ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Convalida di sfratto per immobile luogo di detenzione domiciliare: la giurisprudenza di merito ha individuato il punto di equilibrio tra interesse del proprietario ad ottenere la restituzione dell’immobile e l’interesse dell’ordinamento a garantire l’esecuzione della pena.
Tra le misure alternative alla detenzione la legge prevede l’istituto della detenzione domiciliare così come, in alternativa alla custodia cautelare, è prevista, la misura degli arresti domiciliari.
La giurisprudenza penale ha costantemente affermato che affinché possano operare tali misure “alternative” è, però, necessario che il soggetto ristretto sia nella disponibilità di un immobile idoneo allo svolgimento della misura alternativa.
Questione sempre maggiormente discussa è se nella disponibilità possa rientrare anche un immobile oggetto di convalida di sfratto per morosità.
Più chiaramente, è il caso in cui, nel corso del rilascio forzato, l’ufficiale giudiziario si veda opporre da un occupante l’impossibilità di liberare l’immobile per l’esistenza di un provvedimento del giudice penale che elegge l’immobile oggetto di convalida quale luogo di detenzione domiciliare (o per lo svolgimento della misura cautelare degli arresti domiciliari, sempre più utilizzata a fronte del sovraffollamento carcerario, definitivamente sanzionato dalla nota sentenza Torreggianni).
È immediatamente evidente il contrasto, almeno apparente, che sorge tra due provvedimenti distinti: da una parte il provvedimento di convalida di sfratto, emesso dal giudice civile; dall’altra il provvedimento del giudice penale che autorizza a svolgere la misura nello stesso immobile oggetto del provvedimento di rilascio.
Viene, cioè, in rilievo un’antinomia tra esigenze di natura penale di interesse pubblicistico a garantire l’esecuzione della pena attraverso misure alternative alla detenzione carcerarie, in aderenza all’esigenza costituzionale di rieducazione del condannato (art. 27, co. 3 Cost.) e l’interesse privatistico del proprietario dell’immobile sotteso alla procedura di
E’ discusso se la presenza di un soggetto ristretto in detenzione domiciliare presso l’immobile oggetto di rilascio costituisca un ostacolo all’esecuzione del titolo esecutivo.
Parte della dottrina[1] che si è occupata della questione specifica preliminarmente che l’antinomia tra interesse pubblicistico e privatistico è solo apparente: anche la salvaguardia del sistema delle vendite giudiziarie sottende, infatti, un interesse di natura pubblicistica.
La stessa dottrina sottolinea, poi, che esigenze sistematiche impongono di consentire la liberazione di un immobile, anche se occupato da un soggetto in stato di detenzione, così come si consente la liberazione di un immobile anche nei confronti di esecutati invalidi o con figli minori.
Ancora, si evidenzia come l’applicazione degli arresti domiciliari in luogo della custodia in carcere non integri un diritto del detenuto, ma presupponga, piuttosto, la concreta esigibilità della misura.
È affermazione costante della giurisprudenza, infatti, che la concessione degli arresti domiciliari necessita del preventivo accertamento dell’esistenza di un domicilio idoneo, che sia cioè fruibile da parte dell’indagato (o, in alternativa, la disponibilità all’accoglienza da parte del titolare del diritto)
Così inteso, il contrasto tra provvedimento penale e provvedimento civile diviene più apparente che reale, occorrendo piuttosto trovare un punto di equilibrio tra le esigenze del condannato (o indagato) e del proprietario dell’immobile.
La questione, non ancora approdata alla giurisprudenza di legittimità, è stata portata all’attenzione della giurisprudenza di merito
L’orientamento prevalente ritiene che la presenza all’interno dell’immobile oggetto di rilascio di un soggetto sottoposto agli arresti domiciliari o in detenzione domiciliare non è idonea a precludere la prosecuzione dell’esecuzione per rilascio (in epoca risalente, Pret. Monza 30/07/1987).
In tal senso, da ultimo, si è espresso il giudice dell’esecuzione del Tribunale di Napoli (Trib. Napoli, XIV sez. civ., 30 marzo 2018).
Il giudice dell’esecuzione, nell’ordinanza in commento, evidenzia, infatti, che la detenzione domiciliare (così come la misura cautelare degli arresti domiciliari) richiede la disponibilità diretta da parte del condannato, ovvero indiretta da parte dei familiari, di un immobile ove alloggiare legittimamente: in mancanza di tali requisiti la misura non è eseguibile e, ove lo stesso detenuto non sia in grado di indicare un altro immobile fruibile quale luogo di detenzione, numerosi sono i casi di diniego degli arresti domiciliari con conseguente applicazione della più grave custodia cautelare in carcere.
In linea con la giurisprudenza risalente, allora, non si ritiene che l’esistenza di misure cautelari o di detenzione domiciliare siano ostative al rilascio dell’immobile..
Ciò chiarito, è però evidente, da un lato l’impossibilità di esecuzione dell’ordinanza di sfratto poiché l’uscita dall’abitazione dove il detenuto è ristretto, sia pure in esecuzione di una statuizione civile, integrerebbe il reato di evasione (non potendo ritenere che la procedura di rilascio coattivo sia forza maggiore o fatto del terzo); dall’altro è ovvia l’impossibilità per il giudice dell’esecuzione di influire sulle misure cautelari penali.
Esclusa la possibilità di eseguire sic et simpliciter l’ordinanza di rilascio, la stessa dottrina che si è occupata della questione ritiene, ugualmente non ammissibile rimettere al soggetto destinatario del provvedimento penale l’onere di comunicare l’imminente esecuzione dello sfratto all’autorità giudiziaria competente.
Così come con l’esecuzione dell’ordinanza, si esporrebbe, infatti, il soggetto ristretto alla responsabilità per il reato di evasione dagli arresti domiciliari o dalla detenzione domiciliare che, in quanto reato a dolo generico, sarebbe integrato anche dall’inerzia nella ricerca di un alloggio alternativo o dalla mancata comunicazione della venuta meno di un alloggio idoneo.
Se, però, per tutto quanto detto, non può consentirsi un’immediata esecuzione del provvedimento civile che ordina il rilascio dell’immobile, non può nemmeno restare frustrata l’esigenza del proprietario dell’immobile e non eseguirsi il titolo esecutivo.
Il provvedimento del giudice dell’esecuzione di Napoli, allora, trova un punto di equilibrio per non esporre il soggetto ristretto al rischio di commettere il reato di evasione e per garantire, comunque, il rilascio dell’immobile.
Si prevede che, a fronte di opposizione alla liberazione da parte di soggetto gravato di misura cautelare o di detenzione, lo stesso ufficiale giudiziario comunichi tempestivamente al P.M. la sopravvenuta indisponibilità dell’alloggio eletto luogo di esecuzione della misura restrittiva; sarà, poi, l’organo dell’accusa, a proporre istanza di revoca e/o modifica della misura della detenzione domiciliare, stante l’impossibilità di fruire del domicilio inizialmente indicato.
[1] Fanticini, La custodia dell’immobile pignorato, in La nuova esecuzione forzata dopo la l. 18 giugno 2009, n.69, Demarchi, Bologna, 2009
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Per noi, dunque, la scommessa è lanciata. La parola, adesso, ai fruitori e ai loro umori!
Di essi ci nutriremo per esistere e migliorare.
Il contributo è costituito dal testo, con alcune revisioni ed un apparato minimo di note, dell’intervento tenuto al convegno “L’ordinamento penitenziario: prospettive di riforma e impatto sul territorio” organizzato dalla Camera Penale di Terni il 22 novembre 2018.
“Tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili”
Dino Campana, lettera a Bino Binazzi, 11 aprile 1930,
dall’ospedale psichiatrico di Castelpulci
Uno sguardo complessivo
Il 10 novembre 2018 sono entrati in vigore i decreti legislativi 121, 123 e 124 del 2 ottobre 2018, che attuano, seppur solo molto parzialmente, la delega in materia di riforma penitenziaria contenuta nella legge 103/2017.
Senza voler anche qui ripercorrere le tappe che hanno contraddistinto il travagliato percorso di quella legge, deve almeno sottolinearsi come si trattasse, nelle intenzioni del legislatore (a tratti però caratterizzate dal mozartiano “vorrei e non vorrei, mi trema un poco il cor”), di mettere mano in modo ampio e lungimirante all’ordinamento penitenziario del 1975 e, ad oltre quaranta anni da quel testo, ripensare in modo complessivo l’esecuzione penale, ponendola al passo con le elaborazioni compiute nel corso dei decenni dalla Corte Costituzionale e dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Proprio per questo l’iter normativo, poi rivelatosi bradipico, era stato affiancato da un solido percorso di approfondimento, portato avanti da oltre duecento esperti in materia penitenziaria, tratti dall’accademia, dalla magistratura di sorveglianza, di cognizione e requirente, dall’avvocatura, dai mondi del volontariato, della polizia penitenziaria, dell’amministrazione e della cultura, che prese il nome di Stati Generali dell’esecuzione penale, ed i cui risultati costituiscono un bagaglio cui sperabilmente potrà attingersi ancora in futuro, se solo si avrà la pazienza e la voglia di tornarvi sopra.
C’era consapevolezza che, a dispetto delle tempistiche poi imposte forse anche dalle contingenze politiche, vi fosse urgenza di intervenire, nel quadro imposto dalla condanna CEDU nel caso Torreggiani, ed a fronte di un sovraffollamento penitenziario di nuovo a livelli di guardia, di un elevato tasso di suicidi tra i detenuti, e di un senso diffuso di inefficacia dei percorsi rieducativi attuati nel contesto carcerario.
E’ in questo senso assai significativo che, in una sorta di staffetta in cui però soltanto la Consulta ha mostrato di non avere affatto il fiato corto, alle lentezze del legislatore abbiano fatto riscontro incisivi interventi della Corte Costituzionale che hanno anticipato, via via, alcuni dei punti di delega ancora in attesa di attuazione (sent. 41/2018) o hanno dato risposte di adeguamento costituzionale anche ad alcuni profili particolari di quelle norme che il legislatore non aveva voluto fossero toccate dalla delega, cedendo alla tentazione di considerarle dei simboli immodificabili, pur a fronte delle motivate argomentazioni contrarie espresse dagli Stati Generali: mi riferisco alla disciplina contenuta negli articoli 4 bis e 58 quater (sent. 149/2018) e al 41 bis (sent. 186/2018) dell’ordinamento penitenziario. La Consulta ha così ribadito più volte come la Costituzione operi anche in questi campi quale presidio ineludibile, che non arretra nella tutela dei diritti fondamentali della persona, anche a fronte di una elevata pericolosità sociale, pretendendo verifiche serie circa la congruità e proporzionalità delle limitazioni al trattamento imposte da motivi di sicurezza e la tendenziale rinuncia a preclusioni assolute ad una valutazione discrezionale, rimessa alla magistratura di sorveglianza, circa la maturità dei percorsi intramurari in vista della concessione di misure alternative alla detenzione.
All’elaborazione tecnica delle norme con le quali la delega avrebbe potuto essere esercitata nella sua interezza furono nel luglio 2017 preposte tre Commissioni di studio (presiedute dai Professori Giostra e Pelissero e dal dott. Cascini), i cui lavori sono leggibili on line e, ancora, costituiscono una testimonianza dei plurimi profili, poi invece non affrontati, che avrebbero potuto trovare risposte ponderate, e tutt’altro che avventuriste, per quel che conta l’opinione di chi scrive, per ripensare l’esecuzione penale in senso costituzionalmente e convenzionalmente orientato.
Al lavoro di quelle Commissioni si ispirano anche i decreti legislativi emanati dal Governo a ottobre 2018. Nonostante il riferimento, nella relazione illustrativa fornita alla Camere, circa una redazione nuova dei testi, rispetto a quella emersa dalle Commissioni e già portata all’attenzione del Parlamento prima dell’inizio della nuova legislatura, i testi oggi tradotti in legge continuano ad essere quelli, solo che degli originali si sussumono soltanto poche disposizioni, sterilizzando l’attuazione della delega rispetto ad alcuni profili invece centrali: primi fra tutti la semplificazione all’accesso alle misure alternative e la riduzione degli automatismi ostativi alla loro concessione. Di altre parti della delega, ad esempio in materia di affettività delle persone ristrette, già i precedenti schemi di decreto legislativo presentati a dicembre 2017 e marzo 2018 non accoglievano le indicazioni fornite dalla Commissione Giostra e optavano per il mancato esercizio.
La Commissione aveva sul punto disegnato un prudente, meditato, sistema per consentire ai ristretti incontri intimi con i propri partner, e più in generale con i propri familiari, ma probabilmente il tema si esponeva ad una lettura pruriginosa che nessuno aveva voglia di smentire, nonostante fossero sufficienti a farlo elementari argomentazioni relative ai diritti fondamentali, alla tutela dell’unità familiare e al pensiero medico e psicologico più moderno circa il ruolo di una sessualità sana nella quotidianità delle persone.
Dalle lettura dei testi licenziati da ultimo con i decreti legislativi 123 e 124 (una diversa sede si impone per valutare l’ampio testo relativo all’ordinamento penitenziario minorile), la difficoltà maggiore sembra essere quella di cogliere gli scopi dell’intervento normativo così come da ultimo realizzatosi. Le norme, come già detto, spesso erano inserite in un contesto più ampio, dal quale traevano ragion d’essere. Come oggi leggibili, invece, scontano un certo atomismo e sembrano, per dirla con Heidegger, “povere di mondo”, povere di obbiettivi, povere di una visione complessiva dei problemi sul tappeto, e in definitiva poste in un tessuto, logorato dal tempo, nel quale si operano alcuni rammendi anche molto apprezzabili, ma senza che la tela sia in alcun modo rinforzata, con la conseguenza di rischiare soltanto nuove lacerazioni e comunque di non colmare le più gravi lacune della trama.
In tal senso, ad esempio, era ed è assai urgente la presa in carico del drammatico problema della salute mentale in carcere, attinto negli anni scorsi dalla riforma che ha chiuso finalmente gli ospedali psichiatrici giudiziari, istituendo le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ma che ha lasciato importanti lacune nella disciplina delle stesse. Si è anche verificato, contestualmente, un totale silenzio sulla sorte dei ristretti che abbiano maturato una patologia psichiatrica nel corso dell’esecuzione penale e perciò non siano soltanto destinatari di misure di sicurezza psichiatriche, ma si trovino ad eseguire pene detentive in un sistema che non appare adeguato alla cura delle relative patologie. La S.C., mentre si attendeva l’esercizio della delega sul punto, si era portata avanti sottoponendo alla Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 cod. pen. nella parte in cui non consente il differimento della pena anche per le patologie psichiatriche che appaiano incompatibili con la detenzione (cass. ord. 23 novembre 2017 n. 13382 – mentre Trib. Sorv. Messina ord. 28 febbraio 2018 tentava una lettura costituzionalmente orientata per raggiungere lo stesso risultato). La questione resta oggi decisamente urgente perché, su tutto ciò, la riforma non ha aggiunto parola.
Alcuni percorsi tra le norme introdotte:
Tenuto conto delle difficoltà ricostruttive fin qui rappresentate, e nell’impossibilità di commentare analiticamente in questa sede tutti gli interventi, spesso microchirurgici, operati[2], si propongono qui soltanto alcuni possibili percorsi di lettura dei due decreti legislativi che modificano l’ordinamento penitenziario:
a) Vita penitenziaria
L’esercizio della delega nella parte relativa alla vita detentiva è stato piuttosto ampio. Si richiedeva un intervento volto, nel solco delle regole penitenziarie europee, a rendere il quotidiano intramurario più dignitoso e comunque il più possibile aderente alla vita libera, dando anche impulso alle esperienze amministrative che in questi anni avevano favorito la sorveglianza dinamica e cioè una modalità di osservazione delle persone ristrette basata sul loro impegno in attività trattamentali idonee a riempirne le giornate e riportarli nelle stanze detentive solo per il riposo e per un numero di ore limitato.
Nel testo normativo si interviene innanzitutto sull’articolo 1 dell’ordinamento penitenziario, arricchendolo di richiami a diritti e garanzie costituzionali. A differenza dei precedenti schemi di decreto legislativo adottati, però, scompare il riferimento espresso alla sorveglianza dinamica.
Il nuovo comma 1 prevede comunque non soltanto una versione più ampia e comprensiva del principio di non discriminazione, ma anche un riferimento alla necessità che il trattamento penitenziario sia conforme a modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione.
Si tratta di enunciazioni importanti, che stimolano l’amministrazione a superare un approccio infantilizzante da sempre insito nel carcere e che richiedono di immaginare una vita penitenziaria ricca di attività e di momenti di condivisione al di fuori delle stanze detentive, tutti elementi propri della c.d. sorveglianza dinamica che dunque, se non viene espressamente evocata, non può neppure dirsi contraddetta. Un suo abbandono con ripristino di spazi di movimento più esigui fuori stanza e riduzione delle attività risocializzanti si scontrerebbe con queste affermazioni, anche tenuto conto che, tra l’altro, il minimo di ore da trascorrersi all’aria aperta è stato portato, con il nuovo testo dell’art. 10, ad un minimo di quattro e che il tempo per la socialità, secondo l’interpretazione giurisprudenziale più recente, deve aggiungerglisi, essendo destinato il primo alla tutela della salute del ristretto ed il secondo alla funzione rieducativa.
Nell’articolo 1, inoltre, si parla espressamente, per la prima volta, di un divieto di discriminazione sulla base del sesso, dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. Una disposizione che si concretizza subito nelle regole inserite nel nuovo articolo 14: Le donne devono essere collocate in istituti o sezioni di dimensioni tali da non compromettere le attività trattamentali; si pone fine alla prassi per la quale la mera dichiarazione all’ingresso in carcere del proprio orientamento sessuale omosessuale, o la semplice condizione di persona transgender, conducevano l’amministrazione ad allocare il detenuto in una sezione protetta, per evitare possibili rischi di aggressioni da parte della restante popolazione detenuta. La nuova norma precisa che ciò può ormai accadere soltanto con il consenso della persona interessata, dovendo altrimenti procedersi ad una allocazione in sezione comune.
Si passa quindi da una disposizione concretamente ghettizzante ad una di tutela antidiscriminatoria. Di più, si prevede che le sezioni protette adibite a questo scopo non possano ospitare promiscuamente altre categorie di protetti, disomogenee, per evitare che la protezione di fatto sia vanificata. Allo stesso modo si dispone che, comunque, anche i ristretti nella sezione protetta dispongano di adeguate opportunità trattamentali da utilizzare, con superamento dei rigidi steccati tra circuiti, anche con gli altri detenuti comuni. Una previsione che lascia ben sperare circa la volontà di affrontare i pregiudizi anche in carcere, e provare a vincerli attraverso una maggior conoscenza reciproca invece che mediante la segregazione.
Altre norme appaiono purtroppo formulate in modo talmente poco cogente da lasciare dubbi circa la reale capacità di modificare l’esistente. Apporre clausole come: “ove possibile” (art. 5 c. 2, art. 9 c. 1), “è preferibilmente consentito” (art. 6 c. 5), “è garantito … salvo che particolari condizioni” (art. 6 c. 6), in correlazione con vari aspetti di dettaglio dell’offerta trattamentale penitenziaria, sembra una soluzione talmente prudente da risolversi in poco più che un consiglio garbato e pronunciato sottovoce.
In molte altre disposizioni, però, il tenore del testo è inequivoco e chiarisce che la persona ristretta vanta posizioni di diritto. Oltre le già citate, l’art. 14 nuovo comma 1 enuncia il diritto all’assegnazione nell’istituto penitenziario il più possibile vicino alla stabile dimora familiare o al centro di riferimento sociale, salva l’indicazione di specifici motivi contrari. Un’affermazione opportunamente doppiata dall’articolo 42, per quanto concerne i trasferimenti, obbligando l’amministrazione penitenziaria a dar conto delle eventuali ragioni che necessitino una deroga e a rispondere in un termine di sessanta giorni alle richieste di trasferimento pervenute dai detenuti.
Nell’articolo 18 si chiarisce, in aderenza a quanto da tempo enunciato dalla Corte Costituzionale (sent. 212/1997), che sussiste un diritto a conferire con il proprio difensore, salva la strettissima previsione dell’art. 104 cpp, sin dall’inizio della misura o della pena. Una affermazione da completarsi con quanto deducibile circa l’incomprimibilità anche della corrispondenza telefonica con il difensore dalla sentenza Corte Cost. 143/2013, resa in relazione a detenuti in regime differenziato di cui all’art. 41 bis ord. pen.
La medesima nuova norma affianca alla posizione del difensore quella dei garanti dei diritti dei detenuti, con la conseguenza di fornire ulteriori elementi utili a superare le oscillazioni emerse sul punto in giurisprudenza di merito, parzialmente chiarite dalla cassazione, con pronuncia che però si appoggiava alla precedente versione dell’articolo 18 (cass. sent. 27 giugno 2018, n. 46169).
Ancora rilevanti sono le disposizioni che impongono particolare attenzione alla formazione scolastica e professionale delle donne, evitando discriminazioni di fatto collegate all’esiguo numero delle detenute ristrette, e che prevedono di attivare corsi di insegnamento della lingua italiana e dei principi costituzionali in favore dei detenuti stranieri, che quasi sempre affrontano i percorsi detentivi con una drammatica carenza di risorse, innanzitutto affettive e poi materiali, e sperimentano la durezza di regole che nessuno ha trovato il tempo e il modo di far loro comprendere anche alla luce dei fondamenti costituzionali che dovrebbero informarle.
Di diretta derivazione dalla proposta della Commissione Giostra di riforma dell’ordinamento penitenziario sono le molte disposizioni sul lavoro penitenziario, tra le quali segnalo la norma che prevede maggiore trasparenza e criteri certi nell’assegnazione al lavoro intramurario, contribuendo ad eliminare opacità che sono spesso oggetto delle doglianze dei ristretti rispetto ad un tema davvero strategico perché si realizzi la funzione risocializzante della pena.
Questa ampia serie di modifiche è destinata, dall’angolo visuale del magistrato di sorveglianza, a supportare il controllo di legalità a lui rimesso e di certo amplierà il ricorso al reclamo inibitorio ex art. 35 bis e 69 comma 6 lett. b) nei confronti dei comportamenti attivi od omissivi dell’amministrazione da cui derivino pregiudizi gravi ed attuali all’esercizio di diritti della persona detenuta.
b) Misure alternative e procedimento di sorveglianza
Com’è noto, e come pure qui è stato ricordato, il Governo ha deciso di non esercitare la delega in tema di facilitazione all’accesso alle misure alternative e riduzione delle preclusioni (che comunque già non avrebbero potuto riguardare, secondo il testo della L. 103/2017, i delitti di mafia e terrorismo).
Tuttavia vengono introdotte alcune modifiche di interesse: una in tema di competenza a delibare in ordine al differimento dell’esecuzione della pena per le ipotesi concernenti la condannata in cinta o madre di un infante di età inferiore ad anni 1, rimesso ora al magistrato di sorveglianza, in correlazione con le rime obbligate del provvedimento, una volta accertata la condizione personale della donna per come sopra descritta. Una seconda modifica concerne l’introduzione di un rito, con caratteristiche di marcata originalità, che consente al magistrato di sorveglianza componente del collegio che dovrà delibare in via definitiva sull’istanza di misura alternativa, di concederla in via provvisoria quando la stessa provenga da un condannato libero in sospensione in relazione ad una pena non superiore a diciotto mesi. Ove ciò accada, e non vi sia opposizione, il Tribunale di sorveglianza, se non è di contrario avviso, può ratificare senza formalità, altrimenti dovrà fissare udienza.
Al di là dei non pochi problemi organizzativi che i primi commentatori hanno già evidenziato, mette conto qui dire che la disposizione, che aveva dichiarati intenti di semplificazione, sembra oggi perdere di senso a fronte dell’assenza di quel complesso di modifiche che in materia di misure alternative era stato pensato, residuandone una utilità soltanto perché i Tribunali di sorveglianza più gravati da arretrato in materia di liberi in attesa di esecuzione della pena ex art. 656 comma 5 c.p.p. possano, almeno in ipotesi, abbattere i tempi di decisione. Occorrerà verificare in concreto se questo obbiettivo sarà raggiunto, superando gli ostacoli organizzativi che un rito così peculiare sta iniziando a produrre.
Sono poi sopravvissute norme volte a consentire ai gravati Uffici esecuzione penale esterna di utilizzare il contributo della polizia penitenziaria nel vigilare sull’esecuzione delle misure alternative, mentre non sono state introdotte le norme pensate per riempire di più concreti e impegnativi contenuti risocializzanti le misure stesse, la cui disciplina resta pertanto invariata.
Ha invece una rilevanza sistematica tutt’altro che secondaria la modifica introdotta nell’articolo 51 ter ordinamento penitenziario, rubricato “sospensione cautelativa delle misure alternative”, nel quale si precisa che, di fronte a comportamenti suscettibili di determinare la revoca della misura, il magistrato di sorveglianza investe il Tribunale di sorveglianza perché si pronunci sul punto e, solo eventualmente, dispone la sospensione della misura nelle more della decisione, con il conseguente accompagnamento in istituto penitenziario del trasgressore. Si imposta quindi, più correttamente che in passato, l’ordine dei possibili interventi del magistrato di sorveglianza che, sorvegliando l’esecuzione della misura, vaglia i comportamenti negativi di chi vi sia sottoposto, e secondo la prassi da tempo seguita presso gli uffici di sorveglianza può diffidarlo al compiuto rispetto delle prescrizioni, oppure convocarlo presso l’ufficio per verificare le difficoltà che sta incontrando, e mettere perciò in atto una serie di opzioni precedenti rispetto all’opzione più traumatica del ripristino provvisorio dello stato detentivo, ora indicato, appunto, come solo eventuale, nel comma 2 dell’art. 51 ter.
Soprattutto, si prevede che il Tribunale di sorveglianza chiamato a valutare la necessità della revoca della misura, possa decidere di farla proseguire ma anche di sostituirla con altra, che si riveli più adatta alle esigenze risocializzanti del condannato, a fronte di suoi inadeguati comportamenti. Si consegna, in tal modo, all’autorità giudiziaria un più ampio spazio di discrezionalità che consente di individualizzare e graduare la risposta alle violazioni delle prescrizioni in funzione della loro effettiva gravità e delle prospettive esterne nel frattempo emerse in favore dell’interessato. Un’opportunità davvero preziosa, che per altro consente di evitare il draconiano divieto di concessione di misure alternative per tre anni dalla revoca che, prima della novella, con l’obbligatoria opzione della revoca inibiva ogni soluzione alternativa, per quanto la stessa fosse più contenitiva e rassicurante di quella rivelatasi in precedenza inadeguata.
c) Sanità penitenziaria
Le disposizioni del decreto legislativo 123 dedicate all’assistenza sanitaria condividono con le altre, già quanto alla formulazione prescelta, criticità ed elementi che possono salutarsi con favore.
La materia toccata è tra le più dolenti dell’universo carcerario, e ciò nonostante dal 1999 si stia portando avanti il definitivo riordino della medicina penitenziaria secondo un riparto di competenze che onera le aziende sanitarie locali realizzando sul piano dei principi la parità di trattamento tra soggetti liberi e ristretti.
Le principali difficoltà sarebbero, con lo sguardo del pratico, risolvibili soprattutto mediante efficaci protocolli di intesa e attraverso un meditato, doveroso, ripensamento organizzativo che non può che poggiare sulla massima collaborazione interistituzionale tra le amministrazioni e l’autorità giudiziaria coinvolta.
In questo senso, l’efficacia di molte delle modifiche introdotte nell’articolo 11 ordinamento penitenziario dovrà essere vagliata alla luce del lavoro di coordinamento che, stimolati dalle innovazioni normative, i territori sapranno impostare.
In particolare, tra l’altro, nel nuovo testo si pone l’accento sulla necessità di garantire la continuità terapeutica. E’ una esigenza cui dare primaria importanza, frustrata in molti modi dai difetti di dialogo tra le istituzioni coinvolte, da una burocrazia ignara delle peculiarità del mondo penitenziario e non da ultimo dalle carenze di risorse di cui il sistema penitenziario soffre. Succede così che un trasferimento possa determinare la perdita del posto in lista d’attesa per un esame specialistico da lungo tempo atteso, o che il cambio di referente medico ponga nel nulla una terapia già impostata oppure che una scorta, necessaria a tradurre il ristretto nel giorno in cui l’intervento chirurgico è stato finalmente calendarizzato, debba essere dirottata verso altre urgenze, con ciò vanificando di fatto le priorità acquisite.
Nel secondo comma dell’articolo, lì dove si garantisce un servizio sanitario rispondente alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati, con espressione analoga a quella utilizzata nel già vigente comma 1, scompare il riferimento all’opera di “almeno uno specialista in psichiatria”. Potrebbe apparire un intervento destinato a fotografare l’esistente, eliminando un obbligo che nella pratica è a volte disatteso, con enormi difficoltà a fornire adeguata assistenza psichiatrica ai ristretti. Tuttavia, a una simile lettura, di fatto opposta allo spirito della delega, che invece presuppone un potenziamento dell’offerta sanitaria intramuraria, può forse preferirsi l’interpretazione per la quale il riferimento ad un solo specialista in psichiatria definisse un minimo insoddisfacente rispetto ad una valutazione che il servizio sanitario deve fare tenendo conto delle peculiarità di ogni istituto penitenziario. D’altra parte le esigenze di cura di cui la norma parla sono certamente riferibili alla salute fisio-psichica.
Il riparto di competenze in materia di autorizzazione a disporre i ricoveri in luogo esterno di cura, similmente ad altri istituti dell’ordinamento penitenziario, è stato uniformato nel senso che alla magistratura di sorveglianza sia attribuita la valutazione concernente soltanto detenuti definitivi ed internati. Al di là dell’indubbia coerenza di una scelta che rimette all’autorità giudiziaria procedente le valutazioni opportune nel corso del processo, non può non segnalarsi che si tratta di una opzione destinata a rallentare i tempi di ottenimento delle autorizzazioni, coinvolgendo giudici che difettano delle caratteristiche di prossimità proprie della magistratura di sorveglianza.
Riprendendo il cammino
Al termine del percorso riformatore, molti temi che avrebbero dovuto trovare soluzioni sono rimasti sul tappeto e l’emergenza di un nuovo sovraffollamento lascia pensare che vecchi problemi torneranno presto ad affannare gli operatori del mondo penitenziario. Non ultimo c’è da immaginare che saremo raggiunti da nuove critiche della Corte Europea, rassicurata negli scorsi anni da un orizzonte di cambiamenti prospettati e poi allo stato non realizzati.
D’altra parte le caratteristiche della popolazione detenuta odierna, segnata da plurime marginalità sociali, richiedono una attenzione crescente da parte della società e dei territori, affinché le pene non siano parentesi inutili ma efficaci strumenti per il reinserimento sociale dei rei e per garantire la sicurezza della collettività.
Il rischio più concreto è che l’attenzione torni ad allontanarsi dall’esecuzione penale e che gli istituti penitenziari invece di aprirsi maggiormente al sostegno e alla cura delle comunità, invece di divenire luoghi in cui si sperimenta un modello di società inclusiva, capace di produrre non solo scarti baumaniani, ma anche persone che tornino ad essere o siano per la prima volta parti attive della società, secondo il mandato dell’articolo 3 della Costituzione, restino luoghi di cui importante è solo l’altezza del muro e non quello che vi accade dentro.
L’occasione fornita dalle sia pur limitate novità normative introdotte, e la consapevolezza delle urgenze ancora irrisolte, deve bastare per tenere accesi i riflettori sul mondo penitenziario.
Alla magistratura di sorveglianza spetta il compito di garantire l’attuazione piena dell’articolo 27 della Costituzione, con quella indefettibile tensione delle pene alla rieducazione che la Consulta ha così ampiamente ricordato anche nelle sue ultime pronunce. Agli operatori tutti resta, per combattere isolamento e oblio, l’antidoto efficace insegnato dagli Stati Generali, che è il dialogo tra professionalità diverse e l’elaborazione di percorsi condivisi ed illuminati dalla guida sicura, dallo scudo, come ha di recente affermato il Presidente della Corte Costituzionale Lattanzi in visita alla Casa Reclusione di Roma “Rebibbia”, della Carta Costituzionale.
Fabio Gianfilippi
Magistrato di sorveglianza di Spoleto
[1] Il contributo è costituito dal testo, con alcune revisioni ed un apparato minimo di note, dell’intervento tenuto al convegno “L’ordinamento penitenziario: prospettive di riforma e impatto sul territorio” organizzato dalla Camera Penale di Terni il 22 novembre 2018.
[2] Si rimanda, per una analisi dettagliata dei dlgs alle prime letture intervenute in dottrina: M. BORTOLATO, Luci e ombre di una riforma a metà: i decreti legislativi 123 e 124 del 2 ottobre 2018, in Questione Giust. 9 novembre 2018; L. CARACENI, Riforma dell’ordinamento penitenziario: le novità in materia di esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni in Dir. Pen. Cont. 16 novembre 2018; A. DELLA BELLA, Riforma dell’ordinamento penitenziario: le novità in materia di assistenza sanitaria, vita detentiva e lavoro penitenziario, in Dir. Pen. Cont. 7 novembre 2018; V. MANCA, Lavoro penitenziario. Le nuove disposizioni varate dal Governo, in Il Penalista, 5 novembre 2018; M. RUARO, Riforma dell’ordinamento penitenziario: le principali novità dei decreti attuativi in materia di semplificazione dei procedimenti e di competenze degli ufficili locali di esecuzione esterna e della polizia penitenziaria, in Dir. Pen. Cont. 9 novembre 2018.
GLI ANNI SEGUENTI (1998 - 2008)
Ho ancora dei files elaborati per il Movimento ma sinceramente non mi ricordo dove e perché…forse si stava facendo il sito?
Comunque sono bellini e quindi li riporto anche qui. Questo del giugno 1998
Questi due del 2000:
E sono arrivato alla fine del mio percorso…
Devo dire però che nel 2008 venni in parte coinvolto da Paola Filippi nell’elaborazione della rivista “Giustizia Insieme” in alcune elaborazioni grafiche (che non hanno mai trovato la luce ma mi piacevano - e mi piacciono - egualmente) tipo questo studio di sfondo:
….o ancora
Devo dire che la rivista, che vide la luce nel 2009, si era ormai caratterizzata per un suo taglio professionale e quindi vi era poco spazio per dilettanti o vignettisti allo sbaraglio…
Bella la copertina di uno dei primi numeri:
Mi direte … e tu che c’entri? … beh il disegno della gente in movimento l’ha fatto una bravissima tecnico grafica di professione, ma io mi ero permesso di suggerire qualche piccolissima correzione (cordoni, bavetta, taglio e lunghezza della toga) che la professionista poi aveva seguito. Mi direte ancora … e come mai? Lei, bravissima, era di altra nazionalità (se non ricordo male olandese) e abituata a toghe diverse !
Un altro consiglio diedi sulla tonalità del verde, che - per caso o per merito di questo piccolo suggerimento – alla fine risultò molto più deciso rispetto ai verdi un po’ troppo pallidi delle origini.
Ed in chiusura mi consentirete una vignetta su temi di attualità, che mi trattano più da vicino:
ERAVAMO UN PO’ MENO GIOVANI (1997)
Dopo una pausa ricominciava la mia collaborazione con la rivista del Movimento.
Devo precisare che la pausa non era dovuta a motivi ideologici o di motivazione, ma solo che non mi so organizzare bene e mi faccio sempre condizionare dai vari impegni di lavoro. Per cui solo quando compare qualcuno che mi “costringe” mi rilancio in quello che poi è sempre stata una cosa assolutamente piacevole. Nella specie il “motivatore” era stato Piero Martello, Pretore in Milano, che - credo dal 1986 - aveva assunto la Direzione della Rivista.
Ed ecco il numero che ha visto anche la mia fattiva partecipazione:
Due immagini per l’articolo a pagg. 21 e 22:
Ha continuato la mia collaborazione nel numero successivo (non ne ho più la copia, ma ho i files riassunti nel seguente quiz del novembre 1998):
E c’erano anche questi due sul tema vacanze:
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