ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
MIGLIORARE IL CSM NELLA CORNICE COSTITUZIONALE
Il Consiglio superiore della Magistratura attraversa da tempo una crisi di credibilità sia tra i magistrati che sul più ampio versante della pubblica opinione.
I recenti fatti portati alla luce dall’inchiesta della Procura della Repubblica di Perugia – il cd. caso Palamara –, che hanno occupato per intere settimane le prime pagine dei giornali, hanno certificato, in un generale sconcerto, lo stato di profondo malessere dell’Istituzione.
Sembrano prevalere, almeno a volte, logiche di gestione del potere – il riferimento è soprattutto alla nomina dei capi degli uffici giudiziari, in particolare quelli inquirenti – che scolorano fortemente la funzione di garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura assegnata al Consiglio Superiore dalla Costituzione.
L’idea diffusa, che prevale nel dibattito politico, è che il male si annidi nelle correnti interne all’Associazione Nazionale dei Magistrati: da qui il proposito di escogitare un sistema che impedisca alle correnti di interferire, attraverso il controllo della scelta della componente togata, nella vita consiliare.
Da ultimo si propone il sorteggio come momento di una complessa articolazione della procedura di nomina, in modo che il tasso di casualità da esso introdotto spezzi il vincolo di dipendenza del singolo consigliere dal gruppo correntizio.
Non è la prima occasione in cui si vuole riformare la legge elettorale per ridurre l’eccessivo potere correntizio; l’attuale legge, ma anche le precedenti, furono varate con questo dichiarato intento, che, poi, alla prova dei fatti, è rimasto inattuato.
V’è allora bisogno di una riflessione affrancata quanto più possibile dall’emergenza e quindi dall’urgenza di un intervento che dia l’impressione, e forse soltanto questa, di una rapida soluzione e che consenta di indagare il fenomeno delle correnti al riparo da luoghi comuni e da stratificate e poco meditate convinzioni.
Accanto alla grande e spinosa questione di come selezionare i componenti togati, altri temi, apparentemente di minor rilievo, meritano attenzione, nella prospettiva di restituire piena credibilità al Consiglio Superiore.
La gestione delle carriere dei magistrati e il controllo sull’operato dei capi degli uffici sono compiti che il Consiglio Superiore adempie (e deve adempiere) nell’interesse generale, con lo sguardo rivolto alla opinione pubblica e non a quella più ristretta, confinata all’interno del corpo giudiziario.
Tempi e qualità delle decisioni sono momenti centrali per rinnovare il significato costituzionale del Consiglio Superiore. Su questo piano il legislatore potrebbe fornire qualche utile contributo che valorizzi e non deprima la potestà consiliare di autoregolarsi e di produrre la cd. normazione secondaria.
La ricerca di un nuovo equilibrio tra legge e Consiglio Superiore potrebbe in uno rafforzare la funzione di garanzia della riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario e la capacità del Consiglio Superiore di dare le risposte che non solo i magistrati ma la collettività attendono e pretendono.
Complesso monumentale San Salvatore in Lauro
Piazza San Salvatore in Lauro, 15
Roma 11 ottobre 2019
MIGLIORARE IL CSM NELLA CORNICE COSTITUZIONALE
Ore 9,00 INTRODUZIONE: Paola Filippi – Procura Generale Corte di Cassazione
Ore 9,30 prima sessione.
Presiede Giorgio Costantino - Università Roma Tre
La promessa costituzionale di autonomia e indipendenza
Il CSM: le ragioni della composizione mista e delle modalità di formazione
Francesca Biondi - Università Statale di Milano
Ore 10.00 Interventi programmati:
Indipendenza dei giudici europei
Alessia Fusco - Università di Torino
Indipendenza dei giudici nazionali e giurisprudenza UE
Roberto Giovanni Conti - Corte di Cassazione
La formazione del magistrato e la sua legittimazione
Angelo Costanzo - Corte di Cassazione
Come si forma un magistrato
Ernesto Aghina - Tribunale di Torre Annunziata
La rappresentazione pubblica dell’autogoverno
Marcello Basilico - Tribunale di Genova
Coffee break
Ore 11,00 seconda sessione
Presiede Gabriella Luccioli - già Corte di Cassazione
La rappresentanza elettorale e le degenerazioni corporative
I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme
Giuseppe Santalucia - Corte di Cassazione
I difetti dell’attuale sistema elettorale: una prospettiva per il futuro prossimo
Giacomo D’Amico - Università di Messina
Il metodo elettorale del sorteggio
Salvo Spagano - Università di Catania
Ore 12,00 Interventi programmati:
La rappresentanza di genere
Donatella Ferranti - Corte di Cassazione – già Commissione Giustizia Camera
Se il qualunquismo vince?
Morena Plazzi - Procura della Repubblica di Bologna
ore 12.30
Tavola rotonda
Modera Alfonso Amatucci - già Corte di Cassazione
I mali del CSM: l’invadenza delle correnti o la loro scomparsa?
Carlo Guarnieri - Università di Bologna Alma Mater
Giorgio Spangher - già Università di Roma La Sapienza
Eugenio Albamonte - Procura della Repubblica di Roma
Ore 13,30 lunch
Ore 15,00 Terza sessione
Per una effettiva trasparenza nel governo della magistratura
Presiede Oreste Pollicino - Università Bocconi di Milano
Attività consiliare e tutela: il delicato equilibrio tra autonomia e controlli
Sandro Saba - Tribunale di Milano
Il controllo del CSM sull’assetto organizzativo degli uffici
Giovanni Salvi - Procura generale della Corte di appello di Roma
Bernardo Petralia - Procura generale della Corte di appello di Reggio Calabria
Interventi programmati:
La sottile linea rossa tra controllo e collaborazione
Antonella Magaraggia - Tribunale di Verona
Il controllo e l’organizzazione
Alessandra Camassa – Tribunale di Marsala
L’importanza delle semplificazione
Beatrice Bernabei - Tribunale di Latina
Trasparenza delle decisioni e responsabilità delle scelte
Elisabetta Pierazzi - Tribunale di Roma
L’accesso all’ informazione
Andrea Apollonio - Procura della Repubblica di Patti
Conclusione dei lavori
Francesco Dal Canto - Università di Pisa
Bruno Giordano - Corte di Cassazione
SEGRETERIA ORGANIZZATIVA DEL CONVEGNO: Costantino De Robbio, Beatrice Bernabei, Andrea Apollonio 3403485533-3297786474
Sommario: 1.Premessa. - 2.Il valore del cammino tra gli altri elementi del trattamento.- 3.L’esperienza dei cammini rieducativi in Italia e all’estero. - 4.L’avvio dell’esperienza del cammino dei detenuti in Italia
1.Premessa
“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”: la Costituzione, all’art. 27 comma 3, oltre a questo precetto relativo alla umanità del trattamento, espresso in termini negativi e comune alle Costituzioni di quasi tutti gli altri Paesi, contiene un precetto espresso in termini positivi (“e devono tendere alla rieducazione del condannato”), elemento quasi esclusivo della nostra Costituzione.
La stessa Corte Costituzionale fin dal 1966 (sent. n. 12) ha spiegato che i due precetti devono essere letti in un contesto unitario perchè “da un lato infatti un trattamento penale ispirato a criteri di umanità è necessario presupposto per un'azione rieducativa del condannato; dall'altro è appunto in un'azione rieducativa che deve risolversi un trattamento umano e civile, se non si riduca a una inerte e passiva indulgenza”.
Ricostruire l’individuo nella sua relazione con la società è un obiettivo molto difficile e tutte le iniziative che mirano ad utilizzare il tempo della carcerazione, che vanno più in profondità rispetto alla “normalità del carcere”, sono una scommessa vinta.
Occorre arrivare più vicini al detenuto per attivare un processo di valorizzazione della sua individualità, di maggiore responsabilizzazione.
Alla finalità rieducativa è chiamata a partecipare non solo l’Amministrazione penitenziaria che gestisce l’esecuzione della pena e le altre istituzioni che ne sono garanti, ma l’intera società che vi partecipa innanzitutto attraverso il volontariato in prima linea insieme alle altre articolazioni dello Stato nell’opera di ricostruzione del detenuto. La gratuità e la spontaneità del gesto del volontario concorre molto più di altre azioni alla rieducazione del detenuto che sente di ricevere qualcosa in modo del tutto disinteressato.
2. Il valore del cammino tra gli altri elementi del trattamento
Qualunque iniziativa capace di sorreggere il percorso del condannato verso il rientro nella società, con atteggiamento di rispetto dell’altro, rientra nel complesso di azioni definite dall’art. 15 dell’ Ord. Pen. come “elementi del trattamento”; il condannato sviluppa così la volontà di autodeterminarsi rientrando nella società e nella vita di relazione, rispettando la legge e provvedendo ai suoi bisogni.
Vedere in televisione il bellissimo documentario “Boez – Andiamo via”, realizzato da Roberta Cortella e Marco Leopardi in collaborazione con il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, che descrive il percorso di sei giovani adulti da Roma a Santa Maria di Leuca accompagnati per oltre 900 km da una guida e da un’educatrice, mi spinge a raccontare come è nata, circa dieci anni, fa la prima esperienza in Italia del cammino lungo la via Francigena come strumento di rieducazione rivolto ai detenuti adulti.
Quel progetto è nato dall’iniziativa del Rettore della Confraternita di San Jacopo di Compostella, Paolo Caucci von Saucken, professore ordinario di lingua e letteratura spagnola all’Università di Perugia e studioso delle vie del pellegrinaggio cristiano nel Medioevo.
Nel corso della storia in Italia quasi tutti i santuari più importanti erano meta di pellegrinaggi forzati, pena di diritto canonico e poi sanzione penale, comminata ai condannati calibrando il percorso per distanza e difficoltà a seconda del peccato o del reato commesso. Anche numerosi Comuni del Nord Europa, come si ricava dai loro Statuti, comminavano il pellegrinaggio come sanzione civile.
Il Cammino di Santiago esiste fin dal Medioevo e al di là della dimensione religiosa esso si fonda su contenuti ulteriori.
In una prospettiva laica il viaggio verso una meta è cammino di introspezione e di conoscenza, occasione di revisione critica, di riflessione sui propri comportamenti.
In relazione alla pena detentiva, il “percorso” penitenziario richiama l’idea di una via o di un cammino per il riconoscimento degli illeciti compiuti attraverso la consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni.
Nel cammino il detenuto è sradicato dalla realtà dalla quale proviene ed è posto di fronte alle proprie responsabilità, e soprattutto di fronte alle proprie possibilità così da preparare il suo ritorno alla società civile.
Il cammino propone un radicale cambiamento, la possibilità di sperimentare nuovi aspetti della personalità. Percorrendo le strade di un nuovo Paese, una nuova lingua, un nuovo ambiente, si interrompe un “giro vizioso”, ci si responsabilizza riprendendo in mano le redini della propria vita.
Il viaggio è preceduto da un periodo di preparazione (fisica e psicologica) in cui accompagnatore, ragazzi o adulti si conoscono reciprocamente e si prende confidenza con l’attrezzatura.
Percorrere una media di 20-25 chilometri al giorno richiede uno sforzo notevole e la capacità di acquisire abilità pratiche, ma soprattutto offre la possibilità di incontrare persone, di parlare una nuova lingua, di apprezzare il valore della natura e la bellezza dei posti.
L’accompagnatore, con cui condividere compiti e decisioni durante il viaggio, ha un ruolo fondamentale, non deve essere necessariamente un terapeuta o un educatore ma è richiesta una certa esperienza di vita, una personalità stabile e una forte empatia.
Il contatto con la natura e con i luoghi storici, la condivisione con una piccola comunità che cammina insieme, la generosità degli accompagnatori, il ritrovarsi tra pari, mettersi in gioco, affrontare la fatica fisica diventano una opportunità.
3.L’esperienza dei cammini rieducativi in Italia e all’estero.
Partendo da questi presupposti fin dal 1982 in Belgio, alcuni giudici hanno iniziato a prevedere il Cammino di Santiago di Compostela come pena alternativa al carcere per i minori. Si procedette per gradi, all’inizio con brevi pellegrinaggi, fino a delineare un programma di rieducazione per detenuti minorenni che, accompagnati dai volontari dell’organizzazione Oikoten (parola greca che significa “lontano da casa” “con le proprie forze”), percorrono più di 2.500 km e alla meta conquistano la libertà.
Nel 2009 gli stessi giornalisti Roberta Cortella e Marco Leopardi hanno seguito per quattro mesi il cammino di due di questi giovani detenuti realizzando il documentario intitolato “La retta via” che, attraverso le interviste realizzate successivamente a distanza di tempo, dava anche conto dei risultati conseguiti dai protagonisti di quel viaggio.
I cammini educativi sono stati introdotti in Francia fin dal 2000 dall’organizzazione “Seuil” (che in francese significa “soglia”, limite da varcare per entrare in una nuova vita e reintegrarsi nella società) e anche in Spagna dal carcere della Trinidad di Barcellona, da quello di Nanclares de Oca e da quello di Albacete sono partiti per il Cammino di Santiago gruppi di reclusi minorenni e adulti accompagnati da funzionari di vigilanza e volontari.
E’ del 2007 la pubblicazione “La funzione educativa del cammino” frutto del lavoro di un team di ricercatori del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre che ha studiato l’esperienza del cammino a piedi come proposta educativa e formativa per un gruppo di ragazzi “a rischio”, accompagnati tra Spoleto e Assisi. Nell’introduzione alla pubblicazione, il cammino a piedi è stato definito “una pratica che porta scompiglio perché decongela, modifica, riformula pensieri impigliati nel senso comune, emozioni cristallizzate; provoca nuovi orientamenti di percorsi fuori da strade tacite, scontate, per fermarsi a pensare, godere, sognare, amare, prendersi cura del futuro”.
Più recentemente l’associazione Oikoten fusa con l’organizzazione belga ”Alba” che si occupa di disagio giovanile ha costituito un network con associazioni francesi (“Seuil”), tedesche (“Bischof-Benno-Haus”) e italiane (“Lunghi cammini” e “L’Oasi”), sotto la direzione dell’Università di Scienze Applicate di Dresda (FHD), nell’ambito del progetto Erasmus “Between Ages”, con l’obiettivo di favorire lo scambio di buone pratiche nel campo del recupero e del reinserimento sociale di giovani sottoposti a misure penali.
Anche altre Associazioni realizzano esperienze di aiuto per soggetti svantaggiati attraverso il cammino a piedi, tra cui la Cooperativa sociale Fraternità Impronta di Ospitaletto, in provincia di Brescia, che nel 2017 ha selezionato e accompagnato un gruppo di ragazzi tra i 17 e i 19 anni che avevano commesso reati, ospiti delle sue strutture, su un percorso di 200 km fino a Santiago di Compostela.
Tornando alla Confraternita di San Jacopo di Compostella raccolsi quindi il suggerimento del Prof. Caucci organizzando un incontro il 9 aprile 2010 a Roma nella sede dello Spedale della Provvidenza di San Giacomo e San Benedetto Labre, gestito dal Capitolo romano della Confraternita, luogo di accoglienza che dà ospitalità ai pellegrini in arrivo e in partenza da Roma. All’incontro presero parte tra gli altri Giovanni Tamburino, allora presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma, il Direttore dell’Esecuzione Penale esterna del DAP, il comandante del carcere di Bollate e il cappellano del carcere di Rebibbia.
La Confraternita, un’istituzione fondata a Perugia nel 1981 con la finalità di promuovere la pratica del pellegrinaggio, da sempre rappresenta il supporto culturale e organizzativo sul territorio per il passaggio dei pellegrini e da anni si occupa di studiare e segnare le principali vie di pellegrinaggio. Monica D’Atti, volontaria dell’associazione, ha personalmente provveduto a segnare la via Francigena scrivendo nel 2001 la prima guida, corredata di preziose carte, cui nel 2010 è seguita la pubblicazione della prima guida della cosiddetta Francigena del sud, da Roma ai porti pugliesi per la Terra Santa.
4.L’avvio dell’esperienza del cammino dei detenuti in Italia
Ho creduto fin dall’inizio nel prezioso spirito di servizio che muove i volontari accompagnatori e nell’importanza di riuscire a realizzare in Italia un progetto indirizzato ai detenuti.
Così il primo gruppo di reclusi nel carcere di Rebibbia, preparato e accompagnato da volontari della Confraternita, si è messo in cammino sulla via Francigena il 5 giugno del 2011 nel percorso di 168 chilometri fra Radicofani e Roma coperto in otto giorni condividendo, detenuti e accompagnatori, ogni aspetto del cammino, in semplicità.
La Confraternita ha curato l’organizzazione del cammino per i detenuti anche negli anni successivi e lungo percorsi diversi.
Nel 2013 sono stati coinvolti 30 detenuti suddivisi in tre gruppi ciascuno dei quali ha percorso rispettivamente il percorso classico da Radicofani, la Francigena del Sud da Montecassino e l’antica via Amerina da Assisi, per ricongiungersi a piazza San Pietro durante l’udienza di Papa Francesco che li ha voluti accanto a sé sul sagrato.
Nel 2015 i volontari del capitolo sardo hanno accompagnato un gruppo di detenuti anche lungo il Cammino della Visitazione nel nuorese.
Nel 2017 il cammino ha preso l’avvio presso la cattedrale di San Zeno a Pistoia.
Più recentemente l’avv. Marina Binda, volontaria della Confraternita, ha continuato ad animare le ultime edizioni dandone testimonianza anche tramite la pubblicazione di un diario scritto lungo il percorso.
Va premesso che non si può aderire ad una prospettiva religiosa del cammino, discriminatoria nei confronti di coloro che non la condividono.
Venendo allo strumento utilizzato all’interno della realtà della esecuzione penale, i detenuti (le richieste sono state sempre più numerose rispetto al numero di posti disponibili) hanno speso parte dei 45 giorni a loro disposizione a titolo di permesso premio ex art. 30-ter Ord. Pen. perché il magistrato di sorveglianza ha ritenuto il percorso/pellegrinaggio conforme a un interesse culturale ed a una pregnante finalità rieducativa.
Nel 2018 il giudice del Tribunale per i Minori di Venezia ha accolto la proposta formulata dalla Lunghi Cammini Onlus, associazione che si occupa di realizzare lunghi cammini educativi per minori, di effettuare il cammino di Santiago di Compostela nell’ambito di un programma di messa alla prova.
Con l’introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto della messa alla prova per gli adulti l’esperienza potrebbe trovare applicazione nel Tribunale ordinario dovendo considerarsi l’indubbio rilievo sociale del cammino e l’effettivo sostegno rappresentato dal percorso a piedi per la “presa in carico” del reo nei cui confronti sospende il procedimento.
I fatti di qualche giorno fa, collegati al divieto di sbarco dell’ultima nave di una ONG con a bordo migranti salvati in mare, le polemiche che ne sono seguite, e, soprattutto, la violenza espressa nei confronti della comandante della nave, anche da cittadini di Lampedusa al momento del suo arresto, mi hanno fatto ripensare al film di Nanni Moretti Santiago – Italia, a quanto ci fa riflettere sull’Italia di oggi, su come è, soprattutto, su come siamo diventati Noi italiani, rispetto a come eravamo ( all’epoca del film e anche prima).
Ci possono essere molti modi diversi per fare un film sull’Italia di oggi e sugli italiani. Per parlare di politica, di questioni sociali e per toccare temi che sono centrali, come l’accoglienza, la solidarietà, l’inclusione sociale, la tolleranza e il razzismo. Per ragionare di questi argomenti, che se rappresentano la parte più accesa del dibattito politico di questi ultimi anni, sono anche alla base di arroccamenti culturali sempre più netti e spesso immotivati, o comunque privi di una base razionale, in seno all’opinione pubblica.
Ci sarebbero molti modi dunque, ma forse quello scelto da Nanni Moretti – e cioè andarsene il più lontano possibile dall’Italia – è l’unico veramente possibile. Santiago, Italia, infatti, è un film che parla del nostro Paese di oggi ma che lo fa partendo da 12000 km e 45 anni di distanza. Ci racconta, innanzitutto, che c’è stato un altro 11 settembre, un po’ meno ricordato ma altrettanto terribile di quello del 2001: quello del 1973, quando l’esercito cileno guidato dal generale Pinochet (con il supporto ideologico ed economico degli Stati Uniti) rovesciò il governo democraticamente eletto di Salvador Allende, instaurando una dittatura lunga diciassette anni che piegò duramente il Cile e stroncò in maniera inesorabile il processo democratico del Paese sudamericano. Le immagini del Palazzo della Moneda (la residenza presidenziale) bombardata dai caccia dell’esercito e le ultime parole di Allende, asserragliato nel palazzo, pronunciate per radio poco prima di suicidarsi, fanno parte dell’immaginario collettivo di molte generazioni e sono state consegnate alla storia.
Quello che forse è meno noto è quanto nei giorni e nelle settimane successive al golpe il ruolo dell’Italia sia stato fondamentale nell’opposizione al regime appena instauratosi. Mentre la dittatura aveva già iniziato le durissime e barbare persecuzioni nei confronti dei sostenitori di Allende, l’ambasciata italiana a Santiago iniziò ad accogliere centinaia di persone che cercavano di sfuggire ai rastrellamenti, arrivando ad ospitarne fino a seicento. Nei mesi successivi, grazie ai funzionari dell’ambasciata, al Ministero degli Esteri di allora, guidato da Aldo Moro, e al decisivo supporto del PCI, l’Italia riuscì a organizzare il trasferimento di tutti gli asilados che avevano ottenuto rifugio nella ambasciata italiana nel nostro Paese, dove la permanenza fu loro garantita a tempo indeterminato e dove tutti riuscirono a inserirsi nel tessuto sociale, trovando un lavoro, spesso grazie alle “cooperative rosse”, e radicandosi in Italia, dove sono rimasti, fatta eccezione per i pochi che, dopo la caduta della dittatura, fecero la scelta di fare ritorno in Cile.
Moretti documenta il dolore di un popolo che ha visto sfiorire atrocemente il proprio sogno democratico, raccogliendo i ricordi dei testimoni di tutto quell’orrore e di tutta quella violenza. E affida ai suoi interlocutori la memoria legata alla solidarietà, all’impegno e all’accoglienza che l’Italia seppe dimostrare. Nel film le testimonianze degli italiani sono pochissime (come le dichiarazioni di uno degli allora funzionari dell’ambasciata: Piero De Masi che con il collega Roberto Toscano ebbe un ruolo decisivo nella storia), il resto del racconto avviene per mezzo delle parole dei cileni. L’intento di Moretti è quello di lasciare che a parlare di noi siano gli altri, gli stranieri, i migranti e i rifugiati dell’altra parte del mondo. Vuole che dell’Italia emerga un punto di vista esterno, sconosciuto e laterale, qualcosa che non siamo abituati ad ascoltare e che nessuno, in fondo, ci ha mai raccontato. Ne risulta il ritratto di un paese aperto, curioso, solidale. Sono determinanti in questa storia – come è ovvio – le questioni ideologiche e politiche ed è innegabile che tutto abbia una connotazione fortemente di sinistra. Eppure i cileni che raccontano l’Italia degli anni Settanta – benché siano tutti militanti socialisti e siano stati accolti col favore del PCI – descrivono commossi e riconoscenti un Paese che si dimostrò ospitale e pronto a farsi carico della vita e della sorte di rifugiati stranieri con prontezza e disponibilità e nonostante le difficoltà che stava a sua volta affrontando. Un Paese che sembra stare da un’altra parte – oltre che in un altro tempo – e che a sentirselo raccontare con tanta riconoscenza e tanto calore sembra un posto in cui chiunque vorrebbe vivere.
Eppure non è un film nostalgico Santiago, Italia e nemmeno una celebrazione del “come eravamo” o degli “italiani brava gente”, dell’epoca in cui ascoltavamo gli Inti Illimani o nella quale la squadra italiana di Coppa Davis giocò per protesta la finale con il Cile in maglietta rossa (quando i gesti erano rigorosamente bianchi). Rappresenta invece una voce dissonante all’interno di un dibattito che nel nostro Paese si sta sempre più radicando su posizioni populiste e che si nutrono di un nazionalismo approssimativo e strumentale. Dove concetti come quello di “rifugiato”, “richiedente asilo”, “profugo” o “migrante” hanno assunto connotazioni negative che vanno al di là del loro significato intrinseco e che hanno lentamente smarrito la propria accezione semantica per diventare antonomasie di una forma mentis, di un’espressione culturale o ideologica.
Ma quello di Moretti è anche uno sguardo (ancora una volta) non riconciliato nei confronti della sinistra e delle sinistre di oggi. Allo smarrimento dei partiti progressisti contemporanei, soprattutto in Italia, egli contrappone (idealmente) i sentimenti di fiducia, caparbia voglia di rinnovamento e freschezza veicolati dall’affermazione del socialismo democratico di Allende. La forza dirompente di un sogno di cambiamento – quello cileno fu il primo governo socialista democraticamente eletto della storia – che venne accolto con grande entusiasmo in tutto il mondo e la cui tragica fine rappresentò uno choc per milioni di persone. Un’esperienza che ha rappresentato non solo un’occasione mancata ma anche la fine di una speranza che lì, come altrove, non ha più avuto modo di rinascere. E se sostenere che il Cile di allora somigli all’Italia di oggi – come asserisce uno degli intervistati sul finire del film – è davvero troppo azzardato, è pur vero che spesso voltarsi indietro e vedere come speranze ed entusiasmi del passato siano soffocati nel realismo del presente è la più cruda delle prese di coscienza.
Ma, e mi ricollego all’inizio e alle vicende di questi giorni, ancora più cruda è la presa di coscienza non tanto di “come eravamo”, quanto di “come siamo diventati”: da Paese la cui stessa ambasciata era un luogo sicuro per i perseguitati, ospitati in tutti gli spazi disponibili e anche nel giardino dell’ambasciata stessa, che organizzò il trasferimento in pullman degli asilados all’aeroporto attraverso una città militarizzata, che li accolse garantendo a tutti il diritto di soggiorno a tempo illimitato e consentì loro di inserirsi nella nostra società in modo dignitoso e confacente alle loro aspirazioni e capacità professionali, a Paese nel quale viene vietato l’approdo a navi con a bordo persone salvate in mare, nel quale i “migranti” sono descritti come un pericolo, in cui la comandante di una nave di salvataggio viene insultata pesantemente al suo arrivo a terra: al di là delle valutazioni singole su casi specifici e delle opzioni ideali o ideologiche, ciò su cui ci fa riflettere quel film è la necessità di recuperare i valori dell’accoglienza, della solidarietà, dell’inclusione sociale e della tolleranza, che hanno connotato e caratterizzato le stagioni migliori della Storia italiana recente.
Prime indicazioni operative e linee guida in vista dell'entrata in vigore l'8/8/2019 della legge n. 69 del 19/7/2019 - Procura della Repubblica di Mantova
Si pubblica la direttiva 31/7/2019, predisposta dal Procuratore della Repubblica di Mantova, dott. ssa Manuela Fasolato, per fornire le prime linee operative alla polizia giudiziaria e all'ufficio di Procura in relazione alla imminente entrata in vigore (9/8/19)della Legge n. 69/2019, c.d. Codice Rosso. La direttiva tiene conto della dimensione e dei problemi operativi di piccole Procure, quale è quella di Mantova, dove già l'organico, sia di magistrati che di personale, è sottodimensionato rispetto al carico complessivo dell'ufficio(per esemplificare nella Procura di Mantova sono presenti solo 5 sostituti su 7 in organico a fronte di una media annuale negli ultimi tre anni di circa 7500 mod 21 sopravvenuti). La direttiva ha tenuto conto e si è ispirata alle osservazioni scambiate con altri Procuratori al fine di affrontare in maniera condivisa le novità legislative processuali che impattano notevolmente sull'organizzazione degli uffici requirenti e alle direttive che nel frattempo erano state divulgate dai Procuratori di Bologna e di Campobasso, diversi per dimensione e caratteristiche del territorio da Mantova. Nella direttiva di Mantova, per la particolare situazione di carico e sofferenza organica, la scelta organizzativa è stata quella di prevedere che il primo impatto della legge pesi sui PM di turno esterno urgenze e non subito sui n. 2 PM del gruppo specialistico fasce deboli( con reati specialistici nel gruppo anche di infortuni sul lavoro) al fine di fronteggiare meglio la valutazione della urgenza dell'assunzione della vittima. Al gruppo specialistico il fascicolo verrà trasmesso solo dopo la decisione relativa alla necessità di provvedere in merito alla assunzione della vittima, che il legislatore ha indicato debba avvenire entro tre giorni dalla iscrizione della notizia di reato,salvo sussistano ragioni che suggeriscano diversamente, indicate nella norma dell'art. 2 della legge. Ovviamente si tratta solo delle prime indicazioni operative, suscettibili di modifica all'esito delle verifiche dell'attuazione di tale sistema organizzativo.
TUTTI SALVI(NI) CON LA PENA DI MORTE?
Glauco Giostra
(da “L’Avvenire” del 30.7.2019)
Doveva accadere. Era questione di tempo, ma nell’attuale stagione politica non poteva non accadere. Era anche scritto che dovesse succedere per opera del Ministro che fin dall’inizio ha indossato la felpa law and order, elettoralmente lucrosissima. Matteo Salvini ha colto l’occasione dello sconvolgente omicidio di un servitore dello Stato per evocare la pena di morte applicata negli Usa e non in Italia. E pur con un’esplicita accortezza,
Ma nella nostra Costituzione è scritto: «Non è ammessa la pena di morte». I costituenti, che pur avevano subito orribili torture e che pur avevano avuto congiunti e amici assassinati per aver preteso il ripristino della democrazia, non hanno voluto uno Stato vendicatore che uccide chi ha ucciso, ma uno Stato che risponde con il rigore di un diritto severo, ma civile; uno Stato non disposto a macchiarsi del crimine di uccidere un innocente, come è avvenuto nel 4,1% delle esecuzioni capitali negli invidiati USA, secondo una rigorosa indagine della University of Michigan School Law (decine e decine sono, poi , dal 1990 gli innocenti condannati a morte salvati in extremis dalla prova del Dna); uno Stato che non vorrebbe mai ricordare i barbari allestimenti con cui, sempre negli invidiati USA, i parenti delle vittime assistono all’esecuzione del condannato per vederlo sfrigolare sulla sedia elettrica o scuotersi dopo una iniezione letale.
Il nostro Ministro dell’Interno, con non dissimulato disappunto, dice di accontentarsi che il condannato possa uscire soltanto cadavere dalla prigione. Dovrebbe sapere e dovrebbe correttamente far sapere che la Corte europea dei diritti dell’uomo poco più di un mese fa ha condannato l’Italia (caso Viola) appunto perché il nostro ordinamento prevede che per alcuni reati l’espiazione carceraria duri per l’intera vita, rimanendo indifferente al percorso del condannato durante l’esecuzione della pena. Adeguarsi al dictum della Corte di Strasburgo non vorrebbe dire –è bene precisarlo a fronte di tante affermazioni di tal segno, non si sa se dovute ad ignoranza o a calcolo - abolire le pene perpetue nel nostro sistema: continuerebbero ad esserci e ad essere eseguite fino all’ultimo giorno, a meno che -dopo circa venticinque anni di carcere, suggerisce la giurisprudenza della Corte- un’osservazione attenta e prolungata non attesti che il condannato abbia dato prova di autentica riabilitazione.
Si potrebbe anche pensare che il Ministro dell’Interno, essendo garante della sicurezza pubblica, intenda ricorrere alla forza intimidatrice della pena comminata per dissuadere dai più gravi comportamenti delittuosi. Ma il Ministro sa o dovrebbe sapere che la minaccia della sanzione è inefficace, talvolta controproducente. Negli invidiati Usa si registrano 5,3 omicidi ogni 100.000 abitanti, in Italia 0,8. Non solo: negli Stati dell’Unione che non ammettono la pena di morte si conta un minor numero di omicidi rispetto a quelli che la prevedono.
Ciononostante, il presidente Trump, che sta affilando le sue armi elettorali, ha pensato di ripristinare l’esecuzione delle condanne a morte inflitte dai tribunali federali, interrompendo una moratoria che durava dal 2003: iniziativa che già gli avrebbe procurato maggiori consensi. Non si riporta il dato perché particolarmente interessati al Trump-pensiero (si perdoni l’ossimoro), ma per far capire a che serve e a chi giova invocare la pena capitale.
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