ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
1. Il giudice è garante della dignità della persona? Il bel volume di Roberto Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana? Relazione di cura, DAT e “congedo dalla vita” dopo la l. n. 219/2017, Roma, 2019, mostra come rispondere a questa domanda risulti facile e difficile al tempo stesso.
Appare facile rispondere positivamente, considerando il rapporto privilegiato che, nel nostro ordinamento, la magistratura intrattiene con i diritti fondamentali, i quali – come afferma la sent. n. 85/2013 della Corte costituzionale, la prima sul “caso Ilva” – «nel loro insieme costituiscono espressione della dignità della persona». Essi, «infatti, si tengono ed alimentano da quella, come da una fonte inesauribile dalla quale sgorghi acqua purissima; allo stesso tempo peraltro, realizzandosi, la rigenerano e confermano, dandovi pratico senso, forma sempre varia e nondimeno uguale a se stessa» [A. Ruggeri, La dignità dell’uomo e il diritto di avere diritti (profili problematici e ricostruttivi, in ConsultaOnline, III/2018, 401].
Tuttavia, l’immediata risposta positiva alla domanda necessita di ulteriori precisazioni e svolgimenti: affiora, qui, la parte difficile della risposta, poiché il rapporto tra i giudici e i diritti fondamentali – e dunque, tra i giudici e la dignità della persona – si rivela particolarmente complesso ed articolato.
Esso si inscrive nella rivoluzione prodotta dall’avvento della Costituzione rigida sulla forma di Stato e sulla forma di governo, con particolare riguardo alla ridefinizione del rapporto tra autorità e libertà, per un verso, e alla individuazione dei compiti dei poteri dello Stato e delle loro relazioni reciproche, dall’altro. In estrema sintesi, può dirsi che nello Stato costituzionale restano fermi i pilastri dello Stato di diritto: il principio di legalità, la separazione dei poteri, la contemporanea tutela di libertà ed uguaglianza (G. Silvestri Lo Stato di diritto nel XXI secolo, in Rivista Aic, 2/2011, , 2). Al tempo stesso, però, la legittimazione dell’azione dei poteri pubblici riposa non soltanto nel rispetto delle norme procedurali e di quelle competenziali, bensì si ritrova anche – se non soprattutto – nell’adempimento del ruolo che ogni potere è chiamato a svolgere con riguardo all’attuazione dei princìpi costituzionali. Come è stato osservato, «tutto il complesso meccanismo di checks and balances, che contrassegna la vita delle istituzioni dello Stato costituzionale, per non girare a vuoto, deve essere orientato alle finalità fondamentali per cui è stato predisposto» (G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione giustizia, 4/2017, 21).
Ora, è noto che i principi costituzionali – in particolare, quelli volti a riconoscere e garantire i diritti fondamentali – sono caratterizzati da una inesauribile capacità nomogenetica: una “forza generativa” che risulta ulteriormente – ed enormemente – potenziata dal continuo processo di integrazione tra la Costituzione, le norme internazionali ed il diritto dell’Unione europea. Tale processo ha condotto, come si sa, al rinsaldarsi dei meccanismi della tutela multilivello dei diritti fondamentali basata sul “dialogo” che la Consulta, la Corte dell’Unione e la Corte EDU intessono, nella prospettiva della massima espansione delle libertà (o della tutela più intensa dei diritti).
Si dischiude qui, un tema al centro di un dibattito ampio e tuttora molto acceso su cui non è possibile soffermarsi, se non per evidenziare che, da un lato, è evidente la fortuna riscossa tra gli studiosi dalla metafora del “dialogo” tra le Corti, ma dall’altro non sono poche le visioni critiche sul concreto funzionamento di questa peculiare “interlocuzione”, anche in relazione alle incertezze sul concreto funzionamento dei meccanismi del costituzionalismo multilivello, alcuni dei quali risultano tuttora in fieri. Basti pensare, solo per fare un esempio, a come la “triangolazione” tra la Corte costituzionale, la Corte di giustizia e il giudice nei casi di “doppia pregiudizialità” che coinvolgano la Costituzione e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea abbia subito un progressivo assestamento negli orientamenti della Consulta, a partire dal famoso obiter contenuto nella sent. n. 269/2017 ed a finire (per ora), alle precisazioni formulate nelle sentt. n. 20, 63 e 112/2019, nonché nella recente ord. n. 117/2019 (da ultimo, v. A. Ruggeri, Una corsia preferenziale, dopo la 269 del 2017, per i giudizi di “costituzionalità-eurounitarietà”, in COnsultaOnline, 3/2019, 474 ss.).
Ciò nonostante, un dato innegabile si ritrova nella circostanza che «la fertilizzazione costante operata dai princìpi costituzionali (oggi, a loro volta, integrati da quelli della Ue e della Cedu) su tutte le norme, primarie e secondarie, da applicare fa ruotare velocemente il circolo della produzione-attuazione del diritto, ben al di là di quanto si potesse supporre sino alla metà del XX secolo» (G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura, cit., 23). Ed è in questa prospettiva che possono inserirsi le ampie riflessioni di Roberto Conti sui “tre cappelli” che il giudice è chiamato ad indossare, in quanto tenuto – alla luce dell’art. 117, c. 1, Cost. – ad attingere alle norme costituzionali, a quelle internazionali e a quelle eurounitarie dinanzi a ogni domanda di giustizia che gli venga rivolta in relazione alla asserita lesione di un diritto fondamentale. L’A., peraltro, segnala come «i risultati che l’agire giudiziario produrrà in tali circostanze – recte, soprattutto nelle vicende in cui si discorre di temi eticamente sensibili – difficilmente si prestano ad operazioni di generalizzazione, proprio perché la soluzione concreta del caso assume connotati non sempre passibili di operazioni di astrazione. Ciò che in definitiva distingue in modo netto e preciso l’attività del giudice da quella del legislatore» (pag. 87).
2. Se soffermiamo l’attenzione sull’art. 117, c. 1, Cost., possiamo notare come esso tratteggi l’impalcatura essenziale del “sistema multilivello”, confermando che nello Stato costituzionale l’attività legislativa non è più “libera nel fine”, dovendo esprimersi non soltanto nel rispetto della Costituzione, ma anche degli obblighi internazionali e dei vincoli dell’ordinamento comunitario. La vis prescrittiva delle norme collocate ai diversi “livelli” indicati dalla norma si esprime, dunque, in primo luogo nei riguardi del legislatore: sennonché, è noto che quest’ultimo non brilla per la prontezza negli interventi a tutela dei diritti fondamentali, soprattutto quando entrino in gioco le problematiche “eticamente sensibili” afferenti al biodiritto. Regolare tali questioni si rivela inevitabilmente – come suole dirsi – un’operazione “divisiva”, nel senso che qualunque disciplina su di esse finisce per farsi portatrice di un’elevata capacità di scissione: da qui l’impressione che in molti casi il legislatore, per non rischiare una cospicua perdita di consenso, preferisca rifugiarsi nella “decisione di non decidere”. Una tale via di fuga resta, invece, notoriamente preclusa ai giudici, “costretti” a decidere – dinanzi a domande di giustizia che siano poste ritualmente dalle parti nel processo – anche quando essi si trovino a fare i conti con il “silenzio” del legislatore (G. Silvestri, Scienza e coscienza. Due premesse per l’indipendenza del giudice, in Dir. pubbl., 2/2004, 411 ss.). Proprio questa “coazione a decidere” si pone, a mio avviso, alla base della trasformazione della giustizia in «una sorta di muro del pianto al cui cospetto reclamiamo la garanzia di aspettative che avevamo riposto nello Stato sociale di diritto» (A. Garapon, Del giudicare (2001), tr.it. a cura di D. Bifulco, Milano, 2007, 276).
Il silenzio del legislatore, tuttavia, non è sempre in grado di tacitare i diritti fondamentali: emblematica appare la vicenda del diritto al rifiuto delle cure, collocabile tra i “diritti senza legge” sino all’avvento della l. n. 219/2017 (A. Morelli, I diritti senza legge, in ConsultaOnline, 1/2015, 10 ss.; G. Sorrenti, Il giudice soggetto soltanto alla legge… in assenza di legge. Lacune e meccanismi integrativi, in Costituzionalismo.it, 2/2018, 59 ss). La legge – suggerisce Roberto Conti sin dall’intitolazione del secondo capitolo del suo libro – può definirsi “figlia” della sentenza della Corte di Cassazione sul “caso Englaro” (Corte. cass., sezione prima civile, 16 ottobre 2007, n. 21748): un rapporto di derivazione genetica evidenziato, di recente, anche dalla Corte costituzionale nell’ord. n. 207/2018, la prima sul doloroso e controverso “caso Cappato”. Essa, peraltro, affianca alla pronuncia del Giudice di legittimità anche la decisione sul caso Welby (Tribunale ordinario di Roma, 17 ottobre 2007, n. 2049), nonché le indicazioni elaborate dalla stessa Corte costituzionale riguardo al principio del consenso informato, qualificabile come « “vero e proprio diritto della persona”, che “trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione”, i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”» (sent. n. 438/2008), svolgendo, in pratica, una “funzione di sintesi” tra il diritto all’autodeterminazione e quello alla salute (sent. n. 253/2009)» (Corte cost., ord. n. 207/2018, par. 8 cons. in dir.).
A mio avviso, a questo elenco si possono aggiungere anche le decisioni dei giudici amministrativi che hanno condannato la Regione Lombardia al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale procurato a Beppino Englaro dal rifiuto dell’ente di individuare, nel proprio territorio, una struttura sanitaria disponibile a dare esecuzione alla sentenza della Corte di cassazione (Tar Lombardia, sede di Milano, Sez. III, n. 650/2016; Cons. Stato, sez. III, sent. n. 3058/2017). Tali pronunce, pur guardando al “caso Englaro” da una prospettiva diversa da quella della Corte di cassazione, si muovono lungo le coordinate di fondo tracciate da quest’ultima, ribadendo il fondamento costituzionale del diritto al rifiuto delle cure e la sua immediata azionabilità in giudizio, nonostante l’assenza, all’epoca, di regole legislative che ne disciplinassero il concreto esercizio.
Nella trama argomentativa che sorregge le motivazioni di tutte queste decisioni, accanto all’evocazione degli artt. 2, 3 e 13 Cost., spicca – ovviamente – l’art. 32 della Carta: l’ultimo comma di tale disposizione assume un rilievo peculiare, poiché esso attribuisce immediatamente ad ogni persona il diritto di negare il proprio consenso a qualunque terapia che non sia qualificata come obbligatoria da una espressa previsione legislativa. Nel silenzio del legislatore, pertanto, si espande il diritto di ognuno di scegliere, liberamente e consapevolmente, se sottoporsi o se sottrarsi alle cure, esercitando la libertà di autodeterminazione terapeutica, che riguarda anche i trattamenti “salvavita”, come è stato definitivamente chiarito dalla l. n. 219. Appare, insomma, difficile sostenere che tale diritto non esistesse prima dell’avvento di tale legge, sembrando invece corretto «dire che i princìpi di libertà ed uguaglianza nella cura della propria salute si sono tradotti, prima per opera della giurisprudenza, poi per intervento del legislatore, in diritti fondamentali, che si pongono in funzione attuativa di quei princìpi» (G. Silvestri, L’individuazione dei diritti della persona, in www.penalecontemporaneo.it, 2018, 6).
Se poi si considera che nell’art. 32 Cost. la salute è intesa come «completo benessere psico-fisico, parametrato e calibrato anche, e soprattutto, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, delle proprie concezioni di identità e dignità» (Cons. Stato, Comm. spec., parere n. 1991/2018), si comprende come il divieto che l’ultimo comma della disposizione rivolge al legislatore, imponendogli di non oltrepassare in alcun caso i limiti imposti dal rispetto per la persona, miri a preservare la dignità umana. Tale divieto fa sì che la discrezionalità del Parlamento risulti fortemente limitata nella individuazione dei trattamenti sanitari obbligatori, giustificabili alla luce della qualificazione della salute nello stesso art. 32 Cost. (anche) quale interesse della collettività: questi ultimi sono ammissibili soltanto quando essi siano volti ad impedire che le scelte del singolo in materia di salute possano arrecare danno agli altri, sempre che l'intervento previsto non danneggi la salute di chi vi è sottoposto, ma sia per essa benefico (ex multis, v. Corte cost., sentt. n. 258/1994 e n. 118/1996).
Nella logica della norma, il richiamo al rispetto della persona umana funziona perciò da controlimite rispetto al limite che il legislatore può porre al diritto di ognuno di decidere, in qualunque momento dell’esistenza, di sottrarsi a terapie considerate incompatibili con la propria visione della malattia, della vita e della morte. Proprio perché la norma si riferisce al singolo «in qualsiasi momento della sua vita e nell'integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive» (Cons. Stato, sez. III, sent. n. 3058/2017), essa evoca immediatamente la componente soggettiva della dignità umana. Per incidens, tenendo conto che l’art. 32 Cost. ha assunto il ruolo di parametro nella già ricordata ord. n. 207/2018 sul “caso Cappato”, non può stupire il risalto che a tale dimensione della dignità è stato tributato in questa peculiare decisione di “incostituzionalità prospettata”, per riprendere il nomen ad essa attribuito, come si sa, dal Presidente della Consulta.
Al momento in cui si scrive, non sono ancora state depositate le motivazioni della sentenza con cui la Corte, stando al comunicato stampa diffuso il 25 settembre 2019, ha ritenuto «non punibile ai sensi dell’art. 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Probabilmente, nella stesura della trama argomentativa della decisione, la Corte tornerà sulla relazione tra il diritto al rifiuto delle cure e la tutela della dignità della persona, ma naturalmente sul punto non è possibile azzardare alcuna ipotesi. Restando, dunque, alla trama argomentativa su cui si regge l’ord. n. 207/2018, non sembra possa parlarsi di un favor espresso dalla Corte costituzionale per la preminenza, in generale, della componente soggettiva della dignità su quella oggettiva.
Qui si tocca un argomento, come si sa, al centro di un amplissimo dibattito interdisciplinare: in questa sede, è possibile svolgere soltanto qualche limitata riflessione, sulla scia delle considerazioni formulate da Roberto Conti sull’ord. n. 207/2018 (pag. 125 ss.), ed alla luce di alcune affermazioni contenute nella recente sent. n. 141/2019 della Corte costituzionale.
Si tratta della decisione che ha rigettato le censure proposte dalla Corte di appello di Bari sulla “legge Merlin”, con riferimento alla prostituzione “volontaria” esercitata dalle escort. In tale occasione, per quel che qui rileva, la Consulta ha avuto modo di soffermarsi sull’interpretazione dell’art. 41, c. 2, Cost., secondo cui, come si sa, nessuna modalità di produzione della ricchezza derivante dall’iniziativa privata può considerarsi legittima, qualora si esprima «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». La Corte ha evidenziato come tale formula alluda alla dimensione oggettiva della dignità: «non si tratta, di certo, della “dignità soggettiva”, quale la concepisce il singolo imprenditore o il singolo lavoratore» (par. 6.1, cons. in dir.). L’impressione immediata è che tale ragionamento contraddica quello svolto nel “caso Cappato”: in realtà, sembra più corretto ritenere che le due decisioni mostrino come nella nozione giuridico-costituzionale della dignità la componente oggettiva e quella soggettiva convivano, assumendo ciascuna peculiare rilievo, alla luce dei diversi parametri costituzionali rilevanti, rispettivamente, nell’una e nell’altra questione.
Come si è visto, nell’art. 32 Cost. il riferimento al rispetto della persona umana mira a circoscrivere la discrezionalità del legislatore, a garanzia della massima espansione della libertà di scelta delle terapie compatibile con il riconoscimento della salute (anche) quale interesse della collettività. L’art. 41, c. 2, Cost., invece, individua nel rispetto della dignità (oltre che della libertà e della sicurezza) un limite all’espansione dell’autonomia dei singoli nell’esercizio della libertà di iniziativa economica, lasciando un ampio margine di apprezzamento al legislatore nell’individuazione delle ipotesi in cui essa si esplichi in urto con la prescrizione costituzionale. Nel primo caso, la protezione della dignità dei singoli è assicurata dalla espressa imposizione di un divieto rivolto al legislatore, che ne circoscrive il raggio d’azione; nel secondo, essa dipende dall’intervento di quest’ultimo, cui è riconosciuto un ampio margine di discrezionalità nella regolamentazione del concreto esercizio della libertà di iniziativa economica privata, al fine di evitare che essa, nelle varie modalità in cui si estrinseca, collida con la norma costituzionale, traducendosi in un’«attività che degrada e svilisce l’individuo» (sent. n. 141/2019, par. 6, cons. in dir.). Si noti, tuttavia, come in entrambi i casi l’evocazione della dignità implichi la necessità della fissazione di limiti al potere – al potere pubblico, nell’art. 32 Cost., al potere privato, nell’art. 41, c. 2, Cost. – a garanzia di quanti possano ritrovarsi in una posizione di vulnerabilità dinanzi all’uno o all’altro. Dunque, anche quando, nella sentenza sulla prostituzione, la Corte discorre apertamente della esistenza di una dimensione oggettiva della dignità, essa non lo fa al fine di offrire una giustificazione «ad interventi conformativi sul modo di vita dei cittadini, secondo l’ideologia dello Stato etico» (G. Silvestri, L’individuazione, cit., 11), bensì allo scopo di preservare la pari dignità sociale di tutti i cittadini (art. 3 Cost.)
3. La ricchezza delle suggestioni offerte dal libro di Roberto Conti spingerebbe a formulare molte altre riflessioni. Ma avviandomi alla conclusione di queste mie brevi notazioni, vorrei in particolare evidenziare come il volume segnali l’importanza dell’intervento del legislatore, laddove esso sia davvero rispettoso della Costituzione, degli obblighi internazionali e dei vincoli derivanti dal diritto eurounitario, si soffermi sul ragionevole bilanciamento dei diritti fondamentali oggetto della disciplina con gli altri diritti di pari rango con cui i primi entrino in conflitto nelle diverse circostanze, e si collochi, al tempo stesso, in una prospettiva che guardi «fiduciosa alla fecondità del confronto con i giudici» (pag. 41).
Come si è visto, la l. n. 219/2017 non ha riempito uno spazio totalmente “vuoto”: ciò nonostante, essa non si presenta come un intervento pleonastico, tutt’altro. A ragione è stata definita una «buona legge buona» (S. Canestrari, Una “buona legge buona”: la l. n. 219 del 201 e la relazione medico-paziente, in Dir. salute, 2/2018, 51 ss.), pur presentando – come tutte le umane cose – ombre e luci. Tra queste ultime, assume particolare rilievo la ridefinizione del ruolo del giudice tutelare, non più visto – rileva Roberto Conti – come figura «occasionalmente indirizzata a svolgere un ruolo di sussidio, soprattutto nei confronti di persone bisognose di protezione in ragione della minore età e della incapacità di provvedere ai propri interessi», ma come «punto di riferimento costante e continuo di tutte le persone che adottano scelte in campo medico» (pag. 144). Tale «autentica rivoluzione copernicana» (ibidem) si collega a un’altra innovazione introdotta dalla legge: la valorizzazione delle molteplici relazioni in cui ogni paziente si trova (o può trovarsi) immerso, al di là del rapporto con il personale medico ed infermieristico: nella disciplina trovano spazio la relazione con i familiari, come anche quella con il rappresentante legale, con il fiduciario, con l’amministratore di sostegno. Con tali figure, il giudice – suggerisce Roberto Conti – non può che instaurare un “dialogo”, «volto a favorire l’emersione di tutte le posizioni in gioco e, al contempo, ad attingere a tutte quelle fonti, giuridiche e non, necessarie per realizzare al meglio gli interessi che è chiamato a maneggiare» (pag. 140).
Secondo l’A., nella l. n. 219/2017 il giudice si pone quale «elemento attuatore del valore personalistico che invera la Costituzione e le Carte dei diritti fondamentali di matrice sovranazionale» (pag. 139), in quanto chiamato non già a condannare e ad assolvere, bensì a risolvere i conflitti, in particolare quelli che insorgano nelle situazioni connesse al “fine vita”: la maggior parte dei quali non assurgono alla risonanza mediatica del “caso Englaro” o del “caso Cappato”, senza per questo risultare meno laceranti. Ed è «soltanto creando una rete stabile di relazioni fra tutti i soggetti coinvolti, alimentata da periodici momenti di confronto, che l’astratta protezione offerta ai soggetti bisognosi di cure potrà diventare reale ed effettiva» (pag. 140). Questo appare il modus operandi maggiormente idoneo a rendere meno gravosa la “solitudine” del giudice – pur restando a questo rimessa, naturalmente, l’ultima parola – e al tempo stesso a consentire che esso sia, nei singoli casi, realmente garante della dignità della persona: «una dignità che, in definitiva, deve riuscire ad emergere per come essa appare in relazione alla vicenda umana» che, di volta in volta, si pone al suo cospetto (pag. 61).
Intervento svolto al convegno svoltosi presso l’Aula Giallombardo della Corte di Cassazione il 10 settembre 2019 sul tema “Il giudice è garante della dignità umana?”
Dal Tribunale di Catanzaro (ne ha scritto qui Riccardo Ionta) a quello di Bolzano, anch’esso di un’altra Italia.
Di altre Italie, verrebbe da dire, ce ne sono parecchie, e come ogni luogo è diverso dall’altro, il singolo Tribunale non è che uno specchio delle particolarità culturali locali, delle persone che lo frequentano e dell’ambiente che lo circonda.
Sommario: 1. Bolzano e dintorni - 2. Il Tribunale in particolare - 3. La domanda di Giustizia - 4. E i Magistrati?
1.Bolzano e dintorni.
E così anche Bolzano è caratterizzata dalla sua popolazione, dall’incontro culturale e dalle frizioni e stimoli che ne derivano.
Se da un lato Bolzano è urbana e trafficata alla pari di una qualsiasi città, la sua particolare posizione geografica la rende comunque peculiare: situata in una conca, gode di un clima mite nelle stagioni intermedie. La conca, tuttavia, d’estate impedisce un’adeguata ventilazione e il calore afoso si fa torrido anche di notte. D’inverno, invece, colpisce l’inversione termica: al calar del sole i pendii e i vigneti che circondano Bolzano tendono a raffreddarsi più velocemente del fondovalle più caldo e l'aria fredda, più densa e più pesante per unità di volume della calda, scende a valle scalzando quest’ultima, che a sua volta sale di quota, generando così l'inversione nel fondovalle. In altri termini, le mattine invernali spesso sono tutt’altro che miti.
Catinaccio e Latemar, rocce dolomitiche, fungono da ulteriore cornice, dando alla città un’aria alpina.
E il contesto geografico caratterizza anche il contesto culturale. Passeggiando per il centro storico, tipicamente mitteleuropeo, si possono assaporare i suoni delle varie lingue locali, il tedesco nella sua versione locale, il ladino che è l’idioma più antico dell’Alto Adige, e l’italiano, che è la lingua più diffusa in città.
Già prima del passaggio delle “nuove Province” all’Italia a seguito della prima guerra mondiale, a Bolzano una piccola parte della popolazione era di lingua italiana. La città durante il fascismo fu il punto di partenza per la politica fascista di italianizzazione dei territori annessi alla fine della Prima guerra mondiale. Per questo motivo l’architettura cittadina reca ancora ben visibili le tracce del suo passato più recente.
Questo il contesto geografico e urbano; adesso l’edificio.
La premessa storica è necessaria per spiegare e descrivere l’edificio che ospita il Tribunale. Le dimensioni monumentali del palazzo del Tribunale ne fanno un’espressione imponente della funzione di controllo dello Stato nei confronti del cittadino. Quest’ultimo, per potere entrare nell’edificio, che sembra situato su una piattaforma rialzata, fino a non molto tempo fa avrebbe dovrebbe salire una gradinata , simbolo della superiorità dello Stato rispetto all’individuo.
Le imponenti facciate sono rivestite in travertino romano e sul rilievo del frontone troneggia “IVSTITIA”, la dea della giustizia con la bilancia come simbolo.
Normalmente “IVSTITIA” è una dea bendata: è imparziale e non fa differenze sulla base delle semplici sembianze. A Bolzano “IVSTITIA” non è bendata: lo sguardo della dea è rivolto al bassorilievo dell’edificio eretto nella medesima epoca che si trova di fronte, raffigurante il “Duce” a cavallo, affiancato dal motto “credere, obbedire, combattere” e dagli acronimi delle organizzazioni fasciste. Dinanzi al “Duce”, quindi, “IVSTITIA” faceva a meno del simbolo dell’imparzialità.
2.Il Tribunale in particolare.
A prima vista il Tribunale di Bolzano potrebbe sembrare un Tribunale di medie dimensioni come ce ne sono tanti.
La carenza di organico togato è al momento pari al 33%, ancora più grave la scopertura riguardante la magistratura non togata e il personale amministrativo. Una Sezione penale e due Sezioni civili, oltre ad una Sezione specializzata per le imprese, si contendono 39 Giudici che, alla pari dei colleghi degli altri Tribunali italiani, lottano con una cronica carenza di risorse.
E fin qui nulla di particolare o di originale.
Il Tribunale di Bolzano, sotto altri aspetti, è però molto differente dalle altre corti italiane. Essendo il tedesco in Alto Adige una lingua ufficiale, parificata a quella italiana, i processi si possono celebrare in lingua tedesca, in lingua italiana o possono essere bilingui. Parimenti i testimoni possono liberamente scegliere di essere escussi in italiano o in tedesco, a prescindere dalla lingua del processo. Nel processo penale la lingua processuale è determinata dall’imputato, nel processo civile dalle parti, che possono scegliere anche lingue diverse e determinare di tal modo un processo bilingue.
Per questo motivo i Magistrati che esercitano la loro funzione nel circondario del Tribunale devono avere conoscenza della lingua tedesca.
Il ché ha effetto sul reclutamento dei magistrati. Al concorso per l’accesso alla Magistratura locale viene ammesso solo chi è in grado di certificare un’adeguata conoscenza del tedesco. La residenza non è un criterio per accedere al concorso, per cui allo stesso partecipano giovani da tutta Italia. Solo i magistrati che superano tale concorso possono esercitare le funzioni sul territorio del circondario e, per un periodo pari a dieci anni non possono partecipare a bandi per coprire funzioni giudiziarie in altre sedi nazionali.
La conseguenza è che non vi sono Magistrati “in entrata” da altre sedi giudiziarie, ma solo “in uscita”, circostanza che spiega la costante carenza di organico.
Questa caratteristica ne fa già un unicum in tutto il Paese.
Il regime linguistico certo costituisce al contempo un peso e uno stimolo per il singolo magistrato. Bilinguismo giudiziario significa tradurre simultaneamente in udienza i capitoli di prova o tradurre immediatamente un proprio provvedimento, interloquire con le parti e gestire comunque processi, inclusa la redazione di verbali, provvedimenti e sentenze, in una lingua anche diversa dalla madrelingua.
Per questo motivo il magistrato a Bolzano ha diritto alla cosiddetta “indennità di bilinguismo” pari a poco meno di € 200 netti mensili.
3.La domanda di Giustizia.
Il bisogno di giustizia viene alimentato soprattutto dal fronte economico.
Il costante afflusso di turisti durante tutto l’anno comporta una notevole attività economica ed imprenditoriale sul territorio. L’assenza di disoccupazione e il benessere comportano, rispetto ad altre realtà italiane, un basso tasso di criminalità.
La domanda di giustizia, quindi, si sposta sul fronte del diritto civile e commerciale. Essendo territorio di frontiera, le cause spesso hanno un’impronta internazionale. Molti affari, matrimoni, successioni, fallimenti o incidenti contengono un elemento transfrontaliero che tende a complicare le cause.
D’altro canto, il limitato numero di avvocati, nettamente sotto la media nazionale - altra peculiarità del territorio - e l’approccio spesso pragmatico del ceto forense locale, fanno sì che il Tribunale riesca comunque a dare una risposta adeguata alla domanda di giustizia.
Pesa sui Magistrati l’aspettativa della popolazione che esige un “servizio giustizia” in tempi ridotti: La popolazione locale tuttavia non percepisce i tempi di giustizia del Tribunale di Bolzano come congrui, nonostante siano sotto la media nazionale. Per contro al livello nazionale la consapevolezza che a Bolzano i processi durano poco comporta bizzarre forme di forum shopping, e quindi la celebrazione di processi che non hanno alcun legame con il territorio e vanamente il magistrato aspetta l’eccezione di difetto di competenza per territorio.
Spesso chi arriva da un’altra parte dell’Italia ha aspettative però troppo elevate, non in linea con le risorse su cui il Tribunale può contare.
A tal proposito sia concesso un aneddoto. Rimasi a bocca aperta quando un avvocato non del Foro di Bolzano all’esito dell’istruttoria brontolò lamentandosi dell’eccessiva durata del processo: una causa di responsabilità per un difetto di un impianto industriale, con doppia chiamata in causa, un fiume di testimoni e una spinosa ctu veniva rinviata per la precisazione delle conclusioni a nemmeno tre anni dall’iscrizione a ruolo. Se questi erano i tempi di Bolzano, mormorò amareggiato, avrebbe potuto rimanere a casa sua.
L’attività giudiziaria a Bolzano, al di là dell’attività comune a tutti i Tribunali, è poi caratterizzata da alcuni istituti non conosciuti altrove, come per esempio quello del “maso chiuso” o del sistema tavolare che governa la pubblicità immobiliare.
L’attività giudiziaria è, infine, un fedele specchio della realtà locale: numerosi casi di “responsabilità sciistica”, che assieme agli incidenti avvenuti con lo slittino, l’arrampichino, le cadute su ghiaccio, i decessi per valanghe e relative responsabilità, formano oggetto di giudizi penali e civili.
4.E i Magistrati?
L’impronta fortemente turistica del territorio ha un riflesso diretto sul magistrato. Il costo della vita in Alto Adige è altissimo, i prezzi immobiliari di Bolzano competono con le zone più pregiate di Milano e Roma; dal caffè all’artigiano, qualsiasi servizio ha un costo notevolmente sopra la media nazionale.
Detto questo, va pure considerato che le strutture turistiche vanno anche a beneficio del singolo Magistrato. Combattere il freddo invernale in una delle tante saune, farsi un’ora di sci prima di lavorare o comunque godersi il verde e le montagne che circondano Bolzano non ha prezzo.
Le Dolomiti attirano, poi, anche i colleghi esteri e così l’EJTN ogni anno sforna vari magistrati europei che oltre a visitare il nostro Tribunale ci chiedono dove mangiare lo “strudel alle mele” migliore, quale funivia prendere e come godersi al meglio il periodo di permanenza.
E mentre scrivo queste righe mi perviene la comunicazione che sono in arrivo cinque colleghi di Barcellona.
Prime impressioni relative alla sentenza 41/2019 della Supreme Court sulla (il)legittimità della sospensione dei lavori del Parlamento inglese.
Mario Serio
Sommario: 1.Premessa. 2. I fatti che hanno dato origine al giudizio. 3.Portata e nozione della “PROROGATION” parlamentare inglese. 4.Gli aspetti problematici del caso e l'apparato argomentativo della sentenza. 5.Il tesoro nascosto della sentenza e le prime reazioni del mondo politico inglese.
1.Premessa.
La sentenza dello scorso 24 settembre della Supreme Court del Regno Unito (UKSC 41/2019) circa la legittimità della sospensione per circa 5 settimane ( tra la prima decade di settembre e la metà d'ottobre 2019,ossia un paio di settimane prima della annunciata fuoriuscita dall'Unione Europea di una così vasta entità territoriale) l'attività Parlamentare, disposta con un ordine del Privy Council, convocato dalla Regina, a propria volta destinataria di apposita, caldeggiata richiesta da parte del Primo Ministro,si inscrive in un esteso panorama di pronunce di Corti Supreme ( nella locuzione includendo, quanto alle proprie prerogative determinanti in materia di legittimità di leggi ed atti ad esse equiparati ,la Corte Costituzionale italiana),dirette allo scrutinio ed alla tutela della funzione dei Parlamenti, come osservato da Sabino Cassese su” Il Corriere della Sera “del 29 settembre. La questione affrontata dalla Corte inglese, riunitasi in via straordinaria e d'urgenza durante il periodo di pausa estiva, ha logicamente implicato, ai fini della decisione, un numero rilevante di punti di principio direttamente refluenti sulla individuazione dell'assetto costituzionale del common law britannico come prodotto dall'insieme di principi consuetudinari, convenzionali, normativi che contribuiscono, secondo la chiara opinione della Corte, a fornire a quell'ordinamento una base corrispondente funzionalmente e sostanzialmente a quella vigente negli ordinamenti dotati di una legge suprema scritta.
Nelle brevi pagine che seguono si cercherà di addensare sinteticamente la fitta sequenza argomentativa che sorregge la pronuncia, ponendola al riparo, nelle dichiarate intenzioni degli undici Giudici espressisi all'unanimità, da dubbi di indebite interferenze rispetto a scelte di pretta natura politica.
2. I fatti che hanno dato origine al giudizio.
Nello schema decisorio, il cui preambolo è dato da una, magari didascalica, illustrazione degli istituti rilevanti nella fattispecie, peso significativo viene attribuito per la sua capacità esplicativa dei vari aspetti della vicenda alla scansione cronologica dei fatti sul cui sfondo si è celebrato il giudizio di cui si discute.
Come accennato, lo sfondo esplicitamente evocato dai protagonisti del caso (seppur ridimensionato dalla Supreme Court a semplice antecedente, senza ascendere al ruolo di fattore essenziale in prospettiva decisoria o di possibile oggetto della cognizione delibativa) è quello della identificazione del percorso interistituzionale interno (governativo e parlamentare) destinato a sfociare il 31 ottobre 2019 nell'abbandono-con condizioni ancora incerte, riassunte nel noto dilemma “deal-no deal”- da parte britannica della propria collocazione in ambito comunitario.
Una serie di passaggi, tutti riconducibili all'iniziativa governativa (ed in particolare a quella del Primo Ministro), è utilmente ravvisabile in termini di definizione del contesto genetico (e, come si vedrà oltre, anche finalistico) dell'intero procedimento giurisdizionale, visto anche nelle sue fasi intermedie.
In via sommaria può così descriversi il quadro fattuale-istituzionale.
A seguito di una conversazione telefonica appena intercorsa con il Primo Ministro che proponeva la menzionata sospensione dell'attività delle due Camere, la Regina convocava il 28 agosto presso il castello scozzese di Balmoral il Privy Council nella sua composizione competente in ragione della materia perché emanasse un ordine rivolto a tale risultato. Ciò puntualmente è avvenuto, con conseguente mandato al Cancelliere per gli adempimenti di spettanza e la formale comunicazione davanti la House of Lords, estensibile, quanto ad identità di effetti, alla House of Commons. La posizione del Primo Ministro era suffragata, secondo quanto sostenuto in sede giudiziale, da pareri conformi dei dipartimenti governativi interpellati ed avallata dal Consiglio dei Ministri facenti parte del Gabinetto convocato in video conferenza.
Dal canto loro i due rami del Parlamento, con successivi voti, avevano deliberato agli inizi di settembre di approvare una legge (promulgata il 9 settembre), lo European Union (Withdrawal) (No.2) Act 2019, che, modificando quello di pochi mesi anteriore, subordinava la fuoriuscita dall'Unione Europea al raggiungimento di un accordo (chiudendo le porte al “ no deal”), in vista del quale il termine del 31 ottobre era prorogato di 3 mesi.
Contro la sospensione (“prorogation”) parlamentare venivano proposti 2 distinti ricorsi, rispettivamente da un consistente gruppo di deputati e da una cittadina, che già alla fine del 2016 aveva con successo adito la Supreme Court in reazione alla decisione del Primo Ministro del tempo di avvalersi dei propri poteri senza voto parlamentare allo scopo di determinare l'abbandono europeo ai sensi dell'articolo 50 del Trattato (Re Miller,UKSC 5/2017), davanti la Inner House of the Court of Session scozzese e la High Court inglese, che emettevano opposte sentenze lo stesso 11 settembre 2019, nel primo caso accogliendo la domanda e dichiarando la sospensione stessa illegittima e nulla e, nel secondo, rigettandola sotto il profilo della mancanza di giurisdizione in ordine alla questione dedotta in giudizio.
Entrambe le sentenze sono state impugnate davanti la Supreme Court che, riuniti gli appelli, li ha decisi il 24 settembre scorso, confermando quella scozzese e riformando quella inglese,con conseguente privazione di effetti dell'ordine di sospensione dei lavori parlamentari.
3.Portata e nozione della “PROROGATION” parlamentare inglese.
Presupposto sia dell'esposizione dell'itinerario seguito dalla Supreme Court sia della dovuta illustrazione dei principi e delle regole applicabili al caso è la delineazione dell'istituto della “prorogation”, dei suoi effetti, della distinzione da figure affini, della sua possibile riconduzione in chiave storica a fondamentali testi normativi cui riconoscere valore di pietre miliari del costituzionalismo all'interno del common law inglese.
La sospensione dell'attività parlamentare per periodi ragionevolmente circoscritti di tempo ( pochissime settimane) né è nuova nell'esperienza politico-istituzionale inglese né è sprovvista di adeguato fondamento rinvenibile nello stesso common law: il punto è incontroverso in ogni stadio del complesso percorso giurisdizionale che ci occupa.
L'effetto generato dall'emanazione, nelle forme e secondo le tappe prima descritti, dell'ordine di sospensione è di natura radicale per ciò che attiene all'esercizio di ogni forma di attività del potere legislativo: essa viene a cessare in ogni sua possibile esplicazione egualmente riferibile a ciascuna delle 2 Camere cui è inibito “ab externo” di riunirsi, sia in sede plenaria che di Commissioni referenti,,di dibattere, di approvare provvedimenti. Venuto ad esistenza l'ordine in questione, il cui propulsore, per il tramite della persona del Monarca in quanto titolare del potere di convocazione dell'organo, il Privy Council, titolato ad innescare la successiva attività esecutiva e perfezionativa della fattispecie riservata al Cancelliere, è ad ogni effetto l'Esecutivo (nella persona del Primo Ministro quanto alla persuasione esercitata nei confronti del Monarca stesso,costituzionalmente irresponsabile, perchè, tramite il Privy Council, si dia luogo all'emanazione dell'ordine che, in ragione della propria scaturigine,acquista la denominazione di “royal order”) che agisce nell'area dei “prerogative orders” , sfuggendo ad ogni controllo parlamentare e ad ogni possibilità di interdizione della relativa efficacia ad opera o su istanza delle Camere.
Questi caratteri distintivi valgono a rendere agevolmente discernibile la “prorogation” ( termine antitetico, e quindi verosimile fonte di inganni nelle traduzioni, rispetto alla lingua italiana, nettamente votata a conferire al termine l'opposto significato di fenomeno di ultrattività di un potere nato con più ristretti orizzonti temporali) da altre tradizionali figure afferenti alle modalità di svolgimento della vita parlamentare inglese ,quali la “dissolution” ( che designa lo scioglimento delle Camere con conseguente necessità di indizione di elezioni generali) ed il “recess” ( termine che indica l'ordinaria sospensione dell'attività parlamentare in periodi determinati-estivi,festivi- o per eventi determinati-svolgimento di congressi di partito-).In questa indiscutibile diversità di condizioni legittimanti l'inveramento degli istituti da ultimo menzionati, e nella sostanziale riferibilità di essi a circostanze previamente identificate in via legislativa o consuetudinaria o addirittura imputabili ad opzioni delle stesse Camere, risiede la visibile, maggior gravità delle conseguenze della “prorogation”,del tutto estranea alla sfera volitiva e di controllo delle Camere stesse.Si vedrà più avanti quale parte questa considerazione abbia giocato nell'economia della pronuncia della Supreme Court.
4.Gli aspetti problematici del caso e l'apparato argomentativo della sentenza.
La più intima origine della peculiare, irripetibile importanza del caso va immediatamente rintracciata-come senza riserve messo in chiaro dalla sentenza- nella delicatezza della risposta che dal relativo giudizio non poteva non sgorgare circa la pertinenza al “domain” giudiziale nella sua complessa articolazione decisoria ( la cosiddetta “justiciability” di common law) del tema discusso e controverso, ossia il sindacato di legittimità in ordine ad un gruppo scalare di atti e condotte: la richiesta, sotto forma di parere consultivo propellente dell'altrui attività propositiva, deliberativa ed attuativa ( plesso Monarca, Privy Council,Cancelliere),del Primo Ministro al Capo dello Stato;la decisione del Privy Council; l'emanazione dell'ordine di sospensione, il cui previsto e voluto effetto finale è stato quello dell'arresto dell'intera attività parlamentare per un lasso di circa cinque settimane. È di assoluta evidenza la capacità condizionante della risposta a tale quesito rispetto ad altri interrogativi logicamente implicati in caso positivo e rapportabili alle conseguenze ed alle eventuali misure rimediali in caso di accertata illegittimità della serie di atti appena enunciati.
La questione della “justiciability” ( ragioni di brevità espositiva consigliano di attrarre in questa parola il largo nucleo problematico in discorso) era stata affrontata e in modo opposta risolta dai 2 organi giurisdizionali, scozzese ed inglese, contro le cui decisioni le parti soccombenti hanno proposto impugnazione davanti la Supreme Court. È intuitivo aggiungere che le ragioni del diniego della conoscibilità della questione da parte di una Corte di Giustizia affonda la propria forza nel suo dedotto carattere politico e nel suo connesso impingimento nel perimetro delle prerogative ( costituzionalmente riconosciute ) del potere esecutivo.
Si vedrà immediatamente che la replica della Supreme Court -il cui esplicito preambolo è che in nessun modo la pronuncia può essere sfruttata onde stabilire i tempi e le condizioni di fuoriuscita dal circuito dell'Unione Europea del Regno Unito-è stata diffusa e categorica in punto di declamazione della propria giurisdizione in materia e, quindi, della tutelabilità in sé dell'interesse alla caducazione di atti governativi direttamente incidenti sull'esplicazione del potere legislativo in senso lato. A tale replica, resa necessaria dall'insistita eccezione sollevata dalla difesa del Governo nel corso della discussione orale (integralmente trasmessa in streaming dal sito-www.supremecourt.uk- della stessa Corte ,aperta alla pubblica conoscenza ed alla possibile critica della propria trasparente funzione) ,la sentenza premette talune convergenti osservazioni di politica giudiziale (ancora una volta per brevità, e forse con eccesso di sintesi, definibili come di “policy”), riassumibili nei termini che seguono: a) le implicazioni politiche collegate ad un caso sottoposto alla cognizione giudiziale riflettente la liceità di condotte di persone svolgenti un ruolo politico non è ragione sufficiente perché le Corti declinino il proprio ufficio; b) ancor maggiore e più fondata appare l'esigenza di un intervento giudiziale nei casi in cui, come il presente, si controverta circa la legittimità di atti governativi destinati a tradursi nella cancellazione o nell'indebolimento di una delle fondamentali prerogative parlamentari, consistente nel controllo degli atti del Governo e nel correlato dovere di questo di esporsi alla resa del conto al Parlamento stesso della propria attività; c) l'accertata justiciability, alla luce delle considerazioni appena svolte, di una questione ,pur con riflessi politici, dibattuta giudizialmente ne esclude l'attitudine ad incidere indebitamente sul principio costituzionale di separazione dei poteri.
Coerentemente alla generale impostazione della sentenza secondo rigorosi canoni costituzionali ( sull'origine e sulla identificazione dei quali ci si soffermerà concisamente in seguito),essa conclude che la “justiciability” è resa imperativa ed indubitabile nel caso di specie alla luce dell'immancabile opera di controllo giudiziale circa il concreto rispetto in ogni caso sottoposto all'esame delle corti di giustizia dei principii e dei valori costituzionali ,per rimuovere gli eventuali effetti derogatori di atti e comportamenti anche addebitabili alla sede politica in senso ampio. E nella fattispecie l'essenziale dibattito verteva circa la lesione, per effetto della sospensione della relativa attività, delle prerogative parlamentari di scrutinio diretto degli atti del Governo nel delicatissimo tempo intercorrente tra i due segmenti ( iniziale e finale) della sospensione ed il residuo breve tempo prima della data prevista ( 31 ottobre 2019) per la fuoriuscita dall'Unione Europea, con conseguente messa in pericolo della possibilità di sottoporre a controllo gli intendimenti governativi in punto di scelta delle condizioni alle quali dar luogo alla nota Brexit nonché di verificare se le nuove disposizioni legislative che impongono la proroga del termine suddetto di 3 mesi allo scopo di non pregiudicare la possibilità di conseguire un accordo con le istituzioni comunitarie non fossero eluse.
Così avviato il binario del ragionamento, la Supreme Court si preoccupa di appurare se la lunga “prorogation” (la più lunga della storia costituzionale inglese,tanto da indurre la Corte stessa, nell'opinione alla cui stesura ha atteso la Presidente Lady Hale, a qualificare come irripetibile-”one off”- la specifica situazione) se l'effetto finale potesse riconoscersi effettivamente nel più temuto degli epiloghi, in via immediata atto ad innescare la reazione invalidante perseguita dagli originari ricorrenti, ossia nel fatto di impedire l'esercizio delle funzioni parlamentari,senza giustificato motivo,per ben 5 settimane ( “The..question ,therefore,is whether this prorogation did have the effect of frustrating or preventing the ability of Parliament to carry out its political functions without reasonable justification”). E, considerata la totale carenza di idonei supporti giustificativi ( mai forniti dal Governo sin dalle prime fasi propedeutiche all'interlocuzione con la Regina, che non potè non risentire in modo negativo ed efficiente di tale vuoto informativo),la piana conclusione della sentenza è che nessun dubbio possa affacciarsi sull'effettivo impedimento, a cagione della “prorogation”, dell'attività parlamentare ,non solo riguardata nella sua globale e generica espressione ma specialmente circoscritta alla barriera in tal modo frapposta alla possibilità di doverosi scrutini da parte delle Camere dell'operato del Governo su tempi e modi di attuazione della Brexit. Tale barriera, estrinsecatasi nell'impedita esecuzione dei compiti propri di una democrazia parlamentare sovrana, non può che convertirsi nella illegittimità di ciascuna delle fasi che ha portato alla “prorogation”,ossia la mistificante richiesta alla Regina da parte del Primo Ministro e gli atti conseguenti culminati nell'ordine di sospensione Ciascuno di questi atti ed il loro esito aggregato non può che essere riportato al paradigma dell'illegittimità ( “unlawfulness”).
L'ultimo nodo problematico sciolto dalla sentenza riguarda la natura e l'oggetto della tutela concedibile alle parti richiedenti, quali corollari dell'accertata illegittimità di cui si è appena detto.
Anche per questo capo della sentenza, in quanto sollecitata dalla specifica domanda degli originari ricorrenti si è posta un'eccezione pregiudiziale di merito da parte della difesa del Governo nella discussione orale. Questa tendeva a predicare una preclusione alla pronuncia sui rimedi facendo leva su una disposizione legislativa, l'articolo 9 del Bill of Rights del 1688,replicato con previsione equivalente in Scozia dal Claim of Right 1689 ( an Act of Scottish Parliament), secondo cui la libertà di espressione, i dibattiti ed i lavori (“proceedings”) parlamentari non possono costituire oggetto di censura o di discussione in sedi-comprese le Corti di giustizia-diverse dal medesimo Parlamento (“ That the Freedome of Speech and Debates or Proceedings in Parlyament ought not to be impeached or questioned in any Court or Place out of Parlyament”).La portata applicativa della norma in sé e,quel che qui più rileva,nei suoi riverberi interattivi tra potere legislativo e giudiziario è stata,sin dagli esordi della Supreme Court ( in R.v.Chaytor, UKSC 52/2010) puntulizzata nel senso che compete alle Corti di giustizia,e non al Parlamento, stabilire l'ampiezza dei confini delle prerogative parlamentari (“privilege”) in materia, essendo a quest'ultimo riservata la facoltà di stabilire la propria organizzazione interna senza interferenze dal di fuori.La stessa dottrina parlamentare ( Erskine May,Parliamentary Practice, 25° ed.,2019,par.13.12) definisce il termine “proceeding”come di carattere tecnico ,in uso sin dal 17° secolo,diretto a designare qualsiasi atto formale adottato collegialmente da ciascuna delle Camere,normalmente una decisione.Sulla scorta dei precedenti legislativi,giurisprudenziali e dottrinari la Supreme Court perviene alla conseguente conclusione che la “prorogation” non va fatta rientrare nel novero dei “proceedings”,sia per l'oggetto non decisorio sia per la sua eteroimposizione dall'esterno sia per il suo effetto di estinzione ,anche se temporanea, dell'attività parlamentare.
Da questa congrua linea argomentativa discende che la statuizione circa l'effetto impediente, e, pertanto, illegittimo, delle attribuzioni parlamentari di provenienza costituzionale trascina ineluttabilmente con sé la dichiarazione di nullità ed improduttività di effetti della catena di effetti conducenti alla “prorogation”,oltre che, ovviamente, della sospensione stessa.Dichiarazione di invalidità cui consegue l'affermazione che spetta ai Presidenti delle Camere stabilire i provvedimenti da adottare per assicurare la ripresa dei lavori parlamentari.
Particolarmente mordace è la frase descrittiva ,in senso demolitorio, della fase finale del procedimento indirizzato all'ordine di “prorogation”, quella dell'annuncio da parte degli incaricati del provvedimento alla House of Lords:come se essi fossero entrati in Parlamento con un foglio di carta bianco (“...the actual prorogation...was as if the Commissioners had walked into Parliament with a blank piece of paper”).
In questi termini finali è la sentenza,di conferma di quella scozzese ( espressasi negli identici termini) e di ribaltamento di quella della High Court.
5.Il tesoro nascosto della sentenza e le prime reazioni del mondo politico inglese.
Si è ripetutamente ricordato che il filo rosso lungo il quale si dipana ,attraverso manifesti richiami, la pronuncia della Supreme Court è dichiaratamente di indole costituzionale, sia dal punto di vista nominalistico sia nella prospettiva dogmatica e di principio sia, infine, per la sicuramente percettibile continuità con la la più accreditata e solida linea di pensiero dottrinario.
In primo luogo-così dando vita ad una spiegabile soddisfazione tra gli studiosi del common law inglese,”quorum ego” in non isolate occasioni, che avevano sostenuto il punto anche in mancanza di così plateali affermazioni, connettendolo, alla, pur generalmente disconosciuta, abilità dei giuristi d'oltremanica nell'elaborazione di categorie giuridiche,orientate, secondo la lucida teoria di Peter Birks,ad incidere beneficamente sulla creazione di sistemi di principii fondamentali-la sentenza (par.39 ss.) scultoreamente esprime il punto di vista secondo cui ,sebbene il Regno Unito non conosca un autonomo documento esplicitamente denominato “Costituzione”, tuttavia esso contempla in sé una Costituzione, sviluppatasi in forma pragmatica e flessibile ( e,quindi, suscettibile di sviluppi ulteriori),quale sedimentata nel corso della storia in ragione del common law, delle leggi del Parlamento, delle convenzioni e della prassi (“Although the United Kingdom does not have a single document entitled “The Constitution”,it nevertheless possesses a Constitution established over the course of our history by common law,statutes,conventions and practice”).Essa si nutre di una gamma di principii di diritto, perfettamente capaci di immediata applicazione, al pari di altri principii codificati, in sede giudiziale, quale quello della trasparente e pubblica amministrazione della giustizia, l'altro- oggi trasposto nell'ordinamento inglese attraverso lo Human Rights Act del 1998-del divieto di espropriazione governativa per pubblica utilità in difetto del pagamento di indennità al proprietario, nonché altri principii riflettenti l'esigenza di un equilibrato esercizio dei poteri pubblici ,quali la sovranità del Parlamento doverosamente tutelabile di fronte alla minaccia di abusi di potere da parte dell'Esecutivo e la obbligatoria resa del conto ( “accountability, termine al quale va sottratta la suggestione che esso alluda ad una responsabilità in sé, mentre essa può sorgere solo se il preliminare dovere di dar conto del proprio operato sia omesso o assolto in modo dalle Camere giudicato insoddisfacente) dei propri atti davanti al Parlamento ( come si ricava dall'illuminante opinione,riportata anche nella sentenza oggetto del presente studio, del compianto Lord Bingham of Cornhill nella sentenza resa dalla House of Lords nel caso Bobb v.Manning del 2006: “the conduct of government by a Prime Minister and Cabinet collectively responsible and accountable to Parliament lies at the heart of Westminster democracy”).Ora,è facile arguire dal raffronto tra le circostanze del caso esaminato e gli ultimi 2 principii di calibro costituzionale citati che questi non hanno trovato la dovuta e dignitosa ospitalità nella condotta governativa volta ad una prolungata ed immotivata stasi dell'attività parlamentare,inibente, per le ragioni prima spiegate,anche lo scrutinio delle azioni ,compiute o anche preannunciate, del governo Johnson in materia di Brexit e con il sostegno dei Brexiteers,influenti fuori dal Parlamento.
L'affresco che si rivela agli occhi di un giurista continentale è contraddistinto dai toni soffusi e riposanti, e non bellicosi, minacciosi o iattanti, che si liberano dalle pagine della sentenza, che sembra erigere un monumento equestre all'elevato pensiero del pioniere del costituzionalismo inglese,Albert Venn Dicey,così scrupoloso, sin dall'ultimo quarto del diciannovesimo secolo fino alle propaggini dei 20 anni successivi, a difendere il valore della sovranità del Parlamento e la stringente regola della scrutinabilità anche in sede giudiziale delle modalità,del contenuto ,dell'oggetto dell'esercizio dei “prerogative orders” governativi.
Un siffatto accostamento da parte della Suprema Corte di giustizia del Regno unito allo scottante tema, indubbiamente implicito nel telaio dell'ispirazione della sentenza, non poteva non suscitare movimenti di pensiero, fluttuanti dal meditato e sereno ragionamento sul pangiudizialimo svolto in conformità ad una matura concezione liberale dall'ex Giudice della stessa Supreme Court, Lord Sumption nel recentissimo “Trials of the State” ( che raccoglie il testo di sue allocuzioni nel corso di trasmissioni di BBC Radio 4 dopo la cessazione dalla carica) e nelle sue dichiarazioni in merito alla sentenza (The Daily Telegraph del 26 settembre 2019,pag.5,secondo cui la pronuncia né mette a repentaglio la democrazia né è sovversiva,ma ha semplicemente sostituito la regola normalmente applicabile in via convenzionale in ragione delle speciali circostanze al caso in cui il Governo ha gettato alle ortiche le norme convenzionali:”That is not undermining democracy nor is it a coup.It is simply replacing what ought to have happened by convention by law in circumstances when the government has tried to kick away the conventions”) all'agguerrito monito dell'Attorney General Geoffrey Cox, autore del parere, non particolarmente felice,circa la praticabilità della “prorogation” che vedrebbe di buon occhio un nuovo sistema di reclutamento dei Giudici della Supreme Court ( se non addirittura l'abolizione della stessa ed il ripristino del sistema castale della House of Lords) prevedente audizioni nel corso delle quali i candidati dovrebbero rivelare la loro espressione di voto nel referendum europeo.
Rasserenano e garantiscono, infine,le parole di Robert Buckland, Lord Chancellor, che, quasi stesse parlando davanti ad un'assemblea di elettori italiani,invita all'orgoglio per l'operato del potere giudiziario inglese, definendo la “rule of law the basis of our democracy,for all seasons” e censurando gli attacchi personali ai Giudici da qualunque parte provenienti in quanto “completely unacceptable”.
Semplice la lezione da trarre da questa esperienza: quella della coriacea ed illimitata autodifesa del potere da parte di chi lo detiene, incurante degli esorbitanti prezzi esigibili in termini di democrazia sociale, rappreesentativa e con salde radici costituzionali.Ovunque nel mondo ed in presenza di qualunque sistema ordinamentale.
di Andrea Apollonio
Non è un caso che a propugnare le ragioni di Marco Cappato davanti alla Corte Costituzionale vi fosse Vittorio Manes, uno degli studiosi italiani più attenti alla law in action, al dover essere della legge nella sua cornice nazionale e internazionale, che appena qualche mese fa pubblicava (assieme a Valerio Napoleoni) "La legge penale illegittima", un contributo sul controllo di costituzionalità delle leggi innovativo, perché spinge lo sguardo sopratutto fuori i confini nazionali. Non è un caso, quindi, che a difendere Cappato sia stato l'autore de "Il giudice nel labirinto", che qualche anno or sono ha insinuato nella comunità scientifica profondi e necessari interrogativi: il primo tra tutti: come si deve porre il giudice (oggi al centro di un "labirinto" fatto di Carte e di Corti) di fronte alla legge, spesso retaggio storico, talvolta anacronistica?
La risposta che oggi più di ieri ci sentiamo di associare a questa domanda cruciale è: si deve porre in modo "politico", in una duplice accezione.
Nel senso di polis, di comunità - e questo vale per il giudice ordinario. Il giudice deve essere consapevole di stare dentro, e al centro di una comunità scientifica e - diremmo anche - giurisprudenziale che utilizza parametri di legittimità sostanziale, principi diversi da quelli con i quali abbiamo ragionato fino a ieri l'altro. Dietro la legge c'è la Costituzione, da qui poi l'ulteriore rinvio - sul piano interpretativo dei precetti - alla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo ed ai Trattati dell'UE. Forse che la Corte d'Assise di Milano non ha seguito questo percorso oggi obbligato? L'ha seguito, nella misura in cui chiedeva al Giudice delle Leggi di verificare la costituzionalità del reato di aiuto al suicidio alla luce degli artt. 3, 13 e 117 Cost. in relazione agli artt. 2 e 8 della CEDU, i quali sanciscono il diritto alla vita (e, a contrario, anche quello alla morte, a certe condizioni) e quello a "resistere" di fronte alle arbitrarie ingerenze delle pubbliche autorità. A Strasburgo, infatti, da tempo è stato acclarato il "diritto di un individuo di decidere il mezzo ed il momento in cui la sua vita debba finire" sempre che il soggetto sia in grado di assumere una decisione libera e pienamente consapevole (vd. Haas c. Svizzera, sentenza del 20.11.2011); mentre, paradossalmente, la nostra Carta Costituzionale - si sa, bella e imperfetta - non contempla neppure il diritto alla vita, impedendo così in radice lo sviluppo di una giurisprudenza costituzionale sul diritto a morire - sempre, meglio ribadire, a certe condizioni.
Ma questa vicenda (mediatica prima, giudiziaria dopo, costituzionale in ultimo) ha confermato che il giudice è politico, è costretto ad esserlo, anche in altro senso: perché in grado di fare delle scelte originariamente ed istituzionalmente appannaggio di organi rappresentativi (leggi: il Parlamento) - e questo vale per la Consulta.
In questo senso, la categoria del Politico, per dirla con le parole di Carl Schmitt, coincide con la categoria del Giudice, tutte le volte in cui la politica, pur chiamata in causa, si interessa d'altro. Perché la vera novità del modus decidendi dei giudici costituzionali sta nell'avere assegnato, circa un anno fa, un termine al Parlamento per superare l'empasse della norma penale illegittima; per la prima volta nella sua storia, attesa la rilevanza della questione (sociale, prima ancora che giuridica), aveva rinviato la decisione al fine dichiarato di rimettere alla politica il compito di intervenire sulla questione del fine-vita, in particolare nelle sue declinazioni penalistiche. Com'è giusto che sia. Nulla è stato fatto, il tema non è neppure entrato nelle agende dei partiti: così, la Corte ha deciso di decidere.
Ha deciso con una sentenza addittiva di regola degna - sotto il profilo tecnico-compilativo - del migliore e più illuminato legislatore, riuscendo a racchiudere in poche parole un canone di civiltà (giuridica, prima ancora che sociale) senza il quale, tanto per intenderci, Marco Cappato avrebbe rischiato fino a dodici anni di reclusione.
D'altronde, la Corte ci ha abituato ad interventi sullo jus scriptum che sono anche interventi - diciamolo chiaramente - su pubblici pregiudizi, che ci trasciniamo dietro da sempre. Proprio su questa Rivista appariva tempo addietro il commento ad una sentenza della Corte che, finalmente, bonificava una materia (quella delle misure di prevenzione) profondamente illiberale, priva di effettive garanzie per i suoi destinatari, riuscendoci grazie ai principi elaborati a Strasburgo. Quella delle misure di prevenzione era una materia che discendeva direttamente dal regime fascista; e non è, l'art. 580 del codice penale, un reato del quale il Guardasigilli scriveva, nei lavori preparatori del codice: "Era universalmente conclamata la necessità di perseguire, col massimo rigore, tutte le cause di un doloroso fenomeno, il quale ebbe, nell'immediato dopo-guerra, un impressionante sviluppo"? Il dopo-guerra a cui Alfredo Rocco si stava riferendo era quello successivo alla Prima Guerra mondiale, correva l'anno 1930; ed è in forza di questo reato che, nel 2019, Marco Cappato si trova imputato innanzi alla Corte d'Assise di Milano. Se questi sono gli strumenti regolativi del vivere comune di cui disponiamo, e di cui i giudici dispongono per decidere i casi concreti, allora è bene - è necessario - che questi si atteggino, nel doppio senso che abbiamo poc'anzi esplicitato, a giudici politici. Non è l'invasione di un potere nel campo di un altro: è, piuttosto, la certificazione dell'attuale, incapacità della politica parlamentare e governativa ad affrontare razionalmente, laicamente, senza i consueti strepiti di retorica, le questioni che la società fa emergere in una forma sempre più complessa. Chiamatela pure, se volete, supplenza giudiziaria, ma dalla tensione specific
di Emanuela Coronica[1]
Il nostro sistema giudiziario presenta numerose criticità e, tra queste, ci sono le numerose carenze di personale nei tribunali. Le conseguenze sono lungaggini processuali, procedimenti a rischio prescrizione e uffici giudiziari allo stremo.
Sommario: 1. Italia maglia nera nell’ue per definizione dei processi e investimenti. 2. Nuove politiche assunzionali. 3. Piante organiche inadeguate e riforma della prescrizione. 4. Le richieste del comitato idonei assistenti giudiziari.
1.Italia maglia nera nell’UEe per definizione dei processi e investimenti
La giustizia italiana vive da anni in una condizione di continua emergenza.
Lungaggini processuali e gravi carenze di personale, rendono il nostro sistema giudiziario lento e poco efficiente. Ce lo ricorda anche la Commissione Europea, la quale non manca di far presente che il nostro Paese è tra gli ultimi per la definizione di procedimenti civili e commerciali e tra quelli dell’Unione Europea che investono meno sulla giustizia.
Ciò non stupisce poiché, per anni, il nostro sistema giudiziario è stato oggetto di politiche di spending review che hanno aggravato la sua condizione.
Alla base di tutto, le notevoli carenze di personale giudiziario e, anche in questo caso, la Commissione Europea ci ricorda che è il nostro Paese deve investire in risorse umane e materiali.
Negli ultimi anni, il Ministero della Giustizia ha cercato di invertire lo stallo nelle politiche di reclutamento imposto dal pluriennale blocco del turn over, disponendo numerose iniziative al fine di incrementare le risorse negli uffici giudiziari, soprattutto, per arginare gli effetti dei vuoti di organico dovuti anche all'aumento dei pensionamenti.
2.Nuove Politiche Assunzionali
Una prima inversione di rotta è stata registrata nel 2016 con l’indizione del concorso ad 800 posti per il profilo di assistente giudiziario, conclusosi nel 2017 con la pubblicazione di una graduatoria composta da 4.915 persone. L’ultimo concorso per il medesimo profilo si era svolto circa venti anni prima.
Il Comitato Idonei Assistenti Giudiziari si è costituito nell’ottobre 2017 con l’obiettivo dello scorrimento integrale della graduatoria in considerazione dei numerosi vuoti di organico negli uffici giudiziari ma anche dell’importanza del profilo di assistente giudiziario che rappresenta una figura centrale nell’amministrazione della giustizia ed è considerata la fonte principale dell’attività di una cancelleria perché è soprattutto colui che assiste il magistrato in udienza.
Dei 4.915 idonei che compongono la graduatoria, 3.386 sono entrati già in servizio tra gennaio 2018 e luglio di quest’anno ma ancora non basta perché restano in attesa circa 1.300 persone che, in realtà, sono ancora meno se si considera che tale numero è al netto di rinunce e dimissioni.
Si tratta di assunzioni già programmate, finanziate ed autorizzate da un ambizioso piano assunzionale, sottoscritto dal Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, nel giugno scorso.
La legge di Bilancio 2019, il decreto “Quota 100”, la cosiddetta legge Genova e il DPCM del 20 giugno 2019, consentiranno l'assunzione di 8.661 unità di personale ma anche l’esaurimento integrale della graduatoria degli idonei assistenti giudiziari.
Mancano, però, le tempistiche che, finora, sono sempre state piuttosto incerte e approssimative.
L'esaurimento della graduatoria per il profilo di assistente giudiziario non risolverebbe in un colpo solo i gravi vuoti di organico negli uffici giudiziari ma, di certo, sarebbe una boccata d'ossigeno per tutti quei tribunali che, allo stato attuale, per mancanza di personale, rischiano il blocco di ogni attività amministrativa, complice anche l'inadeguatezza delle piante organiche che dovrebbero essere ampliate.
3.Piante organiche inadeguate e la riforma della prescrizione
La riforma della geografia giudiziaria del 2012, oltre a determinare la chiusura di 31 tribunali, di tutte le sezioni distaccate di Tribunale e il drastico taglio degli Uffici dei Giudici di Pace, allo stesso tempo, ha creato ai tribunali rimasti notevoli disagi organizzativi incrementando i bacini di utenza senza che questi venissero controbilanciati da un ampliamento delle dotazioni organiche del personale.
La conseguenza è stata che il carico di lavoro e gli arretrati da smaltire sono aumentati mentre le risorse umane sono rimaste quelle e i tempi di definizione dei processi si sono allungati.
Appare chiaro che il tema delle politiche assunzionali non è indifferente a quello del dimezzamento dei tempi dei processi.
Quello dell'incremento delle risorse negli uffici giudiziari è un tema prioritario anche in questi giorni in cui si parla di riforma della giustizia e, in particolare, della prescrizione.
I detrattori della riforma, voluta dal Guardasigilli e inserita nella legge “Spazzacorrotti”, ritengono che lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado allungherà i tempi dei procedimenti e a farne le spese saranno gli uffici giudiziari.
I sostenitori, reputano che sia giusto preservare il lavoro dei magistrati in primo grado ma giudicano indispensabile che la riforma venga accompagnata da ulteriori misure e, tra queste, c'è l'assunzione di personale qualificato.
Senza entrare nel merito della discussione sulla riforma della prescrizione, che lasciamo volentieri agli addetti ai lavori, è comunque evidente che quando si affronta il tema della giustizia in tutte le sue declinazioni, non si può non tenere conto della necessità di incrementare le risorse umane e materiali.
4.Le richieste del comitato idonei assistenti giudiziari
Per questo, il Comitato Idonei Assistenti Giudiziari chiede di conoscere le tempistiche della prossime assunzioni, a cominciare dai 400 idonei che, da mesi, sono in attesa.
Il Ministro Bonafede, confermato alla guida di via Arenula, ha ribadito ancora una volta l'obiettivo di una giustizia equa ed efficiente ma un simile risultato si può raggiungere soprattutto con risorse qualificate insieme alla valorizzazione delle professionalità e al riconoscimento del merito.
[1] Comitato Idonei Assistenti Giudiziari
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