ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La crisi della democrazia rappresentativa è un problema manifesto - non più soltanto nelle riflessioni scientifiche ma nel comune sentire quotidiano – e può frustrare le buone intenzioni di quanti (forse non pochi) vorrebbero esercitare il potere politico con un respiro di medio-lungo periodo e non ansimante sul contingente. Anche l’uso del diritto comincia a esserne alterato.
Conviene cominciare a pensare a concreti strumenti per recuperare livelli di effettiva rappresentatività meno insoddisfacenti. Quali meccanismi normativi si potrebbero approntare per accrescere la partecipazione politica? Alcuni ipotizzano sanzioni di vario genere per chi non esercita il dovere civico al voto (art. 48 Cost.), come già nell’art. 4 dell’abrogato d.P.R. n.361 del 30 marzo 1957. Altri considerano utile l’election day (uno per le elezioni nazionali e europee e per eventuali referendum e uno per il livello regionale e comunale) per ridurre l’esposizione delle forze politiche e dei cittadini alla rincorsa del consenso di breve periodo e ai continui sondaggi elettorali. Secondo alcuni studi interdisciplinari, persino l'introduzione di una certa percentuale di rappresentanti estratti a sorte e indipendenti dai partiti potrebbe migliorare l'efficienza del sistema rappresentativo. Deve anche darsi atto all’attuale Governo di qualche sforzo per riprendere lo studio dell’educazione civica nelle scuole.
Intanto, alla intervista a tre giuristi (Barcellona, Corbino, D’Atena) autori di recenti riflessioni sulla questione (https://www.giustiziainsieme.it/it/cultura-e-societa/589-la-crisi-della-rappresentanza-politica-e-il-ruolo-della-magistratura), Giustiziainsieme fa seguire un articolo, sul rapporto politica/diritto, “Non per governare ma per andare al Governo. In tema di democrazia rappresentativa” scritto da Bruno Montanari, ordinario di filosofia del diritto, direttore della rivista Teoria e critica della relazione sociale (ed.Mimesis) e componente del consiglio direttivo dell’Associazione scientifico-culturale Filosofia in Movimento, impegnata a migliorare la sensibilità verso le questioni istituzionali, soprattutto delle nuove generazioni.
La crisi delle democrazie rappresentative è, ormai, un fatto accertato. La tendenza in atto è verso una polarizzazione delle forze politiche, con vantaggio di quei movimenti che istituiscono un rapporto diretto e immediato tra base popolare, la più ampia possibile, e una forma di leadership fortemente personalizzata. Una tale tendenza sta modificando la struttura stessa dello Stato di diritto. Sta divenendo, infatti, evanescente l’idea di un ordinamento giuridico capace di controllare la legittimità dell’azione politica, secondo regole di competenza destinate a fondare un potere “funzionale”; a tale idea va sostituendosi un pragmatismo fondato sulla negoziazione tra poteri di fatto, anche quando questi poteri coincidono con organi o con figure istituzionali; nel senso, cioè, che anche organi o figure istituzionali, dotati quindi un potere funzionale, operano, in realtà, come se incarnassero un potere di puro fatto (tornerò su questo profilo alla fine). Ciò determina una dissoluzione dell’intero sistema e il venir meno nell’ambiente sociale, sia nei cittadini sia anche nel personale politico, di quello che era, secondo Max Weber, il presupposto materiale per la legittimazione del potere di governo: la “credenza nell’ordinamento”. “Credenza”, appunto; una situazione ideale o, se si vuole, di tipo genericamente mentale, in ogni caso sociologica e pre-giuridica, consistente in uno stato d’animo diffusamente radicato in una collettività, idonea a mettere in forma una società capace di esprimere, attraverso il voto, la propria visione del governo.
Globalizzazione economico-finanziaria e neo-liberismo hanno determinato nelle economie avanzate l’affermazione di potentati di puro fatto, che ha messo nel nulla il nesso politica – diritto, sia a livello planetario, sia a livello interno ai singoli Stati nazionali, orientando anche la gestione delle entità sovranazionali.
Vengo ora alla questione più specifica della crisi della rappresentanza politica. Si ritiene che sia una questione di modelli elettorali, più o meno efficaci nell’individuare la funzione governante. Questa opinione è certamente corretta, a una condizione però: che esista nella mentalità comunemente diffusa quella che ho definito “credenza nell’ordinamento”. Ancora, questa opinione è assolutamente valida a partire dalla condizione che esistano “partiti” capaci di costituire una mediazione tra le esigenze della base e una visione di governo. Il nesso tra questi due profili implica l’esistenza di un tessuto sociale sufficientemente omogeneo, nella sua parte maggiore (lo zoccolo duro), che si forma attraverso la redistribuzione del reddito ed una sufficiente mediazione tra le diversità culturali. Se vengono meno questi profili, la questione della rappresentanza cambia completamente i suoi “connotati”. Vediamo.
Il votare consiste in una decisione umana; quindi, prima di ogni modellistica, occorre vedere come si forma una qualsiasi decisione nella “testa” di chi va a votare (o, anche, di chi decide di non andare). La decisione si forma in base ad alcuni fattori, mescolati tra loro. Li distinguo. Il primo è il contenuto del messaggio elettorale inviato dagli attori politici; il secondo è rappresentato dagli strumenti comunicativi utilizzati; il terzo dalla capacità di ascolto, comprensione ed elaborazione del messaggio, consistente, quest’ultimo, in una osmosi tra contenuto e mezzo comunicativo. L’esempio italiano è particolarmente significativo. Consideriamo l’espressione: “sono cose – le “promesse” - che si dicono, perché siamo in campagna elettorale”. Espressione che viene ripetuta, come se fosse ovvia, da qualsiasi giornalista o commentatore politico, senza però valutarne la gravità, sul piano della funzione elettorale. E ciò è grave per due ragioni. La prima: perché si ritiene che il processo elettorale non serva "per governare", ma solo "per andare al governo". La seconda: perché si ritiene che la gente comune sia facilmente suggestionabile. Sotto entrambi gli aspetti è una mancanza di rispetto per quell'elettore al quale si chiede il consenso. Lo si tratta come un “utile idiota”.
Ho detto della mancanza di una effettiva mediazione partitica, capace di elaborare, secondo le esigenze del governare, le istanze della base, della gente comune. Mi spiego. E' del tutto fisiologico che l'uomo comune guardi il mondo secondo i propri bisogni e necessità quotidiane e su tale attitudine incide la diversa visione spaziale e temporale del proprio ambito vitale. Incide, cioè, quella maggiore o minore ampiezza del c.d. “orto di casa”, che esiste tra ambienti sociali di diversa consistenza economica, di diversa educazione personale e sociale, di istruzione e cultura. E’ una pluralità di condizioni di vita che determina una differente propensione a trascendere le impellenze della quotidianità. Per molti, e in certi momenti per i più, la pressione del vivere quotidiano è tale da non consentire quella presa di distanza dalla suggestione dell’immediatezza, che invece consente a chi, per consistenza economica e istruzione e cultura, può avere un’attitudine al ragionamento ed alla riflessione, sì che la sua risposta sia meno dettata dalla reattività immediata. E’ ovvio che chi abita in una periferia disagiata non abbia la “testa”, la voglia e neppure il tempo per riflettere su questioni che sono del tutto altre e lontane dal suo spazio vitale; è assai diverso, invece, per colui che abita nel centro di una città o comunque in un quartiere non periferico. Tale fenomeno trova la sua manifestazione in nuove ed inedite, fino a poco tempo fa, divisioni sociali, che non appaiono come dialettica tra idee o ideologie politiche, ma assumono le sembianze di vere e proprie contrapposizioni di ambienti umani; ad esempio, tra periferia e centro città, tra città e campagna, tra popolo ed élite, e, ancora, tra base e establishment. I referendum e i flussi elettorali ne costituiscono, talora, una esaltazione. E’ qui che la fine della “mediazione progettuale” operata dai partiti del ‘900 fa sentire tutto il suo peso.
Il quadro che ho descritto mette in luce un degrado umano-culturale dell’ambiente sociale che l’attuale modo di “fare politica” insegue ed esalta, anziché cercare di fronteggiarlo. Questo fenomeno è prodotto dall’uso abituale di una tecnologia comunicativa (i cosiddetti “social”), la quale è caratterizzata da due aspetti, entrambi dagli effetti socialmente e politicamente perversi sul piano della capacità di ascolto e comprensione dei destinatari del messaggio. Il primo: il social è attraversato da affermazioni apodittiche, icastiche, dunque suggestive, impressionanti; la sua efficacia è maggiore, quanto più è capace di avere impatto sul destinatario. L’ “impatto”. Esso è ciò che destruttura la temporalità, poiché il “tempo” dell’ascolto-comprensione-riflessione è sostituito, e dunque, annullato dalla immediatezza a-temporale della reattività (su questa tematica vi sono ormai ampli studi). Il secondo aspetto consiste nel dirigersi direttamente a ciascun destinatario, nella sua assoluta ed isolata individualità, determinando quindi una frantumazione dell’ambiente umano, poiché ognuno agisce pensando esclusivamente alla propria condizione. Questa operazione disabitua le persone al confronto ed al dialogo, e le attuali formazioni partitiche fanno, come ho detto, della esaltazione delle istanze individualistiche la propria fortuna elettorale e quindi la propria affermazione sulla scena politica.
Si potrebbe osservare che il puntare sulla reattività umana generata dalla immediatezza emotiva dell’ ”impatto” non sia una modalità nuova del fare politica; nella storia politica del ‘900, balconi e piazze, con le relative adunate, perseguivano il medesimo effetto. Con qualche differenza non trascurabile. I destinatari del messaggio propagandistico erano “adunati”, vale a dire stavano insieme, l’uno accanto all’altro proprio al fine di dare una risposta immediata, sì, ma unitaria. Tale condizione era possibile poiché vi era di mezzo un balcone, una piazza, un pulpito; tutti mezzi che creavano, da un lato, una distanza materiale tra il protagonista e gli spettatori e consentivano, dall’altro, di far sentire ai convenuti di essere un “insieme” socialmente unitario: un “corpo” politico. L’attuale propaganda, attuata attraverso i social, ha quell’effetto del tutto opposto che ho accennato: quello, cioè, di esaltare l’individualismo reattivo e con esso la frantumazione dell’idea stessa dello stare insieme.
Il fenomeno diviene ancor più grave, quando la desuetudine alla riflessione opera nel settore del diritto che deve reggere e controllare la funzione governante genericamente intesa. Un esempio. La formula attualmente usata, "contratto di governo", per giustificare la coalizione “giallo-verde”, rappresenta una vera e propria rottura costituzionale. Mi spiego. Il "contratto", come è noto anche alla gente comune, è un atto diritto privato, confezionato per soddisfare interessi privati e i cui effetti valgono esclusivamente per i sottoscrittori. La sua efficacia "erga omnes", come è per un “contratto di governo”, avrebbe avuto bisogno di una elaborazione giuridica, quale fu quella con la quale si giustificò, con il nascere del diritto del lavoro del dopoguerra, l'efficacia "erga omnes" della contrattazione collettiva sindacale (ricordo 3 giuristi con altrettante “teorie”: Francesco Santoro Passarelli, Costantino Mortati, Federico Mancini). Che le forze di governo non si siano poste il problema di una “giustificazione” giuridica (che andasse oltre la mera recezione legislativa degli accordi contrattuali di governo, così come fu, invece, per l’efficacia erga omnes giuslavoristica) non mi stupisce, ma che non se lo siano posto il Presidente del Consiglio (che è un professore ordinario di diritto privato) e neppure le cariche istituzionali di garanzia, e tanto meno la stampa, è il segno di questo tempo. Di un tempo, cioè, nel quale si assiste alla evaporazione di quella che ho definito, ricordando Weber, “credenza dell’ordinamento”. Vi è da ricordare un altro precedente in proposito, al fine di segnare la differenza con l’attualità della situazione. Oltre a quello gius-lavoristico, negli anni ’70 prese corpo in Italia il fenomeno denominato “uso alternativo del diritto”, con finalità prevalentemente di giustizia sociale ideologicamente fondata. Ricordare quel fenomeno è importante per la ragione specifica che esso mise in evidenza la sensibilità giuridica di quella generazione di giuristi, che, nelle varie vesti, vi prese parte. La denominazione è la chiave. Quei giuristi pensavano ad un uso alternativo del diritto inteso come sistema giuridico vigente, con le sue “categorie” riguardanti sia le fonti sia gli istituti. E proprio per questa dimensione “culturale”, il dibattito, ed anche lo scontro, all’interno del mondo politico, sociale e giuridico, fu assai significativo. Qui è la distanza con il tempo che viviamo. Oggi non si fa più un “uso alternativo” del diritto, ma si confeziona un diritto alternativo; un diritto, che può denominarsi tale solo perché nell’uso comune si fa coincidere la forma normativa con il termine “diritto”. Ma il diritto, anche su di un piano meramente formale, non si riduce ad una formulazione linguistica prescrittiva (talora neppure esatta, proprio perché chi la confeziona ignora il diritto); esso è razionalmente strutturato, e dunque connotato, invece, da un nesso tra procedure – finalità - ambiti di rilevanza (pubblico-privato) per quanto attiene agli effetti, che conduce all’altro nesso, superiore, competenza – responsabilità – legittimazione per quanto attiene ai soggetti. Alla origine della deriva pragmatico-negoziale sta quella linea culturale, di ben altro spessore epistemologico, denominata “funzionalistica” (à la Luhmann), che si è sviluppata nella seconda metà del ‘900, alla quale, ma in altra sede, occorrerebbe prestare attenzione proprio in relazione alla trasformazione del pensiero giuridico. Le tecnologie comunicative attuali “concretizzano” quella che nel ‘900 era solamente una linea di pensiero. Occorre aggiungere che i politici di oggi non ne sanno, certamente, nulla! Operano mossi istintivamente da una forma mentis, della quale non conoscono la provenienza. Con il riferimento alla “epistemologia funzionalistica” torno alla affermazione contenuta all’inizio di questo intervento e che, in quella sede, poteva apparire apodittica: che lo stato di diritto si sia trasformato in una negoziazione pragmatica tra poteri di puro fatto, anche quando questi coincidono con organi costituzionali. Ora credo possa avere una sua propria giustificazione.
Concludo con la seguente osservazione. Poiché la realtà quotidiana è fatta dagli uomini, qualsiasi luogo sociale occupino, occorre guardare alla formazione delle generazioni. In altre parole, gli eventi, così come gli atteggiamenti mentali e materiali che li producono, in una parola la “storia” di un’epoca (di qualsiasi epoca), sono una "conseguenza anagrafica".
1.Un nuovo saggio e una nuova testimonianza di Roberto Conti su tematiche a lui care, che attengono ai diritti fondamentali, alla bioetica e al biodiritto, verso le quali ha da tempo indirizzato le sue ricerche e le sue riflessioni.
Ed anche in quest’ultimo scritto - che, riprendendo le parole di Antonio Ruggeri nella recensione al volume I giudici e il biodiritto, si lega ai precedenti lavori componendo un’unica catena fatta di molti anelli - si fondono nell’ analisi lo sguardo del giurista raffinato, quello dello studioso, quello del profondo conoscitore della giurisprudenza delle Corti, in un intreccio fecondo segnato da una visione forte del ruolo del giudice e della funzione della giurisdizione.
Ed ancora una volta è la prospettiva del giudice a prevalere: Roberto Conti non dimentica mai di essere un magistrato e di avere il compito di valorizzare, ora che svolge le funzioni di legittimità, il prezioso bagaglio di esperienza che gli deriva dall’ aver esercitato le funzioni di merito, e soprattutto quelle di giudice tutelare.
Il libro nella sua prima parte affronta il tema molto antico, ma di recente tornato con forza all’ attenzione degli studiosi, dell’attività di supplenza del giudice a fronte delle inerzie o dei ritardi o delle lacune del legislatore e più in generale del rapporto tra legislazione ed interpretazione.
Si tratta di un tema già analizzato dall’Autore in precedenti scritti, ma in questa nuova opera ripreso secondo un approccio dottrinario: Conti dismette temporaneamente la toga e si cala nell’ intenso dibattito sviluppatosi nel mondo accademico sulla portata della interpretazione e sulla relazione tra la legge e il giudice chiamato ad applicarla.
In realtà già al congresso di Gardone era emerso il convincimento che il giudice, superato il ruolo dell’esegeta attento a ricostruire, secondo i criteri della logica formale e del sillogismo perfetto, la volontà di quel soggetto nebuloso definito legislatore ed orgogliosamente teso a rivendicare la propria estraneità psicologica e culturale a valori ed istanze non espressamente enunciati nel testo scritto, dovesse assumerne un altro molto più incisivo e aperto alle dinamiche emergenti da una società in continua evoluzione.
Nell’affrontare la tematica, resa oggi tanto più complessa dalla necessità per l’ interprete di confrontarsi con un universo giuridico globale e con una pluralità di fonti sovranazionali, Roberto Conti ha piena consapevolezza che i sostenitori del c.d. diritto giurisprudenziale o della c.d. creatività della giurisprudenza sono stati e sono oggetto di forti critiche da parte di quelle voci di dottrina - delle quali è ampio riscontro nelle ricchissime note a piè di pagina - che denunciano il progressivo indebolimento per tale via della funzione legislativa, fino a paventare il collasso dello stato di diritto, ed intravedono nell’ affermazione del ruolo creativo della giurisdizione il rischio, insito nell’ eclisse del diritto positivo, del proliferare di decisioni erratiche, prive di ogni tasso di prevedibilità e tendenzialmente arbitrarie, ricordando che la soggezione del giudice alla legge imposta dalla Costituzione non può essere cancellata nella prassi giudiziaria.
A fronte della necessità espressa da tali opinioni dissenzienti - ferme nel ricordare che il principio di legalità è il fondamento della politica democratica - di porre vincoli e limiti alla discrezionalità interpretativa e di adottare criteri predefiniti di decisione, Conti non esita a ritenere, condividendo il pensiero di Nicolò Lipari, che sia in atto un ineluttabile passaggio dalla centralità delle fonti alla centralità dell’interpretazione o delle interpretazioni, dal momento potestativo e autoritativo del diritto a quello applicativo.
Nella visione dell’Autore è forte la percezione della dimensione sempre più casistica e fattuale del diritto, in quanto la vicenda posta all’ esame del giudice ha la forza di plasmare la norma scritta e di piegarla verso soluzioni idonee a fornire la miglior tutela possibile ai diritti coinvolti. È evidente in questo approccio il valore primario della risposta giudiziaria, perché capace di produrre la regola concreta rispetto alla tutela di diritti non espressamente riconosciuti o positivizzati in termini generali ed astratti, e per questo inidonei a cogliere e disciplinare ex ante le peculiarità di situazioni sempre nuove e diverse.
Immediato al riguardo è il richiamo alle parole di Paolo Grossi Il diritto non è scritto sulle nuvole, ma sulla pelle dell’uomo: oltre la bella immagine si coglie l’invito all’ interprete ad utilizzare la prospettiva, assunta come l’unica possibile, di chi volge lo sguardo dal basso in su, ossia dal tessuto vivo della società verso l’alto, e non quella di chi guarda dall’alto del suggello statale fissato nella norma nella direzione del basso.
È il costituzionalismo dei bisogni richiamato da Stefano Rodotà, che si oppone a quel formalismo troppo spesso utilizzato per meri fini di comodo.
Nella prospettiva di Roberto Conti la normazione si configura pertanto non come un atto circoscritto alla sola formazione del testo di legge, inteso come prodotto finito, ma come un procedimento che si completa nel momento dell’interpretazione, quale passaggio ineliminabile per il concretarsi della positività della norma.
Ne risulta del tutto obsoleto il rigido sistema gerarchico delle fonti e delle regole ermeneutiche classiche posto nelle disposizioni sulla legge in generale, che imprigionava l’interprete nell’ambito angusto del sistema codicistico e poneva la sclerotica identificazione dei confini della giuridicità con quelli dello Stato.
Nella descritta impostazione viene a delinearsi un processo di concretizzazione in vivo dei diritti, che esige la valorizzazione non solo dei testi, ma dei contesti e che intercetta la giuridicità oltre la norma, ponendo la società e il contesto come referenti della giuridicità.
E tuttavia secondo l’Autore tale apertura sul ruolo della giurisdizione non consegna il giudice ad una navigazione in mare aperto senza bussola, trovando detta navigazione solidi punti di riferimento nella Carta fondamentale, nelle Carte sovranazionali e nella giurisprudenza delle Corti, nonché assumendo la comparazione non più come orpello ornamentale della motivazione ispirato a mere esigenze estetiche, ma come effettivo metodo di lavoro, in un contesto caratterizzato da una tendenziale integrazione tra gli ordinamenti.
Proprio il costante dialogo con le Carte e le Corti - quello stesso dialogo che Guido Calabresi sollecita con le parole riportate nella prima pagina dell’opera - tratteggia secondo Roberto Conti una giurisdizione nazionale costantemente in progress, che si fa così espressione della complessità e della ricchezza di un panorama giuridico proiettato ben al di là dell’ordinamento statuale.
Al pericolo da alcuni denunziato di incertezze e diseguaglianze per effetto dello spostamento progressivo dal diritto scritto al diritto giurisprudenziale l’Autore oppone la necessità che il giudice indossi i tre cappelli forniti dal diritto costituzionale, dalle convenzioni internazionali e dal diritto dell’Unione, traendo linfa dai principi nella loro dimensione elastica e potenziale.
Secondo una linea di continuità con il congresso di Gardone Conti reitera la sollecitazione al giudice, una volta liberatosi dalle incrostazioni proprie dell’esegesi e dalle strettoie del mero cognitivismo, ad un cambio di passo, assumendo un ruolo dinamico e proiettato ad un livello alto, che lo ponga come cerniera tra un comando fissato nel testo scritto e richieste di tutela di diritti spesso non immediatamente riconducibili a quel testo, inserendosi nel processo di produzione del diritto in un lavoro di mediazione tra arido testo normativo ed esperienza, eliminando insomma ogni barriera tra produzione e applicazione del diritto, tra un comando che resta fissato in un testo e la vita che scorre oltre il testo.
L’ Autore ha ben presente che la forte valorizzazione dell’interpretazione rispetto all’ esegesi e la configurazione della dimensione ermeneutica quale componente interna della positività della norma chiama in causa il coraggio del giudice, tenuto a confrontarsi con i grandi problemi e le grandi sfide di una società in profonda trasformazione e con le continue innovazioni scientifiche e tecnologiche ed a misurare la sua capacità di avvicinare il diritto ai fatti, e quindi il diritto alla giustizia.
Egli ricorda che un impegno siffatto coinvolge, oltre il coraggio, anche l’etica del giudice, che si aggancia al dovere di fedeltà alla Repubblica sancito dall’ art. 54 Cost., e quindi al rispetto dei valori repubblicani consacrati nella Costituzione e delle funzioni spettanti a tutti i poteri dello Stato. Un rispetto che deve impegnare anche il legislatore e che è posto a presidio della tenuta del sistema democratico, perchè soltanto se i rapporti tra i vari poteri saranno improntati a correttezza e lealtà sarà possibile superare l’atavico conflitto tra politica e magistratura.
Particolarmente intense sono le pagine del libro volte a riflettere sul ruolo dinamico del giudice: richiamate alcune sentenze della Corte di Cassazione definite paradigmatiche, in quanto considerate espressive della figura di un giudice capace di affrontare casi difficili e di colmare le lacune del diritto, l’Autore ricorda che il giudice, sia di legittimità che di merito, non può mai sottrarsi al compito, impegnativo e talvolta sofferto, di rendere risposte di giustizia e che ove siano in discussione diritti fondamentali è tenuto a reperire, anche a fronte dell’ assenza di un humus comune e condiviso, i principi di base che emergono dalle Carte fondamentali, come vivificate dal diritto vivente.
Nel dare testimonianza della sua esperienza presso la Corte di Cassazione, dove attualmente svolge le funzioni di consigliere, l’Autore evidenzia il cambio di prospettiva della funzione nomofilattica verificatosi negli ultimi anni, tale da delineare una vera mutazione genetica, essendo ora detta Corte giuridicamente obbligata a garantire l’uniforme interpretazione della legge sulla base della CEDU e delle altre Carte dei diritti fondamentali, in un confronto talora non lineare con le varie Corti, e al tempo stesso a svolgere una funzione di tutela avanzata dei diritti, attraverso un lavoro di sintesi tra i dati normativi e il quadro di valori desunto da un sistema pluriordinamentale, così da porsi come ultima garante di diritti a protezione multilivello.
A fronte della complessità e rilevanza di tali funzioni Conti non può non ricordare che la schiacciante mole di ricorsi che gravano sul giudice di legittimità rischia di comprometterne la funzione primaria di giudice della nomofilachia europea, costringendolo a continue oscillazioni tra il ruolo di Corte Suprema e quello di giudice di terza istanza.
2. Le considerazioni svolte sull’ attività interpretativa/creativa del giudice si pongono nel pensiero dell’ Autore come premessa necessaria all’ esame della legge n. 219 del 2017, cui lo scritto è dedicato, non solo perchè sulla tematica del fine vita il giudice è stato chiamato a pronunziare ben prima dell’ intervento del legislatore, ma anche e soprattutto perchè è proprio lì dove vengono in discussione i valori della vita, della salute, del consenso informato, dell’autodeterminazione, dell’ inviolabilità della persona che l’interprete deve muoversi - come innanzi ricordato - non tanto sul piano della risoluzione dei conflitti, quanto su quello della ricerca nel sistema di principi e valori a tutela di diritti fondamentali, confrontandosi con il continuo evolversi della medicina e della biologia e con i grandi mutamenti culturali che investono la società.
La disamina non può allora non prendere le mosse dal concetto di dignità, il valore dei valori, il diritto dei diritti, la supercategoria da cui discendono tutti i diritti umani, un concetto e un valore che l’Autore giustamente considera come naturalmente collegato, oltre che al tema delle fonti e del loro pluralismo, a quello dei diritti fondamentali.
La centralità del valore della persona umana e l’ intangibilità della sua dignità trovano pieno riconoscimento sia nelle Costituzioni del ventesimo secolo che nelle varie Carte sovranazionali. La forza primaria e dirimente conferita dall’ ordinamento italiano al principio di dignità, che l’art. 3 della Costituzione antepone al principio di eguaglianza, costituisce parametro base nell’ affrontare i temi di biodiritto, in quanto attiene all’ essenza stessa della persona, e quindi le attribuisce la portata di canone ineludibile di definizione del rapporto tra diritto e scienza.
Tra i mille volti della dignità emerge appunto quello che concerne la fine della vita, così che la dignità è il fondamento dell’intera legge n. 219.
E’ evidente il richiamo all’ insegnamento di Antonio Ruggeri sul rapporto tra vita e dignità: la prima precede e fonda la seconda, che senza di essa non avrebbe senso, ma la seconda illumina e qualifica la prima, la rigenera e per ciò stesso, a sua volta, la fonda.
E prima ancora è evidente il riferimento al pensiero dello stesso studioso sul rapporto, definito di mutua alimentazione, tra dignità e diritti fondamentali: l’una illumina il percorso che porta al riconoscimento degli altri e al tempo stesso si riconferma e si rinnova incessantemente per il tramite di quelli.
Roberto Conti ricorda le implicazioni non solo sul piano giuridico, ma anche filosofico, morale e sociale del concetto di dignità e cita alcune delle molte decisioni della Corte Costituzionale e della Corte europea che evocano tale concetto, inteso come principio immediatamente efficace ed inderogabile, non soggetto ad alcun bilanciamento con altri diritti: dunque un valore non solo tutelato in sé, ma canone interpretativo di tutti i diritti fondamentali delle persone.
La bussola che deve indirizzare in materia di biodiritto la navigazione del giudice è pertanto quella che indica quel nucleo forte di principi che esaltano la dignità, la libertà e l’autodeterminazione della persona, nella sua dimensione individuale e sociale. Seguendo quella direzione l’interpretazione giudiziale evita di trasformarsi in arbitrio ed i limiti alla creatività della giurisprudenza sono rispettati, perché ogni decisione si inserisce pienamente in una cornice di legalità.
E tuttavia l’Autore segnala la difficoltà di dare concretezza al principio di dignità e si pone pressanti interrogativi sulla capacità del giudice, in quanto dotato della necessaria competenza ed autorevolezza, di governare l’astrattezza del concetto ancorandolo a valori non meramente personali, e quindi di offrire risposte che non siano frutto di preferenze soggettive o di emozioni, e per questo siano prive del necessario tasso di persuasività.
Conti sostiene ancora che in tema di biodiritto il bilanciamento tra valori diversi deve essere assunto come regola di base, stante la compresenza di valori fondamentali diversi chiamati a coesistere in modo armonico, ed aggiunge che in forza di tale criterio anche il principio di autodeterminazione, pur nel suo valore primario, è in certa misura comprimibile, in quanto destinato a convivere con altri diritti e valori rilevanti in concreto, ed in casi estremi con il supervalore della dignità, questo soltanto assolutamente incoercibile ed insuscettibile di bilanciamenti.
Si può non condividere tale posizione, ove si ritenga non configurabile una dicotomia tra autodeterminazione di soggetti adulti e capaci e dignità della persona e si opini piuttosto che la prima, identificandosi con il progetto esistenziale dell’ individuo, costituisce di per sé espressione della dignità degli uomini e delle donne (salvo ovviamente il divieto di atti di disposizione del proprio corpo a titolo oneroso, che trova fondamento in altro ordine di ragioni, attinenti all’ ordine pubblico interno, e il caso in cui la volontà del paziente sia diretta ad ottenere trattamenti sanitari contrari alla legge o alla deontologia professionale, in cui chiaramente vengono in gioco comportamenti e responsabilità di terzi).
Ma ciò che essenzialmente rileva è il riconoscimento della dignità come valore meritevole di tutela incondizionata secondo i suoi caratteri di indefettibilità, indissolubilità ed incomprimibilità in quanto supervalore costituzionale e la sua conclamata capacità di costituire ineludibile canone di riferimento nel rendere risposte di giustizia in questa materia.
3. La lettura dettagliata della legge n. 219 del 2017 si dipana secondo l’ottica del giudice europeo, portatore di una visione pluriordinamentale e garante di una tutela multilivello. Puntuale è ancora una volta il richiamo alla giurisprudenza della CEDU in tema di diritto alla vita e di autodeterminazione, a dimostrazione che anche nelle decisioni evocate emerge il ruolo fondamentale dell’autorità giudiziaria nel fornire risposte di tutela in tale ambito.
L’Autore pone in evidenza che la legge in discorso distingue i principi dai diritti fondamentali, che pure enumera, in particolare rimarcando la centralità del consenso alle cure quale massima proiezione del diritto all’ autodeterminazione, e sottolinea la difficoltà della interpretazione dei principi, presupponendo il diritto per principia, come ricorda Aurelio Gentili, un discorso assiologico.
Egli analizza inoltre attentamente i profili problematici dell’ articolato e ne denunzia i nodi irrisolti, sempre indossando quei tre cappelli, rapportando le singole disposizioni ai principi costituzionali e alle Carte sovranazionali, non utilizzando mai nella lettura delle varie previsioni normative la chiave strettamente tecnico-giuridica, ma calando quelle previsioni nel contesto fattuale, nella realtà del malato e delle sue condizioni di vulnerabilità, inquadrando la figura centrale del medico, degli altri operatori sanitari, quelle dei familiari nel contesto del loro coinvolgimento e delle loro responsabilità.
Roberto Conti individua le criticità dell’ articolato in relazione alla predisposizione di specifici strumenti di tutela, in particolare per non aver previsto l’emersione di possibili conflitti tra i vari soggetti coinvolti o per non aver procedimentalizzato alcuni momenti di verifica giudiziale dell’operato del medico, e propone all’interprete di colmare le lacune attraverso il reperimento di regulae iuris che trovino diretta matrice nei principi fondamentali scolpiti nelle Carte dei diritti, nel segno della massimizzazione delle tutele, eventualmente proponendo le pertinenti questioni di costituzionalità.
Emerge allora nella prospettiva dell’Autore la centralità del ruolo (ma anche la solitudine) del giudice tutelare, tenuto a farsi promotore, nella soluzione dei conflitti, di un metodo dialogico che favorisca l’emersione di tutte le posizioni coinvolte e al tempo stesso impegnato ad attingere a tutte le fonti per dare piena tutela ai diritti evocati.
Nella trattazione del tema del consenso ai trattamenti sanitari è chiaro il riferimento al pensiero di Stefano Rodotà - che peraltro aleggia in molte pagine dell’opera - lì dove si evidenzia che il consenso informato compendia non solo la facoltà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche quella di rifiutare ogni terapia, anche quando da tale scelta possa derivare la fine della vita.
Di estrema rilevanza e delicatezza è la problematica relativa al consenso dei minori e dei soggetti disabili, cui l’Autore dedica ampio spazio, con quella forte attenzione alla tutela dei più deboli che gli deriva dalla sua passata esperienza di giudice tutelare. Egli ricorda che la figura del minore e la volontà dal medesimo espressa assumono un valore sempre più forte nella normativa internazionale, tanto che la Convenzione di Oviedo dispone che il parere di un minore è preso in considerazione come un fattore sempre più determinante, in funzione della sua età e del suo grado di maturità, e tuttavia rileva che la prospettiva adottata dal legislatore è sul punto riduttiva, con riferimento sia alla mancanza di legittimazione dei soggetti minorenni capaci di discernimento a redigere le DAT, sia ai possibili contrasti con le scelte dei genitori, sia agli spazi di ascolto previsti.
Nello scandagliare nel reticolo normativo i silenzi e le lacune sul punto Roberto Conti richiama l’obbligo dell’interprete di individuare strumenti processuali che colmino quei vuoti e che consentano al giudice di verificare se le decisioni prese dagli adulti rispondano effettivamente alla tutela della salute psicofisica del minore e siano rispettose della sua dignità. E’ evidente il riconoscimento della dignità anche del soggetto minorenne, al quale l’ordinamento garantisce una protezione rinforzata, sancita nel canone del best interest, tanto più nelle situazioni in esame, in cui egli è portatore di una doppia debolezza, in quanto minore ed in quanto malato.
Estremamente utili per gli operatori appaiono le riflessioni sulle potenzialità dell’istituto dell’amministrazione di sostegno e sul suo ambito di utilizzabilità non solo prima, ma anche a seguito dell’approvazione della legge n. 219. Così come importanti sono le argomentazioni in tema di vincolatività delle disposizioni anticipate di trattamento, in relazione alle quali l’Autore, enumerando tutte le possibili difficoltà di attuazione, richiama il già evocato criterio del bilanciamento dei valori quale utile strumento per verificare la loro piena operatività e per risolvere eventuali dubbi interpretativi circa la volontà del dichiarante.
4. Di grande attualità sono le pagine dedicate all’ ordinanza recentissima della Corte Costituzionale n. 207 del 2018 che, chiamata dalla Corte di Assise di Milano a scrutinare l’eccezione di incostituzionalità, sotto un duplice profilo, dell’art. 580 c.p., ha rinviato di circa un anno la decisione, al fine di consentire il necessario intervento del Parlamento che, nell’ esercizio della discrezionalità che gli è propria, disciplini condizioni e modi di esercizio del diritto a ricevere un trattamento di fine vita.
Come è noto, adottando una tecnica decisoria del tutto innovativa tale provvedimento ha accertato, ma non dichiarato l’incostituzionalità della norma impugnata - con riferimento a situazioni come quella esaminata, neppure immaginabili al tempo in cui la norma penale fu introdotta, in cui l’assistenza di terzi nel porre fine alla vita si presenti al malato come l’ unica via di uscita per sottrarsi ad un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare - ritenendo che una immediata declaratoria di incostituzionalità lascerebbe priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi, e che spetti quindi al legislatore intervenire per evitare che una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’ essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale.
Conti prende atto della forte assunzione di responsabilità compiuta dalla Corte Costituzionale sia per aver ritenuto - aprendo ad una pregnante difesa del diritto del malato, nelle condizioni date di particolare sofferenza, ad accomiatarsi dalla vita - che l’attuale assetto normativo, lì dove pone il divieto assoluto di aiuto al suicidio, lascia prive di tutela situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione, sia per aver delineato l’ambito e i termini logici e giuridici della decisione politica da adottare sul diritto a morire con l’ aiuto di altri. A fronte dei problemi e delle incertezze che da tale pronuncia di incostituzionalità differita potranno derivare - dal persistere nell’ ordinamento di una disposizione penale pur ritenuta incostituzionale, ma formalmente valida ed efficace, alla necessità/opportunità per ogni giudice chiamato ad applicarla in fattispecie simili di sollevare analoga questione di costituzionalità, al fine di evitare appunto la sua applicazione, o quanto meno disporre il rinvio del processo, alla eventualità tutt’altro che remota che l’ intervento normativo non si realizzi o si delinei in modo tale da non garantire un bilanciamento corretto dei valori in gioco - l’Autore ritiene che la precisa individuazione da parte della Corte Costituzionale dei punti e degli aspetti da regolare in via normativa e l’ altrettanto specifica indicazione della legge n. 219 del 2017 quale sede in cui inglobare una disciplina articolata della materia potranno costituire seri punti di riferimento per un legislatore che, nello spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale richiamato nella stessa ordinanza, ponga mano alla necessaria opera riformatrice.
5. Emerge da tutte le pagine del libro la profonda umanità di Roberto Conti e la sua tensione verso un modello di giudice che si dà carico di assicurare, con prudenza istituzionale, ma senza timidezze, la tutela dei diritti delle persone, così da porsi come concreto attuatore dei diritti, attraverso un processo di integrazione delle fonti e di attento raccordo con le pronunce delle Corti sovranazionali. Un giudice consapevole del compito enorme che l’ordinamento gli assegna nel momento in cui gli affida il destino di persone bisognose di protezione e per questo estremamente vulnerabili, cui egli deve accostarsi come il medico si accosta al malato.
E’ forte nel pensiero di Roberto Conti il richiamo all’etica della responsabilità e all’ impegno in direzione dello studio, della ricerca dottrinaria, dell’aggiornamento sulle fonti, di un continuo affinamento della professionalità.
Il modello di giudice cui l’Autore rimanda è quello di una figura istituzionale a tutto tondo, che si confronta con gli spazi di discrezionalità che il sistema normativo le consegna avendo ben chiari i limiti della propria funzione, ma al tempo stesso riempiendo quegli spazi con l’ uso accorto degli strumenti forniti dall’ ordinamento nazionale e sovranazionale, così da adeguare le risposte di giustizia ai grandi cambiamenti della società ed agli sviluppi della scienza e della tecnologia.
Una straordinaria testimonianza soprattutto per le giovani generazioni.
Un prezioso strumento di lavoro per chi è chiamato ad affrontare tematiche così delicate e complesse.
TED BUNDY – Fascino Criminale di Franco Caroleo
La storia di un serial killer, la vicenda giudiziale, il processo mediatico e la spasmodica accettazione della verità.
Vi prego, non chiamatelo legal thriller.
Ted Bundy – Fascino Criminale (titolo originale: Extremely Wicked, Shockingly Evil and Vile, dannatamente più evocativo) è il racconto nudo e crudo della vita di Ted Bundy, serial killer statunitense autore di decine di efferati omicidi (almeno 30 confessati) ai danni di giovani ragazze negli anni Settanta.
Dopo aver girato l’intrigante serie Netflix Conversations with a Killer: The Ted Bundy Tapes (un po’ documentario un po’ Un giorno in pretura in salsa a stelle e strisce), Joe Berlinger ritorna sullo stesso soggetto per confezionare una pellicola di tagliente inquietudine.
La storia è tratta dal libro di memorie di Elizabeth Kendall, pseudonimo della donna che visse un’intensa e controversa relazione sentimentale con Ted Bundy e che per lungo tempo ha confidato nella sua innocenza.
Ma la visceralità della relazione tra i due (interpretati dal sorprendente Zac Efron, che ricordavamo dolce e disneyano in High School Musical e ora ritroviamo freddo, brillante e spietato, e dall’impeccabile Lily Collins, che già con Fino all’osso aveva regalato una bella prova di maturità, lasciandosi alle spalle le voci sulle raccomandazioni di papà Phil) è solo uno dei fili che si intrecciano e si tendono nel corso del film.
C’è la vicenda giudiziale, che si sviluppa quasi per inerzia e che lascia per strada dubbi (sempre meno ragionevoli) e supposizioni suggestive, che portano centinaia di donne ad innamorarsi dell’imputato, così attraente e così lontano dal profilo del folle omicida descritto negli atti di causa.
C’è la potenza dei media, perché il processo in Florida di Ted Bundy è stato il primo processo penale ad essere stato trasmesso in tv negli Stati Uniti, quando ancora (siamo nel 1979) non esistevano i reality: un processo che si fa spettacolo (Bundy, cogliendo l’efficacia del mezzo, arriverà perfino a sposare in diretta tv una testimone) e lo spettacolo che dimentica il processo per scavare nell’umanità del mostro e accalorarsi nell’esibizione dialettica e muscolare di accusa e difesa.
C’è la verità processuale, c’è la verità storica; c’è la verità reclamata e quella che non si vuole accettare, perché a fianco c’era una persona che non era (affatto) quella che sembrava.
C’è un’intera vita di bugie o, forse, di verità in incognito. Vi prego, non chiamatelo legal thriller.
Il dibattito sulla Cannabis è tornato in questi giorni al centro delle cronache per la contrarietà del Ministro dell’Interno alla vendita della Cannabis light e per l’approvazione a Torino di una mozione consiliare sulla coltivazione di Cannabis ad uso medico sui terreni comunali.
Dietro alla confusione mediatica e politica sull’uso della Cannabis si nasconde una disciplina frammentata, al confine tra diritto penale e diritto amministrativo. L’attualità del tema dellaCannabis ad uso medico è evidentemente collegata all’interesse pubblico alla produzione e alla ricerca sull’efficacia terapeutica di questo prodotto, per la risposta che esso può dare alla richiesta di tutela della salute delle persone.
Sommario: la disciplina della cannabis ad uso medico. -l’intervento pubblico come programmazione della ricerca e produzione. - la cooperazione amministrativa.
1. La disciplina della Cannabis ad uso medico.
L’uso medico della Cannabis non è considerato una terapia, ma un trattamento sintomatico in grado di supportare i trattamenti standard laddove non producano gli effetti desiderati o qualora non siano tollerati o necessitino di incrementi posologici che potrebbero determinare la comparsa di effetti collaterali [FB1] [1].
La disciplina dell’uso medico della Cannabis trova riferimento nel quadro normativo frammentato in materia di: autorizzazioni[2], accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore[3], medicinali[4], prescrizioni delle preparazioni magistrali[5].
La potenziale offensività della circolazione di sostanze stupefacenti spiega la rilevanza penale dell’uso della Cannabis.
Non stupisce che la giurisprudenza penale abbia chiarito che per il perfezionarsi del reato di coltivazione abusiva “non rilevano le quantità e qualità delle piante, la loro effettiva tossicità o la quantità di sostanza drogante da esse estraibili, poiché la previsione incriminatrice è rivolta a vietare la produzione di specie vegetali idonee a produrre l’agente psicotropo, indipendentemente dal principio attivo estraibile”[6]; la fattispecie viene inquadrata come “reato di pericolo perfezionato con la posa dei semi idonei a produrre una potenziale germinazione ad effetti stupefacenti senza che si renda necessario attendere l’esaurirsi del ciclo di maturazione e successiva essiccazione delle foglie”[7].
La rilevanza penale che il nostro ordinamento assegna all’uso della Cannabis in ragione dei sui effetti stupefacenti condiziona le diverse attività soggette ad autorizzazione[8].
Per le varietà di canapa che non rientrano [FB2] nel Testo Unico sugli stupefacenti il legislatore consente, invece, senza necessità di autorizzazione, “coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici e privati” della canapa”[9].
2. L’intervento pubblico come programmazione della ricerca e produzione.
L’offerta di mercato della Cannabis ad uso medico è oggi insufficiente a soddisfare interamente la domanda farmaceutica nazionale e la crescita del fabbisogno[10].
Accanto ad un intervento pubblico nella produzione, finalizzato alla garanzia della continuità terapeutica per gli usi già consentiti, vi è un intervento pubblico finalizzato alla ricerca di nuovi impieghi medici e alla valutazione dell’effettiva efficacia di quelli già riconosciuti.
In questa prospettiva ricerca e produzione vanno intese congiuntamente.
Sicché non stupisce che il Ministero della salute, in qualità di Organismo statale della cannabis[11], eserciti altre funzioni oltre a quelle direttamente legate alla tutala della salute nell’ambito del Ssn, provvedendo ad autorizzare e individuare le aree destinate alla coltivazione di piante di Cannabis, autorizzare l’importazione e l’esportazione, determinare le quote di fabbricazione [12].
Recenti disposizioni normative sulla produzione e trasformazione della Cannabis ad uso medico[13] disciplinano l’autorizzazione alla produzione dello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze (SCFM), ai fini della fabbricazione di infiorescenze di Cannabis, della coltivazione e della trasformazione della Cannabis in sostanze e preparazioni vegetali per la successiva distribuzione alle farmacie[14].
Nella programmazione[15] dell’approvigionamento non è coinvolto solo l’Organismo statale per la Cannabis che può “autorizzare l’importazione di quote da conferire allo Stabilimento chimico militare di Firenze, ai fini di soddisfare il fabbisogno nazionale di tali preparazioni e per la conduzione di studi clinici”[16], ma anche direttamente Regioni e Province autonome che predispongono le richieste “sulla base della stima dei fabbisogni dei pazienti in trattamento e di eventuali incrementi per nuove esigenze di trattamento”[17].
L’autorizzazione dell’importazione di quote di Cannabis si giustifica con la necessità di “assicurare la disponibilità di Cannabis ad uso medico sul territorio nazionale, anche al fine di garantire la continuità terapeutica dei pazienti già in trattamento”[18].
Al fine di “soddisfare il fabbisogno nazionale di tali preparazioni e per la conduzione di studi clinici”, lo stabilimento fiorentino è autorizzato alla “coltivazione e alla trasformazione della Cannabis in sostanze e preparazioni vegetali per la successiva distribuzione alle farmacie”[19].
Oltre allo stabilimento autorizzato, il Ministero della Salute può individuare con decreto anche “uno o più enti o imprese da autorizzare alla coltivazione nonché alla trasformazione”[20]; soluzione già individuata dalla giurisprudenza amministrativa che ha affermato la possibilità che l’autorizzazione alla coltivazione sia conferita anche ad altri soggetti[21].
Sicché la possibilità di concedere altre autorizzati alla coltivazione per uso medico[22] è stata ritenuta idonea ad escludere l’esistenza di un monopolio statale[23].
In ogni caso i coltivatori autorizzati debbono consegnare “il materiale vegetale a base di cannabis, nei tempi e nei modi definiti nel provvedimento di autorizzazione alla coltivazione, al Ministro della salute, Direzione generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico – Ufficio centrale stupefacenti [n.d.r. Organismo statale per la cannabis] che provvede alla destinazione del materiale stesso alle officine farmaceutiche autorizzate per la successiva trasformazione in sostanza attiva o preparazione vegetale, entro quattro mesi dalla raccolta”[24].
L’autorizzabilità di altri soggetti, subordinata alla necessità di soddisfare il fabbisogno nazionale, è estesa oggi anche all’attività di trasformazione della cannabis; le disposizioni urgenti in materia di finanza e per esigenze indifferibili hanno infatti esteso l’autorizzazione anche alla “trasformazione della Cannabis in sostanze e preparazioni vegetali per la successiva distribuzione alle farmacie”[25].
La disposizione normativa sulla “produzione e trasformazione della Cannabis ad uso medico”[26] richiama le attività di produzione, fabbricazione di infiorescenze, di trasformazione e di coltivazione di Cannabis in sostanze e preparazioni vegetali per la successiva distribuzione nelle farmacie.
La disciplina della Cannabis ad uso medico coinvolge perciò diverse attività per le quali è richiesta l’autorizzazione di cui al Testo Unico in materia di stupefacenti quali: coltivazione, trasformazione, fabbricazione e produzione, uso.
3. La cooperazione amministrativa.
Le attività di coltivazione e trasformazione della Cannabis in sostanze e preparazioni vegetali, per la successiva distribuzione alle farmacie, non sono finalizzate solo “a soddisfare il fabbisogno nazionale di tali preparazioni”, ma anche alla “conduzione di studi clinici”[27].
Perciò se le attività di produzione e di ricerca non sono scindibili, appare difficilmente comprensibile - alla luce del dettato costituzionale di riferimento (artt. 3, 9[28], 32, 41 Cost) - la scelta di condizionare l‘autorizzabilità di altri soggetti al solo caso di carenza di quote di Cannabis.
In tale prospettiva si comprende il tentativo del legislatore della XVII legislatura di definire l’aspetto promozionale della ricerca universitaria, legato alla produzione della Cannabis ad uso medico, disponendo che “nell’ambito delle attività di ricerca, le università e le società medico-scientifiche possono promuovere studi preclinici, clinici, osservazionali ed epidemiologici sull’uso appropriato dei medicinali di origine vegetale a base di cannabis, condotti secondo la normativa vigente in materia di sperimentazione”.[29]
Nell’intervento pubblico di produzione della Cannabis ad uso medico il ruolo universitario[30] nella promozione della ricerca non può essere inteso separatamente dalla programmazione dell’attività di produzione.
L’attività di ricerca e produzione della Cannabis ad uso medico si presenta come attività di cooperazione amministrativa, anche europea[31].
La cooperazione interessa diversi livelli di amministrazione: l’Unione europea, nella sua competenza di sostegno, coordinamento e completamento (art. 6 TFUE), lo Stato, nella garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, co. 2, lett. m); le Regioni, in virtù della loro competenza legislativa concorrente in materia di tutela della salute (art. 117 co. 3); nonché i Comuni in via sussidiaria e come enti di prossimità nella cura della persona (art. 118 Cost.).
La cooperazione amministrativa nella ricerca e produzione di Cannabis ad uso medico coinvolge, inoltre, tutte le Amministrazioni preposte alla tutela della salute: l’amministrazione sanitaria (Ministero della Salute, Aziende ospedaliere, Aziende sanitarie locali, etc.) e l’amministrazione per la ricerca scientifica (Università).
In tale contesto l’amministrazione universitaria assume uno spiccato rilievo nell’innovazione scientifica per la ricerca e la produzione di Cannabis ad uso medico, nonché un ruolo centrale nella cooperazione amministrativa.
Se le Università, che “da almeno un millennio sono depositarie dei più alti livelli di conoscenza in ogni ramo del sapere, possono innovare se stesse, aprendo alla trasformazione delle altre pubbliche amministrazioni”[32], l’amministrazione della Cannabis ad uso medico può configurarsi come modello di cooperazione amministrativa dove l’innovazione universitaria trasforma tutte le altre amministrazioni.
[1] L’art. 4.1. dell’Allegato tecnico per la produzione nazionale di sostanze e preparazioni di origine vegetale a base di cannabis al Decreto 9 novembre 2015, Ministero della Salute, definisce la Cannabis ad uso medico come un “trattamento sintomatico di supporto ai trattamenti standard, quando questi ultimi non hanno prodotto gli effetti desiderati, o hanno provocato effetti secondari non tollerabili, o necessitano di incrementi posologici che potrebbero determinare la comparsa di effetti collaterali”; “esistono diverse linee genetiche di Cannabis che contengono concentrazioni differenti dei principi farmacologicamente attivi e, conseguentemente, producono effetti diversi; pertanto, gli impieghi ad uso medico verranno specificati dal Ministero della salute, sentiti l’Istituto superiore di sanità e l’AIFA per ciascuna linea genetica di cannabis”. Lo stesso decreto afferma, inoltre, che i risultati delle evidenze scientifiche sono ancora oggi contraddittori e non conclusivi. Il D.d.l. recante disposizioni concernenti la coltivazione e la somministrazione della cannabis a uso medico, all’art. 2, nel testo approvato alla Camera il 19 ottobre 2017 nel corso della XVII legislatura, chiariva che per uso medico della Cannabis si deve intendere “l’assunzione di medicinali a base di cannabis che il medico curante prescrive dopo la valutazione del paziente e la diagnosi, per una opportuna terapia”. Alla Cannabis, nella varie fasi della produzione - dalla coltivazione alla trasformazione - si riferiscono le definizioni di: “sostanze vegetali”, con la quale si intendono “tutte le piante, le parti di piante, le alghe, i funghi e i licheni, interi, a pezzi o tagliati, in forma non trattata, di solito essiccata, ma talvolta anche allo stato fresco”, e di “preparazione vegetale”, con la quale si intendono le “preparazioni ottenute sottoponendo le sostanze vegetali a trattamenti quali estrazione, distillazione, spremitura, frazionamento, purificazione, concentrazione o fermentazione. In tale definizione rientrano anche sostanze vegetali triturate o polverizzate, tinture, estratti, olii essenziali, succhi ottenuti per spremitura ed essudati lavorati” (D. Lgs. 24 aprile 2006, n. 219, art. 1). Il prodotto può essere ricondotto alla definizione di medicinale per presentazione, quale “sostanza o associazione di sostanze presentata come avente proprietà curative o profilattiche delle malattie umane”, come anche a quella di medicinale per funzione, quale “sostanza o associazione di sostanze che può essere utilizzata sull’uomo o somministrata all’uomo allo scopo di ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche, esercitando un’azione farmacologica, immunologica o metabolica, ovvero di stabilire una diagnosi medica” (D. Lgs. 24 aprile 2006, n. 219, art. 1). Per l’analisi dell’accezione formale e sostanziale della definizione di medicinale si rinvia a M. P. Genesin, La disciplina dei farmaci, in Salute e sanità, a cura di R. Ferrara, in Trattato di biodiritto, diretto da S. Rodotà, P. Zatti, Milano, 2010, 631. Sul punto sia consentito rinviare a A. Cauduro, L’accesso al farmaco, Milano, 2017, 15 ss. Sulla disciplina dei farmaci si veda, inoltre, G.F. Ferrari, F. Massimino, Diritto del farmaco. Medicinali, diritto alla salute, politiche sanitarie, Bari, 2015, Si ricorda che “in caso di dubbio, se un prodotto, tenuto conto delle sue caratteristiche, può rientrare contemporaneamente nella definizione di “medicinale” e nella definizione di un prodotto disciplinato da un’altra normativa comunitaria”, trova sempre applicazione la disciplina dei medicinali (Direttiva 2001/83/CE, art. 2).
[2] D. P. R. 9 ottobre 1990, n. 309, Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza e successive modifiche e integrazioni (d’ora in avanti Testo Unico).
[3] Legge 15 marzo 2010, n. 38 recante disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore come richiamata dal Decreto 9 novembre 2015 del Ministero della salute.
[4] D. Lgs. 24 aprile 2006, n. 219, di recepimento della Direttiva 2001/83/CE.
[5] Legge 8 aprile 1998, n. 94 recante disposizioni sulla prescrizione di preparazioni medicinali, come richiamata dal decreto 9 novembre 2015 del Ministero della salute. In specie viene richiamato l’art. 5 della l. n. 94/1998 rubricato prescrizioni di preparazioni magistrali che stabilisce la possibilità “per i medici di prescrivere preparazioni magistrali esclusivamente a base di principi attivi descritti nelle farmacopee dei Paesi dell’Unione europea o contenuti in medicinali prodotti industrialmente di cui è autorizzato il commercio in Italia o in altro Paese dell’Unione europea”.
[6] Cass. Pen., Sezioni Unite 24 aprile – 10 luglio 2008, n. 28605. La decisione muoveva dalla questione se “la condotta di coltivazione di piante, dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti sia penalmente rilevante anche quando sia realizzata per destinazione del prodotto ad uso personale”.
[7] Cass. Pen., Sezioni Unite 24 aprile – 10 luglio 2008, n. 28605.
[8] Sulle autorizzazioni si vedano per tutti: A. Orsi Battaglini, voce Autorizzazione amministrativa, in Dig. disc. pubbl., 1987, Torino, 58 ss.; F. Fracchia, Autorizzazioni amministrative, in Diz. Dir.Pubbl., (diretto da) S. Cassese, Milano, 2006, 598 ss.; G. Vignocchi, La natura giuridica dell’autorizzazione amministrativa, Padova, 1944.
[9] Legge 2 dicembre 2016, n. 242, art. 2, lett. f.
[10] Per l’indicazione delle patologie per le quali sono riconosciuti “gli impieghi di cannabis ad uso medico” cfr. punto 4.1, dell’Allegato tecnico per la produzione nazionale di sostanze e preparazioni di origine vegetale a base di cannabis, del Decreto 9 novembre 2015 del Ministero della Salute. Sul punto cfr. Corte cost. 20 giugno 2013, n. 141 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 1, della legge della Regione Liguria n. 26/2012, per violazione dell’art. 117, co. 3, Cost. perché “indicando i medici specialisti a prescrivere i farmaci cannabinoidi e definendo le relative indicazioni terapeutiche, interferisce con la competenza dello Stato a individuare, con norme di principio, tese a garantire l’uniformità delle modalità di prescrizione dei medicinali nel territorio nazionale, gli specialisti abilitati alla prescrizione del farmaco o principio attivo, nonché i relativi impieghi terapeutici”. Il riferimento è al contrasto delle norme regionali con la successiva determinazione AIFA n. 387 del 9 aprile 2013 con la quale l’Agenzia ha autorizzato l’immissione in commercio dell’unico medicinale cannabinoide presente sul mercato italiano.
[11] L’art. 1 del decreto 9 novembre 2015 del Ministero della salute, rubricato Funzioni del Ministero della salute in qualità di Organismo statale per la cannabis, richiama la Direzione generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico – l'Ufficio centrale stupefacenti.
[12] Il Ministero della Salute provvede: a) ad autorizzare la coltivazione di piante di Cannabis da utilizzare per la produzione di medicinali di origine vegetale a base di Cannabis, sostanze e preparazioni vegetali; b) individua le aree da destinare alla coltivazione di piante di Cannabis per la produzione delle relative sostanze e preparazioni di origine vegetale e la superficie dei terreni su cui la coltivazione è consentita; c) importa, esporta e distribuisce sul territorio nazionale, ovvero autorizza l’importazione, l’esportazione, la distribuzione all’ingrosso e il mantenimento di scorte delle piante e materiale vegetale a base di Cannabis, ad eccezione delle giacenze in possesso dei fabbricanti di medicinali autorizzati; d) provvede alla determinazione delle quote di fabbricazione di sostanza attiva di origine vegetale a base di Cannabis sulla base delle richieste delle Regioni e delle Province autonome; b) individua le aree da destinare alla coltivazione di piante di Cannabis per la produzione delle relative sostanze e preparazioni di origine vegetale e la superficie dei terreni su cui la coltivazione è consentita; c) importa, esporta e distribuisce sul territorio nazionale, ovvero autorizza l’importazione, l’esportazione, la distribuzione all’ingrosso e il mantenimento di scorte delle piante e materiale vegetale a base di Cannabis, ad eccezione delle giacenze in possesso dei fabbricanti di medicinali autorizzati; d) provvede alla determinazione delle quote di fabbricazione di sostanza attiva di origine vegetale a base di cannabis sulla base delle richieste delle Regioni e delle Province autonome […]” Art. 1 decreto 9 novembre 2015 del Ministero della salute.
[13] D. L. 16 ottobre 2017, n. 148, conv. in Legge 4 dicembre 2017, n. 172, recante disposizioni urgenti in materia finanziaria e per esigenze indifferibili, Titolo III, Fondi ed ulteriori misure per esigenze indifferibili. Produzione e trasformazione di cannabis per uso medico (art. 18 quater).
[14] A copertura del fabbisogno nazionale, in data 30 marzo 2012, l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) e l’Agenzia delle industrie difesa sottoscrivevano un accordo con il quale lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze (SCFM) veniva individuato come sito di produzione di medicinali carenti sul mercato nazionale o europeo. Il 18 settembre 2014 il Ministero della salute e il Ministero della difesa sottoscrivevano, poi, un accordo per l’avvio di un Progetto Pilota per la produzione nazionale di sostanze e preparazioni di origine vegetale a base di cannabis presso lo stabilimento fiorentino.
[15] Sulla programmazione si veda per tutti: M. Carabba, voce Programmazione, in Dig. disc. pubbl., vol. XII, Torino, 1990, 35 ss.; ID, Programmazione economica, in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano, 1113 ss.; M. Luciani, Economia nel diritto costituzionale, in Dig. disc. pubbl., vol. V, Torino, 382. Si veda inoltre A. Predieri, Pianificazione e costituzione, Milano, 1963.
[16] Art. 18 quater D. L. 16 ottobre 2017, n. 148.
[17] Art. 3 Decreto 9 novembre 2015 del Ministero della salute.
[19] L’art. 18 quater, co. 1. L’art. 18 quater rubricato produzione e trasformazione di cannabis per uso medico del D. L. 16 ottobre 2017, n. 148 recante disposizioni urgenti in materia di finanza e per esigenze indifferibili contiene una disposizione normativa analoga a quella dell’art. 6 del d.d.l. richiamato.
[20] Art. 18 quater, comma 3.
[21] T.A.R. Lazio, Roma, 3 marzo 2017, n. 3074.
[22] D. P. R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 27 (autorizzazioni alla coltivazione).
[23] “Il decreto in questione in realtà non si limita ad attribuire al solo Stabilimento farmaceutico militare la competenza alla produzione di sostanze a base di cannabis, atteso che esso si affianca ad altri soggetti che siano autorizzati ai sensi dell’art. 27 del Testo Unico di cui al D. P. R. n. 309 del 1990 a coltivare tale pianta per uso medico, i quali, se in possesso dell’autorizzazione, possono altresì procedere alla raccolta e alla detenzione, e che nello specifico, come precisato dall’art. 1 del decreto «consegnano il materiale vegetale a base di cannabis nei tempi e nei modi definiti nel provvedimento di autorizzazione alla coltivazione all’Ufficio centrale stupefacenti, che provvede alla destinazione del materiale stesso alle officine farmaceutiche autorizzate per la successiva trasformazione in sostanza attiva o preparazione vegetale, entro 4 mesi dalla raccolta”, (T.A.R. Lazio, Roma, 3 marzo 2017, n. 3074).
[24] Art. 1 decreto 9 novembre 2015 del Ministero della salute.
[25] Art. 18 quater, co. 1 D. L. 16 ottobre 2017, n. 148.
[26] Art. 18-quater d.l. 16 ottobre 2017, n. 148.
[27] Art. 18 quater, co. 1 D. L. 16 ottobre 2017, n. 148. Alle finalità di promozione della ricerca il legislatore aveva dedicato una disposizione nel d.d.l. richiamato.
[28] Sulla ricerca scientifica, senza pretesa di esaustività, per tutti: F. Merusi, Art. 9., in Comm. Cost., a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1975, 445 ss.; F. Merloni, voce Ricerca scientifica (organizzazione ministeriale), in Enc. dir [agg. 2001], specie dove osserva che “le soluzioni organizzative possono essere ricostruite nel senso del progressivo spostamento delle funzioni di programmazione e coordinamento in capo a soggetti con forte ruolo di indirizzo politico, mente le funzioni «operative» (legate allo svolgimento diretto delle attività di ricerca) sono affidate a soggetti pubblici, università e enti di ricerca dotati di autonomia nei confronti dell’indirizzo politico e caratterizzati, più o meno ampiamente, dal principio dell’autogoverno delle comunità scientifiche che vi operano”; ID, Autonomie e libertà della ricerca scientifica, Milano, 1990.
[29] L’art. 9 d.d.l. recante disposizioni concernenti la coltivazione e la somministrazione della cannabis a uso medico, prevedeva che “allo stesso fine possono essere promossi studi di tecnica farmaceutica presso le università e studi di genetica delle varietà vegetali di cannabis presso gli istituti di ricerca. Con decreto del Ministro della salute, sentito il Consiglio superiore di sanità, sono definiti ulteriori impieghi della cannabis a uso medico, sulla base delle evidenze scientifiche”.
[30]U. Pototschnig, L’Università come società, in Rivista giuridica della scuola, 1976, 819, poi in Scritti scelti, Padova, 1999; U. Pototschnig,, L’autonomia universitaria: strutture di governo e di autogoverno, in Giur. cost., 1988, II, c. 2305 ss.; F. Merloni, L’autonomia delle Università e degli enti di ricerca (articoli 6-9), in F. Merloni (a cura di), Il Ministero e l'autonomia delle Università, Bologna, 1989, 81.
[31] ”La cooperazione amministrativa – sia come cooperazione verticale tra livello sovranazionale e livello statale, sia orizzontale, tra amministrazioni nazionali – costituisce una nuova competenza dell’Unione Europea che non esclude la responsabilità degli Stati Membri, ma che si configura come politica interna”, R. Cavallo Perin, G. M. Racca, voce Cooperazione amministrativa europea, in Dig. Disc. Pubbl., 2017, 193.
[32]G. Ajani, R. Cavallo Perin, B. Gagliardi, L’Università: un’amministrazione pubblica particolare, in Federalismi.it, p. 8.
Per noi anche questo è importante
E’ stato annunciato un nuovo decreto legge in materia di “ordine e sicurezza pubblica”. Il testo, che ha iniziato a circolare ancor prima dell’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, ha un chiaro sapore elettorale. Ancor una volta non sono note le ragioni di urgenza che potrebbero legittimare la procedura, ma quel che è più grave è che con la sua introduzione si compirebbero scelte strumentali, palesemente incostituzionali e gravemente lesive di diritti fondamentali.
Già con i “pacchetti sicurezza” degli anni 2008/2009 della maggioranza Popolo della Libertà – Lega, l’Italia sembrò aver cambiato pelle: il tema della sicurezza, calato sulla paura e insofferenza della gente, era diventato la priorità del nuovo governo, favorendo, come oggi, l’estendersi di sentimenti di odio ed intolleranza. “Famiglia Cristiana”, in uno storico editoriale del 15 febbraio 2009, denunciò il clima che si diffondeva nel Paese, definendolo “soffio ringhioso di una politica miope e xenofoba”.
Ma oggi, se possibile, con quest’altro “decreto spazza-diritti”, si profila qualcosa di peggio: si insiste sulla declamata politica dei “porti chiusi” (in sé impraticabile se non in presenza di gravi e specifici rischi per la sicurezza e l’ordine pubblico dello Stato di approdo) e, in base al concetto di “soccorso illegale” (una definizione illogica e lessicalmente contraddittoria, che avrebbe senso giuridico solo in caso di provato accordo criminale tra le ONG ed i trafficanti di migranti), si arriva a prevedere assurde sanzioni pecuniarie al solo scopo di paralizzare l’azione di soccorso dei migranti che coraggiosamente continuano a svolgere le poche organizzazioni non governative ancora in grado di operare in un Mediterraneo sempre più plumbeo.
Si ignora, in tal modo, che proprio sulla base di precisi obblighi internazionali (oltre che di doveri etico-sociali), quelle navi cercano lodevolmente di soccorrere coloro che rischiano la propria vita per sfuggire a guerre e a disperanti condizioni di vita.
Ci troviamo di fronte, invece, ad un progetto di norma che sembra prevedere un divieto di salvataggio con conseguente accettazione del rischio di un maggior numero di morti per annegamento: forse l’anticamera per analoghe sanzioni a carico di chi ospita o sfama i disperati stranieri anche sulla terraferma?
Viene attribuita alle Procure distrettuali la competenza per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: una scelta irragionevole che accentua la centralizzazione del pubblico ministero e sembra scommettere su una sorta di maggiore prevedibilità di decisioni conformi allo spirito di tempi così bui.
Limitando le competenze del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti alle sole finalità di sicurezza della navigazione e di protezione dell’ambiente marino si realizza un’anomala concentrazione di poteri in capo al Ministro dell’Interno (cui viene attribuita la competenza a limitare o vietare il transito e/o la sosta nel mare territoriale qualora sussistano ragioni di ordine e sicurezza pubblica), turbando gravemente i delicati equilibri istituzionali che presidiano le competenze statuali in materia di difesa e sicurezza.
Nella stessa scia, si pone la scelta di commissariare il Ministero della Giustizia, prevedendo la istituzione di un Commissario straordinario nominato su proposta del Ministro dell’Interno per gestire l'assunzione a termine di 800 persone destinate alla notifica delle migliaia di sentenze oggi ineseguite per la nota carenza di personale amministrativo, in particolare nelle Corti di Appello. Un problema reale, ma sfruttato politicamente per alimentare paure e soffiare sul fuoco dell’insicurezza collettiva. Per di più violando le prerogative costituzionali del Ministro della Giustizia e sostituendosi ai poteri di organizzazione degli uffici giudiziari spettanti ai loro dirigenti, talvolta dimentichi che prima di invocare nuove risorse, avrebbero il dovere di dimostrare che quelle disponibili sono state utilizzate al meglio.
Non abbiamo alcun bisogno di alterare l'ordinamento giudiziario con simili pericolosissimi vulnus privi di qualsiasi giustificazione
E’ auspicabile che il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro della Giustizia, entrambi
E’ auspicabile che il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro della Giustizia, entrambi avvocati, così come tutti i componenti del Governo, sappiano respingere questa ennesima deriva populista che si presta a plurime censure di incostituzionalità, privilegiando il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, la divisione dei poteri ed il riparto di competenze nell’ambito dell’Esecutivo.
(dal quotidiano “La Repubblica” del 13.5.2019)
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