ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario : 1. Inquadramento del problema - 2. La fattispecie all’esame delle Sezioni Unite - 3. La soluzione delle Sezioni Unite - 4. Le molte luci delle sentenze del 2019 -5. Qualche considerazione conclusiva.
1. Inquadramento del problema.
Ancora una volta, come un ulteriore capitolo di una vera e propria saga giudiziaria, i giudici devono intervenire nel sistema dei rimedi ai tempi della Giustizia in Italia, con una pronuncia molto articolata e che si sforza di adeguare il variegato e complesso quadro nazionale ai principi generali costantemente elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo.
Gli interventi normativi e giurisprudenziali sul tema denotano una linea di tendenza propria del nostro Paese: poiché era divenuto insostenibile un sistema che lo esponeva al triste primato di trasgressore cronico del diritto fondamentale alla ragionevolezza dei tempi del processo (pure solennemente consacrato tra i pilastri di una moderna società democratica all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo ed ora pure dalla Costituzione nazionale e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), si è adottata dapprima una normativa (la legge c.d. Pinto, 24 marzo 2001, n. 89) che, in linea con la stessa giurisprudenza convenzionale, almeno tentasse di offrire una riparazione pecuniaria alla violazione di quel diritto, quale livello minimale di tutela di quello.
Negli anni successivi, diventata sempre più gravosa l’entità degli esborsi richiesti per l’incapacità di intervenire sulla struttura del sistema e quindi sulle cause della sua sinistrosità, sono poi intervenuti un incessante lavorio di elaborazione giurisprudenziale ed alcuni rilevanti correttivi normativi, tali da rendere estremamente complesso l’effettivo conseguimento di quella riparazione pecuniaria, perfino introducendo modalità di esecuzione od ottemperanza delle relative condanne che si risolvono in autentici privilegi dello Stato-debitore.
Nel settore si è assistito allora, per una infelice Heterogonie des Zwecke, la proliferazione delle azioni giudiziarie dovute al ritardo: la maggior parte degli sforzi per tentare di ovviare ai ritardi nella Giustizia ha causato un incremento del contenzioso e quindi dei tempi, visto che l’Italia ha generato le cause per ritardi … sulle cause per ritardi, spesso non essendo riuscita a contenere i tempi neppure di queste ultime, a dispetto della chiarezza quasi aritmetica dei relativi presupposti e della semplicità della condotta di adempimento delle conseguenti condanne.
A dimostrazione poi che al peggio non c’è mai limite, al “Pinto-bis” (un … Pinto al quadrato) si è aggiunto oramai il “Pinto-ter” (per insistere nell’analogia con l’elevazione a potenza: un … Pinto al cubo): cioè le cause per ritardi nei procedimenti per conseguire la riparazione sul ritardo nella definizione dei procedimenti per l’irragionevole durata del processo – civile o penale o amministrativo – per così dire di merito od originario. In questo complessivo desolante contesto, la fatica degli interpreti è chiamata a dedicarsi ad individuare gli effetti, sovente distorti, della persistente condizione di inadempienza dello Stato italiano.
2. La fattispecie all’esame delle Sezioni Unite.
È quanto è accaduto nella fattispecie portata all’esame delle Sezioni Unite, in dottrina individuata come ipotesi di “Pinto-ter”, siccome riferita ad un procedimento ex lege Pinto per l’irragionevole durata di un precedente procedimento (il c.d. “Pinto-bis”) ai sensi della stessa legge relativo ad un originario procedimento sempre per irragionevole durata del processo originario. È evidente come quest’ultimo resti ormai sullo sfondo, perduto nelle nebbie del tempo, quale causa ultima o peccato originale ancora inespiato.
In particolare:
a) la ricorrente propone, in uno ad altri, un primo ricorso ex lege Pinto nell’ottobre del 2005 alla Corte d’appello di Roma: che è definito con decreto di parziale accoglimento del giugno del 2007, seguito da sentenza della Corte di cassazione del luglio 2008 (tanto rilevandosi da Cass. 19/12/2012, n. 23453);
b) la ricorrente propone poi, il 29/09/2010, alla Corte d’appello di Perugia altro ricorso ex lege Pinto per fare valere l’eccessiva durata del primo procedimento Pinto: il quale è dapprima dichiarato inammissibile dalla corte territoriale (con provvedimento 19/12/2011, secondo quanto risulta dalla stessa Cass. n. 23453/12) e poi accolto, con decisione nel merito, dalla Corte di cassazione con sentenza 19/12/2012, n. 23453 (e condanna del Ministero a pagare € 1.125, oltre interessi dalla domanda e spese di lite);
c) invano notificato (il 03/03/2013) il titolo esecutivo al Ministero, la ricorrente intima (in data 11/12/2013) precetto, cui fa seguire procedimento di esecuzione mobiliare presso il Tribunale capitolino, conclusosi con ordinanza di assegnazione divenuta definitiva il 17/07/2014;
d) sul presupposto che tale secondo procedimento ex lege Pinto si fosse protratto ininterrottamente dal 29/09/2010 al 17/07/2014 (e quindi per oltre tre anni), nel febbraio del 2015 la ricorrente adisce di bel nuovo la Corte d’appello, ora di Firenze, per fare valere l’irragionevole durata di quello;
e) la corte fiorentina, dapprima con decreto e poi all’esito dell’opposizione, rigetta la domanda, sostanzialmente perché, pur considerando unitariamente le fasi di cognizione ed esecuzione, dal computo della durata del processo doveva essere espunto il periodo in cui il privato, vittorioso nel giudizio di cognizione, era rimasto inerte senza notificare il precetto (cioè, nella specie, il periodo tra la pronuncia della condanna, del 19/12/2012, fino al dì 11/11/2013, data di notificazione dell’intimazione); in tal modo, il processo doveva qualificarsi durato anni due, mesi nove e giorni 28, ma l’eccedenza rispetto al periodo da considerare ragionevole (due anni, mesi sei e cinque giorni) era di soli mesi tre e giorni 23 e, così, non indennizzabile, escludendo l’art. 2 bis della L. n. 89/2001 l’indennizzabilità delle frazioni di anno non superiori a sei mesi;
f) la ricorrente chiede la cassazione del relativo decreto, pubblicato il 19/10/2015, con il primo dei cui due motivi sostenendo la necessità di considerare, per il computo della durata complessiva del processo ed a carico della convenuta Amministrazione, unitariamente tutto l’intervallo tra l’inizio del procedimento ex lege Pinto e la conclusione del procedimento di esecuzione reso necessario dall’inadempimento, ivi compreso il termine di 120 giorni (di 120 gg. dalla notifica del titolo esecutivo di cui all’art. 14 d.l. n. 669/1996, conv. dalla l. n. 30/1997, nel corso del quale il danneggiato non poteva notificare l’atto di precetto).
Alle Sezioni Unite l’ordinanza interlocutoria 15/01/2019, n. 802, seguita a precedente di rimessione alla pubblica udienza (Cass. ord. 06/09/2017, n. 20835), ha rimesso un’articolata questione di massima di particolare importanza relativa al rapporto fra fase di cognizione e di esecuzione ai fini del riconoscimento dell’indennizzo ex lege Pinto: e cioè se, alla luce - da un lato - della sentenza delle S.U. n. 27365 del 2009 e - dall’altro - della giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale, la durata del processo esecutivo, promosso in ragione del ritardo dell’Amministrazione nel pagamento dell’indennizzo dovuto in forza del titolo esecutivo, costituito dal decreto di condanna pronunziato dalla Corte di Appello ai sensi dell’art. 3 della legge n. 89 del 2001 ed azionato appunto nelle forme del processo esecutivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole del processo per equa riparazione e, più in generale, se la durata del processo esecutivo, promosso per la realizzazione della situazione giuridica soggettiva di vantaggio fatta valere nel processo presupposto con esito positivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata ragionevole dello stesso processo presupposto.
Dagli snodi argomentativi dell’ordinanza di rimessione si ricava come siano stati coinvolti differenti problemi ricostruttivi: a) se il ritardo da parte dello Stato nel pagamento dell’indennizzo ex lege Pinto costituisce un autonomo diritto azionabile unicamente innanzi alla CTEDU ove eccedente i sei mesi e cinque giorni o esso può essere fatto valere anche ai sensi della Legge Pinto; b) se, quando il debitore è lo Stato, il processo di cognizione e quello di esecuzione possono essere valutati come un unico processo ai fini della ragionevole durata senza il rispetto di alcun termine; c) se e quale rilevanza abbia, ai fini del termine di sei mesi e cinque giorni concesso alla P.A. per l’adempimento spontaneo, quello di 120 gg. di cui dall’art. 14 del d.l. n. 669 del 31 dicembre 1996, conv. dalla legge n. 30 del 28 febbraio 1997; d) il momento temporale in cui il processo esecutivo può considerarsi introdotto (dalla notifica del titolo esecutivo, del precetto o del pignoramento); e) l’equiparabilità del processo di ottemperanza a quello esecutivo e la valutabilità unitaria ai fini della ragionevole durata.
Le questioni, al di là dell’apparente aridità del suo tecnicismo, involgono diversi principi fondamentali dell’ordinamento, affrontati dalle Sezioni Unite con ampiezza e ricchezza di argomentazioni: quale premessa di grande momento, l’esigenza di interpretazione della normativa nazionale in senso convenzionalmente orientato; un primo, sui rapporti tra giudizio di cognizione e processo di esecuzione in generale quali presupposti indefettibili dell’effettività della tutela dei diritti; un secondo, sulla peculiare responsabilità dello Stato debitore; un terzo, sulla legittimità del sistema di indennizzi Pinto in relazione ai tempi di adempimento.
3. La soluzione delle Sezioni Unite.
La sentenza 23/07/2019, n. 19883 (in uno ad altre coeve su ricorsi analoghi: nn. 19884, 19885, 19886, 19887 e 19888 della stessa data, nonché 20404 del 26/07/2019), che è intervenuta sulla materia a definire la questione di massima di particolare importanza appena ricordata, si preoccupa di ricostruire il quadro giurisprudenziale, riferito sia alle Corti nazionali che a quella europea dei diritti dell’Uomo.
3.1. L’interpretazione convenzionalmente orientata.
La premessa, quanto meno in tema di violazione del diritto fondamentale espressamente codificato nell’art. 6 della Convenzione, è l’esigenza di una puntuale trasposizione dei principi elaborati a sua interpretazione dalla Corte di Strasburgo, sia pure senza un’automatica valutazione di recessività delle peculiarità nazionali: risultando appunto obiettivo della nomofilachia nazionale la conformazione di un sistema di protezione del diritto alla ragionevole durata del processo destinato progressivamente ad armonizzarsi con la disciplina concretamente declinata dall’art. 6 CEDU e dal diritto vivente della Corte EDU. Infatti, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo s’impone ai giudici italiani per quanto riguarda l’applicazione della legge n. 89/2001, sia pur senza considerare sempre subalterne e recessive le caratteristiche e peculiarità del rimedio interno, adottato nell’ambito del margine di apprezzamento riservato allo Stato che decida di approntare un rimedio di ordine generale volto all’eliminazione di una violazione convenzionale di natura strutturale; margine di apprezzamento che, tuttavia, non può mai andare a detrimento dell’effettività del rimedio. Ancora, il carattere vincolante per l’interprete nazionale è riconosciuto alle pronunce della Corte di Strasburgo anche in caso di cancellazione dal ruolo, se non altro quando questa ha avuto luogo a seguito di dichiarazione di riconoscimento della violazione da parte dello Stato convenuto.
Infatti, per la stessa Corte di legittimità e per la Corte costituzionale, la funzione del giudice nazionale è quella di cooperare attivamente, anche attraverso l’interpretazione convenzionalmente orientata, alla protezione dei diritti fondamentali, dialogando con la giurisprudenza delle Corti costituzionali e sovranazionali in modo da offrire il livello più elevato possibile di protezione dei diritti fondamentali.
3.2. L’unitarietà del processo.
Quanto alla fattispecie in esame, si fa allora espresso riferimento all’elaborazione come finalmente consolidata dalla Corte europea con la sua sentenza 14/09/2017 in causa Bozza c. Italia, resa il 14 settembre 2017, la quale ha ribadito con forza, quasi richiamando all’ordine le corti italiane che si erano discostate dalle precedenti conclusioni convenzionali, la necessaria unitarietà del processo nelle sue fasi di cognizione ed esecuzione: e tanto, in estrema sintesi, in base all’indefettibilità della seconda a garanzia dell’effettività della tutela giurisdizionale.
Al riguardo, le Sezioni Unite ricostruiscono un iter articolato. Con le pronunce del 2009 si era fatta leva sull’autonomia strutturale e funzionale del giudizio di cognizione rispetto al processo di esecuzione ed a quello di ottemperanza per sancirne una distinta rilevanza ai fini del sistema Pinto; ma, all’esito della successiva evoluzione interpretativa, nel 2014 ci si è fatti carico della contraria impostazione della Corte europea, per giungere ad una diversa conclusione, sull’unitarietà delle due “fasi” della cognizione e dell’esecuzione (od ottemperanza) in quanto consequenziali e complementari in un unitario, benché articolato e complesso, processo volto a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale: con la conseguenza che, in caso di ritardo della P.A. nel pagamento delle somme riconosciute in forza di decreto di condanna “Pinto” definitivo, l’interessato, mancato il versamento delle somme spettanti entro il termine dilatorio di mesi sei e giorni cinque dalla data in cui il provvedimento è divenuto esecutivo, ha diritto - sia che abbia esperito azione esecutiva per il conseguimento delle somme a lui spettanti, sia che si sia limitato ad attendere l’adempimento spontaneo della P.A. - ad un ulteriore indennizzo commisurato al ritardo nel soddisfacimento della sua pretesa eccedente al suddetto termine nonché, ove intrapresa, all’intervenuta promozione dell’azione esecutiva; indennizzo, che, tuttavia, può essere fatto valere esclusivamente con ricorso diretto alla CTEDU (in relazione all’art. 41 della Convenzione EDU) e non con le forme e i termini dell’art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001, la cui portata non si estende alla tutela del diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive.
E tuttavia, nel 2016 le stesse Sezioni Unite intervennero nuovamente, introducendo, quale condizione per la considerazione unitaria del processo di esecuzione e del retrostante giudizio di cognizione, l’avvio del primo entro il termine decadenziale di sei mesi dalla definitività del provvedimento che aveva concluso il secondo: in mancanza di attivazione della fase esecutiva nel termine di decadenza previsto dall’art. 4 l. 89/2001 non era quindi possibile sommare, ai fini dell’individuazione della ragionevole durata del processo, il tempo occorso per la definizione della fase di cognizione, potendosi invece profilare un’irragionevole durata del processo unicamente per la durata della fase esecutiva. E tanto per la necessità di preservare la certezza delle situazioni giuridiche e di evitare l’esercizio del credito indennitario in maniera abusiva.
La peculiarità dell’ultimo intervento, quello del 2019, sta allora in ciò, che esso intende porsi in continuità col precedente del 2014 e correggere o ridefinire quello del 2016: visto che, quanto meno nel sistema degli indennizzi Pinto, dove a rivestire la qualità di debitore è lo Stato medesimo, si afferma ora – al contempo – che l’unitarietà del processo sempre sussiste, ma che comunque che non è indennizzabile ai fini della legge Pinto, bensì soltanto in sede convenzionale e quindi con separato ricorso alla Corte di Strasburgo, il ritardo tra la conclusione del giudizio di cognizione e l’inizio del processo esecutivo (correttamente individuato nel pignoramento, a differenza del decreto impugnato, che lo collocava all’atto del precetto).
3.3. L’inadempienza dello Stato debitore.
Di grande rilievo è l’adesione ai passaggi argomentativi della già richiamata sentenza CtEDU in caso Bozza, in convinto e sostanziale loro recepimento:
- sulla sussistenza di un obbligo incondizionato, per gli Stati contraenti, di assicurare che ciascun diritto rivendicato trovi la sua effettiva realizzazione, pur variando la portata di tale obbligo in funzione della qualità della parte debitrice; sulla differenza tra debitore-privato e debitore-pubblica amministrazione;
- sulla responsabilità dello Stato contraente, nel primo caso e cioè in ipotesi di privato debitore, soltanto per difetto di diligenza richiesta od ostruzionismo nell’apprestamento dell’assistenza necessaria affinché il diritto rivendicato trovi la sua effettiva realizzazione;
- sulla ben più pregnante responsabilità nel secondo caso, in ipotesi cioè in cui ad essere condannato o identificato come debitore sia lo Stato (o comunque una pubblica amministrazione ad esso riconducibile, soggettivamente od oggettivamente in ragione della funzione concretamente svolta), visto che il privato creditore non dovrebbe essere costretto ad avviare un procedimento distinto per ottenerne l’esecuzione forzata, potendo anzi essere sufficiente la notifica regolare all’autorità nazionale interessata o che siano espletati alcuni adempimenti processuali di natura però meramente formale.
Del resto, la stessa giurisprudenza di Strasburgo esclude la legittimità di una giustificazione della non esecuzione di una sentenza contro un ente pubblico con la carenza di fondi; ammette un ritardo nell’esecuzione, purché non vanifichi l’essenza del diritto protetto; ancora, la più appropriata forma di ristoro nel caso di inesecuzione è che lo Stato garantisca la piena esecuzione delle sentenze ineseguite, mentre causa disagio, ansietà e frustrazione la protratta inesecuzione di una sentenza definitiva.
Quale principio di civiltà di grande importanza si rileva quindi che lo Stato deve sempre e comunque adempiere le proprie obbligazioni, senza costringere il privato pure ad azioni esecutive una volta conseguito il titolo in sede di cognizione. I debiti dello Stato (e della pubblica amministrazione a quello riconducibile) vanno (o andrebbero …) quindi sempre pagati e per di più in modo automatico.
3.4. Legittimità del sistema di indennizzi Pinto in relazione ai tempi di adempimento.
Nonostante il carattere generale delle affermazioni della sentenza CtEDU Bozza in punto di unitarietà delle fasi di cognizione e di esecuzione, con conseguente sconfessione del diverso approdo delle Sezioni Unite del 2016, la pronuncia del 2019 applica quelle conclusioni, rivedendo quest’ultimo precedente, esclusivamente per il sistema di indennizzi Pinto. Fermo quindi l’approdo del 2016 – di per sé contrario alla giurisprudenza di Strasburgo – sulla ricostruzione secundum eventum (ovvero voluntatem actoris, con istituzionalizzazione in sede processuale di una sorta di condizione si voluero che desta qualche perplessità) della unitarietà o meno delle due fasi, almeno quando debitore condannato è lo Stato ed almeno quando il titolo della condanna è un decreto ex lege Pinto l’unitarietà non può essere messa in discussione.
L’unitarietà delle due fasi non esclude però la necessità di isolare, dal contesto dell’indennizzo ex lege Pinto ed in relazione al concreto contenuto della disciplina nazionale da questa posta, il periodo tra la definitività del provvedimento di condanna e l’inizio del procedimento esecutivo: periodo che fonda sì un diritto della parte vittoriosa ad un indennizzo, ma per la condotta renitente della controparte e non per la pendenza in sé del procedimento giurisdizionale e quindi per una mancanza dello Stato nell’approntamento di una tutela efficace, tanto che, per tale intervallo, in difetto di previsioni normative specifiche nella l. 89/2001, ogni ragione è rimessa esclusivamente alla cognizione della Corte europea (si vedano le sette sentenze delle SS.UU. del 2014, riprese e confermate al punto 9.37 della sentenza del 2019, in richiamo di CtEDU 21/12/2010, Gaglione e a. c. Italia, che ne ha riconosciuto la ricorribilità immediata innanzi alla Corte di Strasburgo in ragione di € 200 à forfait, senza dovere proporre un autonomo giudizio in ambito interno).
Pertanto, unitario è il procedimento, ma non tutto il tempo dal suo inizio alla sua conclusione rileva ai fini dell’indennizzo ex lege Pinto, dovendo, dalla durata indennizzabile, detrarsi quello tra la conclusione del giudizio di conclusione e l’inizio del processo esecutivo (o del giudizio di ottemperanza): ciò che, una volta correttamente individuato quest’ultimo ai sensi dell’art. 491 cod. proc. civ. con il pignoramento, esclude la rilevanza, sempre ai fini della legge Pinto, sia del termine dilatorio normalmente riconosciuto al debitore pubblico per pagare (di sei mesi e cinque giorni), sia di quello di 120 giorni imposto dalla disciplina speciale (di cui all’art. 14 d.l. 669/1996 cit.).
4. Le molte luci delle sentenze del 2019.
Con amarezza si constata quante risorse vanno profuse nell’elaborazione di un sistema assai complesso di tutela dai ritardi nella Giustizia, che si fa sempre più intricato e complicato, ad allontanare o rendere sempre più difficile il conseguimento di quella tutela, pure limitata al solo ed insufficiente momento risarcitorio: e va riconosciuto alle pronunce delle Sezioni Unite 19883 e ss. del 2019 di avere contribuito in direzione di una maggiore effettività di quella tutela, con la riaffermazione di importanti principi generali, che pure non si sarebbero mai voluti rimessi in discussione.
Alla tendenziale linea di continuità con le pronunce del 2014, quelle del 2019 affiancano la peculiarità di discostarsi almeno in parte dall’arretramento del 2016 e di ripristinare così la conclusione sull’unitarietà delle due fasi, di cognizione ed esecuzione in ragione della reciproca interdipendenza ed indefettibilità, sia pure con riguardo allo speciale caso di creditore nei confronti dello Stato per ottenere l’indennizzo per irragionevole durata di altro precedente processo, ai sensi della legge Pinto.
La conclusione ha l’indubbio pregio di riallineare, quanto meno nella tematica dell’equa riparazione ex lege Pinto, la giurisprudenza nazionale a quella convenzionale, come pure quello di ribadire la missione della prima di comprimaria consapevole però della tendenziale sovraordinazione della seconda in tema di tutela di diritti fondamentali oggetto della Convenzione.
Ma ha, ancora, l’indubbio pregio di ribadire concetti importanti, che nell’attuale contesto storico paiono perfino rimessi in discussione, cioè l’assoluta indefettibilità della tutela esecutiva (con la preziosa precisazione dell’equiparazione, ai fini dell’effettività della tutela del diritto, al processo esecutivo pure del giudizio di ottemperanza) e l’insostenibilità dell’inottemperanza dello Stato alle proprie obbligazioni.
È bene che sia stato ribadito come tale soggetto (ad esso ricondotto ogni ente definibile come amministrazione pubblica e cioè partecipe dell’esercizio di pubblici poteri), proprio per la sua posizione nell’ordinamento giuridico, sia più di ogni altro tenuto ad adempiere puntualmente le proprie obbligazioni, ad evitare l’insanabile contraddizione della violazione delle regole da parte di quei soggetti investiti della potestà – e quindi del potere, ma anche del dovere, istituzionale – di farle rispettare.
Va quindi salutato con estremo favore l’intervento del 2019: dal quale non ci si poteva attendere di più, per il concreto ambito della controversia devoluta alle Sezioni Unite.
Del resto, critiche molto più radicali potevano essere mosse al precedente approdo del 2016, di rimessione dell’unitarietà delle due fasi alla volontà della parte: approdo in forza del quale finiva elusa la limpida nettezza del principio, per il quale non solo le obbligazioni si rispettano ma soprattutto lo Stato le rispetta senza bisogno di altri oneri per il malcapitato suo creditore; approdo giustificato in nome della preponderante necessità di ovviare a timori evidentemente inveterati e radicati in un autentico malcostume nazionale, essendo state invocate le esigenze della certezza del diritto e del contrasto agli abusi.
Eppure, probabilmente già in quella sede la cristallina chiarezza della conclusione convenzionale sulla necessaria unitarietà delle fasi di cognizione e di esecuzione avrebbe potuto essere mantenuta, visto che gli abusi o i ritardi nell’attivazione della tutela esecutiva (o di ottemperanza) avrebbero potuto trovare adeguata prevenzione, con l’esclusione dei relativi periodi, in applicazione dei principi generali di non riconoscimento del danno ascrivibile alla condotta del danneggiato o di limitazione di quello in caso di concorso della sua condotta colposa.
5. Qualche considerazione conclusiva.
Un passo in avanti importante, dunque, ad opera delle pronunce del 2019, sulla strada del superamento dell’arretramento del 2016 rispetto alle conclusioni della giurisprudenza di Strasburgo.
Anche i primi commenti, dando doverosamente atto alle pronunce del 2019 di essersi mantenute entro i limiti della giurisprudenza convenzionale e del pregresso quadro normativo e giurisprudenziale nazionale, hanno auspicato, ma appunto de iure condendo, sanzioni più stringenti ed efficaci di quella, irrisoria perché contenuta nella forfetaria liquidazione in 200 euro e per di più dinanzi alla Corte di Strasburgo, che attualmente ne risulta applicabile in caso di protrazione dell’inerzia dello Stato inadempiente oltre il termine di sei mesi e cinque giorni per l’esecuzione spontanea del decreto in tema di indennizzo ex lege Pinto.
La conclusione è, comunque, non precisamente consolante: nella perdurante attesa di un Godot inteso quale efficace intervento sulle ragioni del fenomeno, ingentissime risorse – normative ed interpretative e quindi processuali – sono profuse nell’elaborazione sempre più intricata e complessa – quando non propriamente contorta – di un sistema volto a ristorarne almeno in parte le conseguenze negative, per di più afflitto da una cronica insufficienza di risorse finanziarie.
Anziché intervenire sulla struttura del sistema per tentare di impedire gli effetti del dissesto, si agisce quindi per contingentare e limitare quanto dovuto dallo Stato, incapace di realizzare un sistema Giustizia adeguato, per indennizzarli.
Se si concede il parallelo, è come se, dinanzi ad una rete stradale accidentata e fonte di innumerevoli gravi incidenti, la maggior parte degli sforzi sia dedicata non a rifare la rete stradale in modo che gli incidenti più non si verifichino, ma a regolare i risarcimenti, predeterminandoli e contenendoli, ma pure rendendo sempre più arduo, per il danneggiato loro creditore, conseguire effettivamente quel solo pecuniario ristoro.
È come preferire all’impegno di una riforma strutturale del sistema, probabilmente ritenuta fuori portata, la rassegnata accettazione della necessità di fronteggiare alla meno peggio il risarcimento talvolta poco più che simbolico delle sue inefficienze.
È tipica della realtà nazionale un’elaborazione raffinatissima, quasi sterminata, di casistiche e fattispecie, l’introduzione di termini decadenziali, impedimenti e cautele, di distinguo, di caveat, di eccezioni, di precisazioni, che rendono il soggetto creditore, danneggiato dalla violazione da parte dello Stato del suo diritto fondamentale alla ragionevole durata del processo, protagonista di un’autentica avventura giudiziaria – verrebbe da dire quasi un “Camel Trophy®” giudiziario – al cui esito sperare di imbattersi nella favolosa Arca o nel Vello d’Oro di un obolo ottriato a compensazione di ogni danno derivato dalla stessa cronica ed insanabile inadempienza dello Stato.
Eppure, nonostante tutto, la ricchezza delle elaborazioni e la sensibilità di tanti tra gli operatori e gli interpreti ancora consentono di confidare nello Stato di diritto e nella loro capacità di impegnarsi efficacemente per esigerne e conseguirne la realizzazione, nel quadro dell’effettività di una tutela multilivello dei diritti fondamentali affidata sempre più ad un proficuo dialogo tra le Corti di volta in volta coinvolte. In questa consapevolezza e con questo impegno, da rinnovare giorno dopo giorno, occorre mantenere costante l’attenzione di ognuno.
Quest’articolo è una fotografia in una libera cornice.
Ed è scritto per Catanzaro e per i magistrati del Tribunale di Catanzaro.
Colleghi, amici e bravissimi magistrati di un’altra Italia.
Sommario: 1. Catanzaro. Città vertiginosa - 2. Catanzaro “non è bella” - 3. Il Tribunale - 4. Un Tribunale distrettuale in strutturale difficoltà - 5. Litigiosità, criminalità, bisogno di giustizia - 6. Il Tribunale distrettuale più giovane d’Italia - 7. Un Tribunale dalla pianta organica non distrettuale- 8. Un Tribunale debole - 9. Un Tribunale in fuga - 10. Un Tribunale senza aspiranti - 11. Un Tribunale in movimentazione. – 12. Tribunale di un’altra Italia
1. Catanzaro. Città vertiginosa
Catanzaro. Città vertiginosa. Ha scritto François Lenormant.
L’archeologo – studioso delle antichità nell’Italia meridionale – è stato uno dei pochi viaggiatori del passato, giunti in città, a lasciare un significativo segno del passaggio.
Città particolare, Catanzaro. Come particolare è il rapporto con quei viaggiatori che con spirito diverso, in qualche modo, l’hanno affrontata.
C’è stato il viaggiatore tradizionale che davvero si è fermato a Eboli. Goethe, Dickens, Montesquieu, per citarne solo alcuni, per cui il Grand Tour vedeva nelle terre campane il limite del Mezzogiorno, anche come punto d’imbarco per la Sicilia, senza alcuna considerazione dell’altrove meridionale.
C’è stato il viaggiatore eccentrico, pur arrivato nelle Calabrie, ma non così eccentrico da raggiungere Catanzaro. Escher, Dumas padre, ad esempio.
C’è stato il viaggiatore realista – Douglas, Piovene, Swinburne, Strutt, Saint-Non, ad esempio – che, ancor più eccentrico, a Catanzaro è arrivato, portando con sé il proprio realismo e non sempre troppe lusinghe.
E c’è stato il viaggiatore immaginario che Catanzaro, e la Calabria, ha solo immaginato. È Stendhal che ha pur scritto di un viaggio mai compiuto e citato Catanzaro – il cui nome pare lo affascinasse – in un episodio della Certosa di Parma (cap. XXVI).
E poi c’è il magistrato, contemporaneo viaggiatore nella giurisdizione.
Immaginario nell’immaginare Catanzaro dopo averla scelta, per caso o necessità, nella grande sala di un hotel di Roma. Tradizionale nell’immaginarla come una sventura. Realista nel giudicarla, senza indulgenza, una volta arrivato e tutte le volte in cui deve tornarci. Eccentrico, alla fine, nel giudicarla con affetto quando va via.
2. Catanzaro “non è bella”
“Non è bella” ha scritto, di Catanzaro, Dominique Vivant Denon, aggiungendo che “non ha niente che possa destare curiosità”. Lo scrittore e diplomatico francese – era il 1778 – ha lasciato la traccia di un leggero pregiudizio estetico che, seppur in senso diverso, accompagna ancor oggi la fama della città.
Dall’alto dei suoi colli, con l’aria sempre battuta da un vento incessante e la bella vista sullo Jonio e sulla Sila, Catanzaro è davvero una vertigine. Di cemento, disordine architettonico e urbanistico. È un labirinto di strade colme di auto, di molti avvocati e pochi giovani. Da una parte la marina, dall’altra la città storica, nel mezzo – non i Giardini delle Esperidi, immaginati da Gissing – i quartieri dell’abbandono e un’isola costituita dalla Regione e dal Polo Universitario. E poi, ancora, altre propaggini e isole edilizie. È una città divisa, scomposta e ricomposta come in un singolare décollage, che ha cancellato le tracce migliori del suo passato completando l’opera iniziata dai terremoti e cesellata dalla guerra.
“Sono stato più volte a Catanzaro e ho avuto sempre la stessa sensazione. Catanzaro, come tutte le città burocratiche, è una città un po’ triste e deprimente. Infatti, malgrado si trovi in un posto molto bello e piacevole, la carenza di uno sviluppo urbanistico organico, per la mancanza di un piano regolatore, le conferisce un aspetto un po’ caotico e confusionario, ma sempre grigio ed amorfo, cosa che del resto avviene in moltissime altre città italiane”. Ha detto Pasolini.
“Et voilà Catanzaro!, c’est extraordinaire!” ha detto invece Marc Augé, il celebre antropologo dei “non luoghi”, in visita in città.
Perché Catanzaro non è così male come la prima impressione afferma e l’ultimo pensiero suggerisce. Ha il bizzarro fascino di quell’altra bellezza.
Un ponte audace e maestoso nella sua unica arcata, un tunnel che rompe la rupe e subito dopo una gigante rotatoria a forma di occhio che sovrasta una vallata. Sono le immagini che accompagnano l’ingresso in una città intrisa di altri ponti, altri palazzi, altri tunnel, altre rampe. Catanzaro ha il senso delle impalcature, si sale sempre e verso qualcosa che non è evidente ma che è evidentemente incompiuto. Frequentate chiese barocche, palazzi decadenti e i pochi resti delle antiche porte, viuzze e piazzette strette e nascoste, il Convitto Galluppi, la cucina di Salvatore, l’Arcivescovado, Bellavista, Case Arse e il complesso di San Giovanni, sono l’anima storica di una città che ha un corpo d’arte contemporanea la cui fisionomia unisce Mimmo Rotella, Altrove Festival, “U Ciaciu”, il lungomare mosaicato di Mendini, i piatti di Abbruzzino, il Politeama di Portoghesi, l’arte pubblica di decine di muri dipinti da grandi artisti, l’Aria dei vetri di Borondo, il Marca e le sculture del Parco della Biodiversità.
E poi c’è quel che resta del paesaggio. "…La città è sita sovra un monte in mezzo della Calabria: dietro le spalle le van sorgendo altri monti sino alla gran giogaia della Sila, che di verno si vede coperta di neve, e su la neve sorgono nereggianti i pini: dinanzi le sta un vastissimo terreno ondulato di colline che sono sparse di giardini, di orti, di case, di vigne, di oliveti, d’aranceti, e di pascoli dove biancheggiano armenti: e tutto quel terreno si curva in arco sul mare Ionio che tra i capi Rizzuto e Badolato forma il golfo di Squillace. Il mare è distante da la città sei miglia, ma ti pare di averlo sotto la mano, e ne odi il fragore...". Ha scritto Settembrini.
3. Il Tribunale
Arrampicato su uno dei tanti costoni della città, il Tribunale lo scorgi immediatamente, appena giunto sull’occhiuta rotatoria. Il color ocra pallido dell’alto edificio originario è accompagnato dal grigio e dal vetro dell’edificio nuovo, sorta di architettonico container, che ormai da molti anni sta per aprire, senza aprire mai.
Rampe stradali e la linea di una ferrovia cingono l’edificio fino quasi a toccarlo mentre due logore bandiere campeggiano nel piazzale d’ingresso – anticipato dall’azzurro stinto dei piloni dell’ennesima sopraelevata – dove una grigia intitolazione prova a ricordare Francesco Ferlaino.
Il frequentato interno non è dei peggiori, anche se gli spazi non abbondano, così come i servizi. Per quasi un anno senza un servizio bar, per oltre un anno senza riscaldamento né aria condizionata. Mancano aule adeguate e attrezzate per la trattazione dei numerosi maxiprocessi e dei processi che richiedono la video conferenza (ve ne sono sole due, una delle quali posizionata in luogo diverso dalla sede del Tribunale) e mancano gli spazi per la conservazione della documentazione. Non ci sono stanze per tutti i magistrati, la maggior parte sono condivise, anche nell’innovativa formula “per giorni alterni” o nella tradizionale, ma rivisitata, formula dell’open space. Poco più in là del Tribunale c’è la Corte d’Appello, che ospita anche i locali della Procura.
Antica realtà giurisdizionale, già nel Seicento luogo della Regia Udienza, Catanzaro è stata la sede d’importanti processi – Piazza Fontana, “il processo dei 117” – di fragorosi scandali – come la “guerra tra le Procure” o l’affare degli esami per avvocato – di una classe forense storica e signorile, di moltissimi magistrati, alcuni dei quali sufficientemente noti anche al grande pubblico.
4. Un Tribunale distrettuale in strutturale difficoltà
Alla domanda su quale sia il capoluogo della Calabria non sempre si risponde, almeno immediatamente, “Catanzaro”.
Altrettanto spesso qualcuno dimentica che Catanzaro è sede distrettuale.
Distretto, estesissimo, che include sette circondari per quattro province (Vibo Valentia, Paola, Cosenza, Crotone, Castrovillari, Lamezia Terme), oltre trecentotrenta Comuni e un bacino d’utenza di oltre un milione e centomila soggetti (superiore a quello di Distretti come Bari, Catania, Reggio Calabria, Salerno e Messina)[1]. Realtà difficili per contenzioso e situazione socio-economica e con scoperture importanti che vanificano l’esistenza di qualsiasi rimedio endodistrettuale.
Il Tribunale è strutturato in tre sezioni penali (Dibattimento, Riesame, GIP, GUP) e in due sezioni civili (una delle quali inclusiva del settore lavoro e previdenza).
Catanzaro è, ad oggi, il Tribunale distrettuale con la maggiore scopertura di organico.
Il dato formale, in disparte il posto vacante da Presidente, conta una scopertura del 24% per la presenza giuridica di 32 giudici sui 42 previsti dalla pianta organica (che prevede anche 5 semidirettivi e due giudici del lavoro). Il dato, estratto da Cosmag, include la fittizia presenza di un collega trasferito d’ufficio (e contestualmente sospeso) dal CSM, proprio a Catanzaro, dove mai ha messo piede e che, dopo aver subito una condanna per corruzione, ragionevolmente non farà più parte, e nemmeno fittiziamente, della pianta organica catanzarese.
La scopertura, quindi, senza contare i magistrati in congedo per maternità o assenti per altri motivi, è del 26% (contando i 31 magistrati in servizio).
La difficoltà del Tribunale di Catanzaro è strutturale, non contingente, e si ripete nel tempo. Difficoltà, non confinata al solo dato della pianta organica, riflessa nell’affanno della giurisdizione e della popolazione, basata su più fattori che – sebbene comuni a molte realtà giudiziarie – interpretati nel contesto socio-economico di riferimento rilevano una consistenza che non è solo numerica.
5. Litigiosità, criminalità, bisogno di giustizia
Il tasso di litigiosità del territorio è elevato e colloca Catanzaro tra i Tribunali più gravati d’Italia.
Per quanto riguarda la giustizia civile, i più recenti dati tratti dal sistema DWGC (datawarehouse della giustizia civile) del Ministero dello Giustizia, relativi al 2018, indicano oltre 21mila sopravvenienze, oltre 24mila pendenze finali e un clearance rate in tendenza negativa. Catanzaro, deve esser inoltre rilevato, assorbe il numeroso contenzioso connesso alla presenza del governo dell'ente regionale e delle numerose aziende regionali. L’indice di litigiosità elaborato dal Sole24 ore (e fondato sul rapporto tra cause iscritte e abitanti) colloca la zona catanzarese, negativamente, al quarto posto in Italia. Medesima posizione negativa occupa per quanto riguarda la durata media dei procedimenti civili. La percentuale delle cause pendenti ultratriennali sul totale delle pendenze vede la provincia catanzarese, sempre negativamente, al sesto posto.
Il Tribunale di Catanzaro esercita la giurisdizione, naturalmente anche con competenza distrettuale, su un territorio caratterizzato dalla forte presenza della criminalità organizzata.
Per quanto riguarda la giustizia penale quindi – la cui particolarità sul territorio calabrese è tanto nota quanto ovvia – è sufficiente evidenziare un solo e significativo dato, tratto dalla Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie (2016), in cui si sottolinea la presenza in Calabria di circa 160 organizzazioni mafiose per quasi 4.400 affiliati di cui oltre la metà (circa 2.300) concentrati nel distretto di Catanzaro. E il Distretto catanzarese è il più grande per bacino di utenza (e affiliazione criminale) dopo quello di Napoli e Palermo.
I numeri della giustizia catanzarese sono solo in parte un peso da smaltire. Sono la manifestazione di un disagio sociale da comprendere e di un intenso bisogno di giustizia e legalità, per moltissimi versi inespresso[2], da soddisfare, per questo, nel migliore dei modi possibili. “Sono pochi i paesi d’Italia che abbiano conosciuto meglio della Calabria l’ingiustizia, il sopruso, la violenza: eppure, forse per ciò, questa regione tiene al sommo del suo carattere il senso del diritto e del torto”, ha scritto Alvaro.
6. Il Tribunale distrettuale più giovane d’Italia
Catanzaro è in proporzione all’organico – e considerando come parametro la valutazione di professionalità – il Tribunale distrettuale più giovane d’Italia.
Il Tribunale, come detto, conta una pianta organica di 42 giudici (più 2 giudici del lavoro). Al settembre 2019 conta 31 magistrati (oltre i due giudici del lavoro) di cui: quindici sono in attesa della I valutazione di professionalità; dieci hanno la I valutazione di professionalità; tre hanno la II valutazione di professionalità; uno la III e due la IV valutazione. Circa l’80% dei magistrati hanno la I valutazione o ne sono in attesa (a Reggio Calabria il dato si “ferma”, per così dire, a circa il 70%). Cinque giudici con la I valutazione di professionalità hanno ottenuto il trasferimento in altri uffici nel corso del 2019.
I giudici in attesa della I valutazione costituiscono l’intera Sezione Riesame e – salvo un giudice di I valutazione – l’intera Sezione Dibattimento. La Sezione GIP-GUP conta magistrati in attesa della I valutazione e con la I e II valutazione. I giudici di prima nomina provengono da diverse regioni: Lazio, Puglia, Lombardia, Emilia-Romagna, Campania, Piemonte.
La “giovinezza” che connota il Tribunale di Catanzaro è la sua debolezza e la sua forza. È debolezza perché è causa di un incessante e instabile andirivieni mai oggetto di programmazione né generale, né specifica. È forza perché nel Tribunale, fino all’orario di chiusura e anche fuori dalle sue mura, c’è l’intensità e la freschezza di un gruppo di colleghi che danno il meglio per la loro giurisdizione.
7. Un Tribunale dalla pianta organica non distrettuale
Catanzaro continua ad avere una pianta organica inadeguata.
Il recente allargamento di dieci unità, andato a colmare un’inadeguatezza da anni nota e manifesta, è stato totalmente vanificato, e in brevissimo tempo, dall’accentramento in sede distrettuale delle misure di prevenzione (per cui non vi è un numero di magistrati adeguato per comporre un collegio specializzato, nonostante nel corso del periodo 2017-2018 vi sia stato un incremento del 84% delle richieste di misure di prevenzione e del 168% dei controlli giudiziari) e di quello della protezione internazionale (per cui ad oggi non c’è stata neppure la rinnovazione dell’interpello per il posto extradistrettuale). Accentramento che si è aggiunto alle competenze distrettuali del tribunale delle imprese, all’aumento del carico di lavoro della Corte d’Assise (inclusiva dei distretti anche di Lamezia, Crotone, Vibo Valentia) e che è stato accompagnato al contestuale rafforzamento dell’Ufficio di Procura. Un allargamento numerico della pianta organica reso comunque inefficace dagli incessanti trasferimenti in uscita e dalla scarsa attrattività dell’ufficio per i trasferimenti in entrata.
8. Un Tribunale debole
Catanzaro è un Tribunale che poggia su un’amministrazione fragile di personale e risorse e che si rapporta sia con un’Avvocatura numerosa e con scarso reddito, sia con una Procura della Repubblica strutturata e attiva.
Per quanto riguarda il contrappeso costituito dall’Avvocatura, un dato appare significativo. La Calabria[3] conta 6,8 avvocati ogni mille abitanti[4] (5,9 ne conta la Campania, 4 è la media nazionale), il numero più alto tra le regioni italiane. Avvocati il cui reddito medio è inferiore del 56% alla media nazionale, ovvero il dato più basso tra le regioni italiane. Un altro dato, tratto dal sistema statico ministeriale, aiuta a cogliere ancora meglio la situazione. Gli onorari ai difensori nel Distretto di Catanzaro, a carico dell’erario e per il 2018, hanno superato i 20milioni di euro collocando lo stesso per spesa al sesto posto in Italia dopo Milano, Roma, Catania, Torino, Palermo.
La Procura della Repubblica di Catanzaro – dopo l’arrivo dell’attuale Procuratore, vero e proprio attrattore giurisdizionale di personale e mezzi – conta 22 sostituti procuratori sui 24 previsti dalla pianta organica (oltre tre aggiunti), di cui quasi la metà destinati alla Direzione Distrettuale Antimafia. Una scopertura, ad oggi relativa, a fronte di un passato recente che ha visto l’ufficio in grande sofferenza. Una Procura giovane – il cui settore ordinario è strutturato essenzialmente sui magistrati di prima nomina – che ultimamente ha visto plurimi trasferimenti in entrata dopo che, per tanti anni, al pari del Tribunale, i bandi sono andati deserti. La Procura di Catanzaro può dirsi debole se raffrontata con altre Procure Distrettuali, anche della medesima Regione, ma costituisce una struttura comunque solida rispetto al Tribunale.
L’organico amministrativo del Tribunale di Catanzaro – la cui professionalità sfata il pregiudizio, ricorrente e negativo, del pubblico impiegato meridionale – sconta, al pari dell’organico giudiziario, gravi carenze connesse all’atavico sottodimensionamento della giurisdizione catanzarese. Gli ultimi dati a disposizione, estratti dal programma di gestione e sempre mobili, indicano una carenza del personale di cancelleria superiore al 50%, oltre alla carenza del 17% per la figura di funzionario giudiziario.
9. Un Tribunale in fuga
Dal Tribunale di Catanzaro in molti vanno via, costantemente.
I magistrati di prima nomina, che non appartengono al territorio catanzarese, vanno via perché, stanchi di un pendolarismo scomodo e a lungo raggio, si riavvicinano ai propri affetti lontani da tempo. Vanno via perché stufi, dopo aver vissuto il disagio, di un Tribunale che dal disagio non riesce a liberarsi. Vanno via perché avere una parte di vita, in un altro e lontano luogo, significa destinare un terzo dello stipendio per questo. Vanno via perché l’incentivo “a restare” esistente – ovvero il punteggio per la sede a copertura necessaria, non previsto nemmeno per tutti – è una misura fallimentare, in alcun modo compensativa. E per comprendere meglio l’incentivo “alla fuga” basta la semplice notazione che i magistrati che lasciano Catanzaro raramente ottengono, in sede di trasferimento, la sede realmente ambita[5] e si accontentano, comunque, della sede a questa più vicina.
I magistrati che appartengono al territorio, al di fuori di scelte legate ad aspirazioni professionali, vanno via per le condizioni lavorative disagevoli e perché la continua fuoriuscita di magistrati conduce a costanti vuoti d’organico, e quindi a costanti spostamenti interni che tentano di rattoppare una coperta che non solo è troppo corta ma anche troppo bucata. Vanno via in Tribunali limitrofi o della stessa città, in sedi disagiate della Calabria, in Corte d’Appello (per cui basta davvero poca anzianità).
Alcuni dati aiutano meglio ad inquadrare la situazione. Nel solo corso del 2019 hanno ottenuto il trasferimento da Catanzaro 7 giudici, di cui 5 con la I valutazione di professionalità; dal 2015 al 2019 sono stati assegnati al Tribunale 28 giudici di prima nomina (con la considerazione che la pianta organica, in precedenza, contava trentadue giudici) e nello stesso periodo almeno dieci giudici del Tribunale sono passati in Corte d’Appello o in uffici limitrofi.
10. Un Tribunale senza aspiranti
Al Tribunale di Catanzaro nessuno vuole andare.
E nessuno vuole andare perché se il giudice non appartiene al territorio non ha motivo di andare in una realtà lavorativa disagiata. Perché se appartiene al territorio, Catanzaro l’ha ottenuta, subito, in sede di prima scelta. E perché vi è un lungo elenco di ragioni che richiederebbero un altro tipo di scritto.
Un dato aiuta a capire. Dal 2010 al 2019, con i bandi di tramutamento ordinario, sono stati pubblicati oltre 35 posti ordinari per il Tribunale di Catanzaro e, sempre nel corso di tale periodo, i tramutamenti in entrata sono stati solo 3 (uno nel 2011, uno del 2013, uno nel 2017 che ha interessato un giudice del lavoro, sempre del Tribunale di Catanzaro, che è passato all’ordinario).
Le applicazioni extradistrettuali difficilmente sono coperte, perché a causa della situazione effettivamente disagiata del Tribunale, della posizione geografica della città e della situazione logistica che non consente un pendolarismo agevole, i vantaggi economici dell’applicazione sono neutralizzati dai costi e dal peso tangibile del lavoro (in particolare se l’applicazione ha ad oggetto posti come quelli dell’Ufficio GIP-GUP o del Riesame in cui, a differenza di altri settori, l’attività anche solo per sei mesi è davvero effettiva e consistente).
11. Un Tribunale in movimentazione
Catanzaro conosce una continua, e necessitata, rotazione sui ruoli che determina rallentamento e confusione nella gestione dei procedimenti, sia frustrazione per la professionalità dei magistrati.
Il movimento segue sempre la medesima intonazione ed ha cadenza quasi annuale.
La Sezione GIP-GUP (composta astrattamente da undici magistrati) manifesta le scoperture più frequenti e importanti dovute ai trasferimenti dei colleghi verso altri tribunali o verso la Corte d’Appello (ad esempio, solo nel corso del 2019, si sono trasferiti ad altra sede quattro magistrati assegnati alla Sezione). L’immediata necessità della copertura – anche per mantenere il necessario rapporto di proporzionalità con la Procura – porta ai primi tramutamenti interni che, volente o nolente, in base alla normativa vigente, coinvolgono i magistrati del Dibattimento e del Riesame. Sezioni che, a loro volta in difficoltà (a causa dei tramutamenti al GIP-GUP, ad esempio, il Dibattimento è stato costretto a mutare nell’ultimo biennio plurime volte i due collegi esistenti e quello d’assise), vedono l’assegnazione dei magistrati del settore civile, che quindi rimane inevitabilmente scoperto, salvo la fortunata coincidenza dell’ingresso di magistrati di prima nomina.
12. Tribunale di un’altra Italia
“Qui nacque il nome Italia”. È scritto su un cartellone di benvenuto, sufficientemente consumato da passare inosservato, all’ingresso della città. Un’interpretazione leggendaria, in tante versioni narrata, ne vuole l’origine in un vocabolo con il quale i greci designavano la popolazione stanziata nei pressi dell’odierno abitato.
Una volta vista e confrontata la realtà giurisdizionale catanzarese, dell’Italia, al Tribunale di Catanzaro, sembra rimasto a mala pena il nome. Senza troppe parole, basterebbe ricordarne la collocazione geografica. Perché Catanzaro non è un tribunale del sud Italia, ma un tribunale che sta nel meridione del sud Italia, in Calabria.
I problemi del meridione si riflettono sulla giurisdizione, certo. La giurisdizione è, in modo biunivoco, parte del problema del meridione. Debole e claudicante, è sia componente del problema, sia ostacolo alla soluzione delle altre sue parti. E tanto perché, in modo forse più intenso che da altre parti, c’è bisogno di vedere, di sentire, la legalità e la giustizia, oltre i proclami e soliti stilemi. Una giustizia che è pure civile, e non solo penale, anche se si parla di Calabria e anche se si parla di ‘ndrangheta. Perché la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società – ha scritto Alvaro, che a Catanzaro ha vissuto e studiato – è il dubbio che vivere rettamente sia inutile.
Soluzioni immediate alle problematiche che affliggono il Tribunale di Catanzaro non sono facili da immaginare. Tre desideri si possono però pur sempre esprimere.
Il primo è un desiderio di continuità.
La soluzione ai mali del Tribunale di Catanzaro è da sempre l’iniezione, massiva e consistente, di magistrati di prima nomina. Palliativo con effetti limitati che manifesta la sua fragilità non appena i magistrati maturano la legittimazione al trasferimento[6]. Il turn over è tale se vi è effettivo avvicendamento e quindi contestualità tra entrate e uscite. E nel caso del Tribunale di Catanzaro, dove tra uscite ed entrate vi è asimmetria numerica e temporale, non è possibile parlare di turn over. Il desiderio è quello che a Catanzaro si possa parlare effettivamente di turn over. E questo appare possibile solo creando dei nuovi incentivi “a restare” effettivamente compensativi ovvero applicazioni dotate di flessibilità temporale, determinate per il caso specifico, al fine di consentire il passaggio di consegne tra magistrati di prima nomina che vanno via e magistrati di prima nomina che arrivano.
Il secondo è un desiderio di trasparenza e diversificazione delle tutele.
Il Tribunale di Catanzaro, al pari delle altre sedi problematiche, richiede una tutela diversificata. I tribunali non in difficoltà sono tutti uguali, i tribunali in difficoltà sono tutti diversi, sono più fragili e richiedono una specifica attenzione e programmazione – a livello centrale e locale – che non può limitarsi al manifesto dei programmi di gestione. Il desiderio è la creazione di una banca data accessibile a tutti in cui vi sia una scheda per ogni ufficio, aggiornata con costanza, contenente i dati volti a chiarirne la situazione (scopertura, flussi di procedimenti, flussi di personale, statistiche, tabelle provvedimenti adottati, misure attuate dal Consiglio, programma di gestione, documento organizzativo generale, ecc.). Il desiderio è che il Csm esprima, motivatamente, le sue decisioni su tali basi – non su logiche di forza dei differenti uffici, come spesso accade – e che decida le azioni di ridistribuzione e collocazione delle forze anche sulla effettiva considerazione della serie storica dei flussi dei magistrati in entrata e uscita. Il desiderio è la previsione di canali procedimentali accelerati e privilegiati, di una valutazione dei dirigenti, in sede di conferimento e riconferma, che focalizzi l’attenzione sulle problematiche endemiche del singolo Tribunale e sulla loro gestione.
L’ultimo è un desiderio lessicale.
Il Tribunale di Catanzaro, assieme ai suoi sfortunati pari, è spesso definito di “frontiera”, per edulcorare con termine vagamente eroico, vagamente western, vagamente epico quello che è un reale problema di norme, organizzazione e risorse e non un immaginifico problema di confine fra realtà. Il desiderio è quello che non si parli più di Tribunale di frontiera, badando al concreto delle cose.
[1] Secondo i (non recenti) dati presenti su Cosmag. È interessante notare come, dai dati ministeriali relativi al 2018, il Distretto di Catanzaro risulti essere il sesto per peso delle spese di giustizia a carico dell’erario dopo Catania, Napoli, Palermo, Milano, Roma e Torino.
[2] Un dato è significativo e riguarda il lavoro sommerso, ovvero i diritti sommersi. La Calabria, secondo gli ultimi dati Istat elaborati dalla Ciga Mestre, presenta uno dei rapporti più alti in Italia tra popolazione residente e lavoratori in “nero” (146 mila per nemmeno 2 milioni di abitanti) e la più alta un’incidenza del valore aggiunto da lavoro irregolare sul Pil regionale (9,9%, quasi doppio rispetto al dato medio nazionale).
[3] Secondo i dati del Rapporto Censis 2018 “Percorsi e scenari dell’Avvocatura italiana”.
[4] L’Ordine degli Avvocati di Catanzaro conta 1735 avvocati e l’ultimo bacino d’utenza stimato conta circa 260mila soggetti. Si consideri inoltre che il limitrofo Ordine di Lamezia Terme conta 783 avvocati.
[5] Anche perché di base collocati nella parte bassa della graduatoria concorsuale e quindi sopravanzati, anche in sede di trasferimento, dai propri colleghi di concorso.
[6] Quattro dei cinque giudici (salvo l’unico giudice, che è calabrese) che hanno assunto le funzioni nel 2015 hanno ottenuto il trasferimento appena legittimati, lasciando un vuoto d’organico che, sommato agli altri trasferimenti subiti dal Tribunale nel corso del 2019, sarà probabilmente colmato solo nell’autunno 2020 con l’arrivo dei magistrati di prima nomina del d.m. 12 febbraio 2019 (che sceglieranno la sede di destinazione nella primavera 2020). Nell’autunno 2020 otterranno la legittimazione dodici magistrati del d.m. 18 gennaio 2016 il cui (ipotetico e per molti concreto) trasferimento verrà colmato solo dai m.o.t. dell’ultimo concorso che ancora debbono iniziare il tirocinio.
di Stefano Petitti[i]
Il libro di Roberto Conti rappresenta un importante contributo allo studio e alla sistematizzazione di tematiche di grande rilievo e di grande complessità. Il pregio maggiore, a me sembra, sia il tentativo, più ancora che di dare soluzioni a questioni quali quelle evocate nel titolo (questioni di vita e di morte), di individuare un metodo per porre in condizioni il giudice di orientarsi e pervenire alla decisione auspicabilmente più giusta e più aderente al caso della vita sottoposto alla sua attenzione.
E questo metodo mi pare sia caratterizzato, in primo luogo, dal principio di collaborazione, declinato sia nel rapporto tra giudice e legislatore, quale espressione del dovere di fedeltà alla Repubblica di cui all’art. 54 Cost., sia all’interno delle diverse giurisdizioni, nazionali e sovranazionali; in secondo luogo, dal ricorso alla comparazione quale criterio per la soluzione di casi nuovi.
Il tutto ispirato dalla esigenza di orientare le soluzioni di volta in volta necessarie alla tutela della dignità umana.
Indubbiamente, il nostro ordinamento, da ultimo con l’approvazione della legge n. 219 del 2017, alla quale risulta in gran parte dedicato il libro, ha espressamente accomunato la dignità al livello dei diritti fondamentali alla vita alla salute e all'auto-determinazione della persona (art. 1, comma 1) e poi esplicitando la necessità del rispetto alla dignità nella fase finale della vita (art. 2), ed ancora affermando che le manifestazioni di volontà relative ai trattamenti sanitari dei minori e degli incapaci, siano finalizzate al rispetto della dignità degli stessi.
Con tale legge, ricorda Conti, il nostro ordinamento ha sostanzialmente normativizzato alcune soluzioni giurisprudenziali adottate nella seconda metà del decennio scorso in tema di interruzione di terapie salvavita. Soluzioni giurisprudenziali intervenute in una situazione di carenza normativa, rispetto alla quale i giudici si sono fatti carico di individuare, sulla base dei principi e attraverso il metodo di cui si è detto, la soluzione al caso della vita sottoposto alla loro attenzione. Quale fosse la portata innovativa e di quelle decisioni risulta del resto evidente anche nella vicenda più recente, e cioè quella alla quale si riferisce l’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale.
In tale vicenda, infatti, viene dato per acquisito in fatto che alla parte interessata, prima ancora della approvazione e della entrata in vigore della legge n. 219, è stata prospettata la possibilità della interruzione dei trattamenti terapeutici in atto; pratica, questa, ritenuta ammissibile, in quel momento, solo sulla base dei principi giurisprudenziali.
Orbene, che quei principi e quelle soluzioni fossero finalizzati alla tutela della dignità della persona interessata a sospendere i trattamenti sanitari, oltre ad emergere in modo chiaro dalle decisioni stesse, è oggi una realtà normativa.
Come affermato dalla Corte costituzionale (sent. n. 293 del 2000), la tutela della dignità della persona umana è un valore costituzionale che permea di sé il diritto positivo e deve dunque orientare sia l'interpretazione delle disposizioni esistenti, ove la loro applicazione sia suscettibile di incidere su quel valore, sia la individuazione della soluzione più adeguata al caso concreto, ove l’ordinamento presenti una lacuna nella disciplina della fattispecie.
Quanto al tentativo di definire il concetto di dignità, Conti afferma essere “insito nel concetto di dignità ed, anzi, ne rappresenta la forza vivificante, il carattere composito, al cui interno convivono la dignità come valore intrinseco di ciascun essere umano, che impedisce ogni attentato alla libertà, identità ed integrità della persona, ma anche la dignità come merito sociale e ancora la dignità come diritto all’autodeterminazione o come statura morale di una persona rispetto a determinati comportamenti di rilievo morale o come autopercezione del proprio valore”, evidenziando, ad un tempo, per un verso la difficoltà di enucleare dal concetto “dei connotati oggettivi e standardizzati e, per l’altro verso, la necessità di usare estrema accortezza nell’utilizzare il canone della dignità come risolutivo rispetto ai vari casi che si possono presentare innanzi al giudice”.
In realtà, nelle interpretazioni giurisprudenziali, ma anche nella ricostruzione del valore “dignità” espresse dalla dottrina, possono individuarsi due diverse prospettive della rilevanza giuridica della dignità. Per un verso, la dignità coincide sostanzialmente con l’attributo primo e irrinunciabile della persona: si tratta di un concetto che discende dal principio personalista che ispira il nostro ordinamento e in forza del quale la persona merita assoluto rispetto di per sé. Per altro verso, essa, pur configurandosi come un presupposto del riconoscimento del valore della persona in quanto tale, opera anche con riferimento all’essere umano nella sua vita di relazione e più in generale, all’essere umano come soggetto della società in cui vive, in una dimensione che supera quella della tutela dell’individuo, per cogliere quest’ultimo nei suoi rapporti con gli altri.
L’applicazione del valore della dignità della persona umana, proprio per la sua qualificazione come valore costituzionale, investe sia il giudice comune che la Corte costituzionale e nel rapporto tra tali organi si cerca di pervenire alla individuazione della soluzione più appropriata al caso; soluzione che può essere quella della interpretazione costituzionalmente conforme o, venendo in rilevo diritti fondamentali, convenzionalmente e comunitariamente conforme, ovvero attraverso la proposizione di questioni di legittimità costituzionale e, in questo secondo caso, attraverso la adozione di soluzioni interpretative di rigetto o di accoglimento.
Nel considerare il rapporto tra giudice comune e corte costituzionale, vengono qui alla mente le questioni concernenti l'art. 1 della l. n. 164 del 1982, e il successivo art. 3 della medesima legge, attualmente confluito nell'art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, in relazione alle quali la Corte di cassazione ha affermato, sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata, che per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile deve ritenersi non obbligatorio l'intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari. L'acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale sia oggetto, ove necessario, di accertamento tecnico in sede giudiziale. Qui la dignità umana opera in modo prevalentemente soggettivo, valorizzandosi in termini assoluti la volontà e la concezione che la persona ha di se stessa, ritenendosi prevalente tale profilo sul concorrente interesse pubblico alla stabilità dello status. Tale connotazione risulta ancor più evidente ove si consideri che la soluzione affermata dalla Corte di cassazione è stata assunta dalla Corte costituzionale a fondamento della decisione di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale, che pure era stata sollevata in proposito, nella quale si rileva che il ragionevole punto di equilibrio tra le molteplici istanze di garanzia è stato individuato affidando al giudice, nella valutazione delle insopprimibili peculiarità di ciascun individuo, il compito di accertare la natura e l'entità delle intervenute modificazioni dei caratteri sessuali, che concorrono a determinare l'identità personale e di genere.
Sotto altro profilo, invece, per una diversa colorazione del valore della dignità umana, assumono rilievo le decisioni in tema di riconoscimento di sentenze straniere di attribuzione dello status di filiazione in assenza di rapporto biologico tra il genitore intenzionale e il minore. Il riconoscimento dell'efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore d'intenzione munito della cittadinanza italiana, trova ostacolo nel divieto di surrogazione di maternità, previsto dall'art. 12, comma 6, della l. n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l'istituto dell'adozione; la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull'interesse del minore, nell'ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire comunque rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l'adozione in casi particolari. E qui, giocano un ruolo assai significativo le decisioni della Corte costituzionale, nelle quali si esplicita “l’elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità, vietata da apposita disposizione penale”.
Ecco, quindi, che la previsione di una sanzione penale per una determinata condotta sembrerebbe precludere la possibilità di ritenere la stessa espressione di dignità umana e quindi di consentirne una comparazione e un bilanciamento con altri valori che si ritengano a loro volta espressione della dignità della persona.
Un simile approccio è però contraddetto dalla ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, la quale, pur in presenza di una disposizione che sanziona penalmente l’aiuto al suicidio, ha enucleato alcuni elementi del fatto che possono essere ritenuti, da un lato, espressivi della particolare rilevanza del principio personalista che ispira il nostro ordinamento e, quindi, del principio di autodeterminazione, da tutelare ora in via tendenzialmente assoluta anche per disposizione di legge ordinaria; dall’altro, ha dubitato – anzi, ha accertato ancorché non dichiarandola - la non conformità a costituzione della sanzione penale prevista nei confronti di chi agevoli il suicidio nel caso in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
A tale accertamento, ancora non dichiarato, la Corte perviene valorizzando in termini assai espansivi il valore della dignità della persona umana, ritenendo che sia meritevole di tutela anche la percezione soggettiva e personale della propria dignità da parte di un malato che venga a trovarsi in quelle condizioni (non consentendo al medico che ne sia richiesto di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte - si afferma -, “si costringe il paziente a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care”).
La prestazione di aiuto nei confronti del malato, quindi, non integrerebbe la violazione del precetto penale allorquando quell’aiuto sia strettamente strumentale alla realizzazione di un proposito consapevolmente maturato da parte del soggetto o al momento della formulazione della richiesta ovvero in anticipo, secondo le modalità di cui alla legge n. 219 del 2017.
Ciò che viene in rilievo è, dunque, la percezione che ciascun individuo ha di se stesso e tale percezione è a tal punto significativa da poter escludere dall’ambito del penalmente rilevante una condotta che quella convinzione di sé concorra a realizzare.
In proposito, mi pare assumano un rilievo del tutto particolare alcune affermazioni contenute in una sentenza della Corte costituzionale (n. 467 del 1991) che, pur se formulate in relazione alla obiezione di coscienza al servizio militare per motivi religiosi o filosofici, assumono una portata di carattere generale, tanto da consentire di individuare in esse la esplicitazione del concetto di dignità umana. Afferma la Corte nella citata decisione che “a livello dei valori costituzionali, la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all'uomo come singolo, ai sensi dell'art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell'uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico. In altri termini, poiché la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell'uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione, essa gode di una protezione costituzionale commisurata alla necessità che quelle libertà e quei diritti non risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento a causa di preclusioni o di impedimenti ingiustificatamente posti alle potenzialità di determinazione della coscienza medesima.
Di qui deriva che - quando sia ragionevolmente necessaria rispetto al fine della garanzia del nucleo essenziale di uno o più diritti inviolabili dell'uomo, (…) - la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell'idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell'idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana. Sotto tale profilo, se pure a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale (…), la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall'assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili (c.d. obiezione di coscienza)”.
La valorizzazione della coscienza individuale quale fondamento della dignità umana può operare, dunque, come causa di esclusione della illiceità penale allorquando la stessa si collochi in un contesto di concorrente sussistenza di interessi meritevoli di tutela in quanto espressivi di valori costituzionali. E così, nel caso dell’obiezione di coscienza al servizio militare, la Corte ha ritenuto che il valore della coscienza individuale dovesse essere dal legislatore posto in bilanciamento con altri interessi pure costituzionalmente tutelati, ed ha ritenuto prevalente la tutela del valore individuale. Una simile opera di bilanciamento pare indispensabile allorquando la coscienza individuale venga opposta all’adempimento di un dovere penalmente sanzionato.
Nel caso dell’art. 580 c.p., invece – e limitando per ovvie ragioni di rilevanza le considerazioni alla sola ipotesi di agevolazione del suicidio in favore di un soggetto consapevolmente determinatosi a togliersi la vita e tuttavia impossibilitato a perseguire il proprio proposito autonomamente – ciò che viene in rilievo ai fini della affermazione del valore della coscienza individuale non è l’adempimento di un dovere sanzionato penalmente: la legge n. 219 del 2017, invero, ha consacrato l’inesistenza di un dovere di vivere.
E’ questo un dato che la stessa Corte costituzionale ha rilevato, affermando nella ordinanza n. 207 che “se il cardinale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (…) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”. “Il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce quindi per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive”.
Se così è, allora, l’agevolazione nella realizzazione della consapevole scelta di interrompere la propria vita da parte di un soggetto che si trovi nelle descritte condizioni si risolve nell’affermazione più piena della dignità della persona, intesa quale coscienza che quella persona ha di se stessa. Né in ipotesi siffatte potrebbe opporsi la sussistenza della condizione che giustifica, nella impostazione prescelta dalla Corte costituzionale, la persistente validità della previsione di una sanzione penale per la condotta di aiuto nei confronti del suicida, e cioè la vulnerabilità di quest’ultimo. Nelle ipotesi delineate, infatti, ciò che certamente non fa difetto alla persona che invoca la realizzazione della propria dignità attraverso un ausilio nella morte, sono proprio quelle condizioni la cui mancanza potrebbe far ipotizzare una scelta non sufficientemente consapevole, e segnatamente l’assistenza familiare e le cure.
Certo, la stessa Corte costituzionale ha ritenuto di non poter dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nei termini prima indicati, rilevando la indispensabilità di un intervento del legislatore. Tale intervento non si è verificato, sicché, tra pochi giorni, la Corte costituzionale sarà nuovamente investita della questione.
Molto si è scritto sulla vicenda, sia quanto alla tipologia della decisione adottata sia quanto alla efficacia della stessa, se cioè in essa sia contenuta un’anticipazione di una decisione già assunta ovvero se la formula adottata – rinvio della trattazione delle questioni sollevate – implichi la piena disponibilità, da parte del Collegio della decisione, che potrebbe in ipotesi non comportare una dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Tuttavia, quale che sia la decisione che la Corte adotterà, credo si possa sin d’ora affermare che la stessa non potrà essere risolutiva, rimanendo sempre affidato al giudice comune il compito di assicurare la tutela della dignità umana. E’ infatti possibile ipotizzare – e in molti commenti già lo si è fatto – che la resecazione della ipotetica illegittimità costituzionale possa creare un deficit di tutela della dignità di quelle persone che, pur trovandosi nella medesime condizioni patologiche in cui si è trovato l’Antoniani, non sono tuttavia tenute in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale.
Così come suscettibile di valutazione in ambito giudiziario sarà sempre e comunque l’accertamento della consapevolezza e libertà della scelta praticata dalla persona e del suo convincimento della possibilità di affermare la propria dignità attraverso l’abbandono della vita.
Ciò che conta è che il giudice comune chiamato a dare soluzione a tali nuovi casi si accosti alla decisione con la metodologia ampiamente evidenziata nel libro di Conti, in uno spirito di fedeltà e di leale collaborazione sia rispetto agli altri organi giurisdizionali, sia rispetto alle determinazioni del legislatore ove queste dovessero intervenire.
Ed è questo credo il messaggio più forte che si trae dalla lettura del libro di Roberto: il giudice è certamente garante della dignità umana.
Intervento svolto al convegno svoltosi presso l’Aula Giallombardo della Corte di Cassazione il 10 settembre 2019 sul tema “Il giudice è garante della dignità umana?”
Una notazione sull’inadeguata recente “intesa” di limitare il mandato di EUNAVFOR MED – operazione SOPHIA di Giuseppe Licastro
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Una limitazione inopportuna… – 3. Per di più… – 4. Una (piccola-grande) digressione… – 5. La « flessibilità » delle organizzazioni criminali…
1. Introduzione.
La recente “intesa” di limitare il mandato di EUNAVFOR MED – operazione SOPHIA, segnatamente di ritirare provvisoriamente gli assetti navali dispiegati nel Mediterraneo centromeridionale per la durata della proroga, ossia fino alla fine del mese di settembre del 2019 (cfr. il corrispondente comunicato stampa del 29 marzo 2019; nonché la decisione (PESC) 2019/535 del Consiglio, p. 2), costituisce una restrizione significativa nel quadro dell’azione di contrasto da parte dell’Unione Europea al fenomeno del traffico di migranti nonché della tratta di esseri umani. Tale “intesa” (cfr. ancora il suddetto comunicato stampa) ha stabilito che l’operazione SOPHIA continuerà ad attuare il suo «mandato, aumentando la sorveglianza con mezzi aerei e rafforzando il sostegno alla guardia costiera e alla marina libiche nei compiti di contrasto in mare attraverso un monitoraggio potenziato, anche a terra, e continuando la formazione» (sulla nota operazione SOPHIA, v., tra gli altri, M. Gestri, EUNAVFOR MED: Fighting Migrant Smuggling under UN Security Council Resolution 2240 (2015), in Italian Yearbook of International Law, 2016, p. 21 ss., A. Annoni, Il ruolo delle operazioni Triton e Sophia nella repressione della tratta di esseri umani e del traffico di migranti nel Mediterraneo centrale, in Dir. Un. Eur., 2017, p. 835 ss., da ultimo G. Salvi, New Challenges for Prosecution of Migrants Trafficking: from Mare Nostrum to EUNAVFOR MED. The Experience of an Italian Prosecution Office, in B. Majtényi, G. Tamburelli (a cura di), Human Rights of Asylum Seekers in Italy and Hungary. Influence of International and EU Law on Domestic Actions, Torino/The Hague, 2019, p. 227 ss.). Appare peraltro criticabile la scelta di potenziare il sostegno alla guardia costiera libica, che nello svolgere le operazioni di soccorso utilizza modalità operative lesive dei diritti umani. La United Nations Support Mission in Libya (UNSMIL) ha documentato «the use of firearms, physical violence and threatening or racist language by coastguard officials during search and rescue operations in Libyan and international waters, which induces panic among people in unseaworthy vessels seeking assistance» (cfr., più diffusamente, il report dell’UNSMIL realizzato unitamente all’Office of the High Commissioner for Human Rights, del 18 dicembre 2018, Desperate and Dangerous: Report on the human rights situation of migrants and refugees in Libya, punto 5.2 Dangerous sea crossings and rescues, specialmente p. 35 ss.).
La decisione di sospendere temporaneamente lo spiegamento delle forze navali dell’operazione, circa il ritiro temporaneo degli assetti navali, è frutto delle conclusioni del Consiglio europeo del 28-29 giugno 2018, conclusioni volte fondamentalmente all’elaborazione del «concetto di piattaforme di sbarco regionali per le persone salvate in mare» e del concetto di «centri sorvegliati», da creare negli Stati membri (naturalmente dell’UE), ma «su base volontaria» (altresì di interesse il comunicato stampa della Commissione del 24 luglio 2018, Gestione della migrazione: la Commissione approfondisce i concetti del sistema degli sbarchi e dei “centri controllati”: doc. IP/18/4629; da richiamare, però, le perplessità manifestate da F. Maiani, “Regional Disembarkation Platforms” and “Controlled Centres”: Lifting The Drawbridge, Reaching out Across The Mediterranean, or Going Nowhere?, in RefLaw, 14 settembre 2018, nonché da S. Marinai, Extraterritorial Processing of Asylum Claims: Is It a Viable Option?, in Diritti umani e diritto internazionale, 2018, p. 481 ss.).
2. Una limitazione inopportuna…
Si tratta tuttavia di una limitazione quanto mai inopportuna, come dimostra chiaramente un recente avvistamento che documenta un modus operandi dei trafficanti di migranti che utilizza ancora una volta lo schema della c.d. nave madre con una piccola variante (invero già nota, infra). Il trasbordo dei migranti (dalla c.d. nave madre) e lo sbarco sulle nostre coste si realizzano mediante un barchino trainato dalla c.d. nave madre, il barchino serve infatti a proseguire verso e infine sbarcare sulle nostre coste italiane dopo essere stato riempito con il “carico” umano. Peraltro la documentazione di questo caso, il video, risulta postato sul profilo twitter dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (testo del tweet del 22 giugno 2019 che precede il video: «Wait, wait. Why is that fishing trawler towing an empty wooden boat at high seas???»), altresì inserito successivamente sul sito di detta agenzia FRONTEX (FRONTEX detects mother boat smuggling people, 24 giugno 2019. La cronaca di questo recente caso nonché di questo già noto modus operandi dei trafficanti appare sul Corriere della Sera, firmato da S. Toscano, il 22 giugno 2019, p. 19).
Da menzionare un “dettaglio” che figura nel sollecito comunicato stampa sul sito della Guardia di Finanza (21 giugno 2019): «Alle ore 13.20 un aereo operante nel progetto MAS dell’Agenzia Frontex, attraverso il National Coordination Centre del Ministero dell’Interno, ha documentato, a circa 60 miglia a sud dell’isola di Lampedusa, il trasbordo di un considerevole numero di migranti [81] da un motopesca su di una imbarcazione più piccola, alla quale era affiancato. Dopo il trasbordo, le due imbarcazioni si allontanavano con rotte opposte, dirigendo, la prima verso le coste libiche e la seconda carica di migranti verso le coste italiane». Il comunicato stampa menziona, altresì, l’istituto del diritto di inseguimento, previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) del 1982 (all’art. 111), allo scopo di asseverare la giurisdizione penale nazionale in alto mare (riguardo detto istituto, v. U. Leanza, F. Graziani, Poteri di enforcement e di jurisdiction in materia di traffico di migranti via mare: aspetti operativi nell’attività di contrasto, in La Comunità Internazionale, 2014, pp. 178-179). Su questa base la squadra d’abbordaggio del Pattugliatore Veloce PV 4 Avallone della Guardia di Finanza assumeva il controllo della nave madre, mentre le vedette della Guardia di Finanza e della Capitaneria di porto fermavano il barchino a 4 miglia dal Porto di Lampedusa, dove venivano fatte sbarcare le 81 persone a bordo.
Si discute, appunto, di un avvistamento operato nel quadro del dispositivo Multipurpose Aerial Surveillance (MAS): vale la pena consultare taluni risultati operativi esplicativi di tale dispositivo che appaiono, peraltro, sul Frontex annual activity report 2017 (doc. n. 10525/18 FRONT 199 COMIX 352, del 27 giugno 2018, p. 29, disponibile sul sito Statewatch), al fine di comprendere il funzionamento e le finalità di questo dispositivo (MAS), teso, all’attività di rilevamento (rectius osservazione), nonché predisposizione di operazioni di Search and Rescue e di contrasto al crimine transfrontaliero. Tale dispositivo (MAS) sembrerebbe quindi uno strumento in grado di supplire al ritiro (quantunque provvisorio) degli assetti navali dispiegati nel Mediterraneo centromeridionale.
A fronte di episodi come quello appena descritto (supra), la sospensione dello spiegamento delle forze navali appare, invece, a dir poco discutibile. Prima di questa considerevole restrizione gli assetti navali dell’operazione SOPHIA si dispiegavano addirittura in prossimità delle acque territoriali libiche… (v., a titolo esemplificativo, un riferimento in tal senso, che figura nel quadro dell’Annual report on the implementation of Regulation (EU) 656/2014, annualità 2017, doc. n. 11129/18 FRONT 229 COMIX 402, del 16 luglio 2018, p. 8). L’operazione SOPHIA era entrata da tempo (dal 7 ottobre 2015) nella prima parte della seconda fase dell’operazione, vale a dire, poteva concretamente «procedere all’esecuzione di fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti in alto mare di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico e la tratta, secondo quanto previsto dal diritto internazionale, incluse le pertinenti disposizioni contemplate dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) del 1982 e dal Protocollo sullo smuggling di migranti, allegato alla Convenzione di Palermo del 2000» (si veda il mio contributo pubblicato in dUE - Osservatorio europeo nel mese di dicembre 2015, in cui si richiamava l’attenzione sul considerando n. 6 della rettifica parziale della decisione (PESC) 2015/778 del Consiglio, relativamente all’osservanza delle pertinenti disposizioni contemplate dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati, dal principio di non-refoulement e dalla disciplina internazionale a tutela dei diritti umani, un profilo da non trascurare...: in argomento, v. i successivi contributi di F. Mussi, Countering migrant smuggling in the Mediterranean Sea under the mandate of the UN Security Council: what protection for the fundamental rights of migrants?, in The International Journal of Human Rights, 2017, p. 488 ss., e di L. Salvadego, Il rispetto dei diritti umani fondamentali nel contrasto al traffico di migranti attraverso il Mediterraneo centrale, in Il Diritto Marittimo, 2017, p. 1122 ss.).
3. Per di più…
Va inoltre considerato che l’operazione THEMIS, lanciata dall’agenzia FRONTEX nel febbraio 2018 (in sostituzione di TRITON), con il mandato di aiutare l’Italia a fronteggiare i flussi provenienti da Turchia e Albania (zona est), Libia, Tunisia e Algeria (zona ovest), ha in realtà previsto una ridotta capacità operativa delle nostre unità navali impiegate, portata del raggio d’azione limitata solo alle 24 miglia marine… (“particolari” che figurano sul sito del (nostro) Ministero dell’Interno, mese di febbraio 2018).
4. Una (piccola-grande) digressione…
Sembra comunque interessante, a questo punto (della disamina), fare una digressione, quindi richiamare, il recente d.l. 14 giugno 2019, n. 53, c.d. decreto sicurezza-bis (in GURI online), che, all’art. 1, ha introdotto modifiche all’art. 11 del Testo Unico immigrazione, immettendo un nuovo comma 1-ter, dal tenore seguente: «Il Ministro dell’interno, Autorità nazionale di pubblica sicurezza ai sensi dell’articolo 1 della legge 1° aprile 1981, n. 121, nell’esercizio delle funzioni di coordinamento di cui al comma 1-bis e nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia, può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all’articolo 19, comma 2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, ratificata dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689 [in GURI online; il riferimento attiene, più che probabilmente, al «carico o» allo «scarico» di «persone», relativamente alle leggi in materia di immigrazione «vigenti nello Stato costiero»]. Il provvedimento è adottato di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri» (sul c.d. decreto sicurezza-bis, v.: S. Zirulia, Decreto sicurezza-bis: novità e profili critici, in Diritto penale contemporaneo, 18 giugno 2019; A. Natale, A proposito del decreto sicurezza-bis, in Questione Giustizia, 20 giugno 2019; I. Papanicolopulu, Tutela della sicurezza o violazione del diritto del mare?, in SIDIBlog, 26 giugno 2019; E. Zaniboni, Quello che le norme non dicono. Le ambiguità del decreto sicurezza-bis, la gestione dei flussi migratori e l’Europa che verrà, in SIDIBlog, 26 giugno 2019; L. Masera, La crimmigration nel decreto Salvini, in La legislazione penale, 24 luglio 2019, p. 44 ss.). La limitazione o il divieto di ingresso, transito o sosta nella fascia di mare territoriale, previsti da tale innovazione, esula rectius sgombra quindi dal “campo” di applicazione solo le unità della flotta navale militare o le «navi in servizio governativo non commerciale». Per quanto concerne l’operazione SOPHIA (tanto pour parler), ovviamente si serviva di navi militari (ad esempio, la nave Cavour), che percorrevano le acque territoriali sino ad approdare al porto di sbarco assegnato… (per dire che l’operazione SOPHIA avrebbe avuto naturalmente accesso, transito o sosta, nella fascia di mare territoriale; sostanzialmente “bandita”, invece, alle navi delle ONG: in argomento, da ultimo, v. C. Pitea, S. Zirulia, “Friends, not foes”: qualificazione penalistica delle attività delle ONG di soccorso in mare alla luce del diritto internazionale e tipicità della condotta, in SIDIBlog, 26 luglio 2019).
Vale la pena di aggiungere (sia consentito: la digressione continua), che l’impianto generale del comma 1-ter (dell’art. 11 del Testo Unico immigrazione), è stato (però) oggetto di significativi rilievi in sede di audizione presso le Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia della Camera dei deputati (2 luglio 2019), audizione concernente proprio il c.d. decreto sicurezza-bis… (si rinvia opportunamente all’interessante testo della relazione, depositata, di G. Cataldi, dal titolo Audizione informale nell’ambito dell’esame del disegno di legge C. 1913 Governo, di conversione in legge del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53, recante ‘Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica’, specie il punto 2., p. 3 ss.; tra l’altro, risulta disponibile qui la registrazione video dell’audizione di G. Cataldi, a partire da 30’:26”, nonché ivi, le audizioni, parimenti interessanti, di C. Pitea e di F. De Vittor, a partire, rispettivamente, da 15’:02’’ e da 45’:55’’. Per completezza (sia consentito ancora: per chiudere la digressione): il disegno di legge n. 1437, di conversione del c.d. decreto sicurezza-bis, ha apportato, con riferimento proprio all’articolo 1 di detto decreto, modificazioni solo dal punto vista meramente stilistico, marcate in grassetto: v. la corrispondente documentazione consultabile sul sito del Senato della Repubblica, p. 17; il testo (ovviamente di conversione) approvato dal Senato, il 5 agosto 2019, figura altresì sul sito del Senato della Repubblica).
5. La « flessibilità » delle organizzazioni criminali…
Al termine di questa breve e mirata notazione sull’inadeguata “intesa” di limitare il mandato di EUNAVFOR MED – operazione SOPHIA, si ritiene confacente riprendere taluni aspetti delle considerazioni finali contenute nel significativo contributo (parte di un progetto di ricerca piuttosto datato: correva l’anno duemilaquattro…), di una stimata studiosa (l’apporto della scienza sociale appare rilevante in tale contesto; cfr., appunto, il contributo di P. Monzini, Il traffico di migranti per via marittima: il caso dell’Italia, in P. Monzini, F. Pastore, G. Sciortino, L’Italia promessa. Geopolitica e dinamiche organizzative del traffico di migranti verso l’Italia, w.p. n. 9/2004, CeSPI, p. 68 ss.): individuato «l’anello debole» nella strategia di contrasto (in questo caso, il ritiro temporaneo degli assetti navali dispiegati addirittura oltre l’alto mare), le organizzazioni criminali di trafficanti, operano «con flessibilità»… appunto!
(articolo sottoposto a referaggio anonimo)
Fecondazione post mortem: sopravvivenza del consenso del coniuge espresso in vita, rettificazione dell’atto dello stato civile e attribuzione del cognome paterno (Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, sentenza n. 13000 del 15 maggio 2019) di Remo Trezza [1]
(…) La Prima Sezione civile ha affermato che, in caso di nascita mediante tecniche di procreazione medicalmente assistita, l’art. 8 della legge n. 40 del 2004 sullo status del nato con P.M.A. si applica – a prescindere dalla presunzione ex art. 234 c.c. – anche all’ipotesi di fecondazione omologa post mortem avvenuta utilizzando il seme crioconservato del padre, deceduto prima della formazione dell’embrione, che in vita abbia prestato, congiuntamente alla moglie o alla convivente, il consenso, non successivamente revocato, all’accesso a tali tecniche ed autorizzando la moglie o la convivente al detto utilizzo dopo la propria morte (…).
Sommario: 1. Indicazioni fattuali per una migliore comprensione dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di legittimità – 2. Breve panoramica dei motivi di censura prospettati nel ricorso – 3. Temi trasversali di carattere processuale lambiti ed affrontati dalla Suprema Corte nella pronuncia – 4. Quadro sistematico delle fonti normative per la risoluzione del caso concreto – 5. Breve excursus giurisprudenziale e dottrinale in tema di fecondazione omologa post mortem, attribuzione del cognome paterno, rettificazione dell’atto di stato civile e presunzione di paternità – 6. Bilanciamento dei diritti: prevale il diritto al concepimento, dunque, alla vita o il diritto alla genitorialità? – 7. I principi di diritto a cui approda la pronuncia in esame – 8. Critiche e osservazioni mosse dalla dottrina e visione comparatistica – 9. Conclusioni
1. Indicazioni fattuali per una migliore comprensione dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di legittimità
Con decreto, il Tribunale ha respinto il ricorso ex art. 95 d.P.R. n. 396 del 2000 diretto ad ottenere, previa dichiarazione di illegittimità del rifiuto opposto dall’ufficiale dello stato civile del Comune alla registrazione del cognome paterno nella formazione dell’atto di nascita di una bambina, l’ordine all’ufficiale predetto di provvedere alla rettifica di tale atto con la indicazione della paternità del padre, deceduto, e del cognome paterno[2].
Premettendo che la bambina era nata in Italia, a seguito di fecondazione assistita cui si era sottoposta la madre all’estero dopo il decesso del marito, il quale aveva a tanto precedentemente acconsentito, e che l’oggetto del giudizio non era stabilire se fosse il padre biologico della bambina, ma accertare se fosse legittimo, o meno il diniego dell’ufficiale di stato civile di iscrivere la paternità della minore nell’atto di nascita come richiesto dalla ricorrente, ed altresì riepilogate sia la funzione dell’atto di nascita che le disposizioni del codice civile applicabili ai fini della sua corretta formazione, il Tribunale affermò che l’ufficiale predetto era tenuto a formare l’atto sulla base delle dichiarazioni delle parti, essendogli precluse indagini ed accertamenti in ordine alle dichiarazioni ed alla paternità, affidate, invece, esclusivamente all’autorità giudiziaria; rilevò che la diversa impostazione seguita dalla ricorrente non fosse coerente con l’art. 241 c.c., che ammette la prova della filiazione con ogni mezzo, ma solo nell’ambito di un giudizio, e che i diritti della minore fossero comunque preservati, perché l’atto di nascita era stato formato e la madre avrebbe potuto utilizzare gli altri rimedi processuali diretti a far constatare la paternità e ad ottenere l’attribuzione del cognome paterno; opinò che il rifiuto opposto dal comune non contrastasse con l’art. 8 della legge n. 40 del 2004, regolante lo status dei figli nati con le tecniche di procreazione medicalmente assistita, prediligendo l’opzione ermeneutica secondo cui la predetta disposizione non avesse innovato rispetto alla disciplina relativa allo status di figlio naturale riconosciuto, con la conseguenza che sarebbe stato sempre necessario il riconoscimento da parte di entrambi i genitori e, ove questo non fosse stato possibile, non si sarebbe potuto prescindere dall’esperimento di un’azione di stato ex art. 269 c.c.[3].
Il reclamo, proposto dalla ricorrente, avverso il decreto, è stato respinto dalla Corte di Appello, la quale ha disatteso l’assunto difensivo della reclamante secondo cui il descritto operato dell’ufficiale dello stato civile sarebbe stato illegittimo perché in contrasto con le disposizioni previste dalla legge n. 40 del 2004. Quest’ultima non era applicabile nella fattispecie atteso che, se, da un lato, era incontestato che l’accesso alle tecniche fosse avvenuto quando i coniugi erano viventi, dall’altro, era altrettanto pacifico, perché riferito dalla stessa, che l’intervento di fecondazione fosse stato successivo al decesso di suo marito. Inoltre, la Corte di Appello ha affermato che, pure ammettendo che il riconoscimento del rapporto di filiazione tra la bambina nata ed il defunto padre sia solo l’effetto prodotto dall’applicazione della legge spagnola e non comporti la legittimazione alla pratica della fecondazione post mortem, un siffatto riconoscimento, in ogni caso, proprio perché implicante una valutazione in ordine alla validità ed efficacia di alcuni documenti ed alla loro rilevanza probatoria ai fini dell’accertamento dello status, non poteva essere effettuato dall’ufficiale di stato civile, il quale, pertanto, legittimamente aveva applicato le regole generali del codice civile (artt. 231-232), che escludono l’operatività della presunzione di concepimento oltre trecento giorni dalla cessazione del vincolo matrimoniale e precludono l’iscrizione della paternità sulla base delle sole dichiarazioni della madre. Ancora, la Corte di Appello ha considerati tutelati l’interesse ed i diritti del minore sia mediante l’atto di nascita, comunque formato, sia tramite gli strumenti processuali, forniti dall’ordinamento, che permettono di far constatare la paternità e di ottenere l’attribuzione del cognome paterno. Infine, ha ritenuto non ravvisabili i presupposti per sollevare le questioni di legittimità costituzionali dell’art. 232 c.c. e degli artt. 5, 12 e 8 della legge n. 40 del 2004, in ragione del fatto che la mancata previsione della fecondazione assistita post mortem, dalla quale traevano origine i diversi profili di illegittimità costituzionale dedotti, era ricollegabile ad una scelta del legislatore che appariva giustificata dalla esigenza di garantire al nascituro il diritto al benessere psicofisico del medesimo attraverso il suo inserimento e la sua permanenza in un nucleo familiare ove fossero presenti entrambe le figure genitoriali[4].
2. Breve panoramica dei motivi di censura prospettati nel ricorso
La ricorrente censura in Cassazione la violazione e la falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost.[5] e 360, co. 4[6], c.p.c., con riferimento al n. 3[7], in relazione agli artt. 29[8] e 30[9] del d.P.R. n. 396 del 2000, per avere la corte distrettuale erroneamente ritenuto che l’ufficiale di stato civile avesse un potere discrezionale e/o valutativo quanto alla veridicità della dichiarazione della ricorrente afferente la paternità della minore; la violazione e la falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost.[10] e 360, co. 4[11], c.p.c., con riferimento al n. 3[12], in relazione agli artt. 8[13], 5[14] e 12[15] della legge n. 40 del 2004, laddove la medesima corte aveva ritenuto inapplicabile l’art. 8 della legge suddetta, che attribuisce lo status di figlio nato nel matrimonio a quello nato a seguito delle tecniche di fecondazione medicalmente assistita, anche perché, sotto diverso profilo, nessun contrasto con l’ordine pubblico interno è ipotizzabile quanto alla fecondazione post mortem, tecnica praticata in Stati diversi dall’Italia[16]; la violazione e la falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost.[17] e 360, co. 4[18], c.p.c., con riferimento al n. 3[19], in relazione all’art. 232 c.c.[20], perché il decreto impugnato aveva considerato applicabile, nella specie, l’art. 232 c.c., dettato dal codice civile in tema di procreazione naturale biologica, e non la disciplina contenuta nell’art. 8 della legge n. 40 del 2004[21] relativamente allo stato giuridico del nato a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita (da qui, in poi, P.M.A.); la violazione e la falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost.[22] e 360, co. 4, c.p.c.[23], con riferimento al n. 3[24], in relazione agli artt. 3[25], 30[26] e 31 Cost.[27], 10 e 117 Cost.[28] ed 8[29] e 14[30] CEDU, 24[31] della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, 3 della legge n. 176/1991[32], di ratifica della Convenzione di New York, perché la decisione impugnata si rivelava contraria ai principi costituzionali, euro-unitari ed internazionali sulla tutela dei fanciulli e sul prevalente interesse del minore.
Inoltre, la ricorrente ha riproposto in sede di legittimità le eccezioni di incostituzionalità dell’art. 232 c.c.[33], degli artt. 5 e 12 della legge n. 40 del 2004[34], nonché l’art. 8 della medesima legge[35], con riferimento agli artt. 3, 30, co. 1, 31, co. 2 Cost., 8 e 14 CEDU, art. 24, par. 2 della Carta E.U. e art. 3 della Convezione di New York, per interposizione dell’art. 117, co. 1 Cost.[36].
3.Temi trasversali di carattere processuale lambiti ed affrontati dalla Suprema Corte nella pronuncia
Il Procuratore Generale, ai fini della risoluzione del caso de quo, aveva chiesto la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite della Suprema Corte, in considerazione della particolare rilevanza della questione giuridica e della vicenda umana ad essa sottesa, che investe la tematica del procedimento di PAR (postmortem assisted reproduction)[37] e lo stato giuridico del figlio nato postumo.
La Corte, però, ha ritenuto che l’istanza volta all’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite costituisce mera sollecitazione all’esercizio di un potere discrezionale[38], che non è soggetto ad obbligo di motivazione, altresì precisandosi che la funzione nomofilattica è attribuita anche alle sezioni semplici[39].
La Corte, nella sentenza in commento, fa una disamina particolare di tutti quei casi socialmente e/o eticamente sensibili sui quali è intervenuta[40].
Inoltre, ai fini dell’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione, sottolinea la Corte, il termine “sentenza” non va inteso nel significato proprio del provvedimento emesso nelle forme e sui presupposti di cui agli artt. 132 e 279 c.p.c., ma deve interpretarsi estensivamente, così da ricomprendervi tutti i provvedimenti giurisdizionali, anche se emessi sotto forma di ordinanza o decreto, ove essi siano decisori, incidenti su diritti soggettivi e con piena attitudine a produrre effetti definitivi di diritto sostanziale e processuale[41].
Altro aspetto rilavante toccato dalla Corte di Cassazione, prima di analizzare l’ammissibilità o meno dei motivi censurati, è quello riguardante la mancata notificazione del ricorso per cassazione al Pubblico Ministero presso il giudice a quo.
La Corte, sul punto, richiama un suo precedente[42], stabilendo che “la mancanza di notifica neppure rende necessaria l’integrazione del contraddittorio tutte le volte che, non avendo il Pubblico Ministero il potere di promuovere il procedimento, le sue funzioni si identificano con quelle svolte dal procuratore generale presso il giudice ad quem e sono assicurate dalla partecipazione di quest’ultimo al giudizio di impugnazione; mentre, la suddetta integrazione è necessaria nelle sole controversie in cui il Pubblico Ministero è titolare del potere di impugnazione, trattandosi di cause che avrebbe potuto promuovere o per le quali il potere di impugnazione è previsto dall’art. 72 c.p.c.”[43].
L’omessa notifica del ricorso per cassazione al Procuratore Generale presso la Corte di Appello non è causa di inammissibilità allorquando il provvedimento impugnato abbia accolto, come nella specie, le richieste di quel Procuratore[44].
4. Quadro sistematico delle fonti normative per la risoluzione del caso concreto
La Corte, prima di affrontare lo scrutinio delle doglianze presentate alla sua attenzione, ha ritenuto opportuno fare una panoramica delle fonti in materia, per favorire una più rapida soluzione del caso concreto.
Per tali ragioni, ha riportato il testo dell’art. 95[45] del d.P.R. n. 396/2000, ritenendo di dover sottolineare che gli artt. 95 e 96[46] del predetto testo legislativo erano già impiantati negli artt. 165 e 178 del r.d. n. 1238 del 1939, poi abrogato. La disciplina, però, non è variata, anzi è rimasta del tutto analoga.
La Suprema Corte, nella sentenza di cui in commento, ha recuperato la motivazione di alcune pronunce precedenti[47], quando era in vigore il r.d. del 1939, attraverso le quali è giunta a dire, nella ricerca dei limiti dell’azione di rettificazione, che essa “non investe, in sé, il fatto contemplato nell’atto dello stato civile, ma la corrispondenza fra la realtà del fatto e la sua riproduzione nell’atto suddetto, cioè il fatto, quale è nella realtà e quale risulta dall’atto dello stato civile. Il non verificarsi di tale corrispondenza può dipendere da un errore materiale o da un qualsiasi vizio che alteri il procedimento di formazione dell’atto, sia esso dovuto al dolo dell’Ufficiale che lo redige o ad un suo errore, anche se scusabile in quanto imputabile ad uno dei soggetti chiamati dalla legge a fornire gli elementi per la compilazione dell’atto. Non interessa, cioè, ai fini dell’ammissibilità del procedimento di rettificazione, la causa che ha determinato la difformità tra la realtà del fatto e la riproduzione che ne è contenuta nell’atto, non essendo dubitabile che i registri dello stato civile, quali fonte delle certificazioni anagrafiche, devono contenere atti esattamente corrispondenti alla situazione quale è o quale dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione della legge…”[48].
Inoltre, l’attenzione è stata soffermata sulla natura degli atti civili[49], che è proprio quella di attestare la veridicità dei fatti menzionati nei relativi registri, ma il sindacato spettante all’ufficiale dello stato civile non è certamente equiparabile a quello dell’autorità giudiziaria in un’azione di stato.
Per quanto concerne, invece, la funzione delle dichiarazioni che si fanno davanti all’ufficiale dello stato civile, queste possono avere la funzione esclusiva di dare “pubblicità notizia” di eventi, come la nascita e la morte, che hanno rilevanza per l’ordinamento dello stato civile per il solo fatto di essersi verificati. Da tali eventi, come documentati nei registri dello stato civile, possono derivare, per effetto di normative particolari, estranee alla disciplina che regola le iscrizioni di dette dichiarazioni, diritti e doveri[50].
In tale caso, grava sull’ufficiale l’obbligo di ricevere quanto riferito dal dichiarante e formare nei suoi registri processo verbale per atto pubblico, senza che a lui competa di stabilire se gli eventi riportati possano essere compatibili con l’ordinamento italiano e se per questo abbiano rilevanza e siano produttivi di diritti e di doveri. Spetterà al giudice pronunciarsi su tali questioni ove su di esse sorga controversia[51].
Altre dichiarazioni, invece, pure rese davanti al medesimo ufficiale, sono, di per se stesse, produttive di effetti giuridici riguardo allo status della persona cui si riferiscono[52]. In questi casi, l’ufficiale dovrà rifiutare di ricevere la dichiarazione ove la ritenga in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico[53].
Nel caso di specie, dunque, secondo la Corte, ci furono due distinte dichiarazioni davanti all’ufficiale dello stato civile. La prima riguardante l’evento nascita[54]; l’altra afferente l’indicazione della paternità della neonata, dalla ricorrente attribuita – giusta la documentazione attestante la tecnica della P.M.A., cui si era sottoposta in Spagna, e per effetto della quale era derivata la predetta nascita – al coniuge, deceduto, ma che, prima della sua morte, aveva acconsentito all’accesso alla P.M.A. da parte della moglie, altresì autorizzandola ad utilizzare, post mortem, il suo seme crioconservato.
Non sull’evento nascita l’ufficiale dello stato civile avrebbe potuto stabilirne la sua compatibilità con l’ordinamento italiano o meno, ma, nel secondo caso, invece, ingenerando effetti giuridici riguardo allo status della persona cui era riferita, l’ufficiale avrebbe potuto rifiutare di riceverla, se ritenuta in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico[55].
Per tali ragioni, la Corte opina a discapito della violazione, da parte del giudice di merito, degli articoli denunciati nel primo motivo di ricorso, dovendosi, continua la Corte, piuttosto valutare se il rifiuto oppostole dall’ufficiale di anagrafe abbia determinato, o meno, una discrasia tra la realtà dalla prima complessivamente dichiarata e la sua riproduzione nell’atto di nascita come redatto da quell’ufficiale: vale a dire tra il fatto, quale era stato nella realtà e come, invece, risultava dall’atto dello stato civile[56].
5. Breve excursus giurisprudenziale e dottrinale in tema di fecondazione omologa post mortem, attribuzione del cognome paterno, rettificazione dell’atto di stato civile e presunzione di paternità
Come la Corte, si sente la necessità di mettere in luce alcuni passaggi in tema di fatto. I coniugi, a causa di alcune difficoltà riscontrate nel concepimento di un figlio, avevano deciso di ricorrere alle tecniche di P.M.A. prestando il loro consenso; il coniuge, proprio nel corso della terapia, aveva appreso di essere gravemente malato e, dovendo procedere all’assunzione di farmaci che avrebbero compromesso la sua capacità di generare, aveva reiterato il proprio consenso, con apposita dichiarazione, e, consapevole della sua fine imminente, aveva anche autorizzato la moglie all’utilizzo, post mortem, del proprio seme crioconservato al fine di ottenere una gravidanza con l’ausilio delle tecniche di fecondazione assistita omologa; per realizzare il comune desiderio di procreazione, la ricorrente, dopo la morte del marito, si era sottoposta al trattamento di fecondazione assistita in Spagna dando, poi, alla luce, in Italia, la bambina[57].
Si tratta, dunque, di una nascita derivata da una tecnica di P.M.A. omologa eseguita post mortem, benché acconsentita da entrambi i coniugi anteriormente al decesso del marito della ricorrente, il quale, poco prima di morire, nel ribadire il proprio consenso, aveva altresì autorizzato, al suddetto fine, l’utilizzo del proprio seme crioconservato[58].
L’ufficiale dello stato civile, nonostante la documentazione a corredo, ha rifiutato di trascrivere nell’atto di nascita la paternità del defunto e di attribuire il cognome paterno, ritenendo la dichiarazione della madre contraria all’ordinamento giuridico vigente[59].
Parte assolutamente dirimente del ragionare del giudice di legittimità è indiscutibilmente il passaggio nel quale si sottolinea che la questione non è quella della trascrivibilità in Italia di un atto di nascita redatto in uno dei Paesi che consentono tecniche di fecondazione artificiale di cui si è avvalsa, per esempio, la ricorrente, bensì della possibilità o meno di rettificare un atto di nascita già formato sul territorio nazionale[60].
Altra questione dirimente risulta essere quella secondo cui non si controverte sulla liceità o meno di una simile tecnica, ma esclusivamente quella della corrispondenza tra la realtà del fatto come dichiarato dalla ricorrente all’ufficiale e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo redatto[61].
Il problema centrale, ora, risulta quello di capire quali regole, in tema di presunzione di paternità, si applicano al caso concreto. I meccanismi presuntivi previsti dagli artt. 231-233 c.c. oppure la disciplina della legge n. 40 del 2004?[62]
La risposta della Corte è ben argomentata, partendo addirittura da un’osservazione di carattere sociologico[63], di carattere sistematico[64] e di carattere argomentativo[65].
La Corte, inoltre, si sofferma su un concetto essenziale, ovverosia che la procreazione nella società della globalizzazione presenta un particolare dinamismo, subordinato agli interessi concreti che è volta a soddisfare, che, mediante l’applicazione di tecniche di P.M.A. anche dopo la morte di uno dei due partners, finisce con il superare il confine terreno dell’unità coniugale, ma che, comunque, non può prescindere dall’importante ruolo della “responsabilità” genitoriale, che passa da esercizio di un diritto alla procreazione allo svolgimento di una “funzione” genitoriale[66].
Nel caso affrontato dalla Corte di legittimità, si è verificata una causa di scioglimento del matrimonio (morte del coniuge), dunque, si pone il problema circa la verificazione della paternità della figlia, soprattutto in connessione con il tempo di trecento giorni (termine dal quale non opera la presunzione)[67].
Se si applicassero le regole generali, l’atto di nascita non troverebbe corrispondenza con la realtà; se, a contrario, si applicasse la disciplina dello status del figlio nato dalla tecnica di P.M.A. (anche se post mortem), la corrispondenza tra quanto dichiarato e quanto contenuto nell’atto è perfettamente coincidente.
A questa soluzione arriva la Corte, in maniera più lenta, in quanto bisognosa di inquadrare, ancora una volta, le fonti normative di riferimento, specie gli artt. 8[68] e 9[69] della legge 40 del 2004, soprattutto alla luce delle modifiche intervenute con la pronuncia della Corte Costituzionale[70].
Passaggio determinante dell’argomentazione del Giudice di legittimità è rappresentato dal fatto che qualsivoglia considerazione riguardante la valutazione in termini di illiceità/illegittimità, in Italia, della tecnica di P.M.A post mortem, oltre che, eventualmente, delle condotte di coloro che ne consentono l’accesso o l’applicazione, non potrebbe certamente riflettersi, in negativo, sul nato e sull’intero complesso dei diritti a lui riconoscibili. La circostanza che si sia fatto ricorso all’estero alla P.M.A. non espressamente disciplinata nel nostro ordinamento non esclude, ma anzi impone, nel preminente interesse del nato, l’applicazione di tutte le disposizioni che riguardano lo stato del figlio venuto al mondo all’esito di tale percorso[71].
Occorre, dunque, stabilire se la disciplina della filiazione nella procreazione medicalmente assistita configuri un sistema alternativo rispetto a quello codicistico, in ragione della peculiarità della tecnica de qua, o si inserisca in quest’ultimo che regola la filiazione da procreazione naturale attraverso la previsione di specifiche eccezioni[72].
Altro passaggio fondamentale, ad avviso del commentatore, è rappresentato dal fatto che la Corte affermi che ormai figlio non è solo chi nasce da un atto naturale di concepimento, ma anche colui che venga al mondo a seguito di fecondazione assistita (omologa o eterologa che sia, nei limiti imposti dalla Corte Costituzionale) o colui che sia tale per effetto di adozione: ciò dimostra che i confini una volta ritenuti invalicabili del principio tradizionale della legittimità delle filiazione sono ormai ampiamente in discussione. In base agli artt. 2 e 30 della Costituzione, infatti, il nato ha diritto, oltre che di crescere nella propria famiglia, di avere certezza della propria provenienza biologica, rivelandosi questa come uno degli aspetti in cui si manifesta la sua identità personale[73].
È necessario rimarcare, soprattutto a livello dottrinale, la duplicità di visioni sulla alternatività della disciplina o sulla sua generalità.
Un primo filone fonda tutto sul consenso dato dal coniuge o dal convivente alla fecondazione artificiale[74]. Questo consenso avrebbe un significato diverso dalla nozione di “consenso informato”[75] al trattamento medico e governerebbe lo status identificando la maternità e la paternità del nato nella forma più ampia e certa, senza bisogno di ulteriori manifestazioni di volontà.
Per altri, invece, il consenso dato dal coniuge o convivente alla fecondazione artificiale non inciderebbe direttamente sull’attribuzione dello status di figlio, ma avrebbe solo la funzione di consentire al figlio di identificare il proprio genitore grazie all’assenso da lui prestato alla P.M.A.[76].
Un simile dilemma interpretativo, afferma la Corte nella sentenza in commento, produce i suoi effetti anche sullo status del figlio nel caso di fecondazione medicalmente assistita post mortem, laddove si potrebbero verificare alcune ipotesi: il prelievo del seme dal cadavere dell’uomo; l’inseminazione artificiale della donna con seme crioconservato, prelevato dal partner prima del decesso; infine, l’impianto, nel corpo della donna, dell’embrione formatosi quando entrambi i componenti della coppia erano in vita[77].
L’art. 5 della legge n. 40 del 2004, dunque, sembra escludere che possa ricorrere alla tecnica una donna vedova, sotto pena di sanzioni amministrative, e tanto, come pure si è autorevolmente sostenuto[78], allo scopo di evitare i pregiudizi che al minore potrebbero eventualmente derivare a causa della mancanza della figura paterna[79].
Ulteriore problema è se il figlio, venuto alla luce attraverso procreazione assistita post mortem, sia nato oltre i trecento giorni dalla morte del padre. Le opinioni sono varie[80].
La Corte, inoltre, richiama l’art. 9, co. 1 della legge n. 40 del 2004, il quale stabilisce che il marito o il convivente non possa esercitare l’azione di disconoscimento della paternità o l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità purché il suo consenso sia ricavabile da atti concludenti. Proprio questo richiamo agli atti concludenti costituisce un argomento significativo per ritenere, fondatamente, che questi stessi atti siano idonei a maggior ragione a dimostrare il consenso alle pratiche lecite di procreazione assistita omologa, essendo innegabile che la genitorialità di cui al citato art. 8 spetti alla coppia, coniugata o convivente, che abbia voluto congiuntamente accedere alla tipologia di P.M.A. consentita anche nel nostro ordinamento[81].
L’art. 8 della legge n. 40 del 2004 esprime l’assoluta centralità del consenso come fattore determinante la genitorialità in relazione ai nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di P.M.A.. La norma non contiene alcun richiamo ai suoi precedenti artt. 4 e 5, con i quali si definiscono i confini soggettivi dell’accesso alla P.M.A., così dimostrando una sicura preminenza della tutela del nascituro[82], sotto il peculiare profilo del conseguimento della certezza dello status filiationis, rispetto all’interesse, pure perseguito dal legislatore, di regolare rigidamente l’accesso a tale diversa modalità procreativa[83].
6. Bilanciamento dei diritti: prevale il diritto al concepimento, dunque, alla vita o il diritto alla genitorialità?
La Corte, nei passaggi immediatamente successivi della sentenza, opina che sia possibile l’applicazione della disciplina dell’art. 8 della legge n. 40 del 2004 anche alla specifica ed affatto peculiare ipotesi di cui si parla, apparendo del tutto ragionevole la conclusione che il nato, allorquando il marito (e, sempre in un’ottica sistematica, il convivente) sia morto dopo aver prestato il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ai sensi dell’art. 6 della medesima legge e prima della formazione dell’embrione avvenuta con il proprio seme precedentemente crioconservato sia da considerarsi figlio nato nel matrimonio della coppia che ha espresso il consenso medesimo prima dello scioglimento, per effetto della morte del marito, del vincolo nuziale. In tal caso, benché manchi il requisito della esistenza in vita di tutti i soggetti al momento della fecondazione dell’ovulo, deve ritenersi che, una volta avvenuta la nascita, il figlio possa avere come padre colui che ha espresso il consenso ex art. 6 della legge predetta, senza mai revocarlo, dovendosi individuare in questo preciso momento la consapevole scelta della genitorialità[84].
A questa soluzione, aggiunge la Corte, nemmeno sembra di assoluto ostacolo l’assunto secondo cui l’ordinamento deve proteggere l’infanzia garantendo il diritto ad avere una famiglia composta da due figure genitoriali, nel chiaro intento positivo di considerare prevalente la tutela del nascituro rispetto alla genitorialità[85].
Al contrario, si può osservare che la limitazione della donna, nella specifica situazione in cui era venuta a trovarsi la ricorrente, all’accesso alla tecnica cui ella si era poi sottoposta non è funzionale a far prevalere l’interesse del nascituro a venire al mondo in una famiglia che possa garantire l’esistenza e l’educazione, perché l’alternativa è il non nascere affatto; parimenti, l’affermazione che nascere e crescere con un solo genitore integri una condizione esistenziale negativa non sembra potersi enfatizzare al punto da preferire la non vita[86].
Al contrario, ancora, l’interesse del nato, nella specie, è quello di acquisire rapidamente la certezza della propria discendenza biologica, elemento di primaria rilevanza nella costruzione della propria identità[87].
La Corte, dopo questo importante passaggio, ha avuto modo di riflettere sul concetto di famiglia, che non può più essere solo quella del codice civile del 1942. Il fenomeno dell’emersione, afferma la Corte, di diverse relazioni intersoggettive nelle relazioni affettive è, del resto, in progressiva evoluzione, così da richiedere una tutela sistematica dei fenomeni prima sconosciuti o ritenuti minoritari, imponendo soluzioni capaci di emanciparsi da quei modelli tradizionali che rischiano, ormai, di rivelarsi inadeguati rispetto ai primi[88].
La Corte, quasi nelle battute finali del suo percorso logico-argomentativo, stabilisce che occorre applicare la disciplina contenuta nell’art. 8 della legge n. 40 del 2004, senza poter fare riferimento alla presunzione stabilita dall’art. 232 c.c., che, di per sé, non può costituire ostacolo all’attribuzione al nato a seguito di fecondazione omologa eseguita post mortem dello status di figlio del marito deceduto, anche se la nascita sia avvenuta dopo il decorso del termine di trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio conseguente alla sua morte[89].
Per poter affermare, dunque, che la figlia, nel caso di specie, sia del marito deceduto della ricorrente, deve esistere il presupposto fondamentale previsto dal suddetto art. 8, vale a dire il consenso espresso congiuntamente dai coniugi al ricorso alle tecniche di P.M.A., secondo quanto stabilito dall’art. 6 delle legge medesima, e mantenuto dal marito fino alla data della sua morte. Il consenso, a norma dell’art. 9 della legge stessa, può essere ricavabile anche da atti concludenti[90].
Lo status filiationis va determinato verificando solamente se effettivamente il coniuge o il convivente abbia prestato il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita anche solo mediante atti concludenti, e se tale consenso, integrato da quello riguardante anche la possibilità di utilizzo del proprio seme post mortem, sia effettivamente persistito fino al momento ultimo entro il quale lo stesso poteva essere revocato, non ravvisandosi valide ragioni per ritenere, a contrario, che il consenso peculiarmente espresso per un atto da compiersi dopo la morte perda efficacia al verificarsi di detto evento[91].
7. I principi di diritto a cui approda la pronuncia in esame
Volendo fare una sintesi, e volendo prendere spunto dalla parte finale della sentenza che qui si sta commentando, si può affermare che: “le dichiarazioni rese all’ufficiale dello stato civile, se dirette esclusivamente a dare pubblica notizia di eventi, quali la nascita o la morte, rilevanti per l’ordinamento dello stato civile per il solo fatto di essersi verificati, impongono al menzionato ufficiale di riceverle e formarne nei suoi registri processo verbale per atto pubblico, senza che gli spetti di stabilire la compatibilità, o meno, di detti eventi con l’ordinamento italiano e se, per questo, abbiano rilevanza e siano produttivi di diritti e doveri. Diversamente, qualora, tali dichiarazioni siano, di per se stesse, produttive di effetti giuridici riguardo allo status della persona cui si riferiscono, l’ufficiale dovrà rifiutare di riceverle ove le ritenga in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico”; inoltre, “il procedimento di rettificazione degli atti dello stato civile, disciplinato dall’art. 96 del d.P.R. n. 396 del 2000, è ammissibile ogni qualvolta sia diretto ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo le previsioni di legge, e come risulta dall’atto dello stato civile per un vizio, comunque o da chiunque originato, nel procedimento di formazione di esso. In tale procedimento, l’autorità giudiziaria dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest’ultimo, potendo, così, a tale limitato fine, avvalersi di tutte le risorse istruttorie fornitele dalla parte”; infine, “l’art. 8 della legge n. 40 del 2004, recante lo status giuridico del figlio nato a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, è riferibile anche all’ipotesi di fecondazione omologa post mortem avvenuta mediante l’utilizzo del seme crioconservato di colui che, dopo aver prestato, congiuntamente alla moglie o alla convivente, il consenso all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ai sensi dell’art. 6 della medesima legge, e senza che ne risulti la sua successiva revoca, sia poi deceduto prima della formazione dell’embrione avendo altresì autorizzato, per dopo la propria morte, la moglie o la convivente all’utilizzo suddetto. Ciò pure quando la nascita avvenga oltre i trecento giorni dalla morte del padre”[92].
8. Critiche e osservazioni mosse dalla dottrina e visione comparatistica
Sul tema e sulla pronuncia di cui in commento, tante sono state le osservazioni e tante, ancora, le critiche, che, qui, si cercherà di sintetizzare, senza pretesa di opinare sulla validità o meno delle stesse.
In merito all’ammissibilità della fecondazione post mortem, si vuole soffermare l’attenzione su di una rilevante pronuncia del Tribunale di Palermo[93].
Inoltre, in relazione alla rilevanza dell’esistenza in vita dei coniugi, si richiama una sentenza del T.A.R. Lazio[94].
Tra i primi commentatori della sentenza de qua, vi è chi plaude per aver messo a tacere una questione spinosa, ma, allo stesso tempo critica, per non aver dato nemmeno un piccolo spiraglio per una possibile illegittimità costituzionale degli articoli che vietano la pratica, nel nostro ordinamento, della fecondazione assistita post mortem[95].
Va detto, però, a tal proposito, che la Corte, nella sentenza in commento, ha più volte fatto presente che non si discuteva della “liceità/ammissibilità – illeceità/inammissibilità” della pratica in Italia, ma solo ed esclusivamente di un problema attinente alla rettificazione dell’atto dello stato civile e della disciplina della presunzione di paternità, ormai agganciata al meccanismo di cui all’art. 8 della legge n. 40 del 2004.
Vi è, poi, chi ritiene che la Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, avrebbe potuto fare qualcosa in più. Però è stata ritenuta degna di nota nella parte in cui la sentenza ha enfatizzato l’interesse preminente del minore[96].
Ancora, tra alcuni commenti risalenti nel tempo, ci sono quelli che sono stati lungimiranti[97].
A proposito dell’ammissibilità o meno, nel nostro ordinamento, della pratica di fecondazione post mortem, comunque vietata, per una visione di carattere sistematico-comparatistica, si sente la necessità di capire come gli altri ordinamenti (sia di civil law che di common law) si muovono in tal senso.
La legge francese, nell’imporre che membri della coppia siano entrambi viventi, vieta l’inseminazione o il transfer di embrioni post mortem e considera privo di effetto il consenso del partner nel caso in cui lo stesso muoia “prima della realizzazione della procreazione medicalmente assistita”, con la conseguenza che non gli potrà essere attribuita la paternità del bambino in tal modo concepito[98].
In Inghilterra, invece, la legge del 1990[99], relativa alla fecondazione e all’embriologia umana, autorizza l’inseminazione artificiale ed il trasferimento degli embrioni post mortem, purché le persone interessate chiariscano la sorte che intendono riservare ai propri gameti e agli embrioni in caso di morte. La richiamata disciplina normativa esclude, però, che, nell’ipotesi di utilizzo post mortem dei propri gameti, venga riconosciuta la paternità del genitore[100].
In Grecia, per esempio, dopo la morte del partner, è consentita la procreazione post mortem, previa autorizzazione di un Tribunale e a condizione che il coniuge/compagno soffra già in vita di una malattia che ne comprometta la fertilità o la vita e che abbia acconsentito per iscritto alla tecnica in oggetto[101].
Ulteriore elemento di comparazione, può essere quello dell’ordinamento spagnolo, nel quale la fecondazione omologa, se effettuata non più di sei mesi dopo la morte del marito (o convivente), risulta pienamente legittima. La paternità viene sempre attribuita all’uomo deceduto, a condizione che questi abbia prestato il proprio consenso con atto pubblico o nel testamento[102], esattamente come è avvenuto nel caso di specie.
La pratica della fecondazione post mortem è vietata dalla legge danese[103], da quella svizzera[104] ed è addirittura sanzionata penalmente dalla legge tedesca[105].
9. Conclusioni
La sentenza, che fin qui si è commentata, ha di certo messo un po’ di cosmos in un caos normativo e giurisprudenziale.
Sicuramente va sostenuta e avallata questa decisione, soprattutto perché supera delle concezioni dottrinali che non sono mai state chiare e unanimi.
Rispetto a quanto qualcuno ha scritto[106], si reputa assolutamente irrilevante, ai fini della presente decisione, l’implicazione che un simile principio di diritto possa avere con il divieto di maternità surrogata.
Si sente, però, la necessità di porre, soprattutto a conclusione del commento, l’attenzione su un problema particolare: il caso di fecondazione post mortem senza consenso del coniuge o del convivente. In astratto, l’interprete può intendere il silenzio del legislatore in tre diversi sensi: per un verso, quella tecnica normativa volta ad escludere l’attribuzione di un rapporto di filiazione ove non vi sia consenso[107]; per altro verso, quale richiamo meccanico della disciplina generale della filiazione, applicando le regole della filiazione legittima solo se operano le presunzioni e consentendo altrimenti il rapporto di filiazione naturale[108]; infine, quale indice della sussistenza di una lacuna, da colmare in via analogica[109].
Chi commenta reputa assolutamente fondante, come ha espresso bene la sentenza in commento, il preminente interesse del minore, in un’ottica di prevalenza del diritto al concepimento, dunque, alla vita, rispetto al diritto alla genitorialità[110].
In via conclusiva, si può certamente affermare che l’interprete che intenda ricondurre ad un sistema coerente la disciplina sulla filiazione nella procreazione medicalmente assistita e delle sue implicazioni, sia con i principi generali della stessa legge speciale (legge n. 40 del 2004), sia con le logiche sottostanti la disciplina generale della filiazione, è invece costretto a registrare, e forse ad accentuare, l’isolamento della disciplina italiana rispetto al contesto europeo e internazionale[111].
Rimane sempre fondamentale il contributo di giurisprudenza e dottrina in materia, data la vaghezza e la formulazione largamente inadeguata della legge, nonché le ampie lacune in essa presenti.
Sta di fatto che, grazie all’ausilio e all’apporto decisamente pretorio della giurisprudenza di legittimità, si deve constatare che la legge sulla procreazione medicalmente assistita esprime un modello di legislatore, non solo poco attento, ma anche profondamente ambiguo, che ancora una volta adotta tecniche di normazione[112] che hanno caratterizzato la legge sulla interruzione volontaria di gravidanza[113]: enuncia principi etici che richiamano il diritto naturale[114], ma adotta soluzioni che sembrano andare di verso contrario.
Il freno, in special modo in questo periodo storico, è dato dalla giurisprudenza, soprattutto rappresentata dal Giudice di legittimità, che, con tanta pazienza e tanta passione, mette “toppe” alle buche profondamente provocate dal legislatore sul sentiero dell’ordinamento.
Lo si ribadisce anche a chiosa del presente lavoro: il diritto ha necessità di farsi comprendere e non di farsi notare[115].
[1] Dottorando di ricerca in Scienze giuridiche presso l’Università degli studi di Salerno e Tirocinante ammesso presso la Suprema Corte di Cassazione (sez. I civile).
[2] Per un inquadramento più sistematico del fatto, vedi la sentenza di cui in commento, p. 2, § 1.
[3] Vedi, a tal proposito, la sentenza di cui in commento, specie pp. 2-3, § 1.1.
[4] Per avere una completezza del fatto in questione, si rinvia alla sentenza, pp. 3-5, in particolar modo § 1.2.
[5] Si consenta riportare il testo della norma costituzionale, soprattutto il comma 7, secondo il quale: “Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge”.
[6] Il quarto comma dell’art. 360 c.p.c. statuisce che: “Le disposizioni di cui al primo comma e terzo comma si applicano alle sentenze ed ai provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge”.
[7] Solo per completezza, si riporta il testo dell’art. 360, co. 3 c.p.c., secondo cui è possibile proporre ricorso per Cassazione “per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro”.
[8] Per una contezza dell’istituto in esame, si riporta il contenuto integrale dell’art. 29 del d.P.R. menzionato, in tema di atto di nascita, a mente del quale: “1. La dichiarazione di nascita è resa nei termini e con le modalità di cui all’articolo 30. 2. Nell’atto di nascita sono indicati il luogo, l’anno, il mese, il giorno e l’ora della nascita, le generalità, la cittadinanza, la residenza dei genitori legittimi nonché di quelli che rendono la dichiarazione di riconoscimento di filiazione naturale e di quelli che hanno espresso con atto pubblico il proprio consenso ad essere nominati, il sesso del bambino e il nome che gli viene dato ai sensi dell’articolo 35. 3. Se il parto è plurimo, se ne fa menzione in ciascuno degli atti indicando l’ordine in cui le nascite sono seguite. 4. Se il dichiarante non dà un nome al bambino, vi supplisce l’ufficiale dello stato civile. 5. Quando si tratta di bambini di cui non sono conosciuti i genitori, l’ufficiale dello stato civile impone ad essi il nome ed il cognome. 6. L’ufficiale dello stato civile accerta la verità della nascita attraverso l’attestazione o la dichiarazione sostitutiva di cui all’articolo 30, commi 2 e 3. 7. Nell’atto di nascita si fa menzione del modo di accertamento della nascita”.
[9] In merito alla dichiarazione della nascita, invece, l’art. 30 del d.P.R. menzionato stabilisce che: “1. La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata. 2. Ai fini della formazione dell’atto di nascita, la dichiarazione resa all’ufficiale dello stato civile è corredata da una attestazione di avvenuta nascita contenente le generalità della puerpera, nonché le indicazioni del comune, ospedale, casa di cura o altro luogo ove è avvenuta la nascita, del giorno e dell’ora della nascita e del sesso del bambino. 3. Se la puerpera non è stata assistita da personale sanitario, il dichiarante che non è neppure in grado di esibire l’attestazione di constatazione di avvenuto parto, produce una dichiarazione sostitutiva resa ai sensi dell'articolo 2 della legge 4 gennaio 1968, n. 15. 4. La dichiarazione può essere resa, entro dieci giorni dalla nascita, presso il comune nel cui territorio è avvenuto il parto o in alternativa, entro tre giorni, presso la direzione sanitaria dell’ospedale o della casa di cura in cui è avvenuta la nascita. In tale ultimo caso la dichiarazione può contenere anche il riconoscimento contestuale di figlio naturale e, unitamente all’attestazione di nascita, è trasmessa, ai fini della trascrizione, dal direttore sanitario all’ufficiale dello stato civile del comune nel cui territorio è situato il centro di nascita o, su richiesta dei genitori, al comune di residenza individuato ai sensi del comma 7, nei dieci giorni successivi, anche attraverso la utilizzazione di sistemi di comunicazione telematici tali da garantire l’autenticità della documentazione inviata secondo la normativa in vigore. 5. La dichiarazione non può essere ricevuta dal direttore sanitario se il bambino è nato morto ovvero se è morto prima che è stata resa la dichiarazione stessa. In tal caso la dichiarazione deve essere resa esclusivamente all’ufficiale dello stato civile del comune dove è avvenuta la nascita. 6. Ai fini dell’applicazione delle disposizioni del presente articolo, gli uffici dello stato civile, nei loro rapporti con le direzioni sanitarie dei centri di nascita presenti sul proprio territorio, si attengono alle modalità di coordinamento e di collegamento previste dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui all’articolo 10, comma 2. 7. I genitori, o uno di essi, se non intendono avvalersi di quanto previsto dal comma 4, hanno facoltà di dichiarare, entro dieci giorni dal parto, la nascita nel proprio comune di residenza. Nel caso in cui i genitori non risiedano nello stesso comune, salvo diverso accordo tra di loro, la dichiarazione di nascita è resa nel comune di residenza della madre. In tali casi, ove il dichiarante non esibisca l’attestazione della avvenuta nascita, il comune nel quale la dichiarazione è resa deve procurarsela presso il centro di nascita dove il parto è avvenuto, salvo quanto previsto al comma 3. 8. L’ufficiale dello stato civile che registra la nascita nel comune di residenza dei genitori o della madre deve comunicare al comune di nascita il nominativo del nato e gli estremi dell’atto ricevuto”.
[10] Si faccia riferimento alla nota n. 4.
[11] Si faccia riferimento alla nota n. 5.
[12] Anche a tal proposito, si rimanda alla nota n. 6.
[13] La norma dispone in tema di stato giuridico del figlio e stabilisce che:“1. I nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’articolo 6”.
[14] La norma in esame attiene ai requisiti soggettivi e dispone che: “1. Fermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”.
[15] La norma citata, invece, dispone in tema di sanzioni, e stabilisce che: “1. Chiunque a qualsiasi titolo utilizza a fini procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente, in violazione di quanto previsto dall’articolo 4, comma 3, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 300.000 a 600.000 euro. 2. Chiunque a qualsiasi titolo, in violazione dell’articolo 5, applica tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie i cui componenti non siano entrambi viventi o uno dei cui componenti sia minorenne ovvero che siano composte da soggetti dello stesso sesso o non coniugati o non conviventi è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro. 3. Per l’accertamento dei requisiti di cui al comma 2 il medico si avvale di una dichiarazione sottoscritta dai soggetti richiedenti. In caso di dichiarazioni mendaci si applica l’articolo 76, commi 1 e 2, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. 4. Chiunque applica tecniche di procreazione medicalmente assistita senza avere raccolto il consenso secondo le modalità di cui all’articolo 6 è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 50.000 euro. 5. Chiunque a qualsiasi titolo applica tecniche di procreazione medicalmente assistita in strutture diverse da quelle di cui all’articolo 10 è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100.000 a 300.000 euro. 6. Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro. 7. Chiunque realizza un processo volto ad ottenere un essere umano discendente da un’unica cellula di partenza, eventualmente identico, quanto al patrimonio genetico nucleare, ad un altro essere umano in vita o morto, è punito con la reclusione da dieci a venti anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro. Il medico è punito, altresì, con l’interdizione perpetua dall’esercizio della professione. 8. Non sono punibili l’uomo o la donna ai quali sono applicate le tecniche nei casi di cui ai commi 1, 2, 4 e 5. 9. È disposta la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale nei confronti dell’esercente una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti di cui al presente articolo, salvo quanto previsto dal comma 7. 10. L’autorizzazione concessa ai sensi dell’articolo 10 alla struttura al cui interno è eseguita una delle pratiche vietate ai sensi del presente articolo è sospesa per un anno. Nell’ipotesi di più violazioni dei divieti di cui al presente articolo o di recidiva l’autorizzazione può essere revocata”.
[16] Per una completezza di indagine fattuale, si consenta rinviare alla sentenza di cui in commento, specificamente p. 6, § 1 delle “ragioni della decisione”.
[17] Vedi nota n. 4.
[18] Vedi nota n. 5.
[19] Vedi nota n. 6.
[20] La lettera dell’art. 232 c.c. impone che: “1. Si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non sono ancora trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio. 2. La presunzione non opera decorsi trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale, o dalla omologazione di separazione consensuale, ovvero dalla data della comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione o dei giudizi previsti nel comma precedente”.
[21] Vedi, a tal proposito, nota n. 12.
[22] Vedi nota n. 4.
[23] Vedi nota n. 5.
[24] Vedi nota n. 6.
[25] L’art. 3 Cost. statuisce che: “1. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso , di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. 2. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
[26] Per avere un quadro sistematico delle fonti, si consenta riportare il contenuto della norma costituzionale, secondo cui: “1. È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. 2. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. 3. La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. 4. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”.
[27] L’art. 31 Cost., invece, stabilisce che: “1. La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. 2. Protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”.
[28] Gli artt. 10 e 117 Cost. sono le norme legittimanti l’ingresso delle fonti europee ed internazionali nel nostro ordinamento.
[29] L’art. 8 della CEDU, in tema di diritto al rispetto della vita privata e familiare, stabilisce che: “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
[30] L’art. 14 della CEDU, invece, afferma il principio di non discriminazione, secondo cui: “1. Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”.
[31] L’art. 24 della Carta U.E. dispone, in tema di diritti del bambino, che: “1. I bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere. Essi possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità. 2. In tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente”.
[32] L’art. citato statuisce, infine, che: “1. In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente. 2. Gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, e a tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi appropriati. 3. Gli Stati parti vigilano affinché il funzionamento delle istituzioni, servizi e istituti che hanno la responsabilità dei fanciulli e che provvedono alla loro protezione sia conforme alle norme stabilite dalle Autorità competenti in particolare nell’ambito della sicurezza e della salute e per quanto riguarda il numero e la competenza del loro personale nonché l’esistenza di un adeguato controllo”.
[33] L’art. 232 c.c. sarebbe incostituzionale nella parte in cui non prevede la presunzione di concepimento durante il matrimonio anche per i figli nati con il ricorso alle tecniche di P.M.A post mortem.
[34] Questi articoli, invece, sarebbero incostituzionali nella parte in cui non prevedono, per un tempo ragionevole di almeno un anno dal decesso, la fecondazione assistita post mortem.
[35] Questo, ancora, cozzerebbe con i principi costituzionali perché non riconosce lo status di figlio nato nel matrimonio e riconosciuto dalla coppia che ha espresso il consenso per le tecniche di P.M.A. a seguito di fecondazione post mortem.
[36] In tali termini, per una più compiuta disamina degli aspetti relativi all’illegittimità costituzionale posta all’attenzione della Suprema Corte, si consenta rinviare alla sentenza di cui in commento, specie pp. 5-7, § 1 della parte relativa alle “ragioni della decisione”.
[37] Senza pretesa di esaustività, su questo delicatissimo tema, si consenta rinviare a M. Kruger, The prohibition of post-mortem fertilitation, legal situation in Germany and European Convention on human rights, in Revue international de droit penal, 2011/1-2, vol. 82, pp. 41-64; D. Eduardo, V.L. Raposo, Legal aspects of post-mortem reproduction: a comparative perspective of French, Brazilian and Portuguese legal system, in US National Library of Medicine National Institutes of Health, giugno 2012, p. 98; Idem, in Medicine and Law, 2012, pp. 181-198; A.C. Anitei, Post mortem Assisted Reproduction Technology (Art) and The Particular case of the Will in Romania, in Contemporary Legal Institutions, 2014, vol. 6/1, pp. 133-140; A.K. Sikary, O.P.Murty, R.V. Bardole, Postmortem sperm retrieval in context of developing countries of Indian subcontinent, in Journal of Human Reproductive Sciences, 2016, vol 9/6, pp. 82-85; A.K. Sikary, O.P. Murty, R.V. Bardole, in US National Library of Medicine National Institutes of Health, aprile-giugno 2016, p. 82; S. Shelly, Creating life after death: should posthumous reproduction be legally permissible without deceased’s prior consent?, in US National Library of Medicine National Institutes of Health, agosto 2018, p. 329.
[38] A tal proposito, è necessario rinviare a, ex aliis, Cass. n. 14878/2017; Cass. n. 19599/2016; Cass. n. 12962/2016; Cass. n. 8016/2012; Cass. n. 359/2003.
[39] Come sottolinea la Corte, nella sentenza, specie a p. 7, è agevole che dall’art. 375, ult. co., c.p.c. emerge una simile lettura, applicabile ratione temporis.
[40] Per esempio, ed è importante, solo in un’ottica sistematica e bibliografica-giurisprudenziale, richiamare il tema delle direttive di fine vita (Cass. n. 21748/2007); i limiti al riconoscimento giuridico delle unioni omo-affettive (Cass. n. 4184/2012 e Cass. n. 2004/2015); l’adozione da parte della persona singola (Cass. n. 6078/2006 e Cass. n. 3572/2011); la surrogazione di maternità nella forma della gestazione affidata a terzi (Cass. n. 24001/2014); l’adozione in casi particolari (Cass. n. 12962/2016); la trascrizione, nei registri dello stato civile italiano, di un atto di nascita estero recante l’indicazione di una doppia maternità (Cass. n. 19599/2016), rettificazione di atto di nascita indicante due genitori dello stesso sesso (Cass. n. 14878/2017), esattamente come ha fatto la sentenza di cui in commento, specie a p. 8.
[41] Vedi, in particolar modo, p. 8 della sentenza in commento, laddove riporta tutta una serie di pronunce di legittimità sul tema. Per esempio, si consenta rinviare a Cass. n. 212/2019; Cass. n. 14878/2017; Cass. SU n. 27073/2016; Cass. n. 11218/2013; Cass. SU n. 9042/2008; Cass. n. 184/2003. Ovvio è che, nel caso di specie, ci sia il carattere decisorio e l’incidenza su diritti soggettivi.
[42] Vedi, in tal senso, Cass. n. 3556/2017.
[43] In tale direzione, vedi anche Cass., SU, n. 9743/2008.
[44] Sul punto, vedi specificamente la sentenza in commento, p. 10, §§ 4.1 e 4.2, laddove si richiamano anche Cass. n. 11211/2014, Cass. n. 5953/2008; Cass. n. 18513/2003.
[45] La norma prevede che: “1. Chi intende promuovere la rettificazione di un atto dello stato civile o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato, o intende opporsi a un rifiuto dell'ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l’atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento. 2. Il procuratore della Repubblica può in ogni tempo promuovere il procedimento di cui al comma 1. 3. L’interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale”.
[46] Tale norma, invece, ne detta il procedimento, stabilendo che: “1. Il tribunale può, senza particolari formalità, assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’ufficiale dello stato civile. 2. Il tribunale, prima di provvedere, deve sentire il procuratore della Repubblica e gli interessati e richiedere, se del caso, il parere del giudice tutelare. 3. Sulla domanda il tribunale provvede in camera di consiglio con decreto motivato. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile nonché, per quanto riguarda i soggetti cui non può essere opposto il decreto di rettificazione, l’articolo 455 del codice civile”.
[47] Vedi, Cass. n. 4922/1978; Cass. n. 7530/1986.
[48] Questo principio, come chiarisce la sentenza in commento, specie p. 12, § 5.3, è stato recepito anche da Cass. n. 21094/2009, con specifico riferimento agli artt. 95 e 96 del d.P.R. n. 396/2000.
[49] Vedi, a tale riguardo, specificamente p. 13, § 5.3.1 della sentenza in esame.
[50] Vedi specificamente p. 14, § 6.1 della sentenza de qua.
[51] Questo è l’assunto a cui perviene la sentenza. Vedi p. 14, specie § 6.1.1.
[52] La distinzione è assai chiarificatrice. Vedi, soprattutto, p. 15, §§ 6.2 e 6.2.1. della sentenza in esame.
[53] In tal senso, vedi l’art. 7 del d.P.R. n. 396/2000.
[54] A tal proposito, è utile, esattamente come fa la Corte a p. 15, § 6.3 della sentenza di cui in commento, richiamare l’attenzione sull’art. 30 d.P.R. n. 396/2000.
[55] Si rinvia all’art. 7 del d.P.R. n. 396/2000.
[56] Vedi, più compiutamente, p. 16, § 6.3.3. della sentenza de qua.
[57] Vedi, p. 15, § 6.3 della sentenza.
[58] Vedi, altresì, p. 16, § 7.1.1. della sentenza de qua.
[59] Quest’ultimo elemento è stato già riferito precedentemente, ma la Corte lo affronta varie volte. Vedi p. 17, § 7.2 della sentenza medesima.
[60] Più nello specifico, il tema predetto è affrontato a p. 17, § 7.2.1. della sentenza.
[61] Vedi, a tal fine, p. 17, § 7.3 della sentenza.
[62] Il quesito non è posto in questi termini, ma si comprende perfettamente che il nocciolo duro della questione, per la Corte, risulta tutto in questo domanda. Si veda, infatti, per completezza, p. 18, § 7.3.1. della sentenza stessa.
[63] Vedi, a tal punto, p. 18, § 7.3.2. della sentenza, in cui la Corte focalizza l’attenzione sul rilevo attribuito dalla società odierna ai bisogni che un tempo erano ignoti, non prevedibili ed ancora non regolamentati dal legislatore, nazionale o sovranazionale.
[64] In tal senso, infatti, la Corte, sempre nello stesso paragrafo, sottolinea il dialogo tra le Corti supreme degli Stati europei ed extraeuropei, con i quali si condividono i principi assiologici dei diritti fondamentali della persona, nonché quello con la Corte EDU e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha determinato la costituzione di una circolarità di approdi interpretativi che prendono spunti da aspetti diversi dell’esperienza giuridica.
[65] A tal uopo, sempre nel paragrafo citato, la Corte si focalizza sulla considerazione delle tecniche di P.M.A. come un metodo alternativo al concepimento naturale, oppure alla stregua di un trattamento sanitario volto a sopperire una problematica di natura medica che colpisce uno, o entrambi, i componenti della coppia.
[66] Questa argomentazione, che sembra essere del tutto contestualizzata, non appare, per l’appunto, assolutamente retrograda, acritica, asfittica o, addirittura, anacronistica. La Corte ha voluto mettere in evidenza come, anche l’istituto della responsabilità genitoriale, in un’ottica di globalizzazione rapida e repentina, si trasformi e muti i sui connotati velocemente. Non è più una categoria o, se lo è, lo è nei gangli del contesto storico-sociale-culturale, fuggevole e liquido.
[67] Più accuratamente il passaggio lo si rinviene alle pp. 19-20, §§ 7.4 e 7.5 della sentenza de qua.
[68] L’art. 8, come già ricordato in precedenza, stabilisce che: “1. I nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell'articolo 6”.
[69] L’art . 9, invece, come già detto, dispone che: “1. Qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all'articolo 4, comma 3, il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall'articolo 235, primo comma, numeri 1) e 2), del codice civile, né l’impugnazione di cui all’articolo 263 dello stesso codice. 2. La madre del nato a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non può dichiarare la volontà di non essere nominata, ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396. 3. In caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi”.
[70] Vedi Corte Cost., sentenza n. 162/2014.
[71] È, senza dubbio, uno dei passaggi più interessanti della sentenza, rinvenibile a p. 22, § 7.7.1 della sentenza in commento, che, tra l’altro, richiama anche le sentenze “gemelle” della Corte EDU Mennesin c. Francia (26 giugno 2014, ric. N. 65192/2011) e Labasse c. Francia (26 giugno 2014, ric. N. 65941/2011). Inoltre, ha richiamato anche la rilevante sentenza della Corte Cost. n. 347/1998, la quale sottolineò la necessità di distinguere tra la disciplina di accesso alle tecniche di P.M.A. e la doverosa, e preminente, tutela giuridica del nato, significativamente collegata alla dignità dello stesso. A completamento, la sentenza di cui in commento, nello stesso paragrafo, cita la sentenza della Suprema Corte n. 19599/2016, a mente della quale “le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004 imputabile agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia non possono ricadere su chi è nato”. Nello stesso senso, anche Cass. n. 14878/2017.
[72] Questo passaggio, in definitiva, è assai dirimente. Si consiglia di leggere l’intero passaggio a p. 23, § 7.8 della sentenza di cui in commento.
[73] A tal proposito, la Corte richiama dei suoi stessi precedenti, tra cui Cass. n. 6963/2018; Cass. SU, n. 1946/2017; Cass. n. 15024/2016.
[74] Vedi, a tal proposito, U. A. Salanitro, La disciplina della filiazione da procreazione medicalmente assistita, in Familia, 2004, pp. 489-490, nelle quali scrive che: “…hanno risolti problemi particolari ricorrendo ad argomentazioni generalmente fondate sull’assunzione della responsabilità genitoriale tramite il consenso al ricorso a tecniche procreative non naturali”. Vedi, tra i più autorevoli contributi, A. Trabucchi, Fecondazione artificiale e legittimità dei figli, in Giur. it., 1957, I, 2, p. 217 ss., P. D’Addino Serravalle, Ingegneria genetica e valutazione del giurista, Napoli, 1988, p. 87; I. Corti, Procreazione artificiale, disconoscimento di paternità e interesse del minore, in Giur. it., 1995, I, 2, p. 583 ss.; C. M. Bianca, Disconoscimento del figlio nato da procreazione assistita: la parola alla cassazione, in Giust. civ., 1999, I, p. 1328 ss.; G. Baldini, Tecnologie riproduttive e problemi giuridici, Torino, 1999, p. 65 ss.; G. Cassano, La procreazione artificiale, Milano, 2001, p. 1 ss.; T. Auletta, Fecondazione artificiale: problemi e prospettive, in Quadrimestre, 1986, p. 51 ss.; P. Schelesinger, L’inseminazione eterologa: la cassazione esclude il disconoscimento di paternità, in Corr. giur., 1990, p. 401 ss.; S. Patti, Inseminazione eterologa e venire contra factum proprium, in Nuova giur. civ. comm., 2000, II, p. 13 ss.
[75] Si consenta, a tal uopo, rinviare a R. Trezza, La responsabilità civile del medico: dall’oscurantismo al doppio positivismo. Focus sulla responsabilità civile del medico prenatale, Salerno, 2019, pp. 41-46.
[76] In tal senso, invece, S. Rodotà, Diritti della persona, strumenti di controllo sociale e nuove tecnologie riproduttive, in Aa. Vv., La procreazione artificiale tra etica e diritto, Padova, 1989, p. 140, condivisa da P. Perlingieri, L’inseminazione artificiale tra principi costituzionali e riforme legislative e da S. Patti, Sulla configurabilità di un diritto della persona di conoscere le proprie origini biologiche, ivi, p. 148 ss., p. 210.
[77] Aspetti, questi ultimi, di cui già qualcuno in passato si è occupato. Si veda U. A Salanitro, La disciplina della filiazione, cit., specie p. 498, in cui afferma che “ancora più problematica appare la soluzione nel caso in cui uno dei componenti della coppia, dopo aver espresso il consenso alla procreazione, anche di tipo eterologo, muoia e successivamente la struttura sanitaria, non informata del decesso, proceda ugualmente alla fecondazione dell’embrione; a monte, vi è il dubbio se la struttura debba effettuare l’impianto dell’embrione, rispettando l’art. 14, co. 1 della legge 40 del 2004, che ne vieta la soppressione, o debba astenersi, in quanto è venuto meno il requisito dell’art. 5, a norma del quale entrambi i componenti della coppia, che accedono alle tecniche di fecondazione artificiale, debbono essere viventi…appare conseguente fondare il rapporto di filiazione con il genitore premorto sul consenso; ma la medesima soluzione va sostenuta anche nel caso in cui si consideri illegale l’intervento di fecondazione post mortem, in quanto, a fronte della volontà del de cuius, l’interesse del nascituro appare prevalente rispetto alle eventuali pretese successorie pregiudicate”.
[78] Sembra che la Corte di Cassazione, nella sentenza di cui in commento abbia fatto cenno alle correnti di pensiero che dubitano sul fatto che il nato possa avere diritto a nascere senza la presenza di un padre. Vedi, tra gli ultimissimi contributi, D. Crestani, Fecondazione artificiale “post mortem”, su Il Giornale di Vicenza, 26 giugno 2015, p. 1, nel quale, alla fine della riflessione, chiede a se stresso: “Ma può ritenersi legittimo e rispettoso dei diritti del bambino farlo nascere intenzionalmente orfano del padre, solo perché consentito dalle moderne tecniche di procreazione assistita?”.
[79] In tal senso, vedi più nello specifico, p. 26, § 7.8.3.1. della sentenza de qua.
[80] A tal uopo, è interessante vedere come c’è chi sostiene, esattamente come mette ben in luce la sentenza in commento, specie pp. 27-28, §§ 7.8.4.1. e 7.8.4.2., “che la nascita di un figlio da fecondazione artificiale omologa post mortem avvenuta in un periodo che non consente più l’operatività della presunzione di concepimento in costanza di matrimonio può solo giustificare la proposizione di una domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, con la conseguenza che un riconoscimento preventivo del marito mentre era ancora in vita sarebbe privo di effetti, e chi, invece, ritiene che la suddetta situazione non costituirebbe un ostacolo alla operatività della presunzione di paternità tutte le volte in cui possa essere provato, ai sensi dell’art. 234 c.c., il concepimento in costanza di matrimonio. Tale requisito, attraverso una interpretazione estensiva della norma, dovrebbe considerarsi soddisfatto dimostrando che la fecondazione dell’ovulo sia avvenuta durante il matrimonio, purché la moglie non sia passata a nuove nozze. Quest’ultima tesi, però, oltre a fondarsi su un’interpretazione del concepimento sensibilmente distante rispetto alla sua accezione tradizionale, che lo identifica con il momento nel quale l’ovulo fecondato attecchisce nell’utero materno, finisce con il distinguere immotivatamente la situazione giuridica del nato a seconda del tipo di tecnica di procreazione medicalmente assistita che sia stata eseguita, essendo possibile congelare e conservare a lungo non solo l’embrione, ma anche il liquido seminale e potendosi, pertanto, ipotizzare che la stessa fecondazione dell’ovulo avvenga, come peraltro accaduto nel caso in esame, solo dopo la morte del marito”. Vedi, in tale direzione, nota n. 76. La diversa impostazione, secondo la quale si potrebbe applicare l’art. 8 della legge n. 40 del 2004, nuove, invece, dal rilievo “che il legislatore non ha limitato espressamente l’applicabilità della norma in esame alle sole ipotesi di procreazione medicalmente assistita “lecita” ed ha, anzi, espressamente contemplato la sua applicabilità alla ipotesi di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, in relazione alla quale l’impossibilità di esercitare l’azione di disconoscimento della paternità e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità presuppongono che, anche in simili casi, in consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita sia sufficiente per l’attribuzione dello status di figlio. Ne consegue che, dopo la morte del marito ed acquisito il suo unico consenso in vita, alla formazione di embrioni con il seme crioconservato dello stesso e gli ovociti della moglie ed al loro impianto, dovrebbe prevalere la tutela legislativa del nato da fecondazione omologa, posto che il sicuro legame genetico consentirebbe comunque l’instaurazione del rapporto di filiazione nei confronti di entrambi i genitori genetici, anche ove volesse ritenersi violato il quadro normativo derivanti dalle disposizioni relative all’accesso alla P.M.A nel nostro ordinamento interno”. Vedi, in tale direzione, invece, nota n. 74.
[81] Vedi, sul punto, p. 29, § 7.8.5. della sentenza in commento.
[82] Si consenta rinviare, a R. Trezza, La responsabilità civile del medico, cit., pp. 149-151.
[83] Vedi, invece, p. 29, § 7.8.5.1. della sentenza de qua.
[84] È assolutamente questo il passaggio decisivo della sentenza, che sembra mettere in luce una sorte di “sopravvivenza post mortem del consenso espresso in vita”, teoria che pone fine alla questione controversa. Il consenso, dunque, espresso dal padre della bambina, prima di morire e mai revocato fino alla morte, sopravvive ad egli stesso e fa in modo che la paternità della figlia sia ad egli attribuita. Ciò supera anche il problema della rettificazione dell’atto dello stato civile e dell’attribuzione della paternità e del cognome paterno nell’atto di nascita medesimo. Tutto ciò è rilevante anche ai fini della “discendenza biologica”, della quale la parte ricorrente ha specificamente dedotto di aver fornito ampia prova, tra l’uomo che ha comunque espresso un consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, altresì autorizzando l’utilizzazione del proprio seme precedentemente prelevato e crioconservato, ed il nato, e prescinde, pertanto, da ogni considerazione del tempo in cui sono avvenuti il concepimento e la nascita. Vedi, in particolar modo, p. 30, § 7.8.6.1. della sentenza in esame.
[85] Ecco che, a tal punto, ci si pone la domanda se possa prevalere, in un’ottica di bilanciamento di diritti, il diritto alla vita o il diritto alla genitorialità. Potrebbe anche essere che una madre venga a concepire un figlio e durante la fase della gestazione il padre del proprio figlio muoia. Cosa accadrebbe in questo caso? Nulla, in quanto, secondo le regole generali della presunzione di paternità, il figlio è del marito della moglie in quanto concepito in costanza di matrimonio. Il tempo dei trecento giorni dalla morte del padre, come causa di scioglimento del matrimonio, sarebbe irrilevante.
[86] Vedi, a tal punto, la sentenza a p. 31, § 7.8.6.2..
[87] A tal punto, si consenta rinviare a R. Trezza, Diritto all’anonimato e diritto a conoscere le proprie origini: il bilanciamento dei valori ad opera della giurisprudenza nazionale ed europea, in Persona & Danno, 20 luglio 2018, pp. 9-13. Inoltre, si richiama l’attenzione su Cass. n. 6963/2018; Cass. SU, n. 1946/2017; Cass. n. 1504/2016. Inoltre, per un quadro sistematico della sentenza in esame, si consiglia di leggere p. 32, §§ 7.8.7.; 7.8.8.1 e 7.8.8.2., in cui si affronta anche il delicato tema del diritto all’anonimato ed il suo divieto per chi ha fatto uso delle tecniche di P.M.A. e si afferma che “…ove l’interesse del minore costituisce un vero e proprio limite al principio della verità biologica, tanto che il legislatore, per perseguire tale interesse, ha attribuito precipuo rilievo al consenso prestato dai coniugi o conviventi al ricorso a tecniche di procreazione assistita, ma risulta confermato anche in caso di fecondazione omologa post mortem, con riferimento alla quale, non essendo in alcun caso ipotizzabile un contrasto tra favor veritatis e favor minoris, coincidendo quest’ultimo con il diritto del minore alla propria identità, il consenso prestato dal coniugi o dai conviventi appare elemento qualificante la disciplina in materia di accertamento della filiazione in funzione di una effettiva tutela della personalità del minore”.
[88] Tra le righe, sembra leggersi una necessità di un’interpretazione sistematica-assiologica, tanto cara a P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 2006, p. 919 ss.
[89] Vedi, specificamente, p. 34, § 7.9 della sentenza in commento.
[90] Vedi, in tal senso, p. 34, § 7.9 della sentenza.
[91] Sembra dunque, che oltre alla “sopravvivenza post mortem del consenso espresso in vita”, debba esserci anche una “impossibilità di condizionare l’efficacia del consenso alla fecondazione post mortem con l’evento morte”. Discorso diverso, invece, si avrebbe quando il soggetto esprime il suo dissenso. In tal caso, nulla quaestio. L’evento morte farebbe venir meno gli effetti devolutivi della discendenza biologica in capo al padre. Si ricordi, però, ed è aspetto rilevante, che il consenso è sempre “revocabile” fino alla morte, in quanto si tratta di “diritti personalissimi della persona umana”. In tal caso, cosa accadrebbe? L’embrione che fine farebbe, posto il divieto di sopprimere gli embrioni previsto dal nostro ordinamento? In tal senso, si consenta rinviare a R. Trezza, Diritto all’anonimato, cit., p. 14 ss., in cui si discute, in riferimento all’excursus della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, della c.d. “reversibilità del consenso fino alla morte”.
[92] Vedi, in tal senso, per una panoramica d’insieme, la sentenza in commento, specie pp. 36-38, § 7.11.1..
[93] Vedi Trib. Palermo dell’8 gennaio 1999, il quale richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 347 del 1998 ha affermato che un ragionevole punto di equilibrio tra il perseguimento delle finalità di cui all’art. 30 cost. da un lato, e il diritto alla vita del nascituro e all’integrità fisica e psichica della madre dell’altro, postulerebbe la prevalenza di questi accordi, reputando opportuno prevenire la produzione di una danno certo e duplice (quello che subirebbero nascituro e madre nell’ipotesi in cui si dovesse decidere di sopprimere l’embrione a causa del decesso del padre), in luogo di un altro meramente eventuale (il pregiudizio che subirebbe il nascituro a crescere in un contesto familiare senza la figura paterna). In tal senso vedi C. Casella, Aspetti problematici della procreazione medicalmente assistita, tesi di dottorato, Università degli Studi di Salerno (prof. Dionisi), 2014, p. 146. Inoltre, vedi M. Sesta, Fecondazione assistita. La Cassazione anticipa il legislatore; in Guida al diritto, 1999, 12, p. 48 con nota di A. Finocchiaro, La Cassazione non può svolgere una supplenza nelle funzioni riservate al legislatore, con la quale la Corte ha affermato che il marito, dopo aver validamente concordato o comunque manifestato il proprio preventivo consenso alla fecondazione assistita della moglie con seme di donatore ignoto, non può esercitare l’azione per il disconoscimento della paternità del bambino concepito attraverso tale tipo di fecondazione artificiale.
[94] Vedi T.A.R. Lazio del 21 gennaio 2008, dove si legge che dalla disposizione di cui all’art. 14, co. 1 (che vieta la soppressione di embrioni), e dalla norma di cui all’art. 6, co. 3 (che stabilisce la inefficacia della revoca della volontà di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita dopo la fecondazione dell’ovulo), va desunto, in via interpretativa, che il momento in cui deve sussistere il requisito soggettivo della presenza in vita di entrambi i componenti della coppia sia quello della fecondazione dell’ovulo, risultando irrilevante la successiva morte del marito o del compagno. Vedi, in tal senso, C. Casella, Aspetti problematici, cit., pp. 148-149. Inoltre, vedi R. Villani, La procreazione medicalmente assistita in Italia: profili civilistici, in S. Rodotà, P. Zatti (diretto da) Trattato di Biodiritto, Il Governo del corpo, p. 1525 ss.; L. Lenti, La procreazione artificiale. Genoma della persona e attribuzione della paternità, Padova, 1993, p. 265; R. Clarizia, Procreazione artificiale e tutela del minire, Giuffrè, 1988, p. 18; P. Vercellone, La filiazione, in Trattato Vassalli, Torino, 1987, p. 323; C. Semizzi, Rilievi giuridici sull’inseminazione artificiale, in dir. fam. pers., 1984, I, p. 369; A. Santosuosso, Per ricorrere al soccorso della tecnologia basta la sola certificazione di sterilità, in Guida al diritto, 2004, p. 29; G. Oppo, Procreazione assistita e sorte del nascituro, in Riv. dir. civ., 2005, I, p. 105 ss.
[95] Vedi, in tal senso, I. Marconi, Fecondazione omologa post mortem trasmette il cognome del padre, su altalex, 30 maggio 2019; L. Biarella, Fecondazione omologa post mortem: sì alla rettifica dell’atto dello stato civile, in quotidiano giuridico, 27 maggio 2019; M. F. Mazzitelli, Fecondazione omologa post mortem e presunzione di paternità, in simoneconcorsi, 21 maggio 2019; Aa. Vv., Fecondazione omologa post mortem: rettifica dell’atto di nascita anche per il figlio “postumo”, in diritto e giustizia, 16 maggio 2019; Aa. Vv., Nascita con fecondazione omologa dopo la morte del padre, in edotto, 16 maggio 2019.
[96] Vedi, sul punto, E. Bilotti, La fecondazione artificiale post mortem nella sentenza della I sezione civile della Cassazione n. 13000/2019, in centro studi livatino, 23 maggio 2019, specie p. 5, in cui afferma che “…la sicura preminenza della tutela del nascituro è un argomento difficilmente confutabile. In effetti, per quanto un’altra recentissima decisione delle Sezioni Unite sembri ora voler ridimensionare proprio un simile argomento (Cass. SU, 8 maggio 2019, n. 12193), appare comunque inaccettabile che il nato possa subire un pregiudizio a causa di una violazione di legge da parte degli adulti”. L’A., però, esprime una riserva, specie a p. 9, laddove scrive, a proposito della certezza della propria discendenza biologica, elemento di primaria rilevanza nella costruzione della propria identità, che: “…Beninteso, non è dubitabile che il diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche esibisca un scuro fondamento nella Costituzione e nelle diverse Carte dei diritti. Escludere il diritto del nato allo status nei confronti di chi abbia autorizzato l’impiego post mortem del proprio seme crioconservato non significa però mettere in discussione anche il suo diritto alla conoscenza delle origini biologiche”.
[97] A tal proposito, vedi il commento di F. Capra, Non è un Paese per fecondazione post mortem, in Ass. Luca Coscioni (rassegna stampa), 1 giugno 2016, in cui, specie p. 2, si dice che: “…al momento, l’unico modo per ottenere una fecondazione post mortem è attraverso l’intervento di un giudice che può stabilire di caso in caso l’adeguatezza della richiesta”. Ma non è confacente con il caso in esame, in quanto non si discute sulla liceità o meno della pratica, seppure è proprio questo ciò che si vuole sollecitare.
[98] Vedi, a tal proposito, gli artt. 311-320 code civil. Si richiama C. Casella, Aspetti problematici, cit., p. 154.
[99] Vedi, a tal riguardo, l’art. 28, comma 6b, del Human Fertilization and Embriology Act del 1990.
[100] In tal senso, si consenta rinviare nuovamente a C. Casella, Aspetti problematici, cit., p. 154.
[101] Vedi Legge n. 3089 del 2002, poi modificata dalla Legge n. 3305/2005.
[102] Vedi, infatti, l’art. 9 della Legge n. 14 del 2006.
[103] Vedi, a tal fine, la Legge n. 460 del 1997.
[104] Vedi, in tal senso, la legge federale del 18 dicembre 1998.
[105] In tale direzione va l’art. 4, co. 1, n. 3 della legge tedesca del 1990. È rilevante l’approdo a cui è pervenuta C. Casella, Aspetti problematici, cit., specie p. 155.
[106] In tal senso, vedi U. A. Salanitro, La disciplina della filiazione, cit., specie p. 507, in cui afferma che: “l’applicazione della disciplina generale della filiazione, e conseguentemente, la costituzione del rapporto filiale con la madre partoriente, risulta la soluzione più coerente con il divieto di maternità surrogata (art. 12, co. 6), penalmente sanzionato anche nei confronti dell’uomo e delle donne che abbiano partecipato o assentito alla sua organizzazione: l’accordo di surrogazione di maternità va conseguentemente considerato nullo e il consenso improduttivo di effetti”.
[107] In tal senso, T. Auletta, Fecondazione artificiale, cit., p. 26.
[108] In tale direzione, L. Lenti, La procreazione artificiale, cit., p. 227 ss.
[109] Il tema è ben affrontato da U. A. Salanitro, La disciplina della filiazione, cit., specie pp. 512-513.
[110] Sul punto, si è già detto, ma sembra opportuno richiamare G. Cassano, Nuove frontiere giurisprudenziali del diritto di famiglia (fecondazione artificiale eterologa e fecondazione artificiale post mortem), in diritto.it (Diritto civile e commerciale), 2018, p. 10, in cui si mettono in luce le due tesi contrapposte: la prima che, in ragione degli artt. 29 e 30 Cost., reputa rilevante che il figlio debba essere istruito, educato e mantenuto dai propri genitori, di tal guisa che gli accordi intercorrenti fra i vari soggetti volti a realizzare la fecondazione artificiale dopo la morte del marito debbano essere considerati illeciti, in quanto strutturalmente il nato sarebbe privo della figura paterna. D’altra parte, invece, chi, considerando come indebite le ingerenze dell’ordinamento in questa materia, perviene a soluzioni diverse, insistendo sui principi di libertà sessuale e di trasmissione della vita.
[111] Mostra molto bene questo modus ragionandi, il contributo di U. A. Salanitro, La disciplina della filiazione, cit., specie p. 513.
[112] A proposito delle tecniche di normazione, affinché il legislatore, che sembra del tutto inesperto, capisca come debba muoversi a tal punto, si consenta rinviare a P. Perlingieri, Il diritto civile, cit., specie p. 217 ss., in cui si sofferma sulle tecniche legislative, sul principio di legalità e sulla catalogazione delle norme giuridiche.
[113] Vedi, Legge n. 194 del 1978.
[114] Sul punto, più accuratamente, si potrebbe parlare di “positivismo etico”, derivante dall’idea sottesa all’opera di P. Perlingieri, Il diritto civile, op. cit.
[115] In tal senso, si consenta rinviare a R. Trezza, La responsabilità civile del medico, cit., specie nell’introduzione, p. 15.
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