ambito civile: “il g.o. non può essere destinato a comporre i collegi delle sezioni specializzate” (tra cui non rientra la materia della famiglia, che non può considerarsi sezione specializzata in senso tecnico, giusta delibera del C.S.M. n. 530/VV/2017 del 6.12.2017 infra sub §6), mentre nel settore penale il ricorso al g.o. è inibito (“…laddove si proceda per I reati indicati nell’art. 407.2 lett.a) c.p.p.).
Da tanto si ricava che, se nel settore civile risultano confermate le materie sin qui precluse ai giudici onorari (cfr. art. 188.1 della Circolare del C.S.M.), nel settore penale (e proprio laddove è più avvertita la necessità di garantire la formazione dei collegi in situazioni di necessità), l’unico limite vigente dei procedimenti con rito direttissimo (art. 188.2 ripreso dall’art.11.6 lett.b n.4 del d.lgs.vo) e in materia di riesame (art. 184.1 lett.b), viene esteso fino a ricomprendere un ampio catalogo di fattispecie di reato.
Risulta così inibita, in forma del tutto inedita, la possibilità di sopperire alle carenze di organico mediante l’integrazione di giudici onorari nei collegi penali in virtù di una disposizione che, specie negli uffici meridionali, più afflitti sia dai vuoti di organico che da processi per gravi ipotesi criminose, metterà a dura prova la capacità organizzativa dei capi degli uffici.
Il lungo elenco di ostacoli frapposti dal decreto all’utilizzazione dei giudici onorari in tribunale termina con un ultima e “innovativa” previsione, che circoscrive (sia per il ruolo monocratico che per quello collegiale) l’attribuzione degli affari civili e penali ai soli “procedimenti pendenti” al termine di scadenza previsto per il provvedimento di assegnazione del g.o. da parte del presidente del tribunale (artt. 11.7 e 12.1).
Si tratta di una disposizione Intesa ad evidenziare una volta di più (laddove ve ne sia davvero il bisogno) l’eccezionalità dell’assegnazione di procedimenti ai giudici onorari in tribunale.
Alquanto evidenti tuttavia gli inconvenienti derivati da una disposizione siffatta per un’efficiente organizzazione delle sezioni che specie nel settore penale collegiale, abbinata alle limitazioni per tipologia di reati di cui si è detto in precedenza, costringerebbero alla diseconomica previsione di una pluralità di collegi in composizione differenziata, risultando condizionata la presenza di giudici onorari sia dalla natura del reato, sia dalla data di pendenza del giudizio.
4. La motivazione delle restrizioni nell’utilizzo dei giudici onorari.
L’elencazione di una così articolata e complessa serie di griglie diretta a limitare l’utilizzazione vicaria del giudice onorario, impone di interrogarsi sulla ratio che ha ispirato questa scelta in sede di attuazione della delega (e financo oltre le indicazioni offerte dalla stessa).
Tanto può essere affermato specie considerando come il C.S.M., in sede di relazione illustrativa della recente Circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari per il triennio 2017/2019, aveva (ragionevolmente) ricavato dalla legge delega indicazioni del tutto favorevoli ad un ampliamento dell’utilizzazione dei giudici onorari.
In tal senso, dal criterio della delega di cui all’art. 1.1lett.b) si era ricavato che “…tale disposizione certamente rivela un evidente favor del legislatore verso l’implementazione dell’utilizzo dei giudici onorari consentendone, salve alcune eccezioni, non solo l’applicazione per la trattazione di procedimenti civili e penali del tribunale ordinario, ma anche l’impiego quali componenti di collegi giudicanti civili e penali”.
Proprio sulla base di questa considerazione le linee guida della circolare (cui si sono uniformati i progetti organizzativi di tutti i tribunali) hanno attenuato le precedenti e più rigorose limitazioni nell’utilizzazione dei giudici onorari in tribunale.
Alla ricerca delle cause di questo (sorprendente) mutamento di rotta soccorre la relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo, consentendo di individuarle nella:
a) enfatizzazione dell’utilità dell’ufficio per il processo come tipologia di intervento prioritaria per far fronte alle criticità nella risposta alla domanda di giustizia, muovendo da un’analisi comparativistica, dai positivi risultati sperimentati in alcuni uffici italiani e dalla considerazione (peraltro fondata) per cui “il giudice è l'unico professionista a non essere dotato di assistenza qualificata e costante nell'espletamento delle sue attività”;
b) recuperata efficienza (specie nel settore civile) dei tribunali derivante, oltre che dall’istituzione dell’ufficio per il processo, anche dal significativo ampliamento della competenza dell’ufficio onorario del giudice di pace e dal conseguente effetto deflattivo;
c) necessità di limitare l’impegno del giudice di pace a non più di due giorni settimanali, per assicurarne la piena compatibilità con lo svolgimento di altre attività remunerative, e quindi a non poterlo gravare di un carico di lavoro superiore ad un terzo del numero medio nazionale dei procedimenti pendenti per ciascun giudice professionale.
Si tratta, a ben vedere, di argomentazioni non particolarmente convincenti e anche parzialmente inconferenti con la tipologia di intervento di cui costituiscono le premesse fondative.
La precedente e (prevedibilmente) perdurante necessità di utilizzazione dei giudici onorari nei tribunali, ha ben poco a che fare difatti con l’incremento della competenza del giudice di pace, quanto piuttosto con la mancata copertura dell’organico dei magistrati, che presenta attualmente una percentuale di vacanze presso gli uffici del 12%.
La devoluzione di nuove attribuzioni all’ufficio del giudice di pace prevista dagli artt. 27 e 33.3 a far data dal 30.10.2021 (peraltro limitata al solo settore civile), e la conseguente (ma non ancora attuale) riduzione delle sopravvenienze, non elude le costanti necessità di coprire i ripetuti vuoti che si creano nei tribunali.
Alla carenza “strutturale” dell’organico per i ritardi nello svolgimento dei concorsi di accesso alla magistratura, si sommano le contingenti situazioni di difficoltà operativa derivanti dalla mobilità orizzontale e verticale dei magistrati, destinazione fuori ruolo, ecc., tutte cause che postulano il prevalente ricorso ai giudici onorari e che non sono in alcun modo ridotte dal conferimento di nuove competenze all’ufficio del giudice di pace.
Per non parlare poi anche del limite di permanenza decennale imposto dall’art.19.1 del d.lgs.vo n. 160 del 2006, che si pone come ulteriore addendo della somma di elementi che determinano l’insorgere delle periodiche criticità nell’organico degli uffici giudiziari.
Nè l’attivazione dell’ufficio del processo, funzionale all’incremento qualitative e quantitativo del servizio giustizia, ha alcuna incidenza sulle problematiche delineate in precedenza.
La limitazione invece dell’impegno richiesto ai giudici onorari a un tempo complessivamente non superiore a due giorni a settimana (come previsto dall’art. 1.3), se può costituire un antecedente logico della riduzione dell’utilizzazione dei giudici onorari, certamente non può trovare giustificazione nelle emergenze dei tribunali più volte ricordate, finendo altresì per determinare ulteriori criticità.
Non viene specificato difatti se si tratti di due “udienze”, elidendo in tal caso la necessaria fase preparatoria e di stesura dei provvedimenti definitori e il principio pro rata temporis di cui al paragrafo 2 della clausola 4 della direttiva 1999/70/CE.
Ma anche se all’opposto si debba intedere un’unica udienza ed una d’ufficio, si prefigura così un impegno periodico proporzionalmente maggiore a quello del magistrato professionale ma soprattutto inadeguato alle concrete necessità di gestione dei ruoli, specie per quanto riguarda l’impegno dei giudici onorari nei collegi.
Risulta del tutto evidente in definitiva come la marginalizzazione dell’utilizzazione nei ruoli giudiziari dei Tribunali dei giudici onorari ad ipotesi di eccezionale gravità, mal si concilia con un impiego individuale così ridotto che specie (ma non solo) nel settore penale, si tradurrebbe in un apporto di ben modesta utilità concreta e difficilmente in grado di fronteggiare la situazione emergenziale che ne legittimi l’impegno.
5. L’ipotesi di “supplenza”.
Diverso discorso va fatto per quanto riguarda la destinazione insupplenza presso il tribunale dei giudici onorari di pace.
Si tratta, secondo la normazione secondaria consiliare, dell’istituto a cui si fa ricorso, per assicurare il regolare esercizio della funzione giurisdizionale, in caso di assenza o di impedimento temporanei di un magistrato (ad es. malattia, puerperio, ecc.).
Sul tema il decreto legislativo ritiene di intervenire, come indicato nella relazione illustrativa, nonostante l'assenza di uno specifico criterio di delega a riguardo, “…perché conforme allo spirito complessivo della legge delega in quanto la destinazione in supplenza rappresenta, storicamente, la prassi di ordinario utilizzo della magistratura onoraria, che trova conforto, sul piano normativo, nell'articolo 43-bis dell'ordinamento giudiziario”.
Nella predetta ipotesi, che resta confinata ai casi in cui il magistrato professionale risulti come detto temporaneamente assente o impedito, l’utilizzazione del giudice onorario resta garantita (anche per comporre il collegio) dal disposto dell’art. 13 del decreto (che ripropone l’art. 189 della Circolare del C.S.M.), anche ove non ricorrano le condizioni di cui al menzionato art.11.
Viene in campo una norma che certamente offre una risposta alle situazioni di emergenza (anche impreviste), ma che non può superare i ristretti confini applicativi per cui è stata disegnata, e lo ricorda lo stesso art. 13, che ribadisce come “..in ogni caso, il giudice onorario di pace non può essere destinato in supplenza per ragioni ostative al complessivo carico di lavoro ovvero alle vacanze nell’organico dei giudici professionali”.
Non è pertanto nel ricorso alla supplenza che potranno trovare particolare risposta le esigenze degli uffici atteso che i giudici professionalinon potranno essere sostituiti da quelli onorari in ragioni relative alcomplessivo carico di lavoro (come esplicitato nella relazione): “… in tal modo superando, sul punto, la nozione estesa di "impedimento", elaborata in sede consiliare, da ravvisarsi in tutte quelle situazioni non strettamente riconducibili ad impegni processuali coincidenti con una certa udienza, ma in cui doveva comunque considerarsi il complessivo impegno lavorativo del giudice professionale in un determinato arco temporale, e quindi la trattazione di un certo numero di processi particolarmente impegnativi per complessità o numero delle parti in concomitanza dell'ordinario carico di lavoro”.
6. Le disposizioni transitorie per i m.o. in servizio come g.o.t.
Si è in precedenza anticipato (vedi supra sub §1), come l’analisi delle disposizioni “a regime” previste dallo schema di decreto possa essere ritenuto subvalente, ratione temporis, rispetto alle norme che regolano, sin da subito, lo status dei giudici onorari di tribunale transitati nel nuovo ruolo di giudici onorari di pace.
Va in ogni caso esaminato quanto previsto dal decreto in ordine agli (ex) g.o.t. all’art.30.
Oltre alla possibilità di assegnarli all’ufficio per il processo (art.30.1 lett.a), fino alla scadenza del quarto anno successivo alla data di entrata in vigore del decreto, il presidente del tribunale può utilizzare I giudici onorari di pace (già) in servizio come g.o.t. assegnando la trattazione di “nuovi” procedimenti civili e penali di competenza del tribunale (art. 30.1 lett.b).
Si tratta di una previsione significativa, intesa a salvaguardare l’assetto preesistente dei tribunali, specie perchè praticabile in esplicita deroga rispetto alle stringenti condizioni di cui all’art.11 (cfr. supra sub §3).
Intuibile la difficoltà di contemperare l’ampiezza derogatoria dell’art. 30.1 lett. b), che comunque circoscrive l’ambito delle attribuzioni del giudice onorario alla trattazione dei soli “nuovi” procedimenti, con i criteri di assegnazione degli affari previsti dall’art.11.7 (esplicitamente ritenuti obbligatori dal medesimo art. 30.1 lett.b), che fa invece riferimento ai soli procedimenti “pendenti”.
Molto più comprensibile la lettera della norma laddove all’iniziale previsione della non necessaria ricorrenza delle “…condizioni di cui all’art. 11.1 e nel rispetto del comma 7 del predetto articolo e delle deliberazioni del Consiglio Superiore della Magistratura” fosse stata aggiunta la congiunzione ”anche” a precedere “..la trattazione dei nuovi procedimenti…”.
La rilevanza ermeneutica del disposto normativo e gli inevitabili riflessi i sull’assetto organizzativo dei Tribunali risultano evidenti, specie ove si consideri che la riforma della magistratura onoraria è intervenuta successivamente alla data di deposito delle tabelle per il triennio 2017/2019.
Decisivo quindi l’intervento del C.S.M. che in data 6.12.2017 (a seguito di quesito formulato da chi scrive), con delibera n.530/VV/2017, ha precisato che, ai sensi dell’art. 30.1 lett.b), debbano essere intesi come “nuovi procedimenti”….” sia le cause iscritte a ruolo dopo il 15 agosto 2017 sia quelle iscritte prima di tale data ma alla stessa data non ancora assegnate al magistrato onorario”, intendendo la novità del procedimento in chiave soggettiva ed estensiva, ossia come procedimenti “nuovi” per il magistrato onorario cui sono assegnati, anche se già pendenti nell’ufficio.
La valutazione “conservativa” dell’organo di governo autonomo è stata naturalmente accolta con estremo favore, per avere offerto una lettura della norma funzionale alle esigenze degli uffici ed idonea ad evitare il pericolo di una disarticolazione organizzativa dei tribunali (non certo pochi..), in cui l’utilizzazione vicaria dei giudici onorari costituisce prassi costante.
Può quindi ritenersi che, almeno fino al 15.8.2021, l’utilizzazione dei g.o.p. all’interno degli uffici giudicanti per attività giurisdizionali resterà sostanzialmente immodificata (fatte salve le nuove preclusioni di cui all’art. 11.6), specie ove si consideri che nella delibera menzionata il C.S.M. ha inteso precisare anche che “…. non vi sono limiti quantitativi all’assegnazione di siffatti “nuovi procedimenti”, con il risultato che, sempre e solo nel suddetto primo quadriennio, sarà possibile, nel rispetto della normativa secondaria fino ad ora esistente (le “deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura” cui si riferisce la lettera b del comma 1 dell’art. 30), assegnare ai giudici onorari anche un intero ruolo, pur non ricorrendo le ipotesi di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 116/2017”.
La perdurante ampiezza della sfera di utilizzazione dei g.o.p. nei tribunali ha trovato ulteriore conferma da parte del C.S.M. nella “Prima risoluzione sulla nuova disciplina della magistratura onoraria” del 28.2.2018.
Va in ogni caso rilevato come la scelta consiliare di non differire il termine di deposito delle tabelle degli uffici giudicanti di primo grado in attesa del varo definitivo della riforma della magistratura onoraria, ha comportato la necessità, per molti uffici, di rivisitare I progetti tabellari rendendoli conformi al mutato quadro legislativo, non avendo il C.S.M. ritenuto equiparabile il concetto di “assegnazione” di cui all’art. 30.2 alla mera previsione tabellare.
Da ultimo va però segnalato come nel settore penale la gestione dei giudizi collegiali si stia rivelando estremamente problematica anche nel periodo transitorio.
Se difatti ai sensi dell’art. 30.5 I giudici onorari di pace (già giudici onorari di tribunale) possono continuare a comporre i collegi (tranne che per le materie indicate dall’art. 12) sino alla definizione dei procedimenti anche ove non sussista lo “stato di necessità” di cui al menzionato art. 11, risulta immediatamente operativa l’inibizione alla loro utilizzazione per i reati di cui all’art. 407.2 lett. a) c.p.p.
Per tali, numerose e complesse fattispecie, la destinazione collegiale dei g.o.p. è consentita ex art. 30.6 solo laddove sia stata esercitata l’azione penale alla data del 15.7.2017.
In tutta evidenza si tratta di una grave limitazione nell’impiego dei g.o.p. in ambito dibattimentale, destinata progressivamente ad aggravarsi con il passare del tempo, per l’incremento cronologico delle fattispecie, cui prevedibilmente conseguiranno non pochi problemi organizzativi, solitamente connessi all’attività di collegi predisposti ad hoc.
7. Conclusioni e …attese.
L’analisi sin qui svolta prende le mosse dalla considerazione che l’utilizzazione dei giudici onorari nei tribunali sia tutt’altro che episodica e che la situazione corrente di difficoltà organizzativa potrebbe essere accentuata dall’approvazione di un decreto legislativo che, se pure temporalmente differito nella sua efficacia a regime, appare inadeguato ed annuncia l’insorgere di ulteriori problemi.
Non va dimenticato altresì come la percentuale di scopertura dell’organico dei giudici onorari sia oggi del 18% (superiore a quella del 13% dei v.p.o.) per cui alle carenze numeriche dei giudici onorari (elevate in alcuni tribunali), si aggiungerebbero le difficoltà di utilizzo di quelli residui.
Il C.S.M., stante il disposto dell’art. 32.10, ha opportunamente deciso di provvedere a nuove nomine di giudici onorari, attingendo peraltro agli idonei di graduatorie remote, non tutti dichiaratisi disponibili ad assumere l’incarico.
Si aggiunga in proposito come, nel vigente reclutamento non specializzato, a volte non sia stato positivamente superato il (necessario) tirocinio nel settore penale, comportando la revoca dell’incarico.
Va altresì considerato come, per far fronte alla rilevante carenza di giudici onorari assegnati alla giurisdizione di pace, commisurata intorno al 64% (un vero e proprio “pianto organico”), solo in parte compatibile con le diminunizione della domanda di giustizia di pace, il decreto legislativo preveda all’art. 33.9 la possibilità (immediatamente attivabile) di “…destinare giudici di pace e giudici onorari di tribunale ……. in supplenza o in applicazione, anche parziale, in un ufficio del giudice di pace del circondario ove prestano servizio..”.
Con una modifica operata in extremis, raccogliendo un rilievo del C.S.M., la stessa norma altresì ha previsto che “…nel corso del periodo di supplenza o di applicazione la liquidazione delle indennità ha luogo in conformità ai citeri previsti per le funzioni e I compiti effettivamente svolti”.
Si tratta di un intervento tampone che è stato già utilizzato, per fronteggiare autentiche emergenze, da alcuni presidenti di tribunale (a volte superando non poche resistenze degi giudici di pace), sguarnendo ulteriormente la platea dei giudici onorari disponibili per le emergenze dei tribunali.
Tanti quindi i problemi da risolvere, che si concentrano nell’esigenza di funzionalità dei tribunali, seriamente compromessa da un testo normativo che (a regime) frappone troppi ostacoli alla misura dell’impegno ed all’assegnazione ai giudici onorari di affari civili e penali.
A tale proposito il rinvio operativo del corpo principale della riforma al 2021, operato al fine di consentire per tempo gli interventi necessari per consentirne l’agibilità, non può indurre a particolare sollievo.
Non è difficile ipotizzare difatti, che proprio la mancata percezione di urgenza derivante dal differimento, possa posporre la cantierizzazione delle misure organizzative atte ad eludere il rischio di una sorta di “effetto Malpensa” che sembra prevedibilmente gravare sul futuro della giustizia civile.
E’ per questo che si deve guardare con attenzione ai risultati, preannunziati come imminenti, che deriveranno dal “tavolo tecnico” in atto presso il ministero della giustizia, con la partecipazione dell’ Associazione Nazionale Magistrati e rappresentanti delle varie categorie dei magistrati onorari, in vista dell’emanazione di disposizioni correttive del d.lgs.vo n. 116/2017, come previsto ex art. 3.2 della delega, entro il termine del 15.8.2021.
L’auspicio è che il dibattito non si concentri esclusivamente sui profili sindacali e relativi alle questioni di status dei magistrati onorari in servizio, pur evidenziandosi comprensibilmente come preliminare la riformulazione del limite temporale di impiego dei g.o.p.
La previsione di correggere ed integrare il testo dei decreti attuativi della delega, costituisce una modalità legislativa al tempo stesso intelligente e responsabile, idonea ad adattare in progress I principi di una riforma lungamente attesa e di ambiziosa portata applicativa, verificando sul campo I suoi effetti concreti nel quotidiano giudiziario.
Anche il C.S.M., come già fatto utilmente prima dell’emanazione del d.lgs.vo n. 116/2017, mediante l’ascolto di Procuratori della Repubblica e Presidenti di Tribunale, potrà fornire al legislatore delegato contributi tecnici puntuali e dettagliati.
E’ noto come, seguendo le indicazioni generali del C.S.M., oggi l’utilizzazione dei giudici onorari in tribunale si articoli nei diversi modelli dell’affiancamento al giudice professionale, della supplenza o dell’assegnazione di un ruolo autonomo (cfr. quanto previsto dal capo VII della vigente circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti).
Sulla base di un recente monitoraggio del C.S.M. emerge come prevalga l’utilizzazione vicaria del g.o. rispetto all’affiancamento*, e che la previsione dell’ufficio per il processo, pur incentivata dal Consiglio con una recente delibera del luglio di quest’anno, che lo ha reso obbligatorio in tutti I Tribunali, continui ad incontrare non pochè difficoltà, principalmente legate alla carenza di spazi e di risorse, come emerso anche recentemente in un incontro tematico organizzato dalla Scuola superiore della magistratura.
Pur senza sottovalutare l’importanza della destinazione del g.o.p. all’ufficio per il processo, induce a qualche perplessità la concentrazione dell’attività del g.o.p. su questa funzionalità operativa, oggi prevalentemente (e positivamente) assolta dai partecipanti al tirocinio formativo ex art. 73 d.l. n. 69/2013.
L’esclusiva destinazione all’ufficio per il processo per il primo biennio di attività dei g.o.p. (art. 9.4 del d.lgs.vo n. 116/2017) ed il perimetro della sua attività confinata in termini di supporto o atti delegati (art.10), costituiscono una limitazione ad un impiego dei g.o.p. che possa essere opportunamente modulato in ragione delle esigenze (ed emergenze) dell’ufficio giudiziario.
Se può condividersi la filosofia di individuare nell’ufficio per il processo una palestra formativa per I g.o.p. di prima nomina (peraltro ragionevolmente limitata al settore civile), va tuttavia ricordato come iI giudici onorari costituiscono una risorsa per i tribunali anche (e forse soprattutto) per una ordinata pianificazione dell’attività giudiziaria.
Proprio in ragione di quanto detto, si rafforzano le evidenziate criticità relative alle troppo rigide limitazioni per l’assegnazione dei procedimenti civili e penali ai g.o.p. (artt. 11 e 12 della riforma), che impongono una rivisitazione improntata a criteri di realismo ed efficienza organizzativa.
Solo così potrà essere sventato il perciolo che alla data di attuazione integrale della riforma non si riesca a far fronte in modo adeguato alla domanda di giustizia nella “frontiera” del primo grado, che trova nell’apporto dei giudici onorari una risorsa preziosa ed ineludibile.
Ernesto Aghina
* Al 30.6.2017 la percentuale di g.o.t. utilizzati presso I tribunali in affiancamento dei giudici professionali era del 38% (con un ruolo aggiuntivo nel 75% dei casi), rispetto al 62% risultante dalla somma delle ipotesi di supplenza (28%) e dell’assegnazione autonoma di un ruolo (34%).
1. La magistratura ha sempre più un volto femminile. - 2. La scomparsa “giudice ragazzino”. - 3. Si è dissolto l’oligopolio maschile della dirigenza giudiziaria, ma non è scomparso lo svantaggio di genere. - 4. Il rinnovamento della dirigenza giudiziaria. - 5. Il rapporto tra giudici e abitanti. - 6. Conclusioni.
Una breve analisi statistica della attuale composizione della magistratura consente di elaborare l’identikit del magistrato italiano ad oggi (i dati statistici nazionali provengono e sono stati elaborati dall’Ufficio Statistico del CSM. I dati statistici europei, invece, sono desunti dal rapporto CEPEJ 2018).
1. La magistratura ha sempre più un volto femminile.
Le donne in servizio come magistrati togati all’11/10/2018 è pari al 53,2% circa.
Negli ultimi anni i magistrati di nuova nomina appartengono per gran parte al genere femminile. Tra il 2009 e il 2018 vi sono stati n. 1.603 (62,7%) vincitori di concorso donne e n. 952 uomini.
Questo trend nel rapporto di genere in occasione dell’accesso ha rapidamente modificato in pochi anni la composizione per genere della magistratura.
Grafico 1: Distribuzione del numero di magistrati per genere negli ultimi 5 anni.
Il dato appare significativo se confrontato con quello della distribuzione di genere in altri lavori del settore della giustizia, come la professione notarile (D. 34% - U. 66%) o e quella forense (D. 47% - U. 53%). Andrebbero meglio indicate le cause anche sul piano motivazionale, ma probabilmente incide ancora la maggiore difficoltà di conciliare l’impegno familiare con quello lavorativo di determinati contesti professionali. Ne è una parziale riprova il fatto che, all’interno dell’ordine giudiziario, negli Uffici di Procura, ove alla presenza in ufficio è continuativa si accompagnano spesso gravosi turni esterni, prevale ancora, sia pur di poco, la presenza maschile (D. 43% U. 57% - rapporto CEPEJ 2018, dati 2016).
La “femminilizzazione” della magistratura è un fenomeno che accomuna la grandissima parte degli Stati europei.
In base al rapporto CEPEJ 2018, possiamo osservare che l’Italia, quando alla distribuzione di genere della magistratura, è perfettamente nella media degli Stati considerati. Se in Spagna abbiamo l’identica percentuale (D 53% - U 47%), in Francia il rapporto è ancora più accentuato (64%-36%), così come, ad esempio, in Ungheria (69% - 31%), per arrivare la presenza di donne a percentuali quasi “bulgare” in Lituania e Slovenia (rispettivamente con una percentuale femminile del 78% e 79%).
In controtendenza, invece, sono i paesi anglosassoni, presumibilmente influenzati anche dal diverso sistema di accesso, con provenienza dei magistrati dalla professione forense (UK=34%, Scozia 27%).
L’accesso delle donne nella magistratura italiana è relativamente recente, per cui, eliminato il divieto, inizialmente esse partecipato al concorso in numeri ridotti. Il sensibile incremento progressivo della percentuale femminile tra i vincitori del concorso, fino a dati attuali, ha determinato una disomogeneità del rapporto di genere nelle diverse fasce di anzianità della magistratura.
Il grafico sottostante mostra la distribuzione dei magistrati in servizio all’11/10/2018 per genere.
Grafico 2: Distribuzione percentuale del numero di magistrati in servizio all'11/10/2018 per anno di ingresso in magistratura, distinti per genere
Come può osservarsi, è possibile individuarsi tre segmenti, collegati ai periodi storici di ingresso in magistratura.
Un primo segmento, relativo ai magistrati vincitori di concorso dal 1969 al 1987, nel quale la percentuale di magistrati donne in servizio all’11/10/2018 è minore rispetto a quella degli uomini.
Un secondo segmento, relativo ai vincitori dal 1988 fino al 2004, nel quale tale percentuale è omogenea.
Un terzo segmento, nel quale la proporzione di donne entrate in magistratura in tale anno e negli anni successivi ed in servizio all’11/10/2018 supera sempre quella degli uomini.
2. La scomparsa “giudice ragazzino”.
In Italia si diventa magistrato mediante concorso. L’accesso non è diretto dopo la laurea, ma presuppone l’aver svolto il tirocinio presso gli Uffici giudiziari, la scuola di specializzazione per le professioni legali, l’aver conseguito l’abilitazione forense, il dottorato di ricerca o altri titoli analoghi.
Lo stesso sistema del concorso pubblico è adottato da 34 Stati considerati dal rapporto CEPEJ, di cui n. 16 come sistema esclusivo (es. Austria, Germania Francia, Spagna, Turchia) e n. 18 abbinato ad un sistema che, a tali fini, considera la professione legale con esperienze di lungo termine (Belgio, Olanda, Polonia, Slovacchia, Slovenia Germania – riportata anche in questo secondo gruppo). Altri n. 8 Stati utilizzano esclusivamente meccanismi affidati all’esperienza, anzianità tra gli avvocati, senza esami competitivi (es. Norvegia, Svizzera, UK, Israele). Per inciso, n. 42 Stati su 46 prevedono forme obbligatorie di tirocinio iniziale.
Tornando all’Italia, in venti anni si è alzata di quattro anni l’età media di ingresso in magistratura. Se si raffrontano i dati attuali con l’inizio dell’attività del Consiglio, addirittura il gap è di 6 anni.
Tabella 1: Età media di ingresso in magistratura dei magistrati donne e uomini e totale, in servizio al 31/12/2017, per decenni di ingresso in magistratura
L’ampliamento della durata del corso di laurea in giurisprudenza da quattro a cinque anni, con l’eliminazione dell’accesso diretto al concorso, unito al fenomeno della prevalenza femminile tra i vincitori di concorso, ha trasformato l’identikit del magistrato di prima nomina. Se in passato l’uditore giudiziario era solitamente un uomo di 26-27 anni, oggi il MOT è in prevalenza una donna di 32 che deve ancora affrontare un tirocinio di lunga durata, con notevoli aspetti teorici, pur avendo maturato esperienze di studio e lavorative post-laurea.
3. Si è dissolto l’oligopolio maschile della dirigenza giudiziaria, ma non è scomparso lo svantaggio di genere.
E’ ricorrente la considerazione per la quale, sebbene una maggioranza di donne vinca il concorso, i posti di “responsabilità”, direttivi e semidirettivi, siano ancora saldamente appannaggio dell’altro genere. Si fa poi discendere da tale constatazione, la prova di uno svantaggio della donna magistrato nel raggiungere i “vertici” della carriera.
Si tratta di un bias che porta a conclusioni non del tutto corrette in quanto basate su un raffronto di dati troppo generici.
L’analisi disaggregata dei dati relativi alla composizione di genere della magistratura, rapportata agli anni di ingresso nell’ordine giudiziario (sopra riportati), dimostra che lo svantaggio nell’accesso alla dirigenza giudiziari esiste, ma è fortunatamente quantitativamente inferiore rispetto a quello generalmente indicato.
La tabella sottostante mostra la distribuzione delle donne e degli uomini magistrati che svolgono funzioni direttive e semidirettive in servizio ad oggi (11/10/2018). Le donne costituiscono il 28,5% del totale dei magistrati con funzioni direttive e il 39,7% del totale dei magistrati con funzioni semidirettive.
Tabella 2: Numero di magistrati uomini e donne in servizio all’11/10/2018 con funzione direttiva e semidirettiva
Se si raffronta tale dato, con quello del 53% di magistrati donna, è facile convincersi di avere tra le mani la “pistola fumante” della evidente discriminazione di genere. Discriminazione, peraltro, poco commendevolmente estesa a gran parte dei Paesi CEPEJ, ove la percentuale media di Capi di Corte donna è solo del 35% (con l’eccezione di Lituania, Ungheria, Romania, Slovenia e Croazia che hanno una maggioranza di capi degli uffici giudiziari donna).
E’ un ragionamento, tuttavia, non del tutto corretto perché, non tiene conto del fatto che la distribuzione per genere negli incarichi risente necessariamente della variazione nel tempo delle percentuali uomo/donna di accesso in magistratura.
La prevalenza femminile magistratura è, infatti, come indicato in precedenza, un fenomeno relativamente recente e, pertanto, la maggioranza di magistrati donna ha un’anzianità professionale mediamente non elevata. Pertanto, partendo dalla considerazione che gli incarichi direttivi o semidirettivi sono raramente concessi a magistrati giovanissimi e che si contano sulle dita quelli attribuiti a magistrati entrati in servizio successivamente al d.l. 28/7/1998, deve constatarsi, in prima battuta che, la platea dei magistrati che hanno buone possibilità di essere designati per tali incarichi ha ancora una prevalenza maschile (D 47%, U, 53%). E’ lecito attendersi, pertanto, che ancora per pochi anni, fino a quando la “terza fascia generazionale” della magistratura, a netta prevalenza femminile, non maturerà un’anzianità professionale tale da rappresentare la maggioranza degli aspiranti agli incarichi dirigenziali, permanga una prevalenza maschile tra i titolari di incarichi direttivi e semidirettivi.
Il dato è ancora più evidente se si considerano gli incarichi direttivi, solitamente conseguiti nel tratto finale della carriera. Tra i magistrati in servizio vincitori di concorso entro il 1988, vi è, infatti, un 62% di uomini e un 38% di donne.
Tabella 3: Numero di magistrati donne e uomini e totale, in servizio al 31/12/2017, per decenni di ingresso in magistratura
Il rapporto di fine consiliatura 2014-2018 del CSM, reperibile sul sito csm.it, indica il trend relativo alla nomina di donne negli incarichi direttivi e semidirettivi.
La percentuale di donne nominate in funzioni direttive e semidirettive è passata dal 20% circa della consiliatura 2006-09, al 26% della consiliatura 2010/12, al 35% di quella conclusasi a settembre 2018.
Nello specifico, la percentuale di donne nominate in funzioni direttive è passata dal 12% al 16% al 27% rispettivamente nelle tre consiliature, mentre la percentuale di donne nominate in funzioni semidirettive è passata dal 27% al 33% al 41% nelle tre consiliature considerate.
La diversa composizione di genere della magistratura a seconda dell’età di ingresso spiega però solo parzialmente la differenza percentuale tra conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi. E’ evidente, infatti, che esiste ancora uno scarto percentuale superiore al 10% tra la percentuale femminile dei “concorrenti reali” a tali incarichi e il loro conferimento effettivo.
Pertanto, trovano ancora pienamente giustificazione le misure a sostegno dell’uguaglianza di genere adottate a livello consiliare e decentrato, in modo da garantire il risultato - al quale deve tendere una politica che elimini integralmente la barriera di genere - di un’assoluta omogeneità percentuale tra composizione di genere della magistratura e l’accesso femminile alla dirigenza giudiziaria.
4. Il rinnovamento della dirigenza giudiziaria.
Nel corso dell’ultima consiliatura è intervenuto l’abbassamento dell’età pensionabile al 70 anni. Questo nuovo limite di età, fortemente discusso, a mio avviso non senza ragione, rappresenta, però significativamente il dato massimo in tutti gli Stati considerati dal rapporto CEPEJ: ad eccezione della Spagna (che lo ha recentemente incrementato a n. 72 anni), in nessuno Stato vi sono magistrati di oltre 70 anni.
Tale riforma, unità alla necessità di garantire una durata di permanenza minima nell’incarico prima del pensionamento, ha portato ad una fortissima rinnovazione di tutta la dirigenza giudiziaria.
Nel corso della consiliatura 2014-2018, risultano conferiti nel quadriennio oltre 1.000 incarichi, come si evince dai dati al 31.07.2018 che indicano un numero di nomine che, sommato agli ulteriori incarichi conferiti a settembre 2018, porta al superamento delle 1.000 unità.
5. Il rapporto tra giudici e abitanti.
In un orizzonte temporale di 5 anni vi sono sempre nuovi concorsi, ma le politiche governative determinano una irregolarità di flussi di accesso spesso non coordinati con gli aumenti di organico e le variazioni dell’età pensionabile.
Il numero di giudici per 100.000 abitanti si è ridotto da n. 11 del 2010 a n. 10,6 del 2016, comunque omogeneo a Francia e Spagna, a fronte di un dato medio nei Paesi considerati dal rapporto CEPEJ di n. 17,8.
Grafico 4: Distribuzione percentuale del numero di magistrati in servizio al 31/12/2017 per anno di ingresso in magistratura, distinti per genere
6. Conclusioni.
Nella magistratura attuale non sono più reclutati giovani laureati, ma persone che hanno già maturato una considerevole esperienza professionale e personale, spesso inficiata da investimenti di tempo e denaro inutili, come una laurea quinquennale che prepara meno di prima, l’esperienza delle SSPL in buona parte fallimentare, i tirocini formativi, forse utili agli uffici giudiziari, ma certamente meno per i tirocinanti che aspirano a superare il concorso. La maggior parte frequenta anche un corso di preparazione al concorso privato.
La carriera di magistrato inizia più tardi rispetto al passato, e si conclude prima: è impensabile l’orgoglioso superamento del traguardo dei 50 anni nella professione del magistrato, raggiunto da alcuni magistrati oggi in quiescenza; in verità diviene poco probabile anche quello di 40 anni.
Le donne sono la struttura portante della magistratura. Non sappiamo in che misura tale dato la trasformerà. Forse non la cambierà, dimostrandosi in tal modo l’indifferenza del genere rispetto al modo di giudicare.
La dirigenza giudiziaria è per la quasi totalità nuova. E’ presto per avere un feed-back completo sull’impatto di questo notevolissimo numero di nomine sulla funzionalità degli uffici giudiziari.
L’età media dei dirigenti si è sicuramente abbassata ed emerge una competizione che può portare benefici. Si intravedono, però, preoccupanti segnali di una sempre più intensa pulsione carrieristica da parte degli aspiranti che certamente non potrà aiutare, nel medio termine, ad alimentare l’idealità che necessariamente deve assistere il magistrato nel suo lavoro quotidiano.
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