ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Legittima difesa, illegittima convinzione (Bowling a Columbine 2002). Di Andrea Apollonio
In questa temperie storica e culturale, formulare una riflessione su leggi che implementano la legittima difesa senza cadere sulle più banali formule quali "farsi giustizia da sé", "la legge del più forte" - formule primitive che pure, di tanto in tanto, il legislatore si procura di vitalizzare - è quasi impossibile. Ma dato che oggi il Parlamento approva in via definitiva la legge che amplia il perimetro della liceità è doverso dire qualcosa - ancora qualcosa, a margine di un qualsiasi commento tecnico-giuridico quale quello, esauriente, di Giuseppe Amara (apparso su questa Rivista il 15 marzo).
Ed appunto per evitare di incorrere impunemente in banalità, è bene servirsi della metafora cinematografica per raccontare un tema che solo a valle diventa un problema giuridico, perché a monte nasce come fenomeno sociale che involge paure collettive, ed il più antico - proprio primitivo - dei sentimenti: l'insicurezza. Gli strumenti per meglio comprendere ce li fornisce il documentarista Michael Moore, con il suo "Bowling a Columbine" (2002), che riguarda la strage di studenti e insegnanti perpetrata nella Columbine High School da due adolescenti armati fino ai denti: correva l'anno 1999.
Moore, telecamera in spalla, documenta anzitutto la claustrofobica normalità in cui è immersa Columbine, come la maggior parte delle contee statunitensi; ed è sempre incredibilmente normale, a Columbine come in tutti gli Stati Uniti, l' accesso semplificato all'acquisto di armi, senza un effettivo controllo.
Moore, continuamente ammiccando al suo pubblico, sfoglia allora i cataloghi di fucili e munizioni davanti alla faccia gentile e pulita di un'addetta alla vendita; acquista e spara maldestramente, dando subito a vedere di essere il solo a non saper maneggiare un'arma. Perché per gli intervistati - uomini e donne, giovani e anziani, middle e upper class: l'approccio al tema della difesa personale è ugualmente trasversale - "avere un'arma vuol dire essere persone più responsabili"; senza, infatti, si lascerebbero i propri beni e la propria famiglia alla mercé di chiunque. Non essere armati vuol dire lasciare le chiavi di casa attaccate alla porta, né più né meno. E' una convinzione ridicola, resa non a caso con un registro filmico parossistico e grottesco (il vero marchio di fabbrica dei documentari di Moore), che pure, osservata nel caleidoscopio costituzionale degli Stati Uniti, trova un suo fondamento storico, ed una sua (diremmo così) legittimità: tutti conosciamo il secondo emendamento, che dal 1791 afferma in Costituzione, indisturbato, "il diritto dei cittadini di detenere e portare armi".
Coltivare una tale idea, in Italia, non avrebbe invece alcuna reale (giuridica, o meta-giuridica) giustificazione, giacché i nostri Padri Costituenti, appena conclusa una sanguinosa guerra civile, mai si sarebbero neppure sognati di inserire la parola "armi" nella Costituzione. E allora, cosa c'entra "Bowling a Columbine", cosa c'entrano gli Stati Uniti, con l'approvazione della "nuova" legittima difesa in Italia? Dopo tutto, da queste parti non cambiano i requisiti (neanche troppo stringenti) per l'acquisto di un'arma, né la legislazione (più severa, questa) che punisce l'illegale detenzione.
A dimostrare che le convinzioni d'oltreoceano sono a noi prossime più di quanto si immagini - e le idee delle persone scaturiscono anche dalle leggi, siccome di Antigoni in giro se ne vedono pochi - soccorre un video che spopola sul web: comuni cittadini partecipanti ad una convention politica sulla legittima difesa, che intervistati, dicono senza freni inibitori cosa farebbero se trovassero qualcuno in casa, entrato "senza essere invitato". L'ironia caustica di Moore, al confronto, si tramuta in una barzelletta da educande che non fa ridere nessuno.
Ma se proprio volessimo procedere in parallelo, ebbene: non c'è alcuna differenza tra l'immagine di una donna in bikini leopardato che, sorridente, spara a sagome nere poste a rappresentare minacciosi intrusi (nel docu-film di Moore) e quella del cartello esposto fuori le private abitazioni, che sembra andare di moda sopratutto nel nord-est: "Questa casa è protetta da Dio e da un'arma. Se vuoi incontrare entrambi basta entrare senza permesso" (è spesso pubblicato anche sulle pagine social, e non si esimono dal farlo politici e personaggi pubblici): le immagini si aggrinciano assieme perché entrambe trash, anche nel senso di essere ancorate ad una convinzione profondamente irrazionale.
Le idee scaturiscono anche dalle leggi, come il caso degli Stati Uniti (campione e capo-fila della civiltà occidentale) insegna - e come il nostro legislatore dovrebbe sempre tenere presente. Per questo Moore, col suo registro canzonatorio, rischia di raccontare oramai anche la società italiana, sempre più piegata sotto il peso di indicibili, irragionevoli paure, e da oggi finalmente più "tutelata". La storia della Columbine High School raccontata da Moore è una metafora, certo, e per di più risalente a vent'anni fa: ma se questa metafora è irradiata da un film dalla verità oggettiva e incontrovertibile, che poteva essere illustrata solo in modo grottesco per quanto essa stessa appare grottesca, allora questo messaggio d'allarme non può che allargare il suo spettro con l'allargarsi del tempo.
AUTORICICLAGGIO E BANCAROTTA (nota a Cass. pen., sez. V, 1 febbraio 2019, n. 8851) di Nicola Pisani
Con la pronuncia in commento, la Corte di cassazione ha affermato il principio di diritto secondo cui «in tema di autoriciclaggio di somme oggetto di distrazione fallimentare, la condotta sanzionata ex art. 648 – ter cod. pen. non può consistere nel mero trasferimento di dette somme a favore di imprese operative, ma occorre un quid pluris che denoti l’attitudine dissimulatoria della condotta rispetto alla provenienza delittuosa del bene».
Prima di analizzare gli aspetti salienti della motivazione della pronuncia, appare opportuno delineare i passaggi fattuali che ne costituiscono il fondamento.
Il giudizio de quo muove da una vicenda cautelare che ha come protagonista un soggetto indagato per i reati di bancarotta fraudolenta ed autoriciclaggio, a fronte di un quadro indiziario incentrato sulla presunta ricezione di somme di danaro provenienti da una società (poi ammessa al concordato preventivo) che successivamente venivano investite dall’indagato nell’ambito delle proprie attività commerciali.
In virtù di siffatte contestazioni, il predetto indagato veniva attinto da ordinanza cautelare applicativa degli arresti domiciliari, emessa dal Tribunale del riesame a conferma del provvedimento cautelare genetico del G.I.P.
Da qui la proposizione del ricorso per Cassazione avverso l’anzidetta ordinanza, impugnata dal ricorrente per tre motivi, dei quali, ai fini del presente contributo, interessa quello con cui si «lamenta violazione di legge nonché carenza di motivazione circa il giudizio di gravità indiziaria relativo al delitto di autoriciclaggio […], assumendo che le condotte integratrici di quest’ultimo sarebbero le stesse contestate quanto alla bancarotta e che non vi sarebbe stata attività dissimulatoria ulteriore, sicché andava ritenuta la causa di non punibilità di cui all’art. 648 – ter, comma 4, cod. pen.»
La questione, rimessa in questi termini al vaglio della Corte, dimostra ancora una volta come la comprensione del momento sostanziale della fattispecie penalistica – sub specie dei requisiti strutturali della fattispecie di autoriciclaggio[1] – sia elemento destinato ad involgere quel sommario giudizio di colpevolezza che è proprio dell’incidente cautelare, giacché è nell’ottica della sussistenza dei «gravi indizi» che all’interprete viene chiesto di cogliere il discrimen tra il predetto reato e quello di bancarotta[2].
In via preliminare, giova evidenziare come la Corte di cassazione abbia ritenuto opportuno delineare i connotati caratterizzanti la condotta di autoriciclaggio, ritenendo che possa considerarsi tale solamente quella con cui il soggetto abbia posto in essere delle attività volte ad ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni. Ciò, infatti, è quanto emerge da un’attenta analisi dello stesso dettato normativo, la cui lettura induce a ritenere che l’autoriciclaggio configuri una «fattispecie di pericolo concreto»[3].
Tale inquadramento dogmatico rappresenta solo la base teorica da cui muove la Corte per affrontare il merito di una questione interpretativa più complessa, la cui risoluzione impone la scelta tra due posizioni antitetiche.
Vista da un primo angolo visuale, ove si ritenesse che ai fini dell’ autoriciclaggio sia sufficiente accertare che il denaro proveniente dalla società fallita sia «confluito in realtà imprenditoriali caratterizzate da normale operatività», la vicenda in commento indurrebbe a ritenere sussistente il presupposto cautelare dei gravi indizi in capo al ricorrente, le cui doglianze di legittimità verrebbero inevitabilmente a cadere.
Tuttavia non è questa la soluzione interpretativa della Corte, che invece ha ravvisato nella condotta di autoriciclaggio un eloquente quid pluris: la «particolare idoneità dissimulatoria rispetto all’origine del denaro».
In altri termini, attraverso la lente del giudizio di gravità indiziaria, la Cassazione indaga la natura della fattispecie di cui all’art. 648-ter.1 c.p. e ne tratteggia gli elementi essenziali, sottolineando proprio la necessità, ai fini della configurabilità del reato, di una condotta caratterizzata dalla specifica idoneità a dissimulare la provenienza del denaro.
Tale asserto, in particolare, costituisce l’esito di un percorso interpretativo che sottende la congiunta valutazione di un argomento letterale e sistematico.
Sotto il primo profilo, la Corte ha sottolineato come il requisito della particolare idoneità dissimulatoria, rispetto alla provenienza del denaro, emerga dalla stessa formulazione dell’art. 648 ter.1 c.p., le cui disposizioni palesano un chiaro intento del legislatore di rimarcare la concretezza dell’idoneità in tal senso della condotta, a voler con ciò pretendere che la stessa vada «oltre la mera ricezione della somma proveniente dal reato».
Più interessante appare il secondo argomento utilizzato dalla Corte, nella misura in cui viene valorizzato il rapporto di specialità tra il reato di autoriciclaggio e quello di bancarotta.
In tale prospettiva, si afferma che «ritenere punibile come autoriciclaggio il mero trasferimento delle somme distratte delle imprese […] finirebbe per sanzionare penalmente due volte la stessa condotta quando le somme sottratte alla garanzia patrimoniale dei creditori sociali siano dirette verso imprenditori, generando, rispetto a tale situazione specifica, un’ingiustificata sovrapposizione punitiva tra la norma sulla bancarotta e quella ex art. 648 ter.1 cod. pen.», comportando, in prospettiva, una violazione del ne bis in idem[4].
Tuttavia, occorre chiarire meglio i presupposti dai quali muove la Corte per concludere nei termini dinanzi esposti con riguardo all’onere di motivazione in caso di contestazione del reato di autoriciclaggio.
In particolare, come anticipato, il Collegio sembrerebbe descrivere il rapporto tra i due reati contestati in termini di specialità, richiamando a supporto di tale ricostruzione anche una recente pronuncia della stessa Corte che ha esaltato un’esegesi della norma che valorizzi la necessaria presenza di una condotta ulteriore che “si aggiunga” alla condotta del reato presupposto[5].
È in virtù della suddetta divergenza che il Giudice, chiamato a decidere in merito alla condotta di autoriciclaggio, è gravato dell’onere di rendere adeguata motivazione in cui far emergere la sussistenza del quid pluris richiesto dalla fattispecie, dimostrando in tale sede di aver fatto corretta gestione dei principi di diritto racchiusi nella massima di diritto richiamata in premessa del presente contributo.
Sono questi, in definitiva, i motivi che hanno indotto la Corte a ritenere fondato il secondo motivo di ricorso concernente i gravi indizi di colpevolezza, ritenendo a tale scopo «necessario l’annullamento […] dell’ordinanza impugnata affinché il Giudice di rinvio tenga conto del principio di diritto enunciato».
Risulta a questo punto agevole comprendere come, secondo la ricostruzione della Corte, le caratteristiche strutturali del reato di autoriciclaggio facciano gravare sul giudice, chiamato a pronunciarsi sulla sussistenza dei «gravi indizi» di colpevolezza, un onere di specifica motivazione in ordine alla sussistenza del carattere dissimulatorio della condotta, vale a dire quel «quid pluris» che serve a distinguere la condotta dell’autoriciclaggio da quella della bancarotta.
Tuttavia, giova chiarire come tali considerazioni abbiano un peso solo e nella misura in cui servano al giudice quale metro di paragone per cogliere il quantum indiziario richiesto ai fini dell’applicazione del provvedimento cautelare.
Avendo a mente tali coordinate, non ravvisare il carattere dissimulatorio della condotta equivale, in una certa misura, a sottrarre la stessa dalla scure dell’autoriciclaggio. Tale fattispecie, infatti, interviene solo in una fase successiva alla distrazione delle somme di denaro, richiedendo a tal proposito la necessità di una nuova ed ulteriore condotta ascrivibile all’indiziato.
Sicché, ritenere che manchi la gravità indiziaria sotto il profilo della dissimulatorietà della condotta equivale astrattamente ad ammettere che le attività dell’indiziato si siano fermate in una fase antecedente, ovverosia alla commissione del reato presupposto[6].
[1] In argomento, v. P. Bronzo, Introdotto il reato di “autoriciclaggio”, in Cass. Pen., 2015, p. 26; A. Ciraulo, voce Autoriciclaggio, in Digesto disc. pen., IX agg., Utet, 2016, p. 122 ss.; F. Mucciarelli, Qualche nota sul delitto di autoriciclaggio, in Dir. pen. cont., 2015, p. 108 ss.; E. Basile, Autoriciclaggio, “mera utilizzazione” e “godimento personale”: soluzione di un enigma solo apparente, in Giur. It., 2018, 12, 2741; A. M. Dell’Osso, Il reato di autoriciclaggio: la politica criminale cede il passo a esigenze mediatiche e investigative, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 796 ss.; D. Brunelli, Autoriciclaggio e divieto di retroattività: brevi note a margine del dibattito sulla nuova incriminazione, in Dir. pen. cont, 2015, p. 86 ss.; S. Cavallini- L. Troyer, Apocalittici o integrati? Il nuovo reato di autoriciclaggio: ragionevoli sentieri ermeneutici all’ombra del “vicino ingombrante”, in Dir. pen. cont., 2015, p. 95 ss.; A. Apollonio, Autoriciclaggio e diritto comparato, in Dir. Pen. Cont., 2017, p. 183 ss.; A.M. Dell’Osso, Riciclaggio di proventi illeciti e sistema penale, Giappichelli, 2018, p. 174 ss.; E. Basile, L’autoriciclaggio nel sistema penalistico di contrasto al money laundering e il nodo gordiano del concorso di persone, in Cass. Pen., 2017, 1277 ss.; . F. Sgubbi, Il nuovo delitto di “Autoriciclaggio”: una fonte inesauribile di “effetti perversi” dell’azione legislativa, in Dir. pen. cont., 2015, p. 137 ss.; G.L. Gatta, Introdotto il delitto di autoriciclaggio (unitamente ad una procedura di collaborazione volontaria all ’emersione di capitali all’estero, assistita da una causa di non punibilità per i reati tributari e di riciclaggio), in Dir. pen. cont., 2014; S. Cavallini, Riciclaggio e autoriciclaggio – la “quadratura” impossibile: l’opzione minimal della Cassazione sul concorso di persone nel (l’auto -) riciclaggio, in Giur. It., 2018, 11, 2475; A. Apollonio, L’introduzione dell’art. 648-ter.1 c.p. e il superamento del criterio della specialità nel rapporto tra la ricettazione e i delitti di riciclaggio, in Cass. Pen., 2015, p. 2890; G.F. Perilongo, Autoriciclaggio – Movimentazione di denaro sporco e autoriciclaggio: una prima indicazione giurisprudenziale, in Giur. It., 2017, 1, 187; A. Gullo, Autoriciclaggio (voce per “Il libro dell’anno del diritto Treccani 2016”), in Dir. pen cont., 21 dicembre 2015.
[2] Per un approfondimento sui reati di bancarotta e, più in generale, sul diritto penale fallimentare, sia consentito rinviare a N. Pisani, Crisi di impresa e diritto penale, Il Mulino, 2018.
[3] È pacifico, anche nell’elaborazione dottrinaria, che il reato di autoriciclaggio costituisca una fattispecie di pericolo concreto. Sul punto, ex multis, v. E. Basile, Autoriciclaggio, “mera utilizzazione” e “godimento personale”: soluzione di un enigma solo apparente, cit., p. 2741.
[4] Sul rapporto tra autoriciclaggio e ne bis in idem, v. A. Apollonio, Autoriciclaggio e diritto comparato, cit., p. 188, il quale evidenzia come si sia «a lungo ritenuto che punire l' autore del reato presupposto anche per aver dissimulato l'illecita origine di quei beni equivale a sanzionare un comportamento ex se conseguente ad (e giuridicamente inscindibile da) un fatto già punito, determinando quindi la lesione del principio di ne bis in idem, volto ad evitare ingiustificati aggravi sanzionatori qualora due vicende, apparentemente distinte, siano legate da una sostanziale unità di disvalore, oggettivo e soggettivo. Prima facie, l'autoriciclatore verrebbe "sostanzialmente" punito due volte per lo stesso fatto: almeno a considerare l'intrinseca natura accessoria della condotta riciclatoria, che sempre interviene post factum». L’Autore sottolinea inoltre come tali considerazioni, prima della riforma del 2014, abbiano costituito uno dei principali motivi di diffidenza nutriti dalla dottrina in merito all’introduzione della fattispecie di autoriciclaggio.
[5] Cfr. Cass. pen., Sez. II, 7 giugno 2018, n. 30401, Rv. 272970.
[6] Con riferimento a tali aspetti, la dottrina ha denunciato il rischio che il reato di autoriciclaggio possa trasformarsi in «un formidabile strumento di duplicazione sanzionatoria». Sicchè, nel compiere un’esegesi dell’art. 648-ter.1 c.p., la ratio dell’intervento del legislatore è stata ravvisata nella scelta «di identificare condotte che, a suo giudizio, sono espressive di un disvalore aggiuntivo rispetto al delitto presupposto: non si è così proceduto nella direzione di una “grezza” eliminazione della clausola di riserva di cui all’art. 648-bis c.p., ma si è deciso di lavorare sulla condotta di reimpiego, ritenendo però di dover apportare dei correttivi una volta riferita all’autore o concorrente nel delitto presupposto. L’altra opzione tecnica di fondo è stata quella di non intervenire, come invece suggerito dai lavori e dalle soluzioni elaborate dalle più recenti commissioni di studio17, sul corpo dell’art. 648-bis ma di prevedere una nuova ipotesi delittuosa». In questi termini A. Gullo, Autoriciclaggio (voce per “Il libro dell’anno del diritto Treccani 2016”), cit., p. 6.
Una ‘sicurezza’…insicura? Possibili impatti psicosociali della legge 132/2018.
Un commento della Associazione Italiana di Psicologia
L’Associazione Italiana di Psicologia (AIP), società scientifica dei ricercatori e professori universitari di psicologia, esprime alcuni commenti sull’impatto psicologico di alcune parti della Legge 132/2018 (il cosiddetto Decreto sicurezza), in particolare sul rapporto tra le finalità del legislatore – che rispondono a un diffuso senso di insicurezza collettiva - e i mezzi per perseguirle nel nostro contesto psicosociale.
Sono stati da più parti evidenziati i rischi dell’eliminazione, prevista nell’art. 1, del permesso di soggiorno per motivi umanitari, sin qui applicato a quanti - pur sprovvisti dei requisiti per ottenere l’asilo politico o la protezione sussidiaria - sono esposti in caso di rimpatrio al rischio di trattamenti disumani o a restrizioni della libertà. Questo può avere come conseguenze:
Riguardo gli impatti psicosociali della Legge, che sono quelli di nostra pertinenza, segnaliamo che i fenomeni di crescente marginalità (precarietà, povertà, non fruibilità di presidi sanitari e, più in generale, assistenziali) potranno agire sulla salute dei migranti, in termini di maggiore incidenza di malattie, disagio psicologico, disturbi psichiatrici, condotte autolesive e suicidarie. È inevitabile, peraltro, che gli effetti negativi diretti e indiretti del provvedimento riguarderanno la stessa società italiana, generando così effetti opposti alle misure e allo spirito della Legge.
La letteratura scientifica mostra da tempo come condizioni di marginalità alimentino comportamenti antisociali e devianti. È dunque prevedibile che l’incremento di immigrati irregolari innalzi l’incidenza di fenomeni di deriva sociale, segregazione territoriale e micro-criminalità. Fenomeni, questi, che in una sorta di cortocircuito incontrollabile proiettano sull’immigrato l’immagine sinistra del “nemico” pubblico, generando fenomeni di intolleranza, rancore, odio e tensioni crescenti nella società italiana, di cui la cronaca ci offre già alcuni segni preoccupanti.
Non pochi osservatori hanno rilevato che la Legge 132/2018 rappresenta, in qualche misura, il tentativo del Legislatore di rispondere alla insicurezza sociale ed economica della società italiana determinata dalle dinamiche della globalizzazione. Secondo un recente studio, circa il 60% della popolazione adulta italiana nutre un sentimento di sfiducia nel proprio futuro, di incertezza e al tempo stesso una visione negativa dell’immigrato. Tali sentimenti assumono i caratteri di una reazione emozionale e di difesa dell’identità, che si organizzano – come già avvenuto in altre epoche storiche e contesti sociali - in funzione di un potenziale “nemico” (italiani versus stranieri) senza le opportune distinzioni all’interno di categorie comunque intese come un potenziale pericolo.
La difesa emotiva dell’identità, sollecitata peraltro da suggestioni mediatiche che trasformano il fenomeno immigrazione in un prevalente problema di sicurezza, appare a molti l’unica protezione possibile dalla minaccia di un nemico ‘esterno’. In questo contesto psicologico, se da un lato la Legge 132/18 risponde al reale bisogno di sicurezza dei cittadini, dall’altro – accompagnata dalle retoriche di una comunicazione politico-mediatica pervasiva – evoca, nelle persone più suscettibili a queste comunicazioni, reazioni viscerali ed emozionali che generano ulteriori insicurezze.
Sia chiaro, ad ogni latitudine rilevanti fenomeni migratori generano inevitabilmente criticità economico-sociali, specie nei segmenti più svantaggiati della popolazione. Qui, però, è in questione la conversione di oggettivi elementi di criticità sociale in rappresentazioni simboliche ostili, che hanno ricadute negative sulla fiducia sociale e sulla convivenza civile. Infatti, per la sua cifra emotiva arcaica, lo schema “amico/nemico” non resta circoscritto all’oggetto specifico che lo innesca, ma tende a generalizzarsi a tutti gli ambiti della vita sociale.
Negli ultimi decenni, le scienze psicologiche hanno prodotto evidenze in favore del carattere non alternativo ma complementare di identità e diversità. L’identità di un popolo si fonda sulla costruzione paziente e faticosa della pluralità e della convivenza delle differenze (etniche, ma non solo) come del resto realizzata in diverse epoche e in diversi paesi.
Il tema dell’immigrazione, prima che sul piano legislativo va affrontato a partire dalle evidenze scientifiche psicologiche e sociali, improntando l’azione di governo a un autentico pluralismo etnico-culturale. Non solo per ragioni etiche o per la propensione verso forme indiscriminate e ‘buoniste’ di accoglienza, ma per far sì che l’incontro con continenti simbolici e immaginali, anche di origini lontane, fecondi la vita sociale e le istituzioni pubbliche, garantendo spazi di libertà e non di restrizione ai diversi attori della società civile. Si incrementa così, anziché depauperarlo, il ‘capitale sociale’, inteso come atteggiamento di fiducia, congiunto a norme che regolano la convivenza e le reti di impegno civico.
Il governo di fenomeni complessi come i flussi migratori e la convivenza tra comunità etniche plurali non solo riducono le diseguaglianze, ma possono trasformare questi stessi fenomeni in autentica ricchezza per quella “comunità di destino comune” che definiamo società.
Il documento completo, incluse le citazioni bibliografiche, è consultabile nel sito AIP al link https://aipass.org/sites/default/files/Doc.%20immigrazione%20e%20sicurezza.pdf
BIGENITORIALITÀ NELLE SEPARAZIONI
Questo documento è stato presentato dall’AIP (Associazione Italiana di Psicologia), dal 1992 la società scientifica di riferimento nazionale per gli psicologi che lavorano nelle Università e negli Enti di ricerca, e dalla CPA (Conferenza della Psicologia Accademica), Conferenza che riunisce gli Atenei e/o i Dipartimenti presso i quali docenti di materie psicologiche svolgono attività di didattica e ricerca.
Il documento è stato redatto da un gruppo di lavoro congiunto AIP-CPA composto da docenti universitarie e professioniste che operano nella giustizia, esperte nel campo del diritto e della giurisdizione, nonché della specifica materia trattata, ed è stato poi discusso e approvato dai Direttivi delle due Associazioni, al fine di presentarlo nell’audizione al Senato sul DDL n. 735 (noto come “proposta Pillon” dal nome del senatore primo firmatario). Il testo del documento è stato redatto da Annamaria Giannini, Daniela Pajardi, Patrizia Patrizi e Maria Cristina Verrocchio e poi approvato dal Direttivo dell’Associazione
Il superiore interesse della persona minorenne, riconosciuto a livello internazionale e recepito da tutte le normative del nostro Paese, ha costituito il criterio guida con cui è stato esaminato il DDL n. 735 recante norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità. Partendo dal presupposto che la proposta legislativa cerca di affrontare i problemi dell’attuale sistema di affido in caso di separazioni, l’analisi ha tenuto conto delle indicazioni sovra-nazionali in materia e ha evidenziato le possibili ricadute delle soluzioni normative previste sullo sviluppo della persona minorenne sotto il profilo psicologico e relazionale, fondamentale per il percorso di vita e per un’adeguata e armonica formazione della personalità.
Santo Di Nuovo Presidente della Associazione italiana di Psicologia
LA MEDIAZIONE FAMILIARE (ARTT. 1-5)
1. I presupposti perché la mediazione familiare possa costituirsi come risorsa nella gestione dei conflitti
La mediazione familiare è stata pensata come uno strumento diretto a “chiarire le relazioni all’interno di un nucleo familiare e a ripararne le fratture” (Kelly, 2004). Si basa sul presupposto che ci siano le condizioni e la volontà di ripristinare il dialogo tra i genitori che si separano. Sono fondamentali dunque, e non possono derivare solo dal punto di vista legale e giuridico, la consapevolezza da parte dei genitori dell’esistenza di determinati problemi e la disponibilità a mettersi in discussione per risolverli (Roberson, Nalbone, Hecker, & Miller, 2010).
Per risultare efficace, dunque, la mediazione familiare ha come presupposto teorico e metodologico la adesione volontaria delle parti.
La Risoluzione 2079 del 2015 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa invita gli Stati membri a “promuovere e, se del caso, sviluppare la mediazione nell'ambito di procedimenti giudiziari in casi che coinvolgono minori, in particolare istituendo una seduta informativa obbligatoria in capo al tribunale, al fine di informare sulle possibilità e i requisiti”.
Quando è presente un legame disfunzionale perdurante è possibile che gli elementi del conflitto si spostino dall’interesse della persona minorenne alla ritorsione sull’altro genitore; in questa tipologia di clima emotivo viene necessariamente a mancare l’opzione di fiducia tra i due genitori, elemento base per la costruzione di una cooperazione in direzione di uno scopo comune.
Perché si possa dare inizio a un iter di mediazione è necessario valutare, quindi, il livello di “mediabilità del conflitto” al fine di comprendere quali situazioni possano trarne vantaggio e quali, proprio a causa di un livello di conflittualità notevolmente elevato, non possono essere affrontate attraverso questa modalità.
La mediazione familiare è, inoltre, esplicitamente esclusa dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, Istanbul 2011, ratificata dall’Italia nel 2014, quando vi siano denunce per maltrattamento e violenza domestica, incluso il caso della “violenza assistita”, e cioè quando la persona minorenne fa esperienza di qualsiasi forma di maltrattamento, (violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica) su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte e minori. Le ripercussioni della violenza assistita sulle persone minorenni rappresentano violazione dell’art. 147 c.c. perché frutto di deliberata trascuratezza verso gli elementari bisogni di figlie e figli. La violenza assistita intrafamiliare, come dimostrano numerosi studi e ricerche nazionali e internazionali, si verifica soprattutto in nuclei familiari la cui problematicità dura da tempo e nei quali gli episodi di violenza tendono a ripetersi.
2. L’obbligatorietà della mediazione
Secondo il disegno di legge proposto, nel caso in cui ci sia presenza di figli/e d’età minore, la mediazione familiare è contemplata come obbligatoria, quale condizione di procedibilità del giudizio di separazione o divorzio.
Ma che cosa comporterebbe tale obbligo?
Preliminarmente, il carattere di obbligatorietà della mediazione appare non in linea con l’art. 48 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica che recita: “Le parti devono adottare le necessarie misure legislative o di altro tipo per vietare il ricorso obbligatorio a procedimenti di soluzione alternativa delle controversie, incluse la mediazione e la conciliazione, in relazione a tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione".
È necessario, dunque, effettuare una corretta analisi dei contesti familiari poiché, nei casi in cui vi sia una realtà di violenza (Rossi et al., 2015), è previsto che si eviti il contatto tra il soggetto che ha subito abusi e il suo perpetratore al fine di scoraggiare lo scatenarsi di reazioni violente che possano mettere in pericolo uno o più componenti della famiglia (Feresin et al., 2018).
Che i genitori debbano essere messi a conoscenza in modo obbligatorio della mediazione è un’indicazione molto diversa, sul piano teorico e metodologico, dal rendere obbligatoria la mediazione stessa.
In estrema sintesi, non riconoscendo dei criteri di eleggibilità per le procedure di mediazione e rendendola obbligatoria si generano possibili rischi e conseguenze quali:
- obbligare a un trattamento persone contrarie o reticenti,
- condurre una mediazione che verrebbe effettuata sulla base di motivazioni estrinseche,
- ricevere una adesione soltanto formale alla mediazione con sviluppo di piani di inautenticità e resistenze,
- venire meno alla tutela di donne e minori vittime di violenza attraverso l’esposizione forzata ai contatti diretti con l’autore di violenza.
Infine, la mediazione, in mancanza di piani di formazione adeguata delle figure preposte, potrebbe essere affidata ad operatori con generiche competenze, soprattutto non specializzati a riconoscere e supportare vittime di violenza, e quindi privi degli strumenti per assolvere il loro compito in modo efficace.
I “TEMPI PARITETICI O EQUIPOLLENTI” DI FREQUENTAZIONE DEL FIGLIO/A MINORENNE CON I GENITORI (ART. 11)
1. Il miglior interesse della persona minorenne e i tempi di frequentazione
Dal punto di vista psicologico, una modalità di frequentazione con i genitori che sia tutelante per la singola persona minore d’età è una evidente forma di rispetto nei confronti suoi, della sua individualità e delle sue esigenze evolutive. La tutela delle persone minorenni nelle separazioni è stata il centro di una svolta culturale e scientifica già dagli anni ’70, promossa fortemente anche dalla psicologia, che ha portato la persona d’età minore a essere il centro dell’attenzione delle decisioni degli adulti nelle situazioni di conflittualità coniugale e di tutela dei legami. Il criterio ispirato dalla teoria di Goldstein, A. Freud e Solnit del “Best Interest of the Child” (BIOC) (1973,1975,1986) ha influenzato in modo determinante dapprima il sistema giuridico e giudiziario statunitense, poi quello di molti altri Paesi, nonché le pronunce degli organismi sovranazionali.
Anche in Italia, il giudice deve prendere ogni decisione secondo il criterio dell’interesse della persona minorenne. In questo, oltre alla propria valutazione del caso, deve tenere conto anche dell’ascolto di bambine, bambini, e adolescenti, prassi obbligatoria richiesta dalla normativa nazionale ed europea per bambini/e dopo i 12 anni – o anche “di età inferiore se capace di discernimento”: Convenzione dei diritti dell’infanzia di New York del 20 novembre 1989, ratificata in Italia con legge 27 maggio 1991 n.176 (art.12); Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata in Italia con legge del 20 marzo 2003 n. 77 (art.6).
2. Effetti psicologici sulle persone minorenni della genitorialità condivisa (Shared parenting) e del collocamento pari-tempo
È opportuno premettere che la letteratura internazionale sui tempi di frequentazione delle persone d’età minore con i genitori separati si è occupata soprattutto della cosiddetta shared parenting, una tipologia di divisione del tempo di convivenza che prevede un range di 35-65% con ciascun genitore e che risulta essere quella non solo più studiata, ma anche più diffusa nelle diverse legislazioni. Questa è la tipologia di divisione del tempo che la letteratura evidenzia come tutelante delle persone minorenni e delle relazioni con i genitori rispetto a forme diffuse che prevedano dei tempi più ridotti, o solo visite da parte di un genitore nella casa del genitore con cui il figlio/a vive, o custodia esclusiva a un genitore. Le situazioni analizzate sono di separazioni conflittuali e non, ma non riguardano i casi in cui siano intervenute condizioni di violenza e abuso, in cui legislazione e letteratura prevedono obbligatoriamente formule di tutela e di frequentazione protetta.
La letteratura scientifica ha pertanto prevalentemente evidenziato l’importanza della shared parenting, quindi di una condivisione di quantità di tempo variabili di figlie e figli con i genitori. Si tratta di un range che prevede anche la modalità del 50% di frequentazione, in genere denominato come “50-50 shared parenting” o “tempo paritetico”: una modalità adottata in alcuni Paesi (in particolare, Svezia, Francia, Belgio, Olanda, Australia) e, comunque, in misura minoritaria. La letteratura scientifica specifica centrata sul tempo obbligatoriamente paritetico è molto limitata. Si sottolinea che nei Paesi dove questo strumento è stato introdotto, il medesimo non viene imposto, ma si tratta di una scelta dei genitori. La decisione sulle quote di tempo da suddividere fra i due genitori, per ottenere una buona probabilità di successo, dipende da specifici fattori: età e genere dei figli, condizioni e disponibilità logistica e temporale dei due genitori, possibilità di supporto nella cura, ecc.
In casi specifici una migliore distribuzione del tempo può permettere a figli/e di avere un genitore più disponibile sul piano di tempo e attenzioni da dedicare a lei/lui, e questo avrebbe ricadute positive per entrambi i genitori; una migliore divisione dei tempi riduce il livello di stress dato dalla mancanza di tempo soprattutto tra le madri (van der Heijden, Poortman e van der Lippe, 2016) e alleviare lo stress può migliorare la qualità della genitorialità (Bartfeld, 2011).
La letteratura evidenzia che la frequentazione pari-tempo con i genitori porta a un miglioramento delle relazioni con i genitori, sorelle e fratelli e con i nonni, ma influisce sulla qualità delle relazioni con la rete sociale esterna alla famiglia (compagni/e, vicinato) (Zartler e Grillenberger, 2017) e comporta un forte impegno da parte dei genitori per tutelare le relazioni amicali dei figli (Prazen et al. 2011), a causa dei frequenti cambiamenti nonché della logistica complessa che tale soluzione più comportare. Questo elemento è da tenere in attenta considerazione per una tutela dell’interesse globale della persona minorenne, in particolare in adolescenza, fase della vita in cui le frequentazioni con i coetanei e le relazioni esterne alla famiglia costituiscono una tappa fondamentale fisiologica per lo sviluppo.
Harris-Short (2010) riporta come in letteratura siano state riscontrate in bambine e bambini alcune preoccupazioni specifiche nelle situazioni di frequentazione pari-tempo: la mancanza di una base unica da chiamare “casa”; problemi creati da programmi frenetici; l’inflessibilità dell’organizzazione; la difficile logistica di vivere tra due case; il sentirsi divisi a metà tra i genitori. Quest’ultimo vissuto e una maggiore esposizione al conflitto tra i genitori sono stati rilevati da McIntosh et al. (2011) come potenziali stressors per i bambini.
Alcuni Paesi hanno condotto ricerche per valutare successo o fallimento di questa modalità di frequentazione. McIntosh e Chisholm (2008) hanno rilevato che bambine e bambini mostravano ancora alti livelli di disagio emotivo un anno dopo la separazione con un collocamento al 50% in un contesto conflittuale. In Australia è emerso come nell’arco di quattro anni il 44% di bambine/i abbia voluto cambiare e avere una residenza di prevalenza, in genere chiedendo di trascorrere più tempo con la madre (McIntosh, 2009). Anche un recente studio condotto nei Paesi Bassi (Poortman e van Gaalen, 2017) evidenzia come un regime di frequentazione paritetico non venga mantenuto nel tempo, a causa di circostanze pratiche e dei bisogni dei bambini/e.
3. Il collocamento pari-tempo tra scelta e imposizione
Diversi contributi (Emery et al. 2005; Fehlberg et al. 2011; Fabricius e Luecken 2007; Harris-Short, 2010; Neale et al.1998; Rhoades, 2008; Viry, 2014) evidenziano alcuni parametri fondamentali perché questo tipo di collocamento possa funzionare:
Una rassegna sulle diverse posizioni è presente in Nielsen, 2013 e Blomqvist e Heimer, 2016. L’efficacia dell’affido condiviso – che non si può mettere in discussione e che è confermata da numerosi studi - dipende però da numerose variabili in gioco nelle diverse contingenze e fattispecie giuridiche e psico-sociali.
Un’imposizione di legge uguale per tutte le situazioni di separazione non risponde, sul piano psicologico oltre che giuridico, alle premesse perché lo shared parenting possa risultare efficace: l’indicazione che debba essere previsto il collocamento pari-tempo “indipendentemente dai rapporti intercorrenti tra i due genitori” (art.11 della proposta di legge) non trova supporto nella letteratura psicologica, che nel valutare gli esiti fa riferimento a scelte ponderate caso per caso.
Il collocamento pari-tempo può essere una soluzione a misura di bambine e bambini, ma deve essere valutato se rispetta gli interessi e i bisogni di quel caso specifico, e non essere imposto per legge, soprattutto quando i criteri fanno riferimento a condizioni dei genitori e non a bisogni di figlie e figli. A questo proposito il DDL prevede che le uniche possibilità che il giudice ha per escludere il pari-tempo, o il minimo dei 12 giorni, limite che corrisponde al 40% e di cui non è chiara la ratio, non essendoci alcun riferimento in letteratura o in altre esperienze internazionali, riguardi comunque solo condizioni dei genitori e non contempli, e neanche citi, specifici bisogni e necessità dei figli/e.
I criteri indicati sono, infatti: 1) violenza; 2) abuso sessuale; 3) trascuratezza; 4) indisponibilità di un genitore; 5) inadeguatezza evidente degli spazi predisposti per la vita delle persone d’età minore. È del tutto omesso ogni riferimento a necessità e bisogni dei figli/e, tra cui principalmente: l’età; la relazione intercorrente con l’uno o con l’altro genitore; la situazione logistica rispetto alla scuola; la possibilità di mantenere le relazioni tra pari; particolari condizioni di salute fisica e psichica delle persone minorenni.
Parimenti non vengono prese in considerazione le specifiche esigenze di frequentazione quando uno o entrambi i genitori hanno costituito una nuova famiglia che può anche includere figli di precedenti unioni o nati dalla nuova coppia. Ciò costituisce spesso un elemento cruciale di confusione, a volte di nuovo conflitto, sia tra ex coniugi sia tra ciascuno di essi e i figli. Ne consegue che è di fatto richiesto ai figli delle precedenti unioni uno sforzo adattativo per costruire relazioni con i componenti del nuovo nucleo familiare, e che il tempo di questa frequentazione deve essere adeguatamente accompagnato e graduato, per non mettere a rischio proprio la relazione - che s’intende tutelare - dei figli con ciascun genitore.
Una imposizione di legge per tutti i casi, che non analizzi e prenda in considerazione le reali e specifiche esigenze delle persone di età minore, le diverse fasi evolutive, che riconducono a bisogni diversi, anche in riferimento all’emotività e ai processi di attaccamento e identificazione, alle qualità delle relazioni genitori-figli, alle problematiche logistiche della vita di bambine e bambini (scuola, rapporti con i pari) stabilisce delle regole uguali per tutti, pertanto non corrispondenti al criterio del superiore interesse di bambine, bambini, adolescenti, che va valutato rispetto alla specificità della situazione.
4. Per una soluzione a misura di figlie e figli
L’importanza dei “diritti ed esigenze specifiche di bambine e bambini in diverse fasce di età” è sottolineata dalla Risoluzione 2079 conformemente alle Linee guida del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sulla giustizia a misura di bambino/a (Art. 5.10).
La Risoluzione 2079 del 2015 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa va in una direzione opposta a quella del DDL, in quanto indica una personalizzazione del tempo con ciascun genitore in ragione delle esigenze di ciascuno. Raccomanda, infatti, agli Stati membri di: “introdurre nelle loro leggi il principio della residenza condivisa in seguito a una separazione, limitando eventuali eccezioni ai casi di abuso o negligenza sule persone minorenni, o di violenza domestica, con un periodo di tempo in cui il bambino/a vive con ciascun genitore adattato secondo i bisogni e gli interessi di bambine e bambini” (Art. 5.5).
In conclusione, si auspica un aumento degli spazi di frequentazione della persona minorenne con entrambi i genitori che siano definiti in modo personalizzato e adattato ai bisogni di bambine e bambini e non degli adulti e non ricorrendo a soluzioni imposte e omologate per tutte le figlie e i figli e le situazioni.
In questa direzione di incentivazione e personalizzazione, peraltro da tempo avviata in molti Tribunali italiani, può essere un’utile risorsa, specie in casi complessi, la collaborazione di giudici e avvocati con psicologi, psichiatri e neuropsichiatri infantili, quali consulenti del giudice o operatori dei servizi sociali.
LE MISURE PER CONTRASTARE LA COSIDDETTA ALIENAZIONE PARENTALE (ARTT. 17 e 18)
1. Applicazione di provvedimenti quando, pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori, il figlio minore manifesta comunque rifiuto, alienazione o estraniazione con riguardo a uno di essi (Art. 17).
In fase di separazione dei genitori o dopo di essa, un figlio/a minore può manifestare rifiuto a incontrare un genitore. Il rifiuto del contatto si riferisce al comportamento di un figlio/a che evita di trascorrere del tempo con un genitore.
Molte possono essere le ragioni: a) normali processi evolutivi (per es. ansia di separazione in bambine/i molto piccoli); b) un certo stile genitoriale caratterizzato da rigidità, rabbia o mancanza di sensibilità nei confronti del bambino/a; c) aver subito direttamente o aver assistito a maltrattamenti in famiglia; d) preoccupazione per un genitore percepito emotivamente fragile (per es. paura di lasciare da solo a casa questo genitore); e) ricostituzione di un nuovo nucleo familiare da parte di un genitore (per es. comportamenti di un genitore che modificano la disponibilità alle visite) (Johnston, 1993; Johnston & Roseby, 1997; Wallerstein & Kelly, 1980); f) comportamenti attuati da un genitore che espongono direttamente figlie e figli d’età minore al conflitto, portandoli a prendere le sue parti e a sviluppare un legame di lealtà insostenibile (Baker & Darnall, 2006).
Esempi di questi comportamenti sono: esternare commenti che esagerano le caratteristiche negative dell’altro genitore mentre raramente si parla di quelle positive, o che sottendono la pericolosità dell’altro genitore, confidare cose da adulti che il figlio/a non deve sapere (difficoltà coniugali e questioni legali ecc.) tali da indurlo a un atteggiamento protettivo verso lui/lei e a un atteggiamento di rabbia verso l’altro genitore, chiedere al figlio/a di spiare o raccogliere segretamente informazioni sull’altro genitore per poi riferirle o chiedere di tenere segrete all’altro genitore cose che in realtà avrebbe dovuto sapere (progetti, spostamenti etc.), esprimere fastidio quando il bambino/a chiede o parla dell’altro genitore, diventare turbato, freddo o distaccato quando il figlio/a si mostra affettuoso verso l’altro genitore, creare situazioni in cui il figlio/a si sente obbligato a mostrare appoggio nei confronti di un genitore o creare i presupposti affinché il figlio/a si arrabbi con l’altro genitore, incoraggiare il figlio/a a fidarsi delle opinioni di un genitore e ad approvarle indipendentemente da tutto (Baker & Ben Ami, 2011; Harman et al., 2018).
Nella letteratura più recente “alienazione genitoriale” è il termine utilizzato per descrivere una dinamica familiare nella quale un genitore mette in atto comportamenti, come quelli appena descritti, che possono favorire nel figlio un rifiuto ingiustificato e sentimenti di disaffezione nei confronti dell’altro genitore (Baker, 2014; Malagoli Togliatti & Verrocchio, 2017). Non tutti i figli esposti a tali comportamenti cedono alla pressione di rifiutare un genitore, ma quando accade, essi esibiscono specifici segni rivelatori e possono essere considerati figli alienati.
Nel dibattito scientifico internazionale, i critici non negano l’esistenza dell’alienazione genitoriale come fenomeno relazionale, ma credono che magistrati e psicologi possano trattare questo tipo di “scenario” senza attribuire al bambino una malattia mentale come sosteneva la teoria della P.A.S. (Parental Alienation Syndrome) dello psichiatra Richard Gardner (Gulotta et al., 2015; Malagoli Togliatti & Franci, 2005). L’introduzione della P.A.S. all’interno di una specifica categoria diagnostica è stata definita come la medicalizzazione di un processo essenzialmente giuridico che nulla ha a che vedere con le sindromi psichiatriche infantili (Carrey, 2011). Esistono anche autori che negano l’esistenza sia della P.A.S. sia dell’alienazione genitoriale come fenomeno relazionale e che assumono posizioni basate su concettualizzazioni estremistiche ma non su dati di ricerca: nello specifico, affermano che l’alienazione genitoriale non esiste in quanto tutti i figli/le figlie che non vogliono incontrare più il proprio padre sono figli/figlie che hanno subìto abusi (si veda ad esempio Bruch, 2001; Faller, 1998; Meier, 2009; Walker et al., 2004).
Nella letteratura internazionale, molti autori effettuano una distinzione tra estranged children e alienated children (Bernet et al., 2016; Drozd & Olesen, 2004; Garber, 2011). Il termine estraniazione (estrangement) si riferisce al rifiuto di un bambino/a nei confronti di un genitore giustificato “in quanto conseguenza di una storia di violenza familiare, abuso e trascuratezza da parte del genitore rifiutato” (Johnston, 2005; Kelly & Johnston, 2001), mentre il termine alienazione (alienation) si riferisce al rifiuto ingiustificato di un bambino/a nei confronti di un genitore e a “sentimenti e credenze irragionevolmente negative, che sono significativamente sproporzionati all’esperienza attuale del bambino/a con quel genitore” (Johnston, 2005).
È di estrema importanza differenziare il bambino/a alienato da altri bambini e bambine che, invece, per una molteplicità di ragioni possono mostrare condotte di evitamento e di resistenza alla frequentazione con un genitore (Baker, Burkhard & Albertson-Kelly, 2012; Beebe & Sailor, 2017; Bernet, Gregory, Reay & Rohner, 2018; Bernet, Wamboldt, & Narrow, 2016; Drozd & Olesen, 2004; Fidler, Bala & Saini, 2012; Garber, 2009; Geffner, Conradi, Geis & Aranda, 2009; Kelly & Johnston, 2001; Jaffe, Ashbourne, & Mamo, 2010; Jaffe, Johnston, Crooks & Bala, 2008; Jaffe, Crooks & Bala, 2009; Lee & Olesen, 2001; Scharp & Dorrance Hall, 2017; Stoltz, & Ney, 2002).
Una valutazione tecnica delle dinamiche relazionali presenti nel nucleo familiare disgregato, delle motivazioni che sottendono il mancato mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo di un figlio, una figlia minorenne con un genitore e della condizione psichica del figlio/a, costituisce la premessa indispensabile per orientare qualsiasi provvedimento da applicare nell’esclusivo interesse della persona minorenne.
2. L’inversione del collocamento o il collocamento in comunità del/della figlio/a (Art. 18)
Invertire la residenza abituale della persona minorenne oppure limitare i tempi di permanenza con un genitore oppure disporre il collocamento provvisorio presso apposita struttura specializzata sono interventi che richiedono un’attenta valutazione tecnica in quanto, se attuati inadeguatamente e senza una prognosi delle possibili conseguenze, potrebbero risultare lesivi dell’interesse della persona minorenne. Nel testo del DDL, la decisione con provvedimento urgente di invertire la residenza a favore del genitore alienato ovvero disporre l’affidamento a una struttura (casa famiglia) può essere assunta dal magistrato «pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori», cioè senza evidenza né prove. Non è menzionato in proposito, il necessario ascolto del/della minore o di altri soggetti in grado di confermare lo stato di malessere o addirittura di pericolo per le persone minorenni.
La letteratura specialistica indica di invertire la residenza abituale del persona d’età minore, di limitare i tempi di permanenza con un genitore oppure di disporre il collocamento provvisorio presso una struttura specializzata soltanto nei casi in cui si è accertata la presenza di un condizionamento messo in atto da un genitore sul proprio figlio/a e a cui consegue il rifiuto dell’altro genitore (alienazione genitoriale).
La ragione che sottende tali interventi risiede nel considerare tale condizionamento una forma di abuso (ovvero maltrattamento) psicologico. Secondo l’American Professional Society on the Abuse of Children (APSAC; Binggeli et al., 2001), il maltrattamento psicologico è definibile in termini di comportamenti genitoriali che portano bambine e bambini a sentirsi non amati e che vengono classificati in cinque categorie: rifiutare, terrorizzare, isolare, sfruttare/corrompere e negare responsività emotiva. Come sottolineato da Baker (2014), i comportamenti messi in atto nel processo di alienazione corrispondono chiaramente alle cinque categorie di maltrattamento psicologico incluse nella definizione dell’APSAC.
Esistono due filoni di ricerca che hanno contribuito a sostenere l’associazione tra alienazione genitoriale e maltrattamento psicologico. Il primo è costituito da ricerche che documentano gli effetti negativi sul benessere emotivo di bambine e bambini derivanti dal loro coinvolgimento nel conflitto genitoriale (Amato & Afifi, 2006; Fabricius & Leucken 2007; Krishnakumar et al., 2003; Pruett et al., 2003; Schick, 2002). Il secondo filone è costituito da studi recenti che hanno specificamente analizzato l’associazione tra alienazione genitoriale e abuso emotivo (Baker & Verrocchio, 2013). I comportamenti genitoriali che inducono nei figli/e un conflitto di lealtà possono essere considerati una specifica forma di maltrattamento psicologico in quanto favoriscono in bambine e bambini sentimenti di inutilità e imperfezione (Baker, 2014), nonché comportamenti distorti su di sé e sul mondo che possono stabilizzarsi nel tempo (Baker & Ben-Ami, 2011). Il dato è risultato stabile anche dopo aver controllato l’effetto per variabili di rilievo quali lo status coniugale dei genitori e la qualità della loro relazione (Baker, 2010; Baker & Brassard, 2013; Baker & Eichler, 2014; Verrocchio & Baker, 2015). Si verifica non soltanto una disaffezione nei confronti di un genitore ma anche un’alienazione dal proprio Sé e tale distorsione, nel percorso di sviluppo, può spiegare le associazioni individuate in numerosi studi empirici tra la percezione di comportamenti attuati da un genitore che ha esposto direttamente figlie e figli al conflitto nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza e un funzionamento psicologico compromesso in età adulta (Baker & Ben Ami, 2011; Bernet et al., 2015). La letteratura ha dimostrato, inoltre, che l’abuso psicologico risulta correlato, a lungo termine, ad esiti peggiori di salute fisica e mentale rispetto ad altre forme di maltrattamento (Burns et al., 2010; Iwaniec, 1997; Weiss et al., 2013).
I dati empirici sulle conseguenze derivanti dall’alienazione genitoriale sono ormai robusti e sostanziano, senza dubbio, la necessità di individuare interventi efficaci in grado di aiutare questi figli e figlie affinché diventino adulti psicologicamente sani. I risultati di alcune rassegne (Saini et al., 2016; Templer et al., 2017; Verrocchio & Marchetti, 2017) hanno evidenziato che nel panorama internazionale vengono proposte forme di intervento per l’alienazione genitoriale che variano sia in funzione della gravità e della persistenza della dinamica relazionale disfunzionale sia del componente del nucleo familiare al quale si rivolgono.
Dalla letteratura emerge la necessità di: a) effettuare un’adeguata valutazione clinico-diagnostica per comprendere le dinamiche relazionali, i fattori che hanno contribuito al rifiuto e alla disaffezione del figlio/a nei confronti del genitore, la condizione psicologica e psicopatologica di tutti i componenti del nucleo familiare, nonché gli eventuali fattori di protezione; b) fornire un supporto professionale che miri a ripristinare la relazione drammaticamente interrotta tra un figlio/a e un genitore a seguito di separazioni altamente conflittuali; c) attuare un intervento coatto, su disposizione del giudice, che preveda un cambiamento di affidamento o il collocamento in una struttura specializzata nei casi di alienazione grave, ossia i casi in cui una figlia/o rifiuta con astio e disprezzo di incontrare un genitore in quanto condizionato dall’altro genitore. L’assunto di base è che risulta necessario allontanare il bambino/a da un ambiente nocivo sul piano relazionale, per interrompere l’abuso psicologico considerate le conseguenze negative e patologiche che questo ha sulla strutturazione del Sé.
Occorre precisare, tuttavia, che gli studi sull’efficacia del cambiamento di collocamento o dell’inserimento in una struttura specializzata e dei programmi statunitensi di riunificazione (Dunne & Hendrick, 1994; Rand et al., 2005; Reay, 2015; Sullivan et al., 2010; Warshak, 2010) sono ancora esigui e presentano alcune limitazioni metodologiche.
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[1] Le voci citate sono riferite alle diverse posizioni citate nel testo, e offrono una panoramica della variegata tipologia di ricerche e relativi risultati, spesso controversi, sui complessi problemi trattati nella relazione.
Questo documento è stato presentato dall’AIP (Associazione Italiana di Psicologia), dal 1992 la società scientifica di riferimento nazionale per gli psicologi che lavorano nelle Università e negli Enti di ricerca, e dalla CPA (Conferenza della Psicologia Accademica), Conferenza che riunisce gli Atenei e/o i Dipartimenti presso i quali docenti di materie psicologiche svolgono attività di didattica e ricerca.
Il documento è stato redatto da un gruppo di lavoro congiunto AIP-CPA composto da docenti universitarie e professioniste che operano nella giustizia, esperte nel campo del diritto e della giurisdizione, nonché della specifica materia trattata, ed è stato poi discusso e approvato dai Direttivi delle due Associazioni, al fine di presentarlo nell’audizione al Senato sul DDL n. 735 (noto come “proposta Pillon” dal nome del senatore primo firmatario).
Il superiore interesse della persona minorenne, riconosciuto a livello internazionale e recepito da tutte le normative del nostro Paese, ha costituito il criterio guida con cui è stato esaminato il DDL n. 735 recante norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità. Partendo dal presupposto che la proposta legislativa cerca di affrontare i problemi dell’attuale sistema di affido in caso di separazioni, l’analisi ha tenuto conto delle indicazioni sovra-nazionali in materia e ha evidenziato le possibili ricadute delle soluzioni normative previste sullo sviluppo della persona minorenne sotto il profilo psicologico e relazionale, fondamentale per il percorso di vita e per un’adeguata e armonica formazione della personalità.
LA MEDIAZIONE FAMILIARE (ARTT. 1-5)
1. I presupposti perché la mediazione familiare possa costituirsi come risorsa nella gestione dei conflitti
La mediazione familiare è stata pensata come uno strumento diretto a “chiarire le relazioni all’interno di un nucleo familiare e a ripararne le fratture” (Kelly, 2004). Si basa sul presupposto che ci siano le condizioni e la volontà di ripristinare il dialogo tra i genitori che si separano. Sono fondamentali dunque, e non possono derivare solo dal punto di vista legale e giuridico, la consapevolezza da parte dei genitori dell’esistenza di determinati problemi e la disponibilità a mettersi in discussione per risolverli (Roberson, Nalbone, Hecker, & Miller, 2010).
Per risultare efficace, dunque, la mediazione familiare ha come presupposto teorico e metodologico la adesione volontaria delle parti.
La Risoluzione 2079 del 2015 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa invita gli Stati membri a “promuovere e, se del caso, sviluppare la mediazione nell'ambito di procedimenti giudiziari in casi che coinvolgono minori, in particolare istituendo una seduta informativa obbligatoria in capo al tribunale, al fine di informare sulle possibilità e i requisiti”.
Quando è presente un legame disfunzionale perdurante è possibile che gli elementi del conflitto si spostino dall’interesse della persona minorenne alla ritorsione sull’altro genitore; in questa tipologia di clima emotivo viene necessariamente a mancare l’opzione di fiducia tra i due genitori, elemento base per la costruzione di una cooperazione in direzione di uno scopo comune.
Perché si possa dare inizio a un iter di mediazione è necessario valutare, quindi, il livello di “mediabilità del conflitto” al fine di comprendere quali situazioni possano trarne vantaggio e quali, proprio a causa di un livello di conflittualità notevolmente elevato, non possono essere affrontate attraverso questa modalità.
La mediazione familiare è, inoltre, esplicitamente esclusa dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, Istanbul 2011, ratificata dall’Italia nel 2014, quando vi siano denunce per maltrattamento e violenza domestica, incluso il caso della “violenza assistita”, e cioè quando la persona minorenne fa esperienza di qualsiasi forma di maltrattamento, (violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica) su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte e minori. Le ripercussioni della violenza assistita sulle persone minorenni rappresentano violazione dell’art. 147 c.c. perché frutto di deliberata trascuratezza verso gli elementari bisogni di figlie e figli. La violenza assistita intrafamiliare, come dimostrano numerosi studi e ricerche nazionali e internazionali, si verifica soprattutto in nuclei familiari la cui problematicità dura da tempo e nei quali gli episodi di violenza tendono a ripetersi.
2. L’obbligatorietà della mediazione
Secondo il disegno di legge proposto, nel caso in cui ci sia presenza di figli/e d’età minore, la mediazione familiare è contemplata come obbligatoria, quale condizione di procedibilità del giudizio di separazione o divorzio.
Ma che cosa comporterebbe tale obbligo?
Preliminarmente, il carattere di obbligatorietà della mediazione appare non in linea con l’art. 48 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica che recita: “Le parti devono adottare le necessarie misure legislative o di altro tipo per vietare il ricorso obbligatorio a procedimenti di soluzione alternativa delle controversie, incluse la mediazione e la conciliazione, in relazione a tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione".
È necessario, dunque, effettuare una corretta analisi dei contesti familiari poiché, nei casi in cui vi sia una realtà di violenza (Rossi et al., 2015), è previsto che si eviti il contatto tra il soggetto che ha subito abusi e il suo perpetratore al fine di scoraggiare lo scatenarsi di reazioni violente che possano mettere in pericolo uno o più componenti della famiglia (Feresin et al., 2018).
Che i genitori debbano essere messi a conoscenza in modo obbligatorio della mediazione è un’indicazione molto diversa, sul piano teorico e metodologico, dal rendere obbligatoria la mediazione stessa.
In estrema sintesi, non riconoscendo dei criteri di eleggibilità per le procedure di mediazione e rendendola obbligatoria si generano possibili rischi e conseguenze quali:
- obbligare a un trattamento persone contrarie o reticenti,
- condurre una mediazione che verrebbe effettuata sulla base di motivazioni estrinseche,
- ricevere una adesione soltanto formale alla mediazione con sviluppo di piani di inautenticità e resistenze,
- venire meno alla tutela di donne e minori vittime di violenza attraverso l’esposizione forzata ai contatti diretti con l’autore di violenza.
Infine, la mediazione, in mancanza di piani di formazione adeguata delle figure preposte, potrebbe essere affidata ad operatori con generiche competenze, soprattutto non specializzati a riconoscere e supportare vittime di violenza, e quindi privi degli strumenti per assolvere il loro compito in modo efficace.
I “TEMPI PARITETICI O EQUIPOLLENTI” DI FREQUENTAZIONE DEL FIGLIO/A MINORENNE CON I GENITORI (ART. 11)
1. Il miglior interesse della persona minorenne e i tempi di frequentazione
Dal punto di vista psicologico, una modalità di frequentazione con i genitori che sia tutelante per la singola persona minore d’età è una evidente forma di rispetto nei confronti suoi, della sua individualità e delle sue esigenze evolutive. La tutela delle persone minorenni nelle separazioni è stata il centro di una svolta culturale e scientifica già dagli anni ’70, promossa fortemente anche dalla psicologia, che ha portato la persona d’età minore a essere il centro dell’attenzione delle decisioni degli adulti nelle situazioni di conflittualità coniugale e di tutela dei legami. Il criterio ispirato dalla teoria di Goldstein, A. Freud e Solnit del “Best Interest of the Child” (BIOC) (1973,1975,1986) ha influenzato in modo determinante dapprima il sistema giuridico e giudiziario statunitense, poi quello di molti altri Paesi, nonché le pronunce degli organismi sovranazionali.
Anche in Italia, il giudice deve prendere ogni decisione secondo il criterio dell’interesse della persona minorenne. In questo, oltre alla propria valutazione del caso, deve tenere conto anche dell’ascolto di bambine, bambini, e adolescenti, prassi obbligatoria richiesta dalla normativa nazionale ed europea per bambini/e dopo i 12 anni – o anche “di età inferiore se capace di discernimento”: Convenzione dei diritti dell’infanzia di New York del 20 novembre 1989, ratificata in Italia con legge 27 maggio 1991 n.176 (art.12); Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata in Italia con legge del 20 marzo 2003 n. 77 (art.6).
2. Effetti psicologici sulle persone minorenni della genitorialità condivisa (Shared parenting) e del collocamento pari-tempo
È opportuno premettere che la letteratura internazionale sui tempi di frequentazione delle persone d’età minore con i genitori separati si è occupata soprattutto della cosiddetta shared parenting, una tipologia di divisione del tempo di convivenza che prevede un range di 35-65% con ciascun genitore e che risulta essere quella non solo più studiata, ma anche più diffusa nelle diverse legislazioni. Questa è la tipologia di divisione del tempo che la letteratura evidenzia come tutelante delle persone minorenni e delle relazioni con i genitori rispetto a forme diffuse che prevedano dei tempi più ridotti, o solo visite da parte di un genitore nella casa del genitore con cui il figlio/a vive, o custodia esclusiva a un genitore. Le situazioni analizzate sono di separazioni conflittuali e non, ma non riguardano i casi in cui siano intervenute condizioni di violenza e abuso, in cui legislazione e letteratura prevedono obbligatoriamente formule di tutela e di frequentazione protetta.
La letteratura scientifica ha pertanto prevalentemente evidenziato l’importanza della shared parenting, quindi di una condivisione di quantità di tempo variabili di figlie e figli con i genitori. Si tratta di un range che prevede anche la modalità del 50% di frequentazione, in genere denominato come “50-50 shared parenting” o “tempo paritetico”: una modalità adottata in alcuni Paesi (in particolare, Svezia, Francia, Belgio, Olanda, Australia) e, comunque, in misura minoritaria. La letteratura scientifica specifica centrata sul tempo obbligatoriamente paritetico è molto limitata. Si sottolinea che nei Paesi dove questo strumento è stato introdotto, il medesimo non viene imposto, ma si tratta di una scelta dei genitori. La decisione sulle quote di tempo da suddividere fra i due genitori, per ottenere una buona probabilità di successo, dipende da specifici fattori: età e genere dei figli, condizioni e disponibilità logistica e temporale dei due genitori, possibilità di supporto nella cura, ecc.
In casi specifici una migliore distribuzione del tempo può permettere a figli/e di avere un genitore più disponibile sul piano di tempo e attenzioni da dedicare a lei/lui, e questo avrebbe ricadute positive per entrambi i genitori; una migliore divisione dei tempi riduce il livello di stress dato dalla mancanza di tempo soprattutto tra le madri (van der Heijden, Poortman e van der Lippe, 2016) e alleviare lo stress può migliorare la qualità della genitorialità (Bartfeld, 2011).
La letteratura evidenzia che la frequentazione pari-tempo con i genitori porta a un miglioramento delle relazioni con i genitori, sorelle e fratelli e con i nonni, ma influisce sulla qualità delle relazioni con la rete sociale esterna alla famiglia (compagni/e, vicinato) (Zartler e Grillenberger, 2017) e comporta un forte impegno da parte dei genitori per tutelare le relazioni amicali dei figli (Prazen et al. 2011), a causa dei frequenti cambiamenti nonché della logistica complessa che tale soluzione più comportare. Questo elemento è da tenere in attenta considerazione per una tutela dell’interesse globale della persona minorenne, in particolare in adolescenza, fase della vita in cui le frequentazioni con i coetanei e le relazioni esterne alla famiglia costituiscono una tappa fondamentale fisiologica per lo sviluppo.
Harris-Short (2010) riporta come in letteratura siano state riscontrate in bambine e bambini alcune preoccupazioni specifiche nelle situazioni di frequentazione pari-tempo: la mancanza di una base unica da chiamare “casa”; problemi creati da programmi frenetici; l’inflessibilità dell’organizzazione; la difficile logistica di vivere tra due case; il sentirsi divisi a metà tra i genitori. Quest’ultimo vissuto e una maggiore esposizione al conflitto tra i genitori sono stati rilevati da McIntosh et al. (2011) come potenziali stressors per i bambini.
Alcuni Paesi hanno condotto ricerche per valutare successo o fallimento di questa modalità di frequentazione. McIntosh e Chisholm (2008) hanno rilevato che bambine e bambini mostravano ancora alti livelli di disagio emotivo un anno dopo la separazione con un collocamento al 50% in un contesto conflittuale. In Australia è emerso come nell’arco di quattro anni il 44% di bambine/i abbia voluto cambiare e avere una residenza di prevalenza, in genere chiedendo di trascorrere più tempo con la madre (McIntosh, 2009). Anche un recente studio condotto nei Paesi Bassi (Poortman e van Gaalen, 2017) evidenzia come un regime di frequentazione paritetico non venga mantenuto nel tempo, a causa di circostanze pratiche e dei bisogni dei bambini/e.
3. Il collocamento pari-tempo tra scelta e imposizione
Diversi contributi (Emery et al. 2005; Fehlberg et al. 2011; Fabricius e Luecken 2007; Harris-Short, 2010; Neale et al.1998; Rhoades, 2008; Viry, 2014) evidenziano alcuni parametri fondamentali perché questo tipo di collocamento possa funzionare:
Una rassegna sulle diverse posizioni è presente in Nielsen, 2013 e Blomqvist e Heimer, 2016. L’efficacia dell’affido condiviso – che non si può mettere in discussione e che è confermata da numerosi studi - dipende però da numerose variabili in gioco nelle diverse contingenze e fattispecie giuridiche e psico-sociali.
Un’imposizione di legge uguale per tutte le situazioni di separazione non risponde, sul piano psicologico oltre che giuridico, alle premesse perché lo shared parenting possa risultare efficace: l’indicazione che debba essere previsto il collocamento pari-tempo “indipendentemente dai rapporti intercorrenti tra i due genitori” (art.11 della proposta di legge) non trova supporto nella letteratura psicologica, che nel valutare gli esiti fa riferimento a scelte ponderate caso per caso.
Il collocamento pari-tempo può essere una soluzione a misura di bambine e bambini, ma deve essere valutato se rispetta gli interessi e i bisogni di quel caso specifico, e non essere imposto per legge, soprattutto quando i criteri fanno riferimento a condizioni dei genitori e non a bisogni di figlie e figli. A questo proposito il DDL prevede che le uniche possibilità che il giudice ha per escludere il pari-tempo, o il minimo dei 12 giorni, limite che corrisponde al 40% e di cui non è chiara la ratio, non essendoci alcun riferimento in letteratura o in altre esperienze internazionali, riguardi comunque solo condizioni dei genitori e non contempli, e neanche citi, specifici bisogni e necessità dei figli/e.
I criteri indicati sono, infatti: 1) violenza; 2) abuso sessuale; 3) trascuratezza; 4) indisponibilità di un genitore; 5) inadeguatezza evidente degli spazi predisposti per la vita delle persone d’età minore. È del tutto omesso ogni riferimento a necessità e bisogni dei figli/e, tra cui principalmente: l’età; la relazione intercorrente con l’uno o con l’altro genitore; la situazione logistica rispetto alla scuola; la possibilità di mantenere le relazioni tra pari; particolari condizioni di salute fisica e psichica delle persone minorenni.
Parimenti non vengono prese in considerazione le specifiche esigenze di frequentazione quando uno o entrambi i genitori hanno costituito una nuova famiglia che può anche includere figli di precedenti unioni o nati dalla nuova coppia. Ciò costituisce spesso un elemento cruciale di confusione, a volte di nuovo conflitto, sia tra ex coniugi sia tra ciascuno di essi e i figli. Ne consegue che è di fatto richiesto ai figli delle precedenti unioni uno sforzo adattativo per costruire relazioni con i componenti del nuovo nucleo familiare, e che il tempo di questa frequentazione deve essere adeguatamente accompagnato e graduato, per non mettere a rischio proprio la relazione - che s’intende tutelare - dei figli con ciascun genitore.
Una imposizione di legge per tutti i casi, che non analizzi e prenda in considerazione le reali e specifiche esigenze delle persone di età minore, le diverse fasi evolutive, che riconducono a bisogni diversi, anche in riferimento all’emotività e ai processi di attaccamento e identificazione, alle qualità delle relazioni genitori-figli, alle problematiche logistiche della vita di bambine e bambini (scuola, rapporti con i pari) stabilisce delle regole uguali per tutti, pertanto non corrispondenti al criterio del superiore interesse di bambine, bambini, adolescenti, che va valutato rispetto alla specificità della situazione.
4. Per una soluzione a misura di figlie e figli
L’importanza dei “diritti ed esigenze specifiche di bambine e bambini in diverse fasce di età” è sottolineata dalla Risoluzione 2079 conformemente alle Linee guida del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sulla giustizia a misura di bambino/a (Art. 5.10).
La Risoluzione 2079 del 2015 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa va in una direzione opposta a quella del DDL, in quanto indica una personalizzazione del tempo con ciascun genitore in ragione delle esigenze di ciascuno. Raccomanda, infatti, agli Stati membri di: “introdurre nelle loro leggi il principio della residenza condivisa in seguito a una separazione, limitando eventuali eccezioni ai casi di abuso o negligenza sule persone minorenni, o di violenza domestica, con un periodo di tempo in cui il bambino/a vive con ciascun genitore adattato secondo i bisogni e gli interessi di bambine e bambini” (Art. 5.5).
In conclusione, si auspica un aumento degli spazi di frequentazione della persona minorenne con entrambi i genitori che siano definiti in modo personalizzato e adattato ai bisogni di bambine e bambini e non degli adulti e non ricorrendo a soluzioni imposte e omologate per tutte le figlie e i figli e le situazioni.
In questa direzione di incentivazione e personalizzazione, peraltro da tempo avviata in molti Tribunali italiani, può essere un’utile risorsa, specie in casi complessi, la collaborazione di giudici e avvocati con psicologi, psichiatri e neuropsichiatri infantili, quali consulenti del giudice o operatori dei servizi sociali.
LE MISURE PER CONTRASTARE LA COSIDDETTA ALIENAZIONE PARENTALE (ARTT. 17 e 18)
1. Applicazione di provvedimenti quando, pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori, il figlio minore manifesta comunque rifiuto, alienazione o estraniazione con riguardo a uno di essi (Art. 17).
In fase di separazione dei genitori o dopo di essa, un figlio/a minore può manifestare rifiuto a incontrare un genitore. Il rifiuto del contatto si riferisce al comportamento di un figlio/a che evita di trascorrere del tempo con un genitore.
Molte possono essere le ragioni: a) normali processi evolutivi (per es. ansia di separazione in bambine/i molto piccoli); b) un certo stile genitoriale caratterizzato da rigidità, rabbia o mancanza di sensibilità nei confronti del bambino/a; c) aver subito direttamente o aver assistito a maltrattamenti in famiglia; d) preoccupazione per un genitore percepito emotivamente fragile (per es. paura di lasciare da solo a casa questo genitore); e) ricostituzione di un nuovo nucleo familiare da parte di un genitore (per es. comportamenti di un genitore che modificano la disponibilità alle visite) (Johnston, 1993; Johnston & Roseby, 1997; Wallerstein & Kelly, 1980); f) comportamenti attuati da un genitore che espongono direttamente figlie e figli d’età minore al conflitto, portandoli a prendere le sue parti e a sviluppare un legame di lealtà insostenibile (Baker & Darnall, 2006).
Esempi di questi comportamenti sono: esternare commenti che esagerano le caratteristiche negative dell’altro genitore mentre raramente si parla di quelle positive, o che sottendono la pericolosità dell’altro genitore, confidare cose da adulti che il figlio/a non deve sapere (difficoltà coniugali e questioni legali ecc.) tali da indurlo a un atteggiamento protettivo verso lui/lei e a un atteggiamento di rabbia verso l’altro genitore, chiedere al figlio/a di spiare o raccogliere segretamente informazioni sull’altro genitore per poi riferirle o chiedere di tenere segrete all’altro genitore cose che in realtà avrebbe dovuto sapere (progetti, spostamenti etc.), esprimere fastidio quando il bambino/a chiede o parla dell’altro genitore, diventare turbato, freddo o distaccato quando il figlio/a si mostra affettuoso verso l’altro genitore, creare situazioni in cui il figlio/a si sente obbligato a mostrare appoggio nei confronti di un genitore o creare i presupposti affinché il figlio/a si arrabbi con l’altro genitore, incoraggiare il figlio/a a fidarsi delle opinioni di un genitore e ad approvarle indipendentemente da tutto (Baker & Ben Ami, 2011; Harman et al., 2018).
Nella letteratura più recente “alienazione genitoriale” è il termine utilizzato per descrivere una dinamica familiare nella quale un genitore mette in atto comportamenti, come quelli appena descritti, che possono favorire nel figlio un rifiuto ingiustificato e sentimenti di disaffezione nei confronti dell’altro genitore (Baker, 2014; Malagoli Togliatti & Verrocchio, 2017). Non tutti i figli esposti a tali comportamenti cedono alla pressione di rifiutare un genitore, ma quando accade, essi esibiscono specifici segni rivelatori e possono essere considerati figli alienati.
Nel dibattito scientifico internazionale, i critici non negano l’esistenza dell’alienazione genitoriale come fenomeno relazionale, ma credono che magistrati e psicologi possano trattare questo tipo di “scenario” senza attribuire al bambino una malattia mentale come sosteneva la teoria della P.A.S. (Parental Alienation Syndrome) dello psichiatra Richard Gardner (Gulotta et al., 2015; Malagoli Togliatti & Franci, 2005). L’introduzione della P.A.S. all’interno di una specifica categoria diagnostica è stata definita come la medicalizzazione di un processo essenzialmente giuridico che nulla ha a che vedere con le sindromi psichiatriche infantili (Carrey, 2011). Esistono anche autori che negano l’esistenza sia della P.A.S. sia dell’alienazione genitoriale come fenomeno relazionale e che assumono posizioni basate su concettualizzazioni estremistiche ma non su dati di ricerca: nello specifico, affermano che l’alienazione genitoriale non esiste in quanto tutti i figli/le figlie che non vogliono incontrare più il proprio padre sono figli/figlie che hanno subìto abusi (si veda ad esempio Bruch, 2001; Faller, 1998; Meier, 2009; Walker et al., 2004).
Nella letteratura internazionale, molti autori effettuano una distinzione tra estranged children e alienated children (Bernet et al., 2016; Drozd & Olesen, 2004; Garber, 2011). Il termine estraniazione (estrangement) si riferisce al rifiuto di un bambino/a nei confronti di un genitore giustificato “in quanto conseguenza di una storia di violenza familiare, abuso e trascuratezza da parte del genitore rifiutato” (Johnston, 2005; Kelly & Johnston, 2001), mentre il termine alienazione (alienation) si riferisce al rifiuto ingiustificato di un bambino/a nei confronti di un genitore e a “sentimenti e credenze irragionevolmente negative, che sono significativamente sproporzionati all’esperienza attuale del bambino/a con quel genitore” (Johnston, 2005).
È di estrema importanza differenziare il bambino/a alienato da altri bambini e bambine che, invece, per una molteplicità di ragioni possono mostrare condotte di evitamento e di resistenza alla frequentazione con un genitore (Baker, Burkhard & Albertson-Kelly, 2012; Beebe & Sailor, 2017; Bernet, Gregory, Reay & Rohner, 2018; Bernet, Wamboldt, & Narrow, 2016; Drozd & Olesen, 2004; Fidler, Bala & Saini, 2012; Garber, 2009; Geffner, Conradi, Geis & Aranda, 2009; Kelly & Johnston, 2001; Jaffe, Ashbourne, & Mamo, 2010; Jaffe, Johnston, Crooks & Bala, 2008; Jaffe, Crooks & Bala, 2009; Lee & Olesen, 2001; Scharp & Dorrance Hall, 2017; Stoltz, & Ney, 2002).
Una valutazione tecnica delle dinamiche relazionali presenti nel nucleo familiare disgregato, delle motivazioni che sottendono il mancato mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo di un figlio, una figlia minorenne con un genitore e della condizione psichica del figlio/a, costituisce la premessa indispensabile per orientare qualsiasi provvedimento da applicare nell’esclusivo interesse della persona minorenne.
2. L’inversione del collocamento o il collocamento in comunità del/della figlio/a (Art. 18)
Invertire la residenza abituale della persona minorenne oppure limitare i tempi di permanenza con un genitore oppure disporre il collocamento provvisorio presso apposita struttura specializzata sono interventi che richiedono un’attenta valutazione tecnica in quanto, se attuati inadeguatamente e senza una prognosi delle possibili conseguenze, potrebbero risultare lesivi dell’interesse della persona minorenne. Nel testo del DDL, la decisione con provvedimento urgente di invertire la residenza a favore del genitore alienato ovvero disporre l’affidamento a una struttura (casa famiglia) può essere assunta dal magistrato «pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori», cioè senza evidenza né prove. Non è menzionato in proposito, il necessario ascolto del/della minore o di altri soggetti in grado di confermare lo stato di malessere o addirittura di pericolo per le persone minorenni.
La letteratura specialistica indica di invertire la residenza abituale del persona d’età minore, di limitare i tempi di permanenza con un genitore oppure di disporre il collocamento provvisorio presso una struttura specializzata soltanto nei casi in cui si è accertata la presenza di un condizionamento messo in atto da un genitore sul proprio figlio/a e a cui consegue il rifiuto dell’altro genitore (alienazione genitoriale).
La ragione che sottende tali interventi risiede nel considerare tale condizionamento una forma di abuso (ovvero maltrattamento) psicologico. Secondo l’American Professional Society on the Abuse of Children (APSAC; Binggeli et al., 2001), il maltrattamento psicologico è definibile in termini di comportamenti genitoriali che portano bambine e bambini a sentirsi non amati e che vengono classificati in cinque categorie: rifiutare, terrorizzare, isolare, sfruttare/corrompere e negare responsività emotiva. Come sottolineato da Baker (2014), i comportamenti messi in atto nel processo di alienazione corrispondono chiaramente alle cinque categorie di maltrattamento psicologico incluse nella definizione dell’APSAC.
Esistono due filoni di ricerca che hanno contribuito a sostenere l’associazione tra alienazione genitoriale e maltrattamento psicologico. Il primo è costituito da ricerche che documentano gli effetti negativi sul benessere emotivo di bambine e bambini derivanti dal loro coinvolgimento nel conflitto genitoriale (Amato & Afifi, 2006; Fabricius & Leucken 2007; Krishnakumar et al., 2003; Pruett et al., 2003; Schick, 2002). Il secondo filone è costituito da studi recenti che hanno specificamente analizzato l’associazione tra alienazione genitoriale e abuso emotivo (Baker & Verrocchio, 2013). I comportamenti genitoriali che inducono nei figli/e un conflitto di lealtà possono essere considerati una specifica forma di maltrattamento psicologico in quanto favoriscono in bambine e bambini sentimenti di inutilità e imperfezione (Baker, 2014), nonché comportamenti distorti su di sé e sul mondo che possono stabilizzarsi nel tempo (Baker & Ben-Ami, 2011). Il dato è risultato stabile anche dopo aver controllato l’effetto per variabili di rilievo quali lo status coniugale dei genitori e la qualità della loro relazione (Baker, 2010; Baker & Brassard, 2013; Baker & Eichler, 2014; Verrocchio & Baker, 2015). Si verifica non soltanto una disaffezione nei confronti di un genitore ma anche un’alienazione dal proprio Sé e tale distorsione, nel percorso di sviluppo, può spiegare le associazioni individuate in numerosi studi empirici tra la percezione di comportamenti attuati da un genitore che ha esposto direttamente figlie e figli al conflitto nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza e un funzionamento psicologico compromesso in età adulta (Baker & Ben Ami, 2011; Bernet et al., 2015). La letteratura ha dimostrato, inoltre, che l’abuso psicologico risulta correlato, a lungo termine, ad esiti peggiori di salute fisica e mentale rispetto ad altre forme di maltrattamento (Burns et al., 2010; Iwaniec, 1997; Weiss et al., 2013).
I dati empirici sulle conseguenze derivanti dall’alienazione genitoriale sono ormai robusti e sostanziano, senza dubbio, la necessità di individuare interventi efficaci in grado di aiutare questi figli e figlie affinché diventino adulti psicologicamente sani. I risultati di alcune rassegne (Saini et al., 2016; Templer et al., 2017; Verrocchio & Marchetti, 2017) hanno evidenziato che nel panorama internazionale vengono proposte forme di intervento per l’alienazione genitoriale che variano sia in funzione della gravità e della persistenza della dinamica relazionale disfunzionale sia del componente del nucleo familiare al quale si rivolgono.
Dalla letteratura emerge la necessità di: a) effettuare un’adeguata valutazione clinico-diagnostica per comprendere le dinamiche relazionali, i fattori che hanno contribuito al rifiuto e alla disaffezione del figlio/a nei confronti del genitore, la condizione psicologica e psicopatologica di tutti i componenti del nucleo familiare, nonché gli eventuali fattori di protezione; b) fornire un supporto professionale che miri a ripristinare la relazione drammaticamente interrotta tra un figlio/a e un genitore a seguito di separazioni altamente conflittuali; c) attuare un intervento coatto, su disposizione del giudice, che preveda un cambiamento di affidamento o il collocamento in una struttura specializzata nei casi di alienazione grave, ossia i casi in cui una figlia/o rifiuta con astio e disprezzo di incontrare un genitore in quanto condizionato dall’altro genitore. L’assunto di base è che risulta necessario allontanare il bambino/a da un ambiente nocivo sul piano relazionale, per interrompere l’abuso psicologico considerate le conseguenze negative e patologiche che questo ha sulla strutturazione del Sé.
Occorre precisare, tuttavia, che gli studi sull’efficacia del cambiamento di collocamento o dell’inserimento in una struttura specializzata e dei programmi statunitensi di riunificazione (Dunne & Hendrick, 1994; Rand et al., 2005; Reay, 2015; Sullivan et al., 2010; Warshak, 2010) sono ancora esigui e presentano alcune limitazioni metodologiche.
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[1] Le voci citate sono riferite alle diverse posizioni citate nel testo, e offrono una panoramica della variegata tipologia di ricerche e relativi risultati, spesso controversi, sui complessi problemi trattati nella relazione.
Il PROCESSO PENALE TELEMATICO DAL PUNTO DI VISTA DELLA DIFESA [1] di Maurizio Bozzaotre
Sommario: 1. Avvocatura e processo penale telematico: un punto di vista necessario - 2. Un processo penale che sia realmente telematico - 2.1. L’avvocato e l’accesso telematico agli atti del fascicolo - 2.2. L’avvocato e le notifiche del processo penale - 2.3. L’avvocato e il deposito di atti a mezzo p.e.c. - 2.4. Occasioni perse e innovazioni da introdurre - 3. Un processo penale che sia telematico ma che rimanga “giusto” - 3.1. Ruolo e funzioni dell’avvocato: dall’analogico al digitale - 3.2. La telematica e le sue insidie: tre sentenze - 4. Conclusioni: una comunità giuridica che sia coinvolta e consapevole
1. Avvocatura e processo penale telematico: un punto di vista necessario
I mezzi tecnici derivanti dalla imperante digitalizzazione dominano ormai quasi ogni momento della nostra esistenza. Si tratta di un aspetto che dovremmo sempre tener presente tutte le volte in cui si affronti il tema dei fenomeni telematici, a maggior ragione quando di tali fenomeni si persegua un’applicazione assai maggiore di quanto oggi non accada, come è appunto il caso del “processo penale telematico” (PPT) [2]
Orbene, l’assunto di tutto questo scritto è che, tra le voci da ascoltare in quel laboratorio di idee e competenze che oggi ragiona di PPT e ne auspica la sua introduzione, non possa mancare quella dell’avvocatura. A tale proposito occorre purtroppo notare che in materia di informatizzazione giudiziaria non siano certo frequenti luoghi di confronto aperti anche agli avvocati. Ed invece, ogni “finestra” in cui si possa esprimere il punto di vista dell’avvocatura dovrebbe essere vista come un’opportunità di potenziale ricchezza per il dibattito, anche perché - come si cercherà di dimostrare in queste pagine - si tratta di una visuale differente rispetto alle esigenze - sacrosante - di carattere organizzativo, logistico, ecc.
Questa esigenza nasce dalla costatazione che le caratteristiche del (progettando) PPT non sono immediatamente sovrapponibili a quelle del(l’ormai realizzato) PCT [3], e ciò per l’ovvia ragione che non lo sono quelle del processo penale rispetto a quelle del rito civile.
Non potendo né volendo toccare ogni possibile momento di contatto tra i vari aspetti in cui si articola il procedimento penale e le possibilità frutto della odierna tecnologia, questo scritto si articolerà in due parti, grossomodo corrispondenti alla duplice veste che l’avvocato assume nell’ambito del sistema penale.
Da un lato, infatti, egli (in rappresentanza del suo assistito) è utente di un servizio reso dell’Amministrazione della Giustizia, ponendosi dunque all’esterno del sistema Giustizia (ma in questa sede sarebbe più corretto definirlo “Dominio Giustizia”); dall’altro, egli è compartecipe di una funzione - quella giurisdizionale -, concorrendo, mediante lo strumento della difesa tecnica esercitata nel contraddittorio in base alle regole del giusto processo, alla legalità formale e legittimità sostanziale degli atti e dei provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria. È allora di fondamentale importanza che la “voce dell’avvocatura” si faccia sentire con forza nel(la costruzione del) PPT sotto entrambi questi aspetti.
La prima parte - quella più “materiale” e anche facilmente intuibile - elenca alcuni dei maggiori desiderata pratici, ossia le utilità che gli avvocati (in quanto utenti nel senso di cui si diceva) si aspettano dal PPT che verrà.
La seconda parte di questo scritto avrà invece un carattere meno pratico e più “politico”, nel senso di evidenziare alcune potenziali fattori di criticità intrinsecamente e inevitabilmente connessi alla struttura giuridica del processo penale; fattori che nella progettazione dell’architettura del PPT sarà bene tenere in gran conto.
2. Un processo penale che sia realmente telematico
Iniziamo allora da cosa gli avvocati si aspettano dal PPT del prossimo futuro.
È chiaro che per rispondere alla domanda in chiave prospettica non possiamo fare a meno di partire da ciò che l’attuale stato dell’arte del telematico penale offre all’avvocatura (in quanto utenza)
Ebbene, dalla letteratura oggi fruibile in materia nonché dalla osservazione quotidiana degli uffici giudiziari sembra di poter dire che oggi la magistratura e gli ausiliari siano stati messi in grado di trarre significativi benefici da una serie di strumenti e istituti, che potremmo definire scampoli di PPT. Del pari, sembra altrettanto - e drammaticamente - evidente che tali benefici in questo momento non possano dirsi appartenere anche all’avvocatura.
Non è questa la sede per approfondire le implementazioni interne apportate alla dotazione infrastrutturale del “dominio Giustizia”: SICP e i vari applicativi collegati quali TIAP, “Atti e Documenti”, “Consolle del Magistrato” [4]. Quel che si può rilevare è che l’esistenza di un portale telematico delle notizie di reato, la possibilità per il magistrato di gestire il ruolo con una propria “console” nonché di gestire la compilazione di atti e documenti forniscono alla difesa un’utilità soltanto riflessa del migliorato sistema di funzionamento dell’ufficio giudiziario con cui si interagisce. È chiaro che il vantaggio non è da poco. E però si tratta di un vantaggio che non tiene sufficientemente conto che l’avvocato/utente ha anche altre esigenze, anche in forza della sua qualità di parte nel processo.
In altri termini, sotto l’aspetto dell’avvocato/utente, le utilità che la comunità forense deve attendersi (anzi: pretendere) dal PPT sono similari a quelle assicurate dal PCT, che si è in breve tempo dimostrato un utilissimo strumento tecnico che oggi ci consente di interagire con il giudice e con le altre parti del processo, operando da remoto nella comodità dello studio professionale e riducendo notevolmente le necessità di accesso fisico alle cancellerie e agli altri uffici giudiziari.
2.1. L’avvocato e l’accesso telematico agli atti del fascicolo
Eccoci dunque alla primissima esigenza: l’accesso agli atti e documenti del fascicolo penale.
Non è chi non veda l’assoluta necessità di provvedere quanto prima all’avvento di una modalità di lavoro - che sia identica in tutta Italia - che consenta e garantisca un accesso telematico e da remoto al fascicolo e agli atti, risolvendo - come è certamente possibile fare - anche la questione legata al pagamento dei diritti sulle copie estratte (rectius: “scaricate”). È inutile chiarire che quel quid pluris di efficienza organizzativa sul piano del servizio reso agli utenti, apportata dall’informatizzazione di un ufficio giudiziario, influirebbe in modo significativo sulle capacità e possibilità dell’avvocato di assicurare un diritto di difesa che sia realmente adeguato. Tanto per fare un esempio banale, un ufficio giudiziario che sia in grado di rilasciare in tempo reale e per via telematica le copie di una corposa ordinanza di custodia cautelare (e documentazione posta a corredo) farà in modo che la difesa possa essere elaborata e delineata meglio di quanto usualmente accade oggi a causa dei tempi - a volte notevolmente dilatati - di richiesta e rilascio copie in forma analogica.
Naturalmente, quanto appena detto sul piano dell’accesso ad un fascicolo è solo un primissimo passo. Occorre bene intendersi sul fatto che il PPT rettamente ed esaustivamente inteso è - deve essere - ben altro.
Noi potremo dire di aver raggiunto uno stadio sufficiente di PPT dove la “parola” corrisponda realmente alla “cosa” quando avremo fatto in modo di sostituire con il mezzo telematico ogni momento di “trasmissione dati” (qualunque veste assumano: documenti cartacei, filmati, files, ecc.) che oggi si svolge nel mondo fisico (e il pensiero corre a pesanti carrelli spinti faticosamente a mano...).
Noi avremo un PPT degno di questo nome quando, ad esempio, un p.m. presenterà per via telematica una richiesta di misura cautelare al g.i.p., e quest’ultimo depositerà la sua ordinanza in un fascicolo telematico che successivamente - ad ordinanza eseguita, ovviamente - sarà accessibile da remoto al difensore, il quale potrà eventualmente impugnare il provvedimento con un’istanza di riesame, anch’essa depositata telematicamente, con conseguente trasmissione del fascicolo telematico al Tribunale della libertà, e via procedendo.
È evidente che non tutti i momenti del processo potranno essere sostituiti dalla telematica. Da un lato, alcuni “passaggi” nel mondo fisico resteranno ineliminabili (non si potrà certo “scannerizzare” un carico di cocaina sequestrata ad uno spacciatore o un coltello insanguinato trovato sul luogo del delitto, per non parlare della esecuzione di una misura cautelare personale o di un ordine di carcerazione…). Dall’altro, avremo sempre la necessità di conservare momenti di contraddittorio che si svolgano vis-à-vis in una sede fisica nel rispetto di quei principi di oralità e concentrazione che sempre dovranno contraddistinguere il rito penale: potremo decidere di avvalerci della tecnologia per sentire un teste a distanza ma non potremo mai sostituire un esame orale con domande inviate (e risposte ricevute) per via telematica.
PPT significa quindi, in primissima battuta, la possibilità di una completa discovery “telematica” da parte dell’avvocato e delle altre parti private del processo. Sarà un passo importante, ma non dovrà certo essere l’unico.
A tale riguardo, assai utile appare il paragone con l’esperienza statunitense, ove la digitalizzazione del processo penale è ormai una realtà. Ad esempio, il sistema consente alle parti di depositare elettronicamente a mezzo internet i documenti presso le Corti. L’accesso avviene con procedura di identificazione (login e password) cui può aggiungersi, a seconda dei casi, l’uso della firma digitale. Ogni aggiornamento in ordine ad un determinato procedimento provoca l’invio automatico di una email di notifica indirizzata a tutte le parti del processo: il sistema dunque assicura che tutte le parti processuali abbiano tempestiva notizia del deposito di ogni nuovo atto o documento. Per quanto riguarda la fase processuale/dibattimentale, l’informatizzazione è ancora più avanzata. Le aule di udienza sono infatti appositamente attrezzate in modo che tutta l’attività che ivi si svolga possa immediatamente tradursi in formato telematico. Ciò accade in quanto tutte le parti hanno a disposizione un PC fisso, mentre un grande schermo collegato consente a tutti di seguire le attività di udienza in maniera uniforme. Le dichiarazioni dei testimoni vengono visualizzate e trascritte in tempo reale su ciascun PC. In tal modo, ciascuna parte ha modo di ottenere contestualmente la trascrizione. I documenti vengono prodotti esclusivamente in formato pdf ed acquisiti contestualmente al fascicolo virtuale, dopo essere stati visionati pubblicamente sul maxi schermo [5].
2.2. L’avvocato e le notifiche del processo penale
Al netto di quanto precisato poco sopra, potremo affermare di aver realizzato un PPT realmente tale quando si sarà instaurata istituzionalmente - esattamente come accade nel civile - una “corrispondenza” che sia realmente biunivoca tra la parte pubblica e quella privata. Perché il PPT degno di questo nome è quello in cui l’avvocato può non soltanto accedere ma anche interagire per via telematica
Verrebbe da chiedere: quanto siamo vicini (o lontani) dalla possibilità, ad esempio, di poter presentare per via telematica una richiesta ex art. 335 c.p.p. [6]? O per l’invio telematico di una denuncia, una memoria, un’istanza, una lista testi, un’impugnazione, ecc.?
Insomma, la necessità è di accedere ad un processo telematico in maniera bidirezionale, di modo che sia possibile non solo ricevere atti ma anche poterli depositare esercitando i poteri e le facoltà previsti dalla legge processuale. Oggi purtroppo non è così: l’avvocato, rispetto alle innovazioni introdotte dalla legislazione e dalla prassi, è null’altro che un mero destinatario/recettore passivo di tecnologia ma non soggetto agente, come invece accade con il PCT.
Con ciò si giunge ad affrontare il dolente tema delle notifiche e del deposito degli atti (7).
Orbene, dovendo dirlo con la nettezza che il caso richiede, lo stato dell’arte è alquanto sconfortante. Oggi l’avvocato può ricevere tramite lo strumento della p.e.c. la notifica di atti del p.m. o del giudice (8) tramite il Sistema Notificazioni Telematiche (SNT) ([9]), con tutte le conseguenze - e responsabilità, come vedremo - del caso, ma non può assolutamente depositarli allo stesso modo.
Al riguardo, sulla scia della dottrina, converrà distinguere la questione delle notificazioni eseguibili dall’avvocato tramite p.e.c. da quella del deposito di atti e documenti utilizzando il medesimo strumento.
Sul primo versante, occorre innanzi tutto richiamare il disposto dell’art. 1 della legge n. 53 del 1994 («Facoltà di notificazioni di atti civili, amministrativi e stragiudiziali per gli avvocati e procuratori legali») [10], che, nell’ammettere la possibilità di notifica a mezzo posta elettronica certificata per gli avvocati, al contempo limita tale possibilità agli «atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale».
Sembrerebbe dunque escluso l’ambito penale, ma la disciplina va adesso coordinata con le altre norme vigenti in materia.
In ambito penale la posta elettronica certificata, quale strumento di trasmissione telematica delle comunicazioni e notificazioni, è stata introdotta dall’art. 4 d.l. 193/2009, conv. in legge n. 24 del 22.2.2010. Questa disposizione prevedeva che con decreti ministeriali avrebbero dovuto essere individuate «le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7.3.2005, n. 82, e successive modificazioni. Le vigenti regole tecniche del processo civile telematico continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore dei decreti di cui ai commi 1 e 2. Nel processo civile e nel processo penale, tutte le comunicazioni e notificazioni per via telematica si effettuano, mediante posta elettronica certificata, ai sensi del decreto legislativo 7.3.2005, n. 82, e successive modificazioni, del decreto del Presidente della Repubblica 11.2.2005, n. 68, e delle regole tecniche stabilite con i decreti previsti dal comma 1. Fino alla data di entrata in vigore dei predetti decreti, le notificazioni e le comunicazioni sono effettuate nei modi e nelle forme previste dalle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto».
Successivamente, con l’art. 16 D.L. n. 179 del 2012 e con la legge n. 228 del 2012, il legislatore ha disciplinato la materia dei “biglietti di cancelleria, comunicazioni e notificazioni per via telematica”. In particolare l’art. 16, comma 4, prevede l’utilizzo dello strumento p.e.c. per l’invio di “notificazioni a persona diversa dall’imputato a norma degli art. 148, comma 2-bis, 149, 150 e 151, comma 2, del codice di procedura penale. La relata di notificazione è redatta in forma automatica dal sistema informatico in dotazione alla cancelleria”.
Dunque, in forza delle disposizioni surrichiamate, il ricorso alla p.e.c. è oggi esteso alle notificazioni in ambito penale, con la necessaria precisazione che la notifica mediante tale strumento è ammessa soltanto nei confronti dei soggetti che non posseggano la qualità di indagato o di imputato (i quali ultimi dovranno pertanto essere informati con le forme ordinarie di notificazione): da ciò consegue che l’uso della p.e.c. per le notifiche sia dunque destinato a trovare principale applicazione nei confronti dei difensori.
In realtà, le ipotesi in cui l’avvocato debba procedere a notificazioni nel processo penale sono, a differenza dell’ambito civile, alquanto limitate. Si pensi all’obbligo di notifica dell’atto di costituzione di parte civile fuori udienza ex art. 78, co. II, c.p.p., o della notifica alla persona offesa della richiesta di revoca o sostituzione di misura cautelare ex art. 299, co. III, c.p.p.
Peraltro, proprio su tale ultimo punto si registra una delle poche aperture del Supremo Collegio in materia: Cass. pen., Sez. II, n. 6320, dep. 10.02.2017, ha infatti ritenuto che, nell’incidente de libertate acceso dalla richiesta ex art. 299 c.p.p. sia perfettamente «legittima la notifica, effettuata ai sensi dell’art. 299, comma 4 bis c.p.p., inviata tramite posta elettronica certificata, dal difensore dell’imputato a quello della persona offesa». Scorrendo la motivazione, viene chiarito che, essendo possibili destinatari di p.e.c. tutti i soggetti diversi dall’imputato ai sensi della legislazione vigente, ciò vale ad includere difensori, persone offese, parti civili, responsabili civili, civilmente obbligati per la pena pecuniaria. Ed allora - ritiene la Corte - tutti coloro che prendono parte ad un processo penale eccetto l’imputato possono ricevere notificazioni attraverso lo strumento p.e.c. in virtù del combinato disposto tra l’art. 152 c.p.p. (che autorizza le notifiche delle parti private mediante invio di copia dell’atto a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento) e l’art. 48 d.lgs. 82/2005 (codice dell’amministrazione digitale, CAD), che a sua volta equipara la trasmissione di un documento per via telematica alla notificazione per mezzo della posta. La conclusione cui giunge la sentenza è la seguente: «Nel contesto esaminato la lettera raccomandata ex art. 152 c.p.p. può essere sostituita dalla comunicazione a mezzo PEC, e tanto vale anche per l’ipotesi di notificazione riservata alla persona offesa ex art. 299 c.p.p.»
2.3. L’avvocato e il deposito di atti a mezzo p.e.c.
Diverso è invece il caso dei depositi, notevolmente più frequenti rispetto alle notifiche, nell’ambito dei quali l’atteggiamento giurisprudenziale sembra essere di ferma chiusura.
Tra le pronunzie più recenti, è stato negato l’uso della p.e.c. per proporre opposizione a decreto penale di condanna [11], per proporre ricorso per cassazione avverso un provvedimento di consegna ad autorità straniera di soggetto colpito da m.a.e. [12]; è stata altresì ritenuta “irricevibile” una memoria difensiva inviata via p.e.c. in un procedimento di impugnazione di misure cautelari pendente in Cassazione [13], e uguale sorte ha avuto un’istanza di rinvio per legittimo impedimento inviata col mezzo telematico [14] nonché un ricorso per cassazione - reputato inammissibile [15].
Ebbene, scorrendo le motivazioni delle sentenze gli argomenti a sostegno dell’indirizzo restrittivo del Supremo Collegio sembrano essere sostanzialmente i seguenti.
Da un lato, pur ammettendo l’equiparazione sul piano del valore legale della p.e.c. alla raccomandata con ricevuta di ritorno, come ormai risulta da molteplici disposizioni normative (in partic. art. 48 d.p.r. 82/2005, e succ. modif.), la Cassazione non la ritiene mezzo idoneo, in assenza di una norma ad hoc che espressamente consenta l’inoltro via p.e.c. degli atti di parte - come è invece per gli atti del processo civile.
Converrà qui ricordare il disposto del citato art. 48 CAD: «1. La trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avviene mediante la posta elettronica certificata ai sensi del d.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, o mediante altre soluzioni tecnologiche individuate con le Linee guida. / 2. La trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata ai sensi del comma 1, equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla notificazione per mezzo della posta. / 3. La data e l'ora di trasmissione e di ricezione di un documento informatico trasmesso ai sensi del comma 1 sono opponibili ai terzi se conformi alle disposizioni di cui al decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, ed alle relative regole tecniche, ovvero conformi alle Linee guida».
Il fatto che l’art. 16 d.l. 179/2012 (conv. in legge 221/2012) abbia espressamente introdotto la possibilità (poi divenuta obbligatorietà) delle comunicazioni e notificazioni a mezzo p.e.c nei confronti delle parti diverse dall’imputato viene utilizzato quale argomento a fortiori per negare tale possibilità in senso inverso (dalla parte privata a quella pubblica), stante appunto il silentio legis. Siffatta tassatività, a parere dei giudici di legittimità, non può essere superata o revocata in dubbio dalla equiparazione normativa ex art. 48 C.A.D. di cui si è detto, in virtù della clausola (“salvo che la legge disponga diversamente”) ivi contenuta a favore delle normative di settore.
In secondo luogo, secondo i supremi giudici, anche se il meccanismo di posta elettronica certificata è certamente in grado di assicurare la conoscenza legale dell’atto notificato, non è però anche in grado di «assicurare la sicura riferibilità del contenuto di quel documento informatico alla persona fisica che è legittimata ad adottarlo, assumendosene la responsabilità» [16].
Oltre al quadro normativo, la Corte evidenzia anche il dato tecnico: «l’inesistenza nel procedimento penale di un fascicolo telematico, che costituisce il necessario approdo dell’architettura digitale degli atti giudiziari, quale strumento di ricezione e raccolta in tempo reale degli atti del processo, accessibile e consultabile da tutte le parti, rende l’atto depositato a mezzo PEC di fatto anch’esso inesistente, necessitando per essere visibile in concreto dell’attività di stampa da parte della cancelleria che dovrebbe comunque inserire il documento nel fascicolo d’ufficio, di formazione e composizione esclusivamente cartacea» [17].
Pur considerando le molteplici implicazioni che comprensibilmente preoccupano gli ermellini, non sembrano tuttavia argomentazioni insormontabili [18].
Sul primo aspetto, pare evidente che la necessità di una puntuale formalizzazione delle modalità di comunicazione/notifica, con connessa disciplina sanzionatoria delle varie forme di irregolarità/invalidità, si renda assolutamente necessaria allorquando la “comunicazione” si dispieghi dalla parte pubblica/autorità giudiziaria verso la parte privata/difesa: invero, è un corollario dei principi conformativi l’intero sistema processuale penale, direttamente discendenti dall’art. 13 Cost.; che però siffatto impianto (di principio e normativo) debba necessariamente valere anche per la “direzione” inversa (dalla parte privata a quella pubblica) non sembra così autoevidente come vorrebbe la Cassazione.
In secondo luogo, è certamente vero che il C.A.D. faccia salve eventuali diverse disposizioni, ma qui il punto è proprio che… “diverse” disposizioni non vi sono, se non un silenzio legislativo che si vorrebbe “colmato” a contrario da una previsione regolativa del senso (comunicativo) inverso. Peraltro, in ordine alle impugnazioni è lo stesso art. 583 c.p.p. ad ammettere la modalità della trasmissione a mezzo raccomandata, e la forza cogente del combinato disposto di questa disposizione con il più volte citato art. 48 CAD non sembra possa essere subordinata a considerazioni di carattere pratico o tecnico, anche tenendo conto che una p.e.c. corredata di firma digitale offre le medesime (se non maggiori) garanzie di paternità dell’atto ivi allegato rispetto all’invio di un plico in busta chiusa spedito per raccomandata da un qualsiasi sportello postale (o ad una trasmissione a mezzo fax, come nel caso ormai ammesso di invio di lista testimoniale).
Si consideri anche che tale rigidità giurisprudenziale - che, come visto, ritiene irricevibili/inammissibili non solo atti “performativi” in cui si esplichi l’esercizio di un potere (impugnazioni, opposizioni a d.p., liste testi) ma anche atti “interlocutori” quali memorie, istanze di rinvio, ecc. - potrebbe avere conseguenze pratiche molto rilevanti, in ordine ad esempio alla messa in dubbio della legittimità di protocolli tra avvocatura e determinati uffici giudiziari, che si pongano nella meritoria ottica di aumentare l’efficientamento e la semplificazione mediante l’uso dello strumento telematico per notifiche o depositi effettuati dalla parte privata.
2.4. Occasioni perse e innovazioni da introdurre
Comunque la si pensi, si può concordare sul fatto che una p.e.c. utilizzabile solo in uscita per gli uffici giudiziari (e solo in ricezione per i difensori) sia stata una grossa occasione persa. Se, nella progettazione dell’architettura complessiva, si fosse immaginato il modo di consentire agli avvocati non solo di ricevere ma anche di trasmettere via p.e.c. atti agli uffici, oggi noi avremmo una fortissima semplificazione dell’interazione interno/esterno del mondo Giustizia, con notevoli benefici per tutti i soggetti interessati.
Certo, tutto ciò indubbiamente rende necessario, quale presupposto, un’organizzazione mirata in tal senso dell’ufficio ricevente, il quale dovrà esercitare un controllo costante, per poi acquisire, stampare, smistare. Le difficoltà indubbiamente ci sono, ma non sono certo tali da risultare insuperabili.
Insomma, nel chiudere la prima parte di questo scritto, la richiesta non può essere che quella di riuscire finalmente ad aprire una porta telematica di “ingresso” anche ai difensori in termini di accesso, notifiche e deposito di atti. Fino a quel momento, sarà assai difficile che per la parte privata il discorrere di PPT sia molto diverso da un mero esercizio di fantasia.
3. Un processo penale che sia telematico ma che rimanga “giusto”
La profonda differenza tra processo civile e processo penale impone la necessità di tener conto delle peculiarità di quest’ultimo laddove esso debba essere trasfuso in una architettura telematica.
Nel processo civile, telematico o meno che sia, vi sono due (o più) parti private a fronte di un’unica parte pubblica, in una cornice normativa retta tendenzialmente dal principio dispositivo e dell’istanza di parte (privata). Non così nel processo penale, laddove la parte privata (imputato) si trova essenzialmente “di fronte” due parti (p.m. e giudice) pubbliche.
Questa diversa struttura cambia notevolmente il disegno e l’assetto da dare al PPT rispetto al suo “gemello” civile. Qui siamo nel campo non delle scelte tecniche bensì delle scelte a carattere lato sensu politico. Sarà bene che, in un assetto che sta rapidamente modificandosi grazie ai ritrovati della tecnica, le esigenze di quest’ultima rimangano subordinate alle scelte di valore da assumersi nella sede che le è propria, quella politica. Mai come in questo settore occorre subordinare il mezzo al fine, soprattutto quando si è di fronte ad un mezzo tecnico.
Affrontando dunque il tema da questa visuale, è abbastanza scontato che da parte della magistratura si affermerà come prioritaria l’esigenza di assicurare la segretezza delle indagini e, dunque, la massima sicurezza nella trasmissione dei dati e delle informazioni tramite il mezzo telematico. E non v’è dubbio che di questa esigenza si dovrà tenere conto, se necessario anche adeguando il catalogo dei reati informatici (o, se si preferisce, dei reati contro l’amministrazione della giustizia) con specifiche previsioni - in termini di nuove fattispecie o di circostanze aggravanti - aventi ad oggetto le possibili forme di intrusione o aggressione reziarie di dati contenuti in fascicoli giudiziari telematici, facendo magari leva sul piano delle sanzioni accessorie e/o introducendo forme di responsabilità “amministrativa” sul modello del d.lgs. 231/2001 per aziende e internet providers, che saranno così costretti ad adeguare i propri protocolli interni di sicurezza ([19]).
Si tratta di preoccupazioni sacrosante. Ma non dovranno certo essere le uniche, giacché dovranno essere tenute ugualmente (se non maggiormente) presente anche altre esigenze.
Dobbiamo avere sempre ben presente la necessità di non indebolire in alcun modo la salvaguardia di principi irrinunziabili quali libertà e presunzione di innocenza, che si esprimono non solo nella necessità di esercitare una difesa nel merito, in termini di fatto e di diritto, ma anche e soprattutto nella verifica della legittimità delle forme dell’esercizio dell’azione penale e dell’attività giurisdizionale sotto il profilo della conformità dell’atto alla norma che lo regola. Il processo penale è anche e soprattutto questo: controllo del rispetto delle regole da parte dei vari apparati del sistema penale.
Non si tratta di una lotta di posizione in cui le esigenze della magistratura sono da una parte e quelle dell’avvocatura dall’altra, come in una sorta di tiro alla fune, ma di assumere l’idea che tutti i punti di vista sono necessari affinché un processo penale telematico rimanga un giusto processo penale telematico, che rimanga massimamente rispettoso di tutte le garanzie sostanziali e processuali attribuite all’imputato (e alle altre parti private), alla cui salvaguardia è deputata l’attività del giudice terzo.
3.1. Ruolo e funzioni dell’avvocato: dall’analogico al digitale
Il processo penale è un processo ricco di scadenze, termini, preclusioni. Come ogni altra forma di processo, del resto. E però il rito penale contiene peculiarità uniche rispetto alle altre forme processuali: vi sono infatti, ad esempio, termini la cui decorrenza è collegata ad attività tutte interne alla parte pubblica - un insieme variabile a seconda dei casi, che nella sua massima ampiezza può eventualmente giungere a ricomprendere il circuito “p.g./procura/g.i.p.”. Si pensi alla iscrizione di un soggetto nel registro degli indagati, oppure al deposito di un verbale di sequestro di cui venga chiesta la convalida: si tratta di attività la cui veridicità sotto il profilo temporale è garantita, oggi, dall’apposizione di un timbro che fa fede fino a prova contraria, che però solo in un momento successivo diverrà ostensibile alla parte privata.
Ora, è evidente che fra i doveri dell’avvocato rientri anche quello di operare una verifica sul momento in cui tali attività siano state svolte, atteso che da tale dato temporale decorrono termini la cui inosservanza può avere conseguenze notevoli. Ed allora, se si vuole - come si deve - salvaguardare quei diritti e quelle garanzie, si dovrà necessariamente immaginare e costruire un processo telematico che renda (in maniera immediata o differita, a seconda delle esigenze procedimentali) ostensibili anche agli avvocati atti ed eventi cui sono collegate conseguenze giuridicamente rilevanti. Oggi il difensore può compiere queste verifiche abbastanza agevolmente, controllando l’appunto scritto in calce dal segretario o del cancelliere, corredato di timbro e firma. Ma domani? Ecco allora l’assoluta necessità che il PPT fornisca le stesse garanzie di verificabilità e (soprattutto) veridicità rispetto ad un’annotazione che avrà natura non più analogica ma digitale - che sia l’iscrizione di un indagato o il deposito di una richiesta di proroga di intercettazioni in corso [20].
L’avvocatura deve pertanto rivendicare con forza un ruolo attivo e significativo nella elaborazione del disegno del PPT: lo impone la necessità di introdurre un punto di vista che rappresenti le esigenze di controllo e verifica del rispetto delle regole da parte delle parti pubbliche del processo penale. Sarà dunque necessario che, nella definizione dell’architettura di ciò che sarà, anche l’avvocatura sia fatta partecipe, non solo per esprimere dei desiderata sulla facoltà di notifiche e depositi per via telematica, ma soprattutto per offrire una diversa visuale rispetto alle esigenze - legittime e rispettabilissime - che presumibilmente verranno sollevate dalla magistratura.
In sintesi: dobbiamo assolutamente evitare che l’introduzione di potenti innovazioni tecnologiche sortisca in qualche modo l’effetto (magari involontario!) di “bypassare” le garanzie del giusto processo. Come avvertono i massimi esperti del fenomeno informatico, una caratteristica precipua del mezzo in questione è quella di palesare gli aspetti benefici ma al tempo stesso di occultarne i pericoli.
3.2. La telematica e le sue insidie: tre sentenze
Per chiarire meglio queste considerazioni, sarà forse il caso di fare qualche esempio, riportando alcuni recenti casi affrontati dalla giurisprudenza di legittimità.
Il primo caso è quello deciso da Cass. pen., sez. III, n. 54141, dep. 1.12.2017 ([21]). Vertendosi in un procedimento cautelare reale, il difensore si doleva della mancata notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale di discussione dell’istanza di riesame (in violazione dunque dell’art. 324, co. VI, c.p.p.). Dagli atti era emerso che le notifiche dell’avviso al difensore fossero state effettuate tramite p.e.c. con il seguente esito: “mancata ricezione”, e che la notifica fosse stata operata mediante deposito in cancelleria; da successivi accertamenti era emerso che la “mancata ricezione” fosse da attribuirsi al fatto che la casella p.e.c. del destinatario fosse “piena”, il che aveva comportato il rifiuto del messaggio da parte del sistema.
Ciò accertato, la Corte ricorda come il d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, nel disciplinare i “requisiti della casella di PEC del soggetto abilitato esterno”, imponga una serie di obblighi finalizzati a garantire il corretto funzionamento della casella e, quindi, la regolare ricezione dei messaggi di posta elettronica [22], fra i quali quello di dotarsi di un servizio di avviso dell’imminente saturazione della casella e comunque di verifica dell’effettiva disponibilità dello spazio disposizione. In altre parole, è onere del difensore assicurarsi che la casella p.e.c. abbia spazio sufficiente ad accogliere le notifiche e le comunicazioni dirette al professionista. Viceversa, nel caso in cui l’avvocato non si doti dei necessari strumenti informatici ovvero non ne verifichi l’efficienza - venendo così meno agli obblighi impostigli dal citato d.m. 44/2011 -, sarà ad esso imputabile la mancata consegna, anche ai sensi di quanto previsto dal sesto comma dell’art. 16 del già citato d.l. n. 179/2012 [23]. Pertanto, nel caso in esame la Corte rigettava la questione sollevata dal difensore ritenendo regolarmente perfezionata la notifica dell’avviso di fissazione udienza in cancelleria a seguito della “mancata ricezione” della p.e.c.
Questo caso dimostra in modo evidente come la mera trasposizione nel processo penale di norme e istituti telematico/processuali previsti e disegnati per il settore civile - dove ben diverse sono le discipline e le implicazioni, anche sul piano dei requisiti della presunzione di conoscenza/conoscibilità degli atti - possa comportare un obiettivo indebolimento dei diritti e delle garanzie, addossando al difensore obblighi di carattere essenzialmente tecnico (nel senso: informatico) che egli non è (o potrebbe non essere) in condizioni di rispettare, non avendo le cognizioni necessarie per poter operare direttamente le verifiche del caso e dovendo necessariamente affidarsi ad un soggetto (informatico) terzo. Invero, gli uffici giudiziari beneficiano di un’assistenza tecnica, efficiente o meno che sia, continua e di default, mentre il professionista non ha tale possibilità. In altre parole: la normativa obbliga i professionisti a dotarsi di un “sistema di allarme” per la propria casella p.e.c.; bene, ma come si fa a verificare se l’installazione sia corretta o risponda ai requisiti del d.m. 44/2011? E, in caso di disfunzioni derivanti da un’erronea installazione, tale per cui un atto (magari un ordine di esecuzione per la carcerazione) inviato alla p.e.c. di uno studio legale venga “respinto”, che strumenti avrà il professionista per “riparare” il danno subìto dal suo assistito?
Ecco, dovremmo avere ben presente la preoccupazione di evitare, per quanto possibile, che dai sistemi informatizzati possa in qualche modo discendere una responsabilità oggettiva da (mal)funzionamento che venga addossata alla difesa, e dunque al cittadino.
Ben diverso - e anche alquanto rasserenante, per quanto si dirà - è il tenore della seconda decisione che sembra utile riportare in questa sede.
Si tratta di Cass. pen., sez. III, n. 57105, dep. 1.12.2017. La questione verteva sulla notifica all’imputato - rimasto contumace - del decreto di citazione nel giudizio di appello. Era infatti accaduto che la notifica fosse stata eseguita - tramite p.e.c. - presso lo studio del difensore nonostante l’imputato avesse eletto domicilio presso la propria residenza e il difensore avesse espressamente dichiarato di non accettare le notifiche, ai sensi dell’art. 157 comma 8-bis, c.p.p., al momento dell’accettazione dell’incarico defensionale. In udienza la difesa aveva tempestivamente eccepito il vizio di notifica, ma la corte d’appello aveva respinto l’eccezione, in base al rilievo che l’eventuale vizio derivante dalla notifica presso il difensore dell’imputato e non presso il domicilio da questo eletto o dichiarato fosse comunque suscettibile di essere sanato allorché risultasse provata la conoscenza o conoscibilità dell’atto dal suo destinatario e non gli fosse stato per tale motivo impedito di diritto di difesa [24].
La Cassazione non accoglie tale impostazione, con una motivazione ampia e articolata. Ai nostri fini, pare di grande interesse esaminare in particolare il punto in cui la S.C. si ponga il problema se, a seguito dell’apertura del messaggio inviato con p.e.c., la dichiarazione del difensore di ricusare la ricezione di comunicazioni e notifiche destinate al suo assistito possa ritenersi revocata per facta concludentia, come si ritiene accada nei casi di notifica eseguita brevi manu laddove il difensore abbia accettato l’atto destinato al suo assistito senza nulla opporre [25]. La Corte dà risposta negativa a tale domanda, svolgendo un percorso argomentativo ampiamente condivisibile, a partire sin dalle premesse.
Secondo la sentenza in commento, infatti, la questione della revoca dell’iniziale dichiarazione di ricusazione delle notifiche da parte del difensore può porsi solo nel caso in cui il destinatario dell’atto, cioè il difensore, sia stato nella materiale possibilità di optare fra il ricevere l’atto oppure il rifiutarlo formalmente. Ma questo - afferma la Corte - non accade e non può accadere nell’ipotesi di notifica tramite posta elettronica. In tal caso, infatti, «le concrete modalità di trasmissione dell’atto precludono al destinatario di esso di esercitare una scelta fra il riceverlo ed il rifiutarlo, posto che lo stesso viene automaticamente recapitato presso l’indirizzo di posta elettronica del destinatario (il quale può decidere se aprire o meno il messaggio ma non se riceverlo o meno essendo la fase della ricezione gestita in termini di automatismi informatici)»; la conseguenza ultima è allora nel senso di «escludersi la possibilità di desumere la tacita rinunzia alla facoltà precedentemente esercitata sol perché l’atto è stato materialmente ricevuto».
Si tratta di una decisione da valutare in termini estremamente positivi, giacché perviene alle conclusioni di cui si è riferito all’esito di una notevole comprensione nonché corretta interpretazione dei meccanismi di funzionamento dei sistemi telematici. Nello stabilire che la ricezione di una p.e.c., in quanto atto non espressivo di alcuna volontà, non possa valere quale tacita revoca di una dichiarazione precedentemente resa, la Corte ha giustamente “ammonito” dall’evitare di attribuire ad un fatto obiettivamente neutro quale l’apertura di un messaggio di posta elettronica una valenza “negoziale” processualmente rilevante (revoca tacita di precedente dichiarazione). Ecco allora un terreno in cui appare essenziale l’apporto dei cultori dell’informatica applicata al diritto: con lo sviluppo degli strumenti telematici applicati alle varie forme di rito processuale, assumerà crescente rilevanza stabilire quale valore giuridico si possa/debba attribuire a “gesti” apparentemente neutri quali l’apertura di un messaggio di posta, il “click” ad un web link sconosciuto, ecc.
Il terzo caso è quello deciso da Cass. pen., sez. III, n. 56280, dep. 18.12.2017. La questione portata all’attenzione dei supremi giudici era in sintesi la seguente: entrambi i difensori di fiducia dell’imputato avevano ricevuto a mezzo p.e.c. la notifica dell’udienza del processo di appello per una certa data (nella specie: 8 luglio 2016), poi rivelatasi erronea in quanto il processo si era celebrato e definito in data diversa e anteriore (22 aprile 2016) ovviamente in assenza dei medesimi e con la nomina di difensore d’ufficio ex art. 97, co. IV., c.p.p.; a riprova di quanto lamentato, si produceva in copia una comunicazione sottoscritta dal cancelliere e diretta ai difensori indicante la data errata dell’udienza di appello, ed una ricevuta della posta elettronica certificata di uno dei due avvocati.
La Corte ha respinto la questione dichiarando il ricorso inammissibile sulla base di varie considerazioni in punto di fatto [26], non evitando tuttavia di affrontare il punto nodale della vicenda, ossia il problema del «valore legale degli allegati al messaggio di posta elettronica certificata» (punto 7 della motivazione), ed in particolare come risolvere casi in cui «il destinatario della notificazione a mezzo p.e.c. proveniente da un ufficio giudiziario deduca che il documento allegato abbia contenuto diverso da quello che si assume essergli stato trasmesso ovvero - circostanze del tutto analoghe - che gli sia stato recapitato un atto completamente diverso ovvero un file corrotto o comunque non leggibile» (punto 9 della motivazione).
Nel rispondere al quesito, la Corte svolge alcune precisazioni preliminari di carattere tecnico-informatico, operando una distinzione tra la posta certificata “ordinaria” e quella utilizzata per le notifiche degli atti processuali mediante utilizzo del “Sistema Notificazioni Telematiche” (SNT: vedi supra) da parte di soggetti all’uopo abilitati. Alla distinzione viene attribuito significativo rilievo giacché, mentre la prima modalità non è in grado di certificare il contenuto dei messaggi e di eventuali allegati, la seconda è invece in grado di fornire tale garanzia. Pertanto, dopo aver provveduto a descrivere nei dettagli la complessa procedura di notifica mediante SNT, la Corte ritiene che tale modalità di acquisizione e notificazione, pur se inevitabilmente esposta all’errore umano, offra «adeguate garanzie di affidabilità, che non possono essere certo superate attraverso la mera deduzione della incompletezza o non corrispondenza all'originale scansionato, dal momento che, almeno per quanto è dato rilevare dalla richiamata documentazione tecnica, sembra comunque possibile procedere ad una verifica a posteriori, presso l'ufficio che ha proceduto alla notificazione dell'atto, delle operazioni compiute e dei contenuti del messaggio e degli allegati» (punto 10 della motivazione).
Come si vede, la S.C. giunge alla decisione di rigetto non perché abbia ritenuto la questione in sé infondata, ma in quanto non sufficientemente supportata dalla documentazione prodotta a corredo. In altre parole, per i supremi giudici sarebbe stato onere della difesa, una volta scoperto l’errore, effettuare le opportune verifiche presso la cancelleria interessata ed ottenere le necessarie attestazioni riguardo al documento scansionato, acquisito al sistema e successivamente notificato a mezzo p.e.c. (punto 11 della motivazione).
La lettura di questa pronunzia stimola considerazioni diverse ed ulteriori rispetto alle precedenti, tralasciando qui ogni approfondita valutazione nei confronti di una forse eccessiva rigidità che sembrerebbe scontrarsi con la natura officiosa delle verifiche da compiersi da parte del giudicante su una lamentata violazione del disposto di cui all’art. 179, co. I c.p.p.: tenendo conto delle concrete peculiarità del caso, ben poteva la Corte prendere in considerazione l’ipotesi di sospendere l’udienza al fine di far compiere i necessari accertamenti presso la cancelleria del giudice d’appello.
Proprio quest’ultima osservazione dimostra quanto l’utilizzo di applicazioni telematiche, da cui vengano fatti discendere effetti giuridici di indubbio rilievo, renda massimamente opportuna l’introduzione nel tessuto normativo del nostro codice di rito di norme di garanzia che, nel disciplinare le modalità di risoluzione di questioni giuridiche asseritamente connesse ad un errato o cattivo funzionamento delle predette applicazioni, impongano espressamente al giudice di svolgere ex officio le verifiche necessarie, quanto meno nei casi in cui siano in discussione il rispetto di diritti o garanzie “coperti” da sanzioni processuali, e comunque in tutti i casi in cui le suddette verifiche possano agevolmente svolgersi in modo celere e senza comportare un eccessivo rallentamento per la ragionevole durata della sequenza processuale.
4. Conclusioni: una comunità giuridica che sia coinvolta e consapevole
Gli esempi fornitici dalle pronunzie sopra esaminate ci offrono senz’altro una serie di spunti in ordine alle modalità con le quali la comunità giuridica dovrebbe interpretare l’informatizzazione, da considerare sempre come mezzo e mai come fine. Tracce che dovrebbero guidare la strada per la costruzione consapevole di un PPT in cui le esigenze di efficientamento del sistema vengano ad essere subordinate alle finalità del giusto processo e del rispetto delle garanzie. Ma questo potrà accadere se, accanto al PPT, noi costruiremo una comunità giuridica che sappia correttamente valutare gli effetti dei comportamenti connessi all’informatizzazione, avendo ben contezza dei principi logici e dei fattori pratici che regolano il concreto funzionamento di quest’ultima. Come si avverte efficacemente in dottrina «vi è un importante elemento unificante in tutte le questioni giuridiche a contenuto informatico: il loro studio presuppone la conoscenza dei metodi e delle tecnologie dell’informatica. Tale conoscenza è precondizione necessaria per poter correttamente interpretare le norme giuridiche. Per esempio, solo chi sappia che cos’è un programma informatico e conosca la differenza tra codice oggetto e codice sorgente può intendere la disciplina del software, solo chi conosca il funzionamento degli indirizzi di internet può intendere la disciplina dei nomi di dominio, solo chi conosca le tecniche per attaccare sistemi informatici e le relative difese può affrontare il tema degli accessi abusivi» [27].
Per tutte queste ragioni sarà fondamentale che il ceto dei giuristi nella sua interezza venga fattivamente coinvolto nel disegno e nella realizzazione delle nuove applicazioni telematiche nel rito penale nonché nella predisposizione di quelle modifiche all’impianto codicistico che si rendano consequenzialmente necessarie. Un po’ come accadde agli albori dell’informatica giuridica in Italia, del resto. Nella seconda metà degli anni ‘60, infatti, furono autorevoli esponenti della magistratura come Vittorio Novelli e Renato Borruso ad avere la felice intuizione di ricorrere all’informatica per memorizzare e ricercare le massime della Cassazione, dando così vita al sistema Italgiure. Essi, però, non si limitarono a delegare ad un’azienda informatica la progettazione e lo sviluppo del sistema, ma si preoccuparono di curare il progetto direttamente, seguendone in prima persona anche tutte le fasi successive di perfezionamento, facendo in modo che il sistema fosse adattato alle specifiche esigenze del giurista e non il contrario [28].
In conclusione, non sembra fuori luogo richiamare in questa sede un’immagine molto efficace che appartiene all’illustre giurista tedesco Winfried Hassemer.
In un testo di alcuni anni fa [29], Hassemer afferma che lo Stato, sotto l’aspetto della giustizia penale, è una sorta di pericoloso animale da guardia, beninteso necessario per evitare che dei malintenzionati entrino nel nostro giardino e lo danneggino. E però, proprio perché molto pericoloso, non possiamo permetterci di lasciarlo libero di scorrazzare per il giardino. Dunque - ammonisce Hassemer - è bene che questo animale così pericoloso sia tenuto ben legato alla catena, per evitare il rischio che faccia danni ancora peggiori. Fin qui l’illustre giurista.
Riallacciandoci a questa immagine, non possiamo non notare che gli “anelli” di questa “catena” sono per l’appunto i diritti e le garanzie, con tutto il corredo di norme e istituti processuali (invalidità, nullità, inutilizzabilità, termini, preclusioni, eccezioni, ecc.). E, siccome la forza di una catena è pari alla forza del suo anello più debole, basta che un solo anello si indebolisca perché si indebolisca tutta la catena. E basta che un solo anello si spezzi per spezzare tutta la catena. Orbene, ogniqualvolta vi sia un procedimento penale questa “catena” di cui si discorre finisce con l’entrare inevitabilmente in tensione. Inevitabilmente.
Ecco perché noi - noi giuristi, noi cittadini - dobbiamo costantemente vigilare e tenere d’occhio la “catena”. Ma questo noi potremo farlo soltanto se gli anelli (e le possibili crepe) siano sempre perfettamente visibili, trasparenti e accessibili a tutti - se vogliamo che la giustizia venga davvero «amministrata in nome del popolo», come sta scritto nelle aule dei tribunali, nelle sentenze, nella nostra Carta fondamentale.
Dunque, stiamo attenti. Stiamo attenti a che l’introduzione - necessaria e auspicabile, lo si è già rilevato - degli strumenti che la tecnica ci offre non produca l’effetto di rendere meno accessibili o di opacizzare uno o più anelli di quella “catena”. Tutti vogliamo vivere in un giardino che sia ben tenuto e che sia sicuro, se del caso anche utilizzando le tecnologie più avanzate, se queste contribuiscono a renderlo ancora più sicuro. Ma non smettiamo mai, neppure per un istante, di perdere di vista la “catena”.
([1]) Testo riveduto e corretto dell’intervento svolto nell’ambito del Corso “La telematica nel processo penale” organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura il 7-9 febbraio 2018 nella sede di Villa Castel Pulci a Scandicci. Una prima versione di questo scritto è apparsa in www.discrimen.it.
([2]) A differenza del PCT (vedi appresso), la produzione dottrinale sui vari (pochi) aspetti in cui oggi si articola la digitalizzazione del processo penale è quantitativamente assai scarsa: si vedano F.P. Micozzi, G.B. Gallus e G. Vaciago, Processo penale telematico, in G. Cassano e F. Pappalardo (a cura di), Prontuario del processo telematico, Milano, 2016, pp. 181 ss.; I.V. Felcher, Il processo penale telematico, in G. Ziccardi e P. Ferri (a cura di), Tecnologia e diritto. Fondamenti d’informatica per il giurista, Milano, 2017, pp. 185 ss.; M.A. Senor, Processo penale telematico, i passi dopo la sperimentazione, in http://www.forumpa.it/pa-digitale/giustizia-processo-penale-telematico-a-che-punto-siamo-e-i-limiti-della-normativa.
([3]) Nella ormai smisurata produzione dottrinale sul PCT si vedano: M. Sala, Il processo telematico. Tipi e differenze, Torino, 2017; N. Gargano e L. Sileni, Il Codice del PCT commentato, Milano 2017; F. Corona e M. Iaselli, Il processo civile telematico, Pisa, 2015; E.M. Forner, Procedura civile digitale, Milano, 2015. I cultori della materia avvertono costantemente di non confondere il “diritto dell’informatica” (ossia la branca ordinamentale che disciplina i vari aspetti in cui si manifesta l’informatizzazione nella nostra vita pubblica e privata) con l’”informatica giuridica” (ossia lo studio delle possibilità di utilizzo dell’informatica nelle attività giuridiche sul piano comportamentistico-previsionale, informativo-cognitivo e logico-decisionale): si vedano G. Taddei Elmi (a cura di), Corso di informatica giuridica, Napoli, IV ed., 2016; G. Sartor, L’informatica giuridica e le tecnologie dell’informazione. Corso d’informatica giuridica, Torino, III ed., 2016.
([4]) Con l’introduzione del SICP (Sistema Informativo della Cognizione Penale) - entrato a pieno regime nel maggio 2016 - si è ottenuta l’uniformazione dei registri delle cancellerie e segreterie penali in un unico registro informatico, in luogo delle versioni del precedente applicativo Re.Ge. (che presentava problemi di vario genere); ciò comporta l’indubbio vantaggio di poter utilizzare un registro dei procedimenti penali identico per tutto il territorio nazionale, con una gestione uniforme dei dati e una conseguente utilizzabilità in tutto il sistema Giustizia. Il TIAP (Trattamento Informatico Atti Processuali) è un applicativo per la gestione informatica del fascicolo con possibilità di integrare i contenuti nelle varie fasi processuali con atti, documenti e supporti multimediali; l’obiettivo è pervenire alla digitalizzazione del fascicolo attraverso la scannerizzazione, acquisizione di file digitali, classificazione, codifica e indicizzazione dei fascicoli con possibilità di ricerca, consultazione, esportazione e stampa di interi fascicoli e/o di singoli atti. Per i necessari approfondimenti si rinvia ai documenti pubblicati sul sito web del CSM.
([5]) Per queste e altre utili informazioni si veda A. Cerreti, Il processo penale telematico. Esperienza italiana e americana a confronto, in http://www.unicost.eu/media/33721/contributo_cerreto.pdf.
([6]) In realtà, su questo specifico versante qualcosa si muove. È infatti in corso di attivazione un nuovo servizio telematico “p@ss” per il rilascio del certificato ex art. 335 c.p.p. Una volta a regime, il difensore, tramite il Portale Servizi Telematici (PST) del Ministero, potrà ricevere una comunicazione al proprio indirizzo p.e.c. censito sul ReGIndE con le indicazioni per scaricare, previa autenticazione e dopo le verifiche del caso, il certificato richiesto.
([7]) Per un’ampia e recente rassegna si veda L’utilizzo della posta elettronica certificata nel processo penale, relazione tematica del Massimario della Corte di Cassazione, red. M.C. Amoroso, reperibile in https://www.portaledelmassimario.ipzs.it/frontoffice/studiPubblicazioni.do.
([8]) In ambito penale la posta elettronica certificata, quale strumento di trasmissione telematica delle comunicazioni e notificazioni, è stata introdotta dall’art. 4 d.l. 193/2009, conv. in legge n. 24 del 22.2.2010. In particolare, l’art. 4 citato prevedeva che con decreti ministeriali avrebbero dovuto essere individuate «le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7.3.2005, n. 82, e successive modificazioni. Le vigenti regole tecniche del processo civile telematico continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore dei decreti di cui ai commi 1 e 2. Nel processo civile e nel processo penale, tutte le comunicazioni e notificazioni per via telematica si effettuano, mediante posta elettronica certificata, ai sensi del decreto legislativo 7.3.2005, n. 82, e successive modificazioni, del decreto del Presidente della Repubblica 11.2.2005, n. 68, e delle regole tecniche stabilite con i decreti previsti dal comma 1. Fino alla data di entrata in vigore dei predetti decreti, le notificazioni e le comunicazioni sono effettuate nei modi e nelle forme previste dalle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto». Successivamente, con l’art. 16 D.L. n. 179 del 2012 e con la legge n. 228 del 2012, il legislatore ha disciplinato la materia dei “biglietti di cancelleria, comunicazioni e notificazioni per via telematica”. In particolare l’art. 16, comma 4, prevede l’utilizzo dello strumento p.e.c. per l’invio di “notificazioni a persona diversa dall’imputato a norma degli art. 148, comma 2-bis, 149, 150 e 151, comma 2, del codice di procedura penale. La relata di notificazione è redatta in forma automatica dal sistema informatico in dotazione alla cancelleria”. Dunque, in forza delle disposizioni surrichiamate, il ricorso alla p.e.c. è oggi esteso alle notificazioni in ambito penale, con la necessaria precisazione che la notifica mediante tale strumento è ammessa soltanto nei confronti dei soggetti che non posseggano la qualità di indagato o di imputato (i quali ultimi dovranno pertanto essere informati con le forme ordinarie di notificazione): da ciò consegue che l’uso della p.e.c. per le notifiche sia dunque destinato a trovare principale applicazione nei confronti dei difensori.
([9]) Con una circolare ministeriale dell’11 dicembre 2014, la Direzione Generale per i Sistemi Informativi Automatizzati (DGSIA) ha dato avvio al Sistema Notificazioni Telematiche in ambito penale (SNT) al fine di consentire agli uffici giudiziari l’invio delle notificazioni tramite p.e.c. Il sistema è configurato e disponibile per tutte le tipologie di ufficio giudiziario. Oltre a consentire l’invio degli atti tramite p.e.c. ai destinatari selezionabili dall’albo degli indirizzi telematici, esso permette il monitoraggio delle notifiche inviate e la individuazione dei casi in cui si renda necessario procedere attraverso deposito in cancelleria. Il sistema permette inoltre l’invio di comunicazioni e la trasmissione di documenti ad altri soggetti. SNT è installato sui server distrettuali ed è accessibile via web.
([10]) «L’avvocato o il procuratore legale, munito di procura alle liti a norma dell’art. 83 del codice di procedura civile e della autorizzazione del consiglio dell’ordine nel cui albo è iscritto a norma dell’art. 7 della presente legge, può eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale a mezzo del servizio postale, secondo le modalità previste dalla legge 20 novembre 1982, n. 890, salvo che l’autorità giudiziaria disponga che la notifica sia eseguita personalmente. Quando ricorrono i requisiti di cui al periodo precedente, fatta eccezione per l’autorizzazione del consiglio dell’ordine, la notificazione degli atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale può essere eseguita a mezzo di posta elettronica certificata».
([11]) Cass. pen., Sez. III, n. 50932, dep. 8.11.2017.
([12]) Cass. pen., Sez. VI, n. 55444, dep. 12.12.2017.
([13]) Cass. pen., Sez. II, n. 31336, dep. 22.06.2017. Negli stessi termini quanto al giudizio di merito cfr. Cass. pen., Sez. III, n. 1568, dep. 16.01.2018.
([14]) Cass. pen., Sez. II, n. 31314, dep. 22.06.2017; in termini: Cass. pen., Sez. VI, n. 5205, dep. 2.02.2018. Per un’analoga decisione su istanza di differimento di udienza camerale fissata a seguito di opposizione alla richiesta di archiviazione, si veda Cass. pen., Sez. II, n. 51665, dep. 13.11.2017.
([15]) Cass. pen., Sez. IV, n. 53561, dep. 27.11.2017.
([16]) Così, ad esempio, Cass. pen., Sez. VI, n. 55444, dep. 12.12.2017, cit.
([17]) Cfr. la già citata Cass. pen., Sez. III, n. 50932, dep. 8.11.2017 (corsivi miei).
([18]) In dottrina aderiscono all’orientamento restrittivo della Cassazione F.P. Micozzi, G.B. Gallus e G. Vaciago, Processo penale telematico, cit., p. 204. In senso opposto invece G. Caputo, Osservazioni a Cass. pen., n. 32243, 26 giugno 2015, in “Cassazione penale”, 2016, p. 49, facendo leva sul combinato disposto tra art. 48 CAD e art. 152 c.p.p.
([19]) Peraltro, in materia di fattispecie previste dal citato d.lgs. 231/2001 si tratterebbe soltanto di operare un mero adeguamento, posto che l’art. 24-bis prevede già un’attribuzione di responsabilità per “delitti informatici e trattamento illecito di dati”.
([20]) Per avere una prima idea della rilevanza della questione, si veda la recente Cass. pen., sez. V, n. 21710, dep. 16.05.2018: in tema di impugnazione cautelare, qualora la trasmissione degli atti al tribunale del riesame avvenga a mezzo p.e.c., il termine di dieci giorni di cui all'art. 311, comma 5-bis, c.p.p., previsto per l’adozione del provvedimento a pena di inefficacia dell’ordinanza impugnata, non decorre dal momento della mera ricezione della p.e.c. da parte dell'ufficio giudiziario ricevente, ma da quello dell’effettiva e reale percezione e conoscenza degli atti, dimostrata dalla stampa della p.e.c. e dalla verifica della integralità degli atti trasmessi. Su tale pronunzia, L. Giordano, Trasmissione di atti tra uffici giudiziari in allegato a mezzo Pec: qual è la data di ricezione? in www.ilpenalista.it (11.07.2018).
([21]) Per un commento (adesivo) alla sentenza si veda M. Scarabello, Casella Pec del destinatario “piena”: conseguenze derivanti dall’impossibilità di ricevere la notificazione, in www.ilpenalista.it (23.01.2018).
([22]) Ai sensi dell’art. 20 il “soggetto abilitato esterno” - ossia, in questo caso, il difensore - «è tenuto a dotare il terminale informatico utilizzato di software idoneo a verificare l’assenza di virus informatici per ogni messaggio in arrivo e in partenza e di software antispam idoneo a prevenire la trasmissione di messaggi di posta elettronica indesiderati» (comma 2); «è tenuto a conservare, con ogni mezzo idoneo, le ricevute di avvenuta consegna dei messaggi trasmessi al dominio giustizia» (comma 3); è tenuto a munirsi di una casella di posta elettronica certificata che «deve disporre di uno spazio disco minimo definito nelle specifiche tecniche di cui all’art. 34» (comma 4); «è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare l’effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione» (comma 5).
([23]) «Le notificazioni e comunicazioni ai soggetti per i quali la legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, che non hanno provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. Le stesse modalità si adottano nelle ipotesi di mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario».
([24]) Secondo l’orientamento prevalente, si tratta di una nullità a regime intermedio. Peraltro, vale segnalare come, a seguito di un contrasto sorto in seno al supremo organo di legittimità in ordine alla possibilità di sanatoria di una citazione a giudizio notificata erroneamente al difensore anziché all’imputato nel domicilio eletto, qualora il difensore, nel dedurre la nullità, non alleghi circostanze impeditive della conoscenza dell’atto da parte dell’imputato, le Sezioni Unite abbiano recentemente risolto la questione dando risposta negativa: «In caso di dichiarazione o di elezione di domicilio dell’imputato, la notificazione della citazione a giudizio mediante consegna al difensore di fiducia anziché presso il domicilio dichiarato o eletto, produce una nullità a regime intermedio, che non è sanata dalla mancata allegazione da parte del difensore di circostanze impeditive della conoscenza dell’atto da parte dell’imputato». (Cass. pen., SS.UU., n. 58120, dep. 29.12.2017).
([25]) In tali casi, infatti, la giurisprudenza ritiene tacitamente revocata la dichiarazione del difensore effettuata ai sensi del citato comma 8-bis, con la conseguenza che la notifica così operata si considera perfettamente valida: da ultimo, Cass. pen., Sez. III, n. 41560, dep. 19.07.2017.
([26]) Innanzi tutto, dall’esame degli atti risultava che nella notifica dell’avviso all’imputato a mani proprie fosse indicata la data corretta dell’udienza (22 aprile 2016). La sentenza rileva poi come vi fossero altri elementi “sintomatici” della regolarità della notifica: la circostanza che nel verbale di udienza la corte di appello avesse dato atto, preliminarmente, di aver verificato la regolarità delle notifiche senza che vi fosse stata alcuna osservazione sul punto da parte del difensore (d’ufficio) presente; il rinvenimento nel fascicolo di più copie dell’avviso ai difensori di cui una - priva di sottoscrizione - recante una data (8 luglio 2016), corretta a penna il 22 aprile 2016; la presenza in atti di due attestazioni di verifica della notifica a mezzo p.e.c. ai due difensori, effettuate in date diverse e prossime all’udienza del 22 aprile 2016 (ed alla data di notifica dell’avviso all’imputato). Tutti indicatori che - a parere della Corte - non sarebbero suscettibili di venir vanificati dalla documentazione prodotta dal ricorrente (una stampa dell’archivio della casella di posta elettronica di uno soltanto dei due difensori e dell’avviso di udienza che si assumeva esservi stato allegato) che si è reputata incompleta e insufficiente per sorreggere la questione della (in)validità della notificazione dell’avviso.
([27]) G. Sartor, L’informatica giuridica e le tecnologie dell’informazione, cit., p. 28.
([28]) Ricorda la vicenda G. Sartor, L’informatica giuridica e le tecnologie dell’informazione, cit., p. 29.
([29]) W. Hassemer, Perché punire è necessario. Difesa del diritto penale, tr. it., Bologna, 2009.
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