ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
E’ dal 17 aprile del 2011, dalla messa in onda del primo episodio della prima stagione del Trono di Spade (siamo quasi alla fine dell’ottava ed ultima) che assistiamo, pubblico sempre più vasto negli anni, al racconto violento, romantico, fantastico e magico della infinita guerra per la conquista della corona dei Sette Regni e del Trono di Spade.
A contendersi il trono sono oggi due Regine, Cersei Lannister e Daenaerys Targaryen, anche se oramai il Regno del Nord è principale preoccupazione di una terza, Lady Sansa e la tremenda battaglia contro il Re della notte ed i suoi guerrieri zombie è stata conclusa dal colpo letale della adolescente guerriera Lady Arya Stark.
Non è andata sempre così. Ai suoi esordi la storia ruotava attorno a troni e principati saldamente in mano a re e cavalieri, e molte presenze femminili parevano solo un bellissimo contorno; ma poi negli anni, ben otto anni, la trama ha valorizzato quelle ed anche altre figure femminili, estreme ma dominanti; ora si preparano alla resa dei conti finale. Quel mondo in questi anni è cambiato.
Non vado oltre, per quanto sia irresistibile l’attrazione per queste storie e soprattutto per questi personaggi, ma ho voluto iniziare da questo per parlare con un po’ di leggerezza di un argomento, genere e rappresentanza, quote e percentuali, che con il suo prevedibile andamento carsico si è riaffacciato in queste settimane sulla scena dei nostri gruppi associati.
Curiosamente, parliamo di quote di genere, di chance e/o di risultato ogni volta che ci avviciniamo a qualche appuntamento elettorale e non c’è dubbio che chi ha portato avanti per anni questi temi all’interno della magistratura associata debba rivendicare con orgoglio gli effetti positivi che l’inserimento delle quote di genere nello statuto dell’A.N.M. e di alcuni dei gruppi ha prodotto proprio in occasione della scelta delle nuove rappresentanze.
Basta questo per dirci soddisfatti? E’ questa l’unica strada da proseguire e percorrere in questi tempi? Siamo in grado di adattare la trama della nostra presenza maschile/femminile nelle sedi della rappresentanza associata a come è diventata la magistratura oggi?
E’ scontato che io non sia qui a dare risposte, anzi sono la prima a farmi molte domande quando mi rendo conto, con qualche preoccupazione, che il modo ed i tempi con i quali noi magistrate riusciamo ad intervenire nelle realtà associative, in ANM e nei gruppi che la compongono, non sembrano risentire positivamente del rovesciamento di percentuali di presenza femminile in magistratura[1] e non sembrano, diversamente da quanto accade nelle storie di fantasy, recepire e valorizzare un cambiamento che da ben più di soli otto anni caratterizza la nostra realtà lavorativa.
La composizione della magistratura, oggi, vede una base costituita, nelle prime fasce di anzianità, da prevalente presenza femminile. L’età media delle donne magistrato, entrate in numero sempre maggiore negli ultimi anni, è più bassa di quella degli uomini.
Eppure nel dibattito che in pochi giorni si è acceso su alcune mailing list e che vedeva rifiorire l’interesse al rispetto di quote di genere e rappresentanza abbiamo registrato gli interventi di magistrati, uomini e donne, che anche nel contrapporsi delle idee avevano un preciso tratto comune: una certa anzianità, di ruolo ed anagrafica.
Abbiamo rivolto, negli anni passati, grande impegno e sforzo innovativo per raggiungere il risultato di cui ancora adesso discutiamo, lamentando ancora effetti insoddisfacenti, ma possiamo dire, come singoli e come gruppi, d’aver messo la stessa volontà e una reale capacità d’ideazione per superare gli ostacoli che oggi come anni fa rendono più accidentato, rispetto ai loro coetanei, l’accesso delle giovani magistrate, seppur ormai maggioranza, ai luoghi ed alle esperienze che formano un percorso di crescita in un gruppo associato?
Se scrivo queste righe è perché sono convinta che sia il momento di pensare laicamente alle quote di genere così come inserite nello statuto dell'ANM e dei nostri gruppi[2] come ad un traguardo acquisito che ci consente di rivolgere ora la nostra piena attenzione ad altri più sostanziosi argomenti anticipando, se possibile, una evoluzione della magistratura che già è in atto ma che, ora più che mai, ha bisogno di trovare nuovi motivi di coesione piuttosto che di contrasto.
Potremmo, in primo luogo, superare il pregiudizio di chi tuttora vede nelle quote di genere una sorta di compensazione per tutte quelle volte che, per fare altro, abbiamo lasciato un po’ prima della fine un convegno, abbiamo rinunciato ad una bella iniziativa fuori sede e ci siamo fatte da parte. Dovremmo superare l’idea che con i numeri e la percentuale di candidate ed elette si esaurisca il tema della rappresentanza a prescindere da specifici contenuti e scopi, conoscenze e ruoli, realistica valutazione delle esigenze della comunità che rappresentiamo.
Potremmo occuparci, ad esempio, delle ragioni per le quali per molte donne, fin dai primi anni di lavoro, è così difficile farsi avanti, autopromuoversi ma anche aiutarsi e creare legami costruttivi in un contesto associativo e quindi chiederci se gli argomenti che trattiamo o il modo in cui amministriamo i nostri uffici possano essere strumenti per facilitare una migliore partecipazione di tutti.
Potremmo poi concentrarci maggiormente su proposte e temi sui quali una nuova base della magistratura sia spinta a dare il proprio contributo ideale e di impegno con un sostanziale superamento delle contrapposizioni di genere ed una reale condivisione delle scelte più efficaci in relazione al risultato da raggiungere. Anche a Westeros alleanze e primi cavalieri cambiano secondo la necessità, del resto..
Potremmo cominciare a pensarci e confrontarci davvero come uguali.
[1] Di facile consultazione, anche se non aggiornatissimi, alcuni documenti nella sezione Comitato Pari opportunità in magistratura sulla pagina web del CSM al link che segue:
[2] In realtà non ne ho trovato traccia nello statuto di Magistratura Indipendente e nell’atto costitutivo di Autonomia ed Indipendenza mentre nello statuto di UNICOST si trova – art.8 – l’impegno del Comitato di Coordinamento a designare almeno il 40% per genere quanto a candidature al CDC e promuovere candidature di entrambi i generi al CSM
di Andrea Apollonio
Caro Giuseppe,
Mi suscita una velata inquietudine sapere che da oggi non sei più parte del nostro mondo. Una sensazione strana e del tutto inspiegabile, perché non ti ho mai conosciuto. Non c'è stata occasione di incontrarti, e d'altronde non poteva esserci: faccio il tuo stesso lavoro - il pubblico ministero - da un mese appena, nella piccola (ma non lontana dalla tua Palermo) procura di Patti - e, per inciso: in Sicilia ci sono venuto con le mie gambe, non a causa di contingenze legate a punteggi e graduatorie. E' un giovane pm a scriverti, l'avrai capito, che ha scelto questa funzione perché ci ha visto dentro un portato idealistico, nonostante tutto; nonostante i tempi che corrono.
Non ci siamo mai incontrati ma, entrato in magistratura, m'è parso di conoscerti fin dall'inizio (della tua lunga e della mia micrometrica carriera). Perchè è da quando guidi la procura di Roma - correva l'anno 2012, ed io neanche immaginavo di diventare magistrato - che seguo con interesse e curiosità, dalla semplice lettura delle notizie di giornale, l'evoluzione delle "politiche" giudiziarie di quell'ufficio: centralissimo, che pure nel corso degli anni, o dei decenni precedenti, si era conquistato la triste fama di "porto delle nebbie", perché nulla si muoveva, le inchieste non andavano avanti, come se la politica - la vera regina di Roma, da sempre - avesse chiesto e ottenuto di non essere disturbata: non disturbare il manovratore, recitava il cartello affisso sui tram.
Se la percezione collettiva dell'ufficio requirente capitolino è radicalmente mutata, il merito è tuo, e della squadra che hai saputo guidare col tuo tipico fare felpato e netto al contempo.
Ti dobbiamo - noi cittadini - l'avere messo a nudo sistemi corruttivi di proporzioni inimmaginabili, che prolificavano indisturbati sotto i nostri occhi, radicati nella Capitale con l'intento di inquinare le basi stesse della vita economica e produttiva del Paese. Ti dobbiamo - noi italiani - l'avere rappresentato lo Stato (questo è accaduto, nella sostanza) con credibilità e autorevolezza nei due momenti in cui la nostra coscienza nazionale ha pericolosamente vacillato: e mi riferisco al caso Regeni e, più di recente, al caso Cucchi, momenti in cui il Paese era stranamente unito perché chiedeva, unanimemente, che si facesse giustizia. Al di là di quello che si è potuto fare, e che si farà, ci hai messo la faccia, trasmettendo l'idea che lo Stato fosse, comunque, dalla parte giusta. Ti dobbiamo - noi giuristi - un nuovo modo di concepire i fenomeni mafiosi, che prescinde dall'intimidazione violenta per edulcorarsi, trasformarsi in un amalgama relazionale che, al Paese, può nuocere più dei morti ammazzati per strada. Le indagini contro Carminati e la sua banda hanno contribuito a lanciare un messaggio fortissimo e dirompente alla comunità giuridica, alla quale adesso si chiede di non trincerarsi più dietro i vecchi schemi interpretativi (talvota assurti a veri e propri alibi), ma di verificare quale effetto produca, in termini di diffusività e profondità, ed in concreto, il fenomeno delinquenziale da colpire con le indagini, i processi, le sentenze. Un messaggio che per questa via, un pò attutito e semplificato, è arrivato al comune cittadino, il quale oggi sa bene, ed era tempo che lo sapesse, che il metodo mafioso può annidarsi anche nelle mazzette; e ciò forse aiuta il lento percorso di moralizzazione della vita pubblica intrapreso - dalla politica, seguita dagli altri ceti dirigenti - da qualche anno a questa parte.
"Moralizzazione" è un termine che tu, probabilmente, disdegneresti, anche perché evoca altre epoche, per certi aspetti non edificanti, della nostra vita pubblica. Ma lasciamelo dire: i risultati che la tua squadra - tu, i tuoi aggiunti, i tuoi sostituti - ha conseguito in questi sette anni sono, sotto l'aspetto sistemico, paragonabili soltanto a quelli della procura di Milano dei tempi di Tangentopoli, con una sostanziale differenza: il tuo stile moderato e, diremmo nell'accezione migliore, democristiano ha prodotto effetti ben più incisivi e duraturi di quelli raggiunti con i toni accesi, i gesti plateali nei corridoi a favore delle telecamere, gli scontri frontali con il legislatore. Tanto che oggi i modelli investigativi coniati da Tangentopoli, problematici sotto l'aspetto delle garanzie degli indagati, sono considerati recessivi, anche perché ampiamente superati - in primo luogo, da interventi legislativi ad hoc, che non mi sento di definire sbagliati - mentre, sono sicuro, tra dieci o venti anni continueremo a indagare e a ragionare sulla scorta dell'inchiesta "apripista": Mafia Capitale, appunto, ma è solo un esempio tra i tanti.
Scrivendoti di getto, mi rendo conto di aver consumato lo spazio di questa lettera richiamando soltanto i tuoi ultimi anni, senza neppure citare i decenni di impegno - legati a sacrifici personali incalcolabili - trascorsi tra Palermo e Reggio Calabria; ma del resto, neanche tu, che conosci la tua storia meglio di chiunque altro, hai saputo trarre un bilancio analitico, se a precisa domanda di Giovanni Bianconi, nell'intervista dell'altro ieri sul Corriere della Sera, hai piuttosto voluto chiudere così: "E voglio sottolineare che risultati importanti sono per un pm non solo arresti e condanne, ma anche assoluzioni e archiviazioni, anche se proprio queste a volte sono oggetto di critiche violente quanto infondate".
E' una frase lapidaria perchè controcorrente, che certifica la statura del magistrato, reclinandola nel verso più corretto, quello garantista. Credo che noi, (tuoi) giovani colleghi, ed in particolare noi, giovani pm, dovremmo raccogliere dalla tua esperienza sopratutto questo tuo modo ponderato di fare e di pensare, che guarda ai fenomeni criminali come qualcosa da analizzare nel loro insieme per colpirli più efficacemente, che guarda al pubblico ministero come portatore di un interesse collettivo ineludibile, con funzioni talvolta rappresentative del comune sentire; che guarda all'indagato come soggetto da accusare e da tutelare allo stesso tempo.
Non posso che tramutare la velata inquietudine con la quale oggi so che ti congedi dal mondo in cui sono appena entrato in un rinnovato impegno; rendendo omaggio alla tua storia, e a quella della magistratura italiana migliore, passata e presente, semplicemente con il mio incondizionato impegno, nei palazzi di giustizia e fuori.
Le questioni di fine vita, specie grazie al caso che ha visto protagonista Marco Cappato a seguito della morte di Fabiano Antoniani, sono ritornate prepotentemente sotto i riflettori del dibattito giuridico e politico, amplificando l’eco, già particolarmente significativa, della legge n. 219 del 2017.
Il fatto che il quadro normativo attuale risulti almeno parzialmente contraddittorio, come efficacemente evidenziato dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 207 del 2018, è un dato che parrebbe imporsi con una tale autoevidenza da non lasciare spazio a considerazioni ulteriori, almeno per ciò che attiene alle premesse da cui muovere per un superamento di quelle aporie. La c.d. eutanasia, però, non solo appassiona i giuristi, ma, soprattutto, li divide. Risulta indubbiamente difficile stabilire da che parte possa stare la Giustizia, ma resta possibile, forse, provare a chiarire da che parte debba stare il Diritto.
Sommario: 1. Che i riflettori restino accesi, anche quando rischiano di accecare. – 2. L’impianto motivazionale dell’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale. – 3. Soluzioni ipotizzabili: a) l’intervento della Corte costituzionale. – 3.1. b) l’intervento del legislatore. – 3.2. c) la valorizzazione di una logica del “caso per caso”.
1.Che i riflettori restino accesi, anche quando rischiano di accecare
Le questioni di fine vita sembrano destinate a salire sul palcoscenico del dibattito politico e giuridico solo in rare occasioni, le quali però, in ragione della potenza narrativa delle storie che raccontano, catalizzano l’attenzione dello spettatore in maniera pressoché inevitabile: commuovono, indignano, disorientano e, soprattutto, dividono.
Inutile precisare che le vicende umane e giudiziarie, classificate, secondo le cadenze dell’algido vocabolario di cui i giuristi sono avvezzi a nutrirsi, come i “casi” di Piergiorgio Welby, Fabiano Antoniani, Eluana Englaro, Walter Piludu, Giovanni Nuvoli, Oriana Cazzanello (si è portati, curiosamente, a indicare i casi in questione non con il nome degli imputati ma con quello delle “vittime”), rappresentano solo la punta dell’iceberg di un fenomeno eterogeneo e complesso.
Al contenzioso quantitativamente poco significativo generato dalle “pratiche “eutanasiche, del resto, fa da contraltare la sconcertante ordinarietà con cui le questioni di fine vita si (im)pongono nelle corsie d’ospedale, nel silenzio delle case che ospitano e qualche volta nascondono i pazienti e le loro famiglie, in certe strutture di ricovero per malati terminali che rischiano di somigliare più a un lazzaretto disperato e disperante che a un protettivo rifugio in cui, ostinatamente, si “scelga” di continuare a “vivere”. Il sistema sanitario nazionale, inutile negarlo, non sempre risponde in maniera adeguata alla supplicante richiesta di chi le cure non intende rifiutarle ma ottenerle, pur a fronte di sofferenze atroci che consumano il corpo e lo spirito. Se la questione fosse osservata attraverso una lente un po’ meno appannata da riflessi filosofico-giuridici, susciterebbero forse un sorriso amaro le raffinate e appassionate discussioni attorno a un preteso paternalismo, non importa se hard o soft, praticato da uno Stato al quale sta a cuore che il singolo “per il suo bene, non si faccia del male”, ma i cui cittadini, che magari di Feinberg o Dworkin sanno poco o nulla, hanno spesso l’impressione che la tutela della propria salute assuma la consistenza di un mero “diritto di carta”, almeno per chi non disponga di risorse economiche che consentano di aggirare le liste di attesa, di accedere alle strutture più all’avanguardia, di ottenere un’assistenza dignitosa in presenza di malattie che mettono a dura prova anche la dignità più volenterosa[1].
Ben venga, allora, da qualunque precomprensione ideologica si muova, un dibattito partecipato sui temi compendiati sotto la discussa etichetta della “eutanasia”. Ben venga, allora, il coraggio di chi ritiene che la sofferenza di una scelta in apparenza “controintuitiva”, come quella di darsi o farsi dare la morte, non sia solo un fatto privato, ma una questione pubblica. Ben venga, allora, il tentativo di comprendere non solo (e non tanto) da che parte possa stare la Giustizia, ma (almeno) da che parte debba stare il Diritto.
Il caso che ha visto protagonisti Fabiano Antoniani e Marco Cappato ha riacceso in maniera prepotente, quasi accecante, i riflettori sulle questioni di fine vita. Meno nota, almeno mediaticamente, è la vicenda di Davide Trentini, per il cui suicidio assistito in Svizzera sono attualmente imputati lo stesso Marco Cappato e Mina Welby: il copione, sia pur con le inevitabili peculiarità che caratterizzano ogni singola vicenda, continua dunque a ripetersi. In occasione del caso di Marco Cappato e di Dj Fabo, tuttavia, è salita sul palco anche la Corte costituzionale: l’ordinanza n. 207 del 2018 non ha pronunciato l’ultima battuta, ma ha indubbiamente introdotto un colpo di scena che, allo stato, lascia aperto più di un possibile finale.
2.L’impianto motivazionale dell’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale
La Corte d’assise di Milano, con ordinanza del 14 febbraio 2018[2], ha sollevato questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 580 c.p. sotto un duplice profilo. Anzitutto, si è ravvisato un aspetto incostituzionalità nel fatto che l’art. 580 c.p. attribuisca rilevanza penale anche a forme di aiuto meramente materiale al suicidio, le quali quindi, rivolgendosi a un soggetto volontariamente e liberamente determinatosi a porre fine alla propria vita, non abbiano inciso in alcun modo sul suo proposito[3]. In via subordinata (come chiarito dalla Corte costituzionale[4]), si lamentava una sproporzione del trattamento sanzionatorio, visto che l’art. 580 c.p. prevede la stessa (severa) pena tanto per l’aiuto morale quanto per quello materiale.
Con l’ordinanza n. 207 del 2018, come ampiamente noto, la Corte costituzionale ha optato per una soluzione prima facie insolita, almeno sul piano strettamente procedurale: pur ravvisando alcune criticità nell’attuale disciplina dell’aiuto al suicidio e pur ritenendo che lo strumento più adatto ad emendarle sia la penna del legislatore, il Giudice delle Leggi ha preferito non ricorrere al consueto e collaudato strumento della sentenza monito, ma, «facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale», ha disposto il rinvio del giudizio al 24 settembre 2019. L’obiettivo dichiarato è quello di consentire un intervento del legislatore che adegui la risposta dell’ordinamento e rimedi alla “disparità di trattamento” che si determinerebbe nei confronti di soggetti in condizioni analoghe a quelle di Fabiano Antoniani.
L’impianto motivazionale dell’ordinanza n. 207 del 2018 può essere idealmente scomposto in due parti, dalla cui lettura congiunta si ricava un tentativo di delimitazione del “campo di indagine” che, a sua volta, sembra rispondere a una doppia finalità. Da una parte, si edificano degli argini robusti, per impedire che il piano su cui è adagiato (in equilibrio precario) l’aiuto al suicidio si inclini troppo, fino a trasformarsi nel famigerato e temibile pendio scivoloso e ingovernabile; dall’altra parte, la Corte si è assunta la responsabilità di non abbassare gli occhi[5], mettendo in evidenza le più plateali incongruenze che emergono dall’attuale quadro normativo.
Quanto al primo aspetto, la Corte afferma, in maniera apparentemente perentoria, che «l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione»[6]. La scelta, dunque, è quella di “salvare” l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, generalmente e genericamente inteso, e senza che a venire in considerazione siano le specifiche questioni poste dai soggetti affetti da malattie irreversibili. Tralasciando il dettaglio delle singole argomentazioni addotte sul versante tanto dell’art. 2 Cost. quanto degli artt. 2 e 8 CEDU, pare interessante sottolineare il mancato accoglimento del cambio di paradigma relativo al bene giuridico tutelato, pure proposto con forza dal giudice a quo: secondo la tesi di quest’ultimo, in effetti, il bene giuridico sotteso all’art. 580 c.p. andrebbe individuato non più nella vita, come nelle logiche stataliste e statolatriche del codice Rocco, ma nella libertà di autodeterminazione del singolo, con la conseguente necessità di non considerare penalmente rilevanti condotte di aiuto rivolte a un soggetto liberamente e autonomamente determinatosi al suicidio. La Corte costituzionale, viceversa, continua ad assumere quale punto di riferimento l’esigenza di tutelare il bene della vita[7], enfatizzando la condizione di particolare vulnerabilità in cui versano (rectius, potrebbero versare) i soggetti che si orientano a favore di una scelta estrema e irreparabile: spesso, infatti, si tratta di persone «malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine»[8].
La prospettiva in questione risulta indubbiamente significativa, se non altro perché da uno spostamento del fuoco di tutela dalla vita alla libertà individuale sarebbero potute derivare conseguenze di rilievo anche in riferimento alla tenuta della fattispecie di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), in cui, per definizione, il soggetto passivo presta un consenso libero e consapevole[9].
Nella seconda parte dell’ordinanza n. 207 del 2018, la Corte ha cura di sottolineare la peculiarità di quelle ipotesi, assimilabili al caso di Fabiano Antoniani, «in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Al verificarsi di queste condizioni, osserva la Consulta, l’assistenza da parte di terzi potrebbe rappresentare «l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost.»[10].
La legge n. 219 del 2017, stabilizzando e precisando gli esiti giurisprudenziali che hanno definito tanto il caso di Piergiorgio Welby quanto quello di Eluana Englaro, ha esplicitamente riconosciuto a ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o di interrompere qualsiasi trattamento sanitario, anche se necessario alla propria sopravvivenza. Il punto è che Fabiano Antoniani, pur bisognoso del respiratore artificiale, non ne era completamente dipendente, con la conseguenza per cui il distacco dello stesso avrebbe comportato la morte del paziente solo dopo alcuni giorni: proprio per questa ragione Dj Fabo aveva infine optato per una pratica di suicidio assistito in Svizzera. Trattando questa fattispecie concreta in maniera differente da quella, per intendersi, riassunta dal caso Welby, si verrebbe a determinare una vera e propria disparità tra il soggetto per cui l’unica via praticabile sia quella dell’interruzione “tout court” di un trattamento in atto e il soggetto per il quale questa via, pur materialmente percorribile, cagionerebbe sofferenze chiaramente più atroci di quelle che conseguirebbero all’intervento di un soggetto terzo che lo “aiuti a morire”.
A nulla varrebbe opporre, in questo caso, l’argomento della particolare vulnerabilità di soggetti che si trovino in una condizione come quella di Fabiano Antoniani, poiché «se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede perché il medesimo soggetto debba essere ritenuto viceversa bisognoso di una ferrea e indiscriminata protezione contro la propria volontà quando si discuta della decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri, quale alternativa reputata maggiormente dignitosa alla predetta interruzione»[11]. Se, altrimenti detto, il consenso informato “funziona” nelle situazioni prese in considerazione dalla legge n. 219 del 2017, dovrebbe poter operare anche in vicende che differiscono da quelle disciplinate dal legislatore solo per un contingente profilo di carattere naturalistico-causale.
Come già precisato, tuttavia, la Corte ritiene che una pronuncia di accoglimento della questione, pur significativamente “ritagliata” rispetto a quella sollevata dai giudici milanesi, lascerebbe aperti profili di criticità evitabili solo con un intervento del Parlamento, il quale, sempre ad avviso della Consulta, potrebbe concretizzarsi in una modifica della legge n. 219 del 2017. Tra le preoccupazioni più significative che emergono dall’ordinanza n. 207 del 2018 si segnalano: a) il rischio che «qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – possa lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino»; b) le lacune che verrebbero a determinarsi in riferimento alle «modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo “processo medicalizzato”, l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale, la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura»; c) il rischio di una prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda, secondo quanto previsto dalla legge n. 38 del 2010[12].
Per queste ragioni, ricalcando le orme della Corte Suprema canadese e della Corte Suprema inglese, la Corte “mette in mora” il legislatore, nella speranza che il dialogo con il Parlamento, sia pur forzosamente avviato, si traduca nel superamento di una disciplina (quanto meno) anacronistica e (certamente) inadeguata.
3.Soluzioni ipotizzabili: a) l’intervento della Corte costituzionale
Anche muovendo da una delimitazione della questione di legittimità costituzionale rispetto alla fisionomia che la stessa assumeva nell’ordinanza di rimessione, restava pur sempre ipotizzabile un intervento “immediato” della Corte, attraverso una sentenza interpretativa. Lo sviluppo logico-argomentativo seguito dal Giudice delle Leggi, per esempio, avrebbe potuto condurre a dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 580 c.p. nella parte in cui rende penalmente rilevante l’aiuto meramente materiale fornito a chi, ancora capace di autodeterminarsi, versi in una condizione che gli consentirebbe di richiedere l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua, alle condizioni previste dalla legge n. 219 del 2017.
Non è impresa agevole quella di ipotizzare lo scenario che potrebbe determinarsi qualora il legislatore resti inerte o intervenga in maniera inadeguata. L’ordinanza in questione è stata etichettata fin da subito come una “pronuncia a incostituzionalità differita”: si è affermato, in proposito, che il 24 settembre 2019 la Corte non potrebbe certo tornare sui propri passi, convertendo il sostanziale accoglimento di oggi in un futuro rigetto[13]. La lettura della motivazione non lascerebbe dubbi sul fatto che la disposizione impugnata sia ritenuta illegittima, sebbene a seguito di una drastica delimitazione della questione rispetto a quella sollevata dalla Corte di appello di Milano[14]. La scelta di non dichiarare l’incostituzionalità non obbliga certo la Corte a pronunciarla il prossimo settembre, ma un esito che, qualora la situazione restasse invariata, fosse diverso dalla dichiarazione di parziale illegittimità «infliggerebbe al prestigio della Corte un colpo esiziale»[15].
Le conclusioni dell’ordinanza n. 207 del 2018, in effetti, non sembrerebbero ammettere ripensamenti: «laddove, come nella specie, la soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolga l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere, questa Corte reputa doveroso – in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale – consentire, nella specie, al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa, così da evitare, per un verso, che, nei termini innanzi illustrati, una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale».
Anziché avventurarsi in temerari propositi, sembra però più saggia la via della prudente (e fiduciosa) attesa.
3.1 b) l’intervento del legislatore
La via più agevole per il legislatore che intendesse raccogliere il “monito rafforzato” della Corte costituzionale sarebbe forse quella di intervenire non tanto sulla formulazione dell’art. 580 c.p., quanto piuttosto sull’impianto della legge n. 219 del 2017. Se il Parlamento si limitasse a recepire le indicazioni “minime” suggerite dalla Corte, si tratterebbe di “estendere” la disciplina attuale a coloro che, pur tenuti in vita attraverso tecniche di sostegno artificiale, non ne siano del tutto dipendenti. Questi soggetti, e solo loro, dovrebbero poter optare per tecniche di suicidio assistito, previa acquisizione del consenso nelle forme già previste dalla legge. Resterebbe pur sempre aperta la questione relativa ai soggetti “non punibili”, rendendosi necessario chiarire, in particolare, se si tratti solo dei medici o paramedici, o anche di soggetti “non qualificati”.
Qualora, invece, il legislatore intendesse “andare oltre” le indicazioni offerte dal Giudice delle Leggi, si tratterebbe di introdurre una disciplina organica in materia di suicidio assistito, il cui vero punctum pruriens sarebbe la previsione normativa di meccanismi e procedure capaci di assicurare un effettivo accertamento della “reale volontà” del paziente[16].
Resta infine la possibilità di intervenire direttamente sugli articoli 579 e 580 c.p., ritagliando uno spazio di irrilevanza penale alle pratiche di eutanasia che, vista la presenza nell’ordinamento della legge n. 219 del 2017, con quest’ultima dovrebbe necessariamente coordinarsi.
La strada intrapresa dal Legislatore è proprio quella di limitare l’ambito applicativo delle fattispecie previste dal codice penale, sia pur attraverso un intervento extra codicem: il riferimento, in particolare, è alla proposta di legge di iniziativa popolare presentata il 13 settembre 2013 (XVII legislatura, AC n. 1582), assegnata il 26 giugno 2018 alla Commissioni Giustizia e Affari sociali. Le disposizioni più significative sono quelle contenute nell’art. 3 della proposta di legge, il quale prevede che le disposizioni di cui agli articoli 575, 579, 580 e 593 c.p. non si applicano al medico e al personale paramedico che hanno praticato trattamenti eutanasici, provocando la morte del paziente, al ricorrere di una serie di condizioni. La richiesta deve infatti provenire da un paziente maggiorenne e non in stato di incapacità di intendere e di volere, salvo quanto previsto dal successivo art. 4; il paziente deve essere stato adeguatamente informato sulle possibili alternative terapeutiche; devono essere altresì informati i parenti entro il secondo grado e il coniuge i quali, previo consenso del paziente, devono essere messi nella condizione di colloquiare con lo stesso; la richiesta – si tratta della condizione indubbiamente centrale – deve essere motivata dal fatto che il paziente sia affetto da una malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a diciotto mesi; il trattamento eutanasico deve rispettare la dignità del paziente e non arrecare allo stesso sofferenze fisiche.
Il successivo art. 4 prevede la possibilità di rendere dichiarazioni anticipate di trattamento in riferimento a pratiche di eutanasia, qualora il paziente dovesse trovarsi nelle condizioni descritte in precedenza (malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a diciotto mesi) e sia incapace di intendere o di volere ovvero di manifestare la propria volontà, nominando al tempo stesso un fiduciario che, al ricorrere delle condizioni, confermi la richiesta.
Quanto all’estensione della clausola di “irrilevanza penale”, che si traduce in definitiva in una delimitazione della tipicità delle singole fattispecie (lo schema sistematico di riferimento potrebbe essere quello dei limiti della norma penale), qualche precisazione si rende necessaria per la menzione tanto dell’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) quanto dell’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.). Nella proposta attualmente in discussione il trattamento eutanasico non è oggetto di apposita definizione, mentre in altri disegni di legge si chiarisce che lo stesso si intende limitato alla somministrazione, da parte del personale medico, di farmaci aventi lo scopo di provocare, con il consenso del paziente, la sua morte immediata e indolore[17]. Un eventuale silenzio del legislatore, potrebbe giustificarsi con l’esigenza di rinviare alla competenza del singolo medico chiamato ad effettuare il trattamento, che, di volta in volta, avrebbe il compito individuare il “mezzo tecnico” più adeguato alle condizioni del singolo paziente. Si tratta però di una scelta che potrebbe comportare qualche difficoltà di coordinamento sistematico, anche in ragione della formulazione dell’art. 3, che fa riferimento, come anticipato, ai soggetti che «praticano trattamenti eutanasici, provocando la morte del paziente». Anzitutto l’impiego del verbo “generico” provocare, in luogo del più “tecnico” cagionare, potrebbe teoricamente riferirsi non solo a condotte attive, ma anche a condotte omissive. In secondo luogo, la menzione congiunta degli articoli 579 e 580 c.p. farebbe ritenere che la nuova disciplina potrebbe trovare applicazione tanto in casi come quelli di Dj Fabo (art. 580 c.p.), quanto nelle ipotesi di somministrazione di un farmaco letale (art. 579 c.p.). La lettera della legge, però, ben potrebbe risultare compatibile anche con ipotesi di interruzione di un trattamento in corso, come avvenuto, per intendersi, nel caso di Piergiorgio Welby: considerando che la legge n. 219 del 2017 fa già riferimento al medico che non esegua un trattamento o ne interrompa uno già esistente, sarebbe auspicabile un coordinamento tra i due corpi normativi.
La proposta di legge esclude anche l’applicazione dell’art. 575 c.p.: questa precisazione parrebbe motivata dall’esigenza di evitare che dalla non applicabilità degli artt. 579 e 578 c.p. possa derivare una “riespansione” dell’art. 575 c.p., che risulterebbe in effetti applicabile, sia pur in ipotesi limitate, anche in presenza del consenso della vittima. Considerazioni in parte analoghe potrebbero valere sul piano dell’omissione di soccorso, anche se in questo caso il riferimento all’art. 593 c.p. risulta indubbiamente “più forzato”.
Una questione estremamente problematica è quella che attiene al novero dei soggetti attivi presi in considerazione dalla proposta di legge. L’art. 3 fa infatti riferimento ai soli medici e al personale sanitario che pratichino trattamenti di eutanasia, provocando la morte del paziente. In altre proposte di legge (più recenti) si prendono invece in considerazione, oltre ai sanitari, anche “tutti coloro che agevolino o aiutino il paziente nell’accesso al trattamento eutanasico”[18]. In assenza di quest’ultima precisazione, in effetti, resterebbe applicabile la sanzione penale a casi assimilabili a quello di Marco Cappato e riconducibili, più in generale, all’aiuto meramente materiale (non si fa riferimento anche alle forme di aiuto morale) prestato da soggetti “non qualificati”, a partire da coloro che compongono la cerchia di amici e familiari del paziente. Si tratterebbe di una conseguenza per certi aspetti paradossale, visto che nel momento in cui si rende lecita la pratica eutanasica, per definizione rivolta a soggetti che il più delle volte non risultano del tutto autosufficienti, risulterebbe irragionevole perseverare nell’applicazione della sanzione penale a fronte di condotte “materialmente prodromiche” alla pratica stessa. Il problema, semmai, sarebbe quello di delimitare con sufficiente precisione l’ambito applicativo delle condotte in questione. Se, per esempio, si estendesse l’irrilevanza penale alle condotte prodromiche “all’accesso al trattamento eutanasico”, ferma restando la necessità di chiarire a che cosa il concetto di “trattamento eutanasico” faccia riferimento, potrebbe ritenersi che nelle condotte di “aiuto all’accesso” rientrino anche quelle di chi reperisca informazioni utili sulla procedura da seguire o, ancora, accompagni materialmente il paziente nel luogo prescelto per il trattamento.
Sul piano della definizione dello stato patologico in presenza del quale è possibile richiedere l’accesso all’eutanasia, deve trattarsi di una malattia che provoca gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a diciotto mesi. Sembrerebbe che i requisiti in questione non debbano sussistere congiuntamente, come suggerito dall’impiego della disgiuntiva “o”, anche se non è chiaro se la stessa si riferisca solo ai rapporti tra inguaribilità e prognosi infausta: non è chiaro, altrimenti detto, se la malattia debba essere inguaribile o con prognosi infausta, ma comunque grave, oppure se il requisito della gravità possa operare anche da solo. Il concetto di gravità, ad ogni modo, individua un parametro indubbiamente elastico ma, almeno, non rinvia alla mera percezione soggettiva del paziente (in altri disegni di leggi si parla di “sofferenze insostenibili”[19]).
Nella proposta di legge, pare opportuno ribadirlo, si prevede anche la possibilità di rendere dichiarazioni anticipate di trattamento in riferimento all’eutanasia, sia pur alle rigide condizioni individuate dalla legge stessa. In questo modo il requisito dell’attualità risulta “dilatato”, recuperandosi però un pieno parallelismo rispetto alla legge n. 219 del 2017.
Un’ultima considerazione attiene proprio ai rapporti tra la disciplina attuale e quella che, eventualmente, sarà approvata. La scelta di intervenire con un nuovo testo legislativo, come già precisato, potrebbe comportare dei disallineamenti a livello sistematico. La questione si pone non solo per il coordinamento tra le condotte penalmente irrilevanti, ma anche per i profili relativi alla responsabilità del medico, su un duplice livello: il primo è quello relativo alle conseguenze “sfavorevoli” per il medico che non dia seguito alla richiesta dal paziente; il secondo è quello relativo agli effetti “favorevoli” per il medico che agisca nel rispetto delle condizioni richieste dalla legge.
Quanto al primo aspetto, la legge del 2017 non prevede espressamente conseguenze “sfavorevoli” per il medico “inadempiente”, mentre l’art. 2 della proposta di legge attualmente in discussione alla Camera dei Deputati stabilisce che «il personale medico e sanitario che non rispetta la volontà manifestata dai soggetti e nei modi indicati nell’articolo 1 è tenuto, in aggiunta a ogni altra conseguenza penale o civile ravvisabile nei fatti, al risarcimento del danno, morale e materiale, provocato dal suo comportamento».
Ancora più complessa è la questione relativa alla “non punibilità” del medico. La legge n. 219 del 2017, in effetti, si limita a precisare che il medico «è esente da responsabilità civile o penale». Qualora, come avvenuto per la vicenda giudiziaria successiva alla morte di Piergiorgio Welby, in caso di interruzione di un trattamento già in atto si ragionasse nei termini di una condotta attiva, scriminata ex art. 51 c.p., si determinerebbe una situazione paradossalmente meno favorevole rispetto a quella che, a monte, esclude l’applicabilità degli articoli 579 e 580 c.p. “persino e addirittura” nei casi di trattamenti eutanasici.
Indipendentemente dalla soluzione che si ritenga preferibile, dunque, la scelta di un testo legislativo unitario avrebbe forse evitato eccessive incertezze in sede interpretative, a fronte di una normativa organica e omogenea (almeno) in riferimento alla formula linguistico-terminologica cui si affida la “non punibilità” del medico adempiente.
3.2 c) la valorizzazione di una logica del “caso per caso”
Qualora la situazione legislativa dovesse restare invariata e qualora, per assurdo, la Corte costituzionale decidesse di non dichiarare la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., resterebbe pur sempre la via “interpretativa”.
Una soluzione praticabile, in effetti, sembra quella fondata sulla valorizzazione della libertà di autodeterminazione del singolo come bene giuridico tutelato dall’art. 580 c.p. Muovendo dalla premessa per cui il soggetto che decide di togliersi la vita, a fortiori mediante il contributo di un terzo, versi solitamente in una condizione di particolare vulnerabilità, potrebbe ritenersi che l’art. 580 c.p. configuri un reato di pericolo presunto, posto a tutela della libertà di autodeterminazione del singolo e fondata su una “presunzione ragionevole”, che trovi cioè corrispondenza nelle regole di comune esperienza. È ormai opinione sufficientemente condivisa quella per cui i reati di pericolo presunto possono considerarsi compatibili con il principio di necessaria offensività in materia penale solo in quanto la presunzione di pericolo effettuata in astratto dal legislatore sia “superabile” in concreto da parte del giudice.
La lettura in questione ha un pregio e un difetto, entrambi evidenti.
Il pregio è quello di affidarsi alla (e di confidare nella) logica del “caso per caso” in una materia che, per la delicatezza degli interessi che vengono in considerazione e per la inadeguatezza “culturale” che si registra a più livelli nell’attuale contesto sociale, politico, ma anche giuridico, sembrerebbe mal conciliarsi con una disciplina di carattere generale e astratto.
Il difetto è quello per cui, se davvero si ritesse di assumere come presupposto una sostanziale messa in discussione del dogma dell’indisponibilità della vita umana per approdare alla tutela della (sola) libertà di autodeterminazione, si comprometterebbe non tanto la tenuta dell’art. 580 c.p., ma, come già precisato, quella dell’art. 579 c.p. Si tratterebbe però di conseguenze cui la perdurante vocazione a un paternalismo di facciata, incline più a lasciarsi distrarre dal dito anziché a concentrarsi sulla luna, non sembra per ora disposto a concedere spazi, anche solo ipotetici.
[1] «[…] non c’è nulla da fare: il problema è sempre nello scarto tra l’affermazione formale e l’attuazione dei diritti, scarto che aumenta nelle congiunture di particolare difficoltà economica»: O. Di Giovine, Procreazione assistita, aiuto al suicidio e biodiritto in generale: dagli schemi astratti alle valutazioni in concreto, in Dir. pen. proc., 7/2018, 921.
[2] Sull’iter giudiziario che ha condotto alla Corte costituzionale si rinvia, per tutti, a D. Pulitanò, Il diritto penale di fronte al suicidio, in www.penalecontemporaneo.it, 16 luglio 2018; M. D’Amico, Scegliere di morire “degnamente” e “aiuto” al suicidio: i confini della rilevanza penale dell’art. 580 c.p. davanti alla Corte costituzionale, in Corr. giur., 2018, 737 ss.; R. Bartoli, Ragionevolezza e offensività nel sindacato di costituzionalità dell’aiuto al suicidio, in www.penalecontemporaneo.it, 8 ottobre 2018. Si segnalano, poi, le Note di udienza, relative alla discussione di fronte alla Corte costituzionale, di F. Gallo e V. Manes, consultabili Giurisprudenza penale web, 5 novembre 2018.
[3] Sul punto già L. Risicato, Dal «diritto di vivere» al «diritto di morire». Riflessioni sul ruolo della laicità nell’esperienza penalistica, Giappichelli, 2008, 79.
[4] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 1 del Considerato in diritto.
[5] Come auspicato da V. Manes, Note di udienza, cit., 14. Sottolinea la scelta, da parte della Corte costituzionale, di non occultare il problema, sebbene senza approdare a una sentenza manipolativa, anche S. Prisco, Il caso Cappato tra Corte Costituzionale, Parlamento e dibattito pubblico. Un breve appunto per una discussione da avviare, in Riv. biodiritto, 3/2018, 156.
[6] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 8 del Considerato in diritto.
[7] V. in particolare Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 8 del Considerato in diritto: «neppure […] è possibile desumere la generale inoffensività dell’aiuto al suicidio da un generico diritto all’autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita, che il rimettente fa discendere dagli artt. 2 e 13, primo comma, Cost.».
[8] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 6 del Considerato in diritto.
[9] Per più ampie considerazioni al riguardo sia consentito il rinvio ad A. Massaro, L’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio. La rilevanza penale delle pratiche di fine vita, in Giurisprudenza penale web, 14 ottobre 2018, 6 ss.
[10] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 8 del Considerato in diritto.
[11] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 9 del Considerato in diritto.
[12] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 10 del Considerato in diritto.
[13] A. Ruggeri, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale (a margine della ordinanza n. 207 del 2018 sul Caso Cappato), in www.giurcost.org, 2018, III, 574.
[14] M. Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, in Quest. giust., 19 novembre 2018, § 1.
[15] Così, ancora, M. Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale, cit., § 3.
[16] Cfr. la proposta di O. Di Giovine, Procreazione assistita, cit., 922.
[17] Il riferimento è al Disegno di legge presentato al Senato il 30 ottobre 2018, AS 912, art. 7, comma 1.
[18] Disegno di legge, AS 912, cit., art. 7, comma 1.
[19] V. ancora Disegno di legge, AS n. 912, cit., art. 7, comma 1, lettera d).
Il curatore è legittimato ad impugnare il decreto di sequestro penale avente ad oggetto beni dell’imprenditore commerciale “fallito” di Paola Filippi
Sommario: 1. L’articolo 320 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. - 2. La sentenza delle Sezioni Unite penali Uniland in tema di legittimazione del curatore. -3. Le sentenze della II Sezione del 2003, PM proc. Sajeva, e delle Sezioni Unite del 2004, proc. Focarelli. - 4. La giurisprudenza di legittimità dopo le Sezioni unite Uniland.- 5. Genesi della norma, vigenza e natura interpretativa. - 6. La legittimazione del curatore in materia di misure di prevenzione e in materia di responsabilità degli enti.
1. L’articolo 320 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
Il curatore può proporre richiesta di riesame e appello contro il decreto di sequestro e contro le ordinanze in materia di sequestro, e è altresì legittimato a proporre ricorso per Cassazione, tanto prevede espressamente l’articolo 320 del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, rubricato appunto “La legittimazione del curatore”, d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, emesso in attuazione della legge delega 19 ottobre 2017, n. 155, (pubblicato nella Gazz. Uff. 14 febbraio 2019, n. 38, S.O), che entrerà in vigore il 15 agosto 2020.
L’espressa enunciazione del potere del curatore di agire in giudizio contro provvedimenti cautelari, lesivi della garanzia patrimoniale dei creditori corregge, apertis verbis, l’affermazione delle Sezioni Unite penali, sentenza n.11170 del 25.9.2014, Uniland S.p.a, che lo aveva relegato alla figura di “soggetto terzo rispetto al procedimento cautelare”, “soggetto senza titolo rispetto ai beni in sequestro, senza potere di azione e di rappresentanza dei creditori”.
2. La sentenza delle Sezioni Unite penali Uniland in tema di legittimazione del curatore.
La decisione delle Sezioni Unite penali Uniland in punto di legittimazione del curatore, ha sin da subito destato perplessità (come emerge dagli argomentati distinguo della Terza Sezione penale di cui alle sentenze n. 45574 del 29.5.2018, n. 37439 del 7.3.2017, Fallimento della Europa 2000 s.r.l.; n. 47737 del 24.9.2018, Fallimento Paninvest s.p.a).
I penalisti hanno posto in luce l’assenza di tutela derivante dal diniego di legittimazione del curatore stante il venir meno, in conseguenza del fallimento (dal 2020 liquidazione giudiziale) dell’interesse ad agire dell’indagato.
I fallimentaristi hanno rilevato il contrasto derivante dall’affermata incapacità di agire ai fini recuperatori, in sede penale, dell’organo cui è demandato il compito precipuo di ricostituire l’attivo ovvero dell’organo al quale, in sede civile, è riconosciuta piena capacità di azione a tutela della massa con riguardo ai diritti patrimoniali del debitore, alle azioni di responsabilità e che, ai sensi dell’articolo 240 legge fallimentare ( articolo 347 del codice della crisi), è l’unico soggetto legittimato a costituirsi parte civile nel processo penale.
3. Le sentenze della II Sezione del 2003, PM proc. Sajeva, e delle Sezioni Unite del 2014, proc. Focarelli.
L’affermazione secondo la quale il curatore non è legittimato ad agire contro le misure cautelari reali aventi ad oggetto i beni di cui all’art. 42 della legge fallimentare (ora articolo 142 del Codice della crisi e dell’insolvenza dell’impresa) non ha avuto un seguito unanime tra i giudici di merito, rimasti ancorati all’affermazione secondo cui “contro le ordinanze in materia di sequestro preventivo, legittimato a proporre appello, ai sensi dell'art. 322 bis cod. proc. pen., è anche il curatore del fallimento che, nell'espletamento dei compiti di amministrazione del patrimonio fallimentare, chieda la restituzione delle somme di denaro sequestrate, riferibili alla società fallita, ancorché derivanti da condotte illecite poste in essere dall'imprenditore”, (Sez. 2, sentenza n.24160 del 16.5.2003, PM in proc. Sajeva) e quindi all’affermazione secondo cui “il curatore del fallimento, nell'espletamento dei compiti di amministrazione del patrimonio fallimentare, ha facoltà di proporre sia l'istanza di riesame del provvedimento di sequestro preventivo, sia quella di revoca della misura, ai sensi dell'art. 322 cod. proc. pen., nonché di ricorrere per cassazione ai sensi dell'art. 325 stesso codice avverso le relative ordinanze emesse dal tribunale del riesame”(Sezioni Unite, sentenza n. 29951 del 24.5.2004, proc. Focarelli).
4. La giurisprudenza di legittimità dopo le Sezioni unite Uniland.
In sede di legittimità, dopo le Sezioni Unite Uniland, si sono registrate decisioni ondivaghe. La legittimazione del curatore, è stata ancorata all’anteriorità della procedura concorsuale rispetto al sequestro, così la legittimazione del curatore è stata riconosciuta, nel caso di sequestro successivo all’apertura della procedura esecutiva, in base all’affermazione che “i beni erano stati già assoggettati alla procedura fallimentare” e che la dichiarazione di fallimento aveva comportato “il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, con l’effetto dell’attribuzione al curatore del compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento” (Sez. 3, sentenza n. 45574 del 29.5.2018). In ragione dell’anteriorità del sequestro rispetto all’apertura della procedura esecutiva concorsuale il curatore è stato invece ritenuto non legittimato a proporre l’impugnazione in quanto: “non titolare di alcun diritto sui beni del fallito, né in proprio, né quale rappresentante dei creditori del fallito i quali, prima della conclusione della procedura concorsuale, non hanno alcun diritto restitutorio sui beni”. (Sez. 3, sentenza n. 42469, 12.7.2016 Amista e n. 23388, 1.3.2016 Ivone). L’affermazione di entrambe le decisioni sopra riportate si fonda sull’assunto, in insanabile contraddizione con i principi che regolano la procedura concorsuale, che la legittimazione ad impugnare del curatore consegue alla “effettiva disponibilità del bene, che la dichiarazione di fallimento successiva al sequestro non conferisce alla procedura la disponibilità dei beni del fallito perché questi conserva il diritto di proprietà e che il pregresso vincolo penale assorbe ogni potere fattuale su tali beni, escludendo ogni disponibilità diversa sugli stessi”.
Detto assunto è in palese contrasto con la disciplina di cui agli articoli 64 - 71 della legge fallimentare (articoli 163 - 170 del codice della crisi) in materia di ricostituzione della massa attiva, che rimette al curatore uno specifico compito recuperatorio con riferimento a quanto uscito dal patrimonio dell’imprenditore commerciale, prima dell’apertura della procedura esecutiva concorsuale (ora liquidazione giudiziale); è in palese contrasto altresì con la disposizione di cui all’articolo 43 della legge fallimentare (articolo 143 del codice della crisi) che gli conosce piena capacità processuale con riferimento ai diritti patrimoniali, detto argomento non tiene poi conto della qualità di creditore concorsuale chirografario della persona offesa del reato (si legga in tal senso Sez. 2, sentenza n. 24160 del 16.5.2003, PM in proc. Sajeva)– ivi compreso l’erario seppure creditore concorsuale privilegiato- nè tiene conto della natura di creditore concorsuale dello Stato con riguardo alla sanzione pecuniaria con riferimento alla responsabilità degli enti, ma questo sarà trattato più approfonditamente quando si tratterà il tema dei criteri di prevalenza, rispetto alla gestione concorsuale, delle misure cautelari adottate in sede penale, anteriormente o successivamente alla dichiarazione di fallimento (dal 2020 dalla dichiarazione di insolvenza).
La destinazione del patrimonio dell’imprenditore commerciale quale garanzia dei crediti assunti nell’esercizio dell’impresa e lo specifico compito del curatore di ricostituire la massa attiva da liquidare ai fini del riparto evidenzia l’assoluta irrilevanza ai fini del riconoscimento del potere di agire o ai fini della scelta in ordine alla prevalenza tra sequestro e procedura concorsuale del momento in cui interviene l’apprensione a fini cautelari del bene.
Secondo la giurisprudenza di legittimità più recente, ai fini della verifica della legittimazione del curatore, deve essere considerata non già la diponibilità dei beni al momento del sequestro bensì l’interesse alla restituzione, su questa linea è così iniziata, già prima della pubblicazione del d.lgs. n. 14/2019, la graduale rivisitazione giurisprudenziale dell’affermazione delle Sezioni Unite Uniland.
E’ stato evidenziato, nell’ambito di detto orientamento, che “l'idea secondo la quale l'interessato coincida sempre con l'indagato o con la società fallita è tutta da verificare in concreto, perché, allorquando sui beni siano apposti plurimi vincoli, è ben possibile che l'indagato non abbia alcun interesse, mentre la curatela ne abbia molteplici, sicché negarle seccamente la legittimazione, sulla base di una tralaticia applicazione del principio della sentenza Uniland finisce per negare la tutela all'avente diritto. Per contro, generalizzare la legittimazione del curatore all'impugnativa, negandola all'indagato o al legale rappresentante della società fallita pure conduce ad un diniego di tutela quando la curatela abbia dimostrato disinteresse per quell'azione giudiziale”. E’ stato così affermato il principio secondo cui: “il giudice deve apprezzare nel caso concreto il diritto e l'interesse del curatore fallimentare all'impugnativa delle misure cautelari reali, avuto riguardo alla specialità delle norme fallimentari, da un lato, ed alle specialità delle norme penali dall'altro e formulando di volta in volta un giudizio di bilanciamento dei contrapposti interessi” (Sez. terza, Sez. 3, n. 37439 del 07/03/2017, Fallimento della Europa 2000 s.r. l., sentenza non massimata).
Ulteriori profili di criticità emergono dalla considerazione che dopo l’apertura della procedura concorsuale, se l’indagato non è più legittimato a chiedere il dissequestro, la negazione della legittimazione ad agire del curatore determina il paradosso che nessuno è titolato a far valere in sede giurisdizionale eventuali vizi dell’ordinanza cautelare e ciò (aggiungiamo noi), in danno dei creditori concorsuali che solo con la liquidazione del patrimonio in sequestro potrebbero trovare, quanto meno parziale, soddisfazione dei loro crediti (Sez. 3, n. 47737 del 24/09/ 2018, Fallimento Paninvest s.p.a.)
Anche prima della pubblicazione del decreto legislativo n. 14/2019 la Cassazione sembrava orientarsi verso un ritorno ai principi affermati dalla sentenza delle Sezioni Unite Focarelli. Da ultimo, con ordinanza del 16 aprile 2019 nell’ambito del proc. R.G. n. 2208/2019, sul ricorso del Fallimento Mantova Petroli s.r.l., la Terza sezione ha rimesso alle Sezioni unite il quesito “Se il curatore fallimentare sia legittimato a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale, quando il vincolo penale sia stata disposto prima della dichiarazione di fallimento”.
5. Genesi della previsione normativa.
E’ stato il diniego della legittimazione del curatore di fonte giurisprudenziale a persuadere la prima Commissione Rordorf -nominata con decreto ministeriale del 18 febbraio 2015 “per elaborare proposte di interventi di riforma, ricognizione e riordino della disciplina delle procedure concorsuali”- dell’opportunità di inserire una disposizione che sancisse espressamente l’esistenza, in capo al curatore del potere di agire, anche in sede cautelare penale, a tutela della massa fallimentare. La previsione di cui all’articolo 320 è stata così inserita tra quelle dirette “a stabilire le condizioni e criteri di prevalenza, rispetto alla gestione concorsuale, delle misure cautelari adottate in sede penale, anteriormente o successivamente alla dichiarazione di insolvenza (direttiva della legge delega 19 ottobre 2017 n. 155 inserita nell’articolo 13 n. 1).
L’entrata in vigore del codice della crisi è differita al 15 agosto 2020, ma il vigore differito non esclude l’applicazione immediata della norma in tema di legittimazione del curatore e ciò in quanto come sopra si è evidenziato la disposizione di cui all’art. 320 non ha portata innovativa bensì, per le ragioni sopra esposte, natura squisitamente interpretativa, costituisce infatti codificazione di un principio immanente alla procedura esecutiva concorsuale, la cui introduzione è stata determinata dalla necessità di fare chiarezza in punto di poteri dell’organo “principe” della procedura esecutiva concorsuale, messi in dubbio dalla sentenza Sezioni Unite Uniland.
A conforto di quanto si è detto si richiama l’attenzione sulla circostanza che la previsione espressa della legittimazione ad agire del curatore non si collega a norme che comportano il riconoscimento di poteri nuovi ma trae fondamento dal principio di immutata cogenza che informa il sistema dell’esecuzione civile, sancito all’articolo 2740 cod. civ. che assegna ai beni del debitore l’inderogabile destinazione di patrimonio a garanzia delle pretese creditorie e così come nel principio che informa l’esecuzione concorsuale della par condicio creditorum, come ribadito all’articolo 151 del codice della crisi e dell’insolvenza, che ripropone il testo dell’articolo 52 della legge fallimentare: “la liquidazione giudiziale apre il concorso dei creditori sul patrimonio del debitore e dal giorno della dichiarazione di insolvenza e apertura della procedura di liquidazione giudiziale nessuna azione individuale esecutiva o cautelare, può essere iniziata o proseguita”. Sotto il profilo processuale infine la legittimazione del curatore di cui all’articolo 320 codice della crisi altro non è che la declinazione in sede penale del principio della legittimazione in sede civile del curatore con riferimento ai diritti patrimoniali, l’articolo 143 del codice della crisi riporta la previsione contenuta all’articolo 43 della legge fallimentare, rubricato come il precedente rapporti processuali, secondo cui “nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del debitore compresi nella liquidazione giudiziale sta in giudizio il curatore”.
6. La legittimazione del curatore in materia di misure di prevenzione e in materia di responsabilità degli enti.
L’art. 317 rubricato “Principio di prevalenza delle misure cautelari reali e tutela dei terzi” prevede inoltre che “ le condizioni e i criteri di prevalenza rispetto alla gestione concorsuale delle misure cautelari reali sulle cose indicate dall'articolo 142 sono regolate dalle disposizioni del Libro I, titolo IV del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, salvo quanto previsto dagli articoli 318, 319 e 320”, così estendendo la previsione della legittimazione del curatore anche con riguardo alle misure di prevenzione.
Deve così ritenersi risolta, in senso positivo per i creditori concorsuali, la questione della legittimazione in sede cautelare penale del curatore aperta dalle Sezioni unite Uniland, in ragione del carattere estensivo della previsione normativa, da riferirsi anche alle disposizioni di cui al d.lgs. n. 231/2001 in materia di responsabilità degli enti e ciò in ragione della direttiva di cui all’art. 13 n.2 della legge 19 ottobre 2017, n. 155, in materia di coordinamento della liquidazione giudiziale con la disciplina di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231, e in particolare con le misure cautelari previste dalla disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti nel rispetto della prevalenza del regime concorsuale.
L’ESDEBITAZIONE NEL PASSAGGIO DALLA LEGGE FALLIMENTARE AL CODICE DELLA CRISI D’IMPRESA E DELL’INSOLVENZA di Daniele Vattermoli
Il Codice della crisi e dell’insolvenza dedica all’esdebitazione il Capo X del Titolo V (artt. 278-283). La scelta del legislatore delegato è stata quella, per un verso ed in parte, di riprodurre le disposizioni ora contenute nella legge fallimentare e nella l. n. 3/2012 e, per altro verso, di innovare profondamente la disciplina attuale, andando anche al di là dei confini segnati dai principi della legge delega n. 155/2017. L'articolo si propone di illustrare le novità più rilevanti, appunto, introdotte dalla riforma in tema di fresh start del debitore insolvente.
L’esdebitazione – attualmente disciplinata dagli artt. 142-144 l.fall. e dall’art. 14-terdecies l. n. 3/2012 – è l’istituto attraverso il quale il debitore fallito o sovraindebitato, ricorrendo determinate condizioni, viene liberato dall’obbligo di adempimento delle prestazioni ancora dovute ai creditori rimasti insoddisfatti dai riparti endoconcorsuali, in deroga alla regola ricavabile dall’art. 120, comma 3 l.fall.[1]. Quella appena descritta è, più in particolare, l’esdebitazione in senso stretto, che consegue alla chiusura di una procedura concorsuale che prevede la liquidazione dei beni del debitore [fallimento e liquidazione del patrimonio, oggi; liquidazione giudiziale e liquidazione controllata, quando entrerà in vigore il Codice della crisi e dell’insolvenza (CCI)], come tale intervenendo dall’esterno del rapporto obbligatorio, senza alcun coinvolgimento attivo della parte creditrice. Da tale figura si distinguono dunque le ipotesi di liberazione dai debiti che costituiscono un elemento di un accordo più ampio tra debitore e creditori (es., falcidia concordataria), che d’acchito sembrerebbero appartenere – ma in realtà così non è – alla medesima categoria concettuale dell’esdebitazione.
Per quel che concerne la ratio dell’istituto, occorre sottolineare come l’impossibilità di individuare una “controprestazione” diretta all’esdebitazione in senso stretto, possibile invece nell’ambito della falcidia concordataria, abbia imposto ed impone di ricercare la giustificazione della stessa al di fuori del rapporto obbligatorio che ne è investito.
In particolare, si ritiene comunemente cha tale giustificazione consista nell’agevolare il recupero al mercato di un soggetto (a maggior ragione se imprenditore) produttivo di reddito e di lavoro, il cui reinserimento nel tessuto economico verrebbe frustrato dalla permanenza del vincolo impresso dall’art. 2740, comma 1 c.c. sul patrimonio formatosi successivamente alla chiusura della procedura. Reinserimento che produrrebbe effetti benefici non soltanto sul piano personale, bensì anche a livello macroeconomico ed il cui costo viene sopportato dai creditori anteriori alla concessione del beneficio, a tutto vantaggio, a ben vedere, dei creditori futuri. Ciò che consente di cogliere, in una visione di insieme, il precipitato ultimo degli effetti della esdebitazione, rappresentato dallo spostamento di valore da un gruppo di soggetti ad un altro, del quale occorre ovviamente tener conto al momento della valutazione complessiva dell’istituto[2]. Può dirsi, dunque, che la disciplina della esdebitazione si caratterizza (o dovrebbe caratterizzarsi) per la ricerca del più efficiente punto di equilibrio tra le ragioni del debitore e quelle dei creditori concorsuali, nella consapevolezza che all’aumentare della flessibilità e all’allargarsi delle maglie per la concessione del beneficio, maggiore è il rischio per i secondi di subire la perdita totale della parte del credito non soddisfatta all’interno della procedura collettiva e più alto, di conseguenza, è il “premio” per la copertura ex ante dello stesso, che inevitabilmente si traduce in un aumento del costo del danaro.
Su di un piano generale va detto che l’esdebitazione è istituto di fonte legale, l’autorità giudiziaria limitandosi, invero, ad accertare la sussistenza delle condizioni, positive e negative, che le norme pongono per la sua concessione.
Sempre su di un piano generale sembra corretto ritenere che il rapporto obbligatorio non si estingua e che dunque sopravviva all’esdebitazione. Dato che emerge con sufficiente chiarezza dalla lettera degli artt. 14-terdecies, comma 4 l. n. 3/2012 e 143, comma 1, l.fall. nei quali si afferma che il giudice, accertate le condizioni poste dalla legge, «dichiara inesigibili nei confronti del debitore i crediti non soddisfatti integralmente»; norma replicata dal nuovo art. 278, comma 1 CCI, ai sensi del quale l’esdebitazione «comporta l’inesigibilità dal debitore dei crediti rimasti insoddisfatti». Che il rapporto obbligatorio sopravviva all’esdebitazione è poi confermato, seppure indirettamente, dell’art. 142, ult. comma, l.fall. ai sensi del quale «sono salvi i diritti vantati dai creditori nei confronti di coobbligati, dei fideiussori e degli obbligati in via di regresso»; disposizione che trova il proprio corrispondente, applicabile anche alla procedura di liquidazione controllata[3], nell’art. 278, comma 6 CCI.
L’inesigibilità del credito determinata dalla esdebitazione si atteggia come un effetto tendenzialmente definitivo, non essendo soggetto né a tempo né a condizione risolutiva (con l’entrata in vigore del CCI verrà meno anche la possibilità di revoca della concessione del beneficio, oggi prevista, ma solo nell’ambito della procedura di sovraindebitamento, dall’art. 14-terdecies, comma 5 l. n. 3/2012); ed è un effetto innescato, come si è detto, da un intervento esterno rispetto al rapporto obbligatorio che ne è investito. Caratteristiche che consentono di ricondurre l’obbligazione colpita dall’esdebitazione tra quelle naturali, ex art. 2034 c.c., il cui adempimento spontaneo non ammette la ripetizione della prestazione eseguita. Si tratta, più in particolare, di un’ipotesi di obbligazione naturale atipica sopravvenuta, che presenta più di un punto di contatto con il pagamento del debito prescritto (art. 2940 c.c.) [4].
All’esdebitazione la legge delega n. 155/2017 dedica, con riferimento alla liquidazione giudiziale, l’intero art. 8; del beneficio si occupa, inoltre, l’art. 9, contenente i principi direttivi in tema di sovraindebitamento, confermandosi così, anche nel nuovo scenario, il sistema del doppio binario.
Il Codice della crisi e dell’insolvenza dedica all’esdebitazione il Capo X del Titolo V (artt. 278-283). La scelta del legislatore delegato è stata quella, per un verso ed in parte, di riprodurre le disposizioni ora contenute nella legge fallimentare e nella l. n. 3/2012 e, per altro verso, di innovare profondamente la disciplina attuale, andando anche al di là dei confini segnati dai principi di delega.
Dal punto di vista della struttura, il CCI si compone di un gruppo di disposizioni applicabili alla liberazione dai debiti nelle procedure concorsuali che prevedono genericamente la liquidazione dei beni del debitore e, dunque, comuni alla liquidazione giudiziale e a quella controllata (artt. 278-280); e di altri due gruppi, più circoscritti, di disposizioni che trovano applicazione alla prima (art. 281) o alla seconda (art. 282) procedura.
Qui di seguito le novità più rilevanti rispetto alla disciplina vigente.
A. Prendendo spunto dalle indicazioni provenienti dalle istituzioni comunitarie è in primo luogo stabilito che per entrambe le procedure il termine massimo per il conseguimento del beneficio è di tre anni, decorrente dalla data di apertura della liquidazione (art. 279, comma 1 CCI), salvo che la procedura si chiuda prima, nel qual caso si può ottenere con il provvedimento di chiusura.
Il beneficio dell’esdebitazione può peraltro essere ottenuto anche prima (trascorsi due anni dal momento dell’apertura della procedura), qualora il debitore abbia proposto tempestivamente – ossia nei termini stabiliti dall’art. 24 CCI – l’istanza di composizione assistita della crisi (art. 279, comma 2 CCI), dando luogo ad una ulteriore misura premiale che si aggiunge a quelle contemplate dall’art. 25 CCI.
B. In secondo luogo, la liberazione dai debiti, come auspicato nella Raccomandazione UE del 2014 e dalla proposta di Direttiva del 2016, è effetto automatico del trascorrere del tempo, ma solo per il debitore sovraindebitato (art. 282, comma 1 CCI, rubricato “Esdebitazione di diritto”, ma che, più correttamente, andrebbe qualificata come esdebitazione “d’ufficio”). Per gli altri debitori, invece, la liberazione d’ufficio sembrerebbe possibile solo in sede di chiusura della procedura di liquidazione giudiziale: è infatti richiesta l’istanza del debitore qualora siano trascorsi tre anni e la procedura non sia ancora chiusa (art. 281, comma 2 CCI).
C. Sempre nell’ottica di facilitare l’esdebitazione si colloca la novità data dalla riduzione a 5 anni del lasso temporale minimo che deve intercorrere tra una esdebitazione e l’altra [art. 280, comma 1, lett. d) CCI], che l’attuale art. 14-terdecies, comma 1, lett. c), l. n. 3/2012 fissa in 8 anni per il sovraindebitato e l’art. 142, comma 1, n. 4) fissa in 10 anni per gli altri debitori. Per tutte le categorie di debitori è poi introdotto il limite, fin qui sconosciuto, delle due esdebitazioni [“quarta opportunità” non datur: art. 280, comma 1, lett. e) CCI].
D. Degna di segnalazione è la novità contemplata dall’art. 283 CCI che disciplina quella che può definirsi l’esdebitazione totale del sovraindebitato; ossia la liberazione integrale dai debiti del debitore persona fisica che non sia in grado di offrire ai creditori alcuna utilità, superandosi così il requisito, attualmente esistente, del soddisfacimento almeno parziale dei creditori.
Con riferimento a quest’ultima ipotesi – che, certo, dal punto di vista sistematico ha un impatto di non poco momento, sol che si consideri che in tal modo la procedura concorsuale da strumento di tutela del credito si trasforma, seppure una tantum, in un istituto a beneficio esclusivo del debitore – la legge fa peraltro salvo per il debitore, «l’obbligo di pagamento del debito entro quattro anni, laddove sopravvengano utilità rilevanti che consentano il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore al dieci per cento».
Premesso che il termine di quattro anni sembrerebbe da ricollegare alla durata minima oggi stabilita per la procedura di liquidazione del patrimonio, non può non rilevarsi la bizzarria della disposizione, che disegna quella che, con un ardito parallelo, può definirsi una “esdebitazione modale”, del tutto sconosciuta al nostro ordinamento.
Una esdebitazione, per di più, nella quale il modus può nel caso concreto – quando cioè le utilità sopravvenute siano tali da coprire l’intero debito inizialmente oggetto di esdebitazione – assumere contorni tali da annullare completamente il beneficio iniziale per il debitore. Ciò che comporta un doppio effetto boomerang, ossia: per un verso, che per il soggetto sovraindebitato potrebbe essere più conveniente l’esdebitazione definibile “comune” piuttosto che quella integrale; per altro verso e correlativamente, che la misura si traduce in un potente disincentivo per il debitore a produrre nuova ricchezza (almeno per i primi quattro anni), raggiungendo così un risultato esattamente antitetico a quello che unanimemente si ritiene essere l’obiettivo della discharge.
Inoltre, la particolarità di tale forma di esdebitazione una tantum risiede nel fatto che è svincolata dall’apertura di qualsivoglia procedura, nel senso che il debitore presenta tramite l’OCC la domanda al giudice competente, il quale, valutata la meritevolezza del debitore e verificata l’assenza di atti in frode e la mancanza di dolo o colpa grave nella formazione dell’indebitamento, concede con decreto l’esdebitazione (ferma restando la possibilità per i creditori di proporre opposizione).
E. Strettamente collegata alla novità rappresentata dalla esdebitazione del debitore incapiente v’è poi quella della scomparsa della condizione data dal soddisfacimento, almeno parziale, dei creditori concorrenti [artt. 142, comma 2 l.fall. e 14-terdecies, comma 1, lett. f) l. n. 3/2012]. Peraltro, pur non essendo prevista espressamente come condizione per il riconoscimento del beneficio, l’esistenza stessa della disciplina della liberazione una tantum riservata ai soli debitori persone fisiche sovraindebitati sembrerebbe consentire una interpretazione sistematica in virtù della quale: a) nella liquidazione giudiziale è sempre necessario soddisfare, seppure parzialmente, i creditori concorsuali; b) il debitore sovraindebitato che accede alla procedura di liquidazione controllata deve in ogni caso soddisfare, seppure parzialmente, i creditori concorsuali, salvo sia una persona fisica e salvo che attivi, una tantum appunto, il meccanismo dell’art. 283 CCI (nel qual caso, peraltro, non è neanche necessario accedere alla procedura di liquidazione controllata).
Certo, una norma espressa sul punto, che avesse chiarito anche le modalità di soddisfacimento “minimo” che consentono al debitore di ottenere il beneficio, sarebbe stata tutt’altro che superflua.
F. Sostanzialmente immutate, rispetto alla disciplina attuale, sono invece le altre condizioni poste per l’ottenimento del beneficio, con l’art. 280 che ricalca, grosso modo, l’art. 142, comma 1 l.fall. e, in buona misura, l’art. 14-terdecies, comma 1 l. n. 3/2012.
Così come assai simile si presenta il contenuto dell’art. 278, comma 7 CCI rispetto agli artt. 142, comma 3 l.fall. e 14-terdecies, comma 3 l. n. 3/2012 [anche se di quest’ultima norma non viene replicata la lettera c), relativa ai debiti fiscali accertati successivamente all’apertura della procedura], avuto riguardo ai debiti esclusi dell’esdebitazione.
G. In tema di esdebitazione, però, la novità più rilevante recata dalla legge delega, prima, e dal CCI, poi, è senza dubbio quella che concerne l’esdebitazione delle società.
Rompendo quello che sembrava un vero e proprio dogma è infatti espressamente stabilito che ad essere destinatarie del provvedimento di esdebitazione possano essere non soltanto i debitori persone fisiche, ma anche le società, sia di persone sia di capitali (art. 280, commi 3-5 CCI).
La scelta così operata dal legislatore domestico – che rappresenta un unicum nel panorama internazionale, se si eccettua l’ordinamento cileno – pare senz’altro condivisibile, specialmente qualora si ritenga che la chiusura del fallimento della società non conduca necessariamente ed inesorabilmente all’estinzione della stessa.
Premesso che la verifica dell’esistenza dei presupposti di meritevolezza per l’ottenimento del beneficio deve essere condotta nei confronti dei soci illimitatamente responsabili e dei legali rappresentanti, con riguardo agli ultimi tre anni anteriori alla domanda cui seguita l’apertura di una procedura liquidatoria, non v’è dubbio che la possibilità riconosciuta alle società di ottenere l’esdebitazione abbia una serie di ripercussioni sul piano sistematico.
In particolare, dalla previsione del discharge delle società può ricavarsi che:
a) anche in caso di chiusura per riparto totale dell’attivo l’estinzione della società non è evento ineluttabile e che dunque il curatore non può e non deve procedere con la richiesta di cancellazione dal registro delle imprese, qualora i soci (o gli amministratori) abbiano manifestato l’intenzione di chiedere il beneficio[5];
b) l’ordinamento pacificamente riconosce l’esistenza di un valore intrinseco alla struttura organizzativa delle società, perché altrimenti nessun senso avrebbe l’esdebitazione per un ente con un patrimonio che è pari a zero.
Da questo punto di vista, la norma può essere letta in continuità con la disciplina delle proposte concorrenti nel concordato preventivo, qualora la proposta preveda l’aumento di capitale con esclusione del diritto d’opzione. Le due situazioni sono, ovviamente, molto diverse, ma riflettono in fondo la stessa idea, quella che, al di là ed al di fuori del patrimonio in senso stretto, anche l’assetto organizzativo della società può avere un valore economico;
c) la riforma prospettata impone di ripensare alla ratio dell’esdebitazione, spogliandola di tutti quei profili di solidarietà e di giustizia sociale che fin dalla comparsa dell’istituto avevano costituito la base sulla quale è stata costruita la giustificazione dello spostamento di valore da un gruppo di creditori ad un altro, di cui si è detto all’inizio di questo scritto. Ed anche di ciò, ovviamente, si dovrà tener conto nella valutazione complessiva dell’istituto e nelle scelte di politica legislativa che ne conseguono, ai fini dell’equilibrato contemperamento degli interessi coinvolti;
d) diviene attuale, a questo punto, l’interrogativo in ordine all’applicabilità della disciplina dell’esdebitazione nell’ambito delle procedure di l.c.a. e di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, essendo destinato a venir meno l’unico elemento di ontologica incompatibilità, ad oggi esistente, tra l’istituto de quo e le procedure summenzionate[6].
[1] Cfr. V. Santoro, Commento sub art. 142, in A. Nigro-M. Sandulli-V. Santoro, La legge fallimentare dopo la riforma, II, Torino, 2010, p. 1864; A. Castagnola, L’esdebitazione del fallito, in Giur. comm., 2006, I, p. 448 ss.; L. Panzani, L’esdebitazione, in Trattato delle procedure concorsuali, a cura di A. Jorio-B. Sassani, III, Milano, 2016, p. 660; L. Ghia, L’esdebitazione: evoluzione storica, profili sostanziali, procedurali e comparatistici, in Trattato delle procedure concorsuali, a cura di U. Apice, II, Torino, 2009, p. 653 ss.
[2] Cfr. L. Stanghellini, «Fresh start»: implicazioni di «policy», in Analisi giuridica dell’economia, 2004, p. 442.
[3] Nel sistema attuale, nonostante la mancanza di una norma analoga all’art. 142, ult. comma, l.fall., chi scrive è giunto comunque a ritenere che anche nell’ambito dell’esdebitazione ex art. 14-terdecies l. n. 3/2012, restino comunque salvi i diritti dei creditori concorsuali nei confronti dei soggetti (coobbligati, fideiussori e obbligati in via di regresso) legati al debitore “esdebitato” dal vincolo della solidarietà passiva. Sul punto cfr. D. Vattermoli, La procedura di liquidazione del patrimonio del debitore alla luce del diritto “oggettivamente” concorsuale, in Dir. fall., 2013, I, p. 799.
[4] Conf. V. Santoro, Commento sub art. 143, cit., p. 1875.
[5] Peraltro, non è neanche detto che al termine della procedura la società abbia sicuramente un patrimonio pari a zero. È teoricamente possibile, invero, che la società, sfruttando le nuove potenzialità dell’istituto, abbia chiesto ed ottenuto l’esdebitazione durante il corso della procedura e che nel periodo di tempo intercorrente tra la concessione del beneficio e la chiusura della procedura siano entrati nuovi beni nel patrimonio dell’ente.
[6] D. Vattermoli, L’esdebitazione tra presente e futuro, in Riv. dir. comm., 2018, II, p. 495.
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