ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Paolo Veronesi
Sommario: 1. Premessa. – 2. Ancora sul reato di aiuto al suicidio (e sulla sua selezionata illegittimità). – 3. Il “non detto” delle pronunce sul “caso Cappato”. – 4. La sent. n. 242 del 2019: una pronuncia di accoglimento parziale (che cela un’audace additiva). – 5. Segue: la “parte additiva” della pronuncia e la dichiarata assenza di “rime obbligate”. – 6. Segue: ci sono “aggiunte” e “aggiunte”? – 7. Che fare per il pregresso? – 8. Conclusioni.
Premessa
Già era successo con l’ord. n. 207 del 2018[1] e lo stesso accadrà con la sent. n. 242 del 2019: è inevitabile che pronunce di tal genere producano fratture tra gli interpreti e nella stessa opinione pubblica (o, almeno, in alcuni strati di essa).
Anche perchè – nonostante le critiche che hanno investito la sua precedente ordinanza “interlocutoria”[2] – la Corte non arretra di un passo e non esita a “ripetersi”. Ciò avviene sia sul versante delle sue scelte squisitamente processuali, sia sul fronte dei profili sostanziali della quaestio. E se, in taluni passaggi della sentenza più recente, taluni argomenti (già utilizzati l’anno scorso) senz’altro si affinano e vengono ulteriormente messi a fuoco, in altri la Corte si muove su un terreno ancora più audace. Per certi versi – e come meglio si dirà – la sent. n. 242 del 2019 procede addirittura al di là della coraggiosa ord. n. 207 del 2018, generando, in tal modo, ulteriori perplessità (specie tra il pubblico dei più critici)[3].
2. Ancora sul reato di aiuto al suicidio (e sulla sua selezionata illegittimità)
La Corte afferma dunque che la sent. n. 242 «si salda, in conseguenza logica», con l’ordinanza che l’ha preceduta[4]. A riprova di ciò, essa ribadisce che il reato di aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p., non è in contrasto con la Costituzione, né lo si può circoscrivere alla sola ipotesi in cui siano altri a incidere sulla volontà di chi agisce su se stesso.
Il reato in oggetto assolve dunque allo scopo di creare una «cintura protettiva» tesa a garantire, in primo luogo, i soggetti più deboli e influenzabili[5]. Né la sua pretesa illegittimità può scaturire da un ipotetico e più volte negato (dalla stessa Corte Edu)[6] diritto a morire quale profilo “negativo” del diritto alla vita o desumendola da un diritto di autodeterminazione assunto senza alcun paletto di confine.
Ciò tuttavia non significa che esso non abbia ormai messo in luce «una circoscritta area di illegittimità costituzionale» che originariamente non presentava affatto[7]. Tale “superficie critica” è oggi occupata dalle vicende già delineate nell’ord. n. 207 e ribadite nella sent. n. 242. Situazioni in cui – come nel caso di djFabo – una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma… (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli», chieda l’assistenza di terzi per porre fine alla sua esistenza[8]. In aggiunta, sia nell’ord. n. 207, sia nella sentenza in commento, la Corte sottolinea l’esigenza per cui «il coinvolgimento in un percorso di cure palliative»[9] deve costituire «“un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente”»[10]. Queste affermazioni (e altre analoghe) non precisano però se la mera proposta di terapie palliative sia più che idonea allo scopo (potendola il paziente rifiutare sin da subito), ovvero se tali trattamenti debbano comunque essere somministrati al malato prima di qualsiasi altra sua decisione[11]. Benché si tratti quasi certamente di un “caso di scuola”, va detto che il diritto fondamentale al consenso informato decisamente induce a optare per la prima soluzione[12].
Quelle delineate dalla Corte si caratterizzano per essere «situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta», e derivanti (anche) «dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia». Questa è infatti spesso in grado di recuperare alla vita soggetti che un tempo sarebbero senz’altro deceduti, senza però assicurare loro condizioni esistenziali che l’interessato ritenga consone e dignitose. Per questa parte, la previsione penalistica sarebbe insomma ormai “vittima” di un evidente anacronismo.
Nelle fattispecie così prese a modello – aggiunge la Corte – «la decisione di accogliere la morte potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua»[13]. Lo sancisce la legge n. 219 del 2017[14], la quale ha in tal modo assorbito la lezione offerta dalla giurisprudenza più recente[15].
Tuttavia, la normativa in vigore ancora «non consente… al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte». Per raggiungere i propri scopi l’interessato è quindi «costretto a subire un processo più lento e carico di sofferenze» per sé e «per le persone che gli sono care»[16]. Un processo che il malato potrebbe giudicare lesivo della propria dignità e dei propri diritti, oltre che vedersi costretto ad affrontare con più che comprensibili ansie[17].
Quanto poi all’esigenza di tutelare le persone malate e vulnerabili, l’obiezione a simili possibilità prova troppo: è evidente che se l’ordinamento (opportunamente) consente loro, «a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri»[18].
In questi passaggi la Corte cita e ribadisce quanto già sostenuto nella sua precedente ordinanza. Essa dà ora per scontata l’esigenza di applicare (in queste circostanze, non in altre) una versione rigorosamente “soggettiva” del concetto di dignità[19]; chiama in causa, a controllate condizioni, il diritto all’autodeterminazione del malato che chieda di essere aiutato a suicidarsi[20]; sottolinea lo stretto “parallelismo” rintracciabile tra le due situazioni messe a confronto (le quali, però, continuano a essere disciplinate in modi molto diversi).
Se dunque, in prima battuta, la Corte evidenzia l’anacronismo della disciplina disponibile allo scopo, per questa parte la Corte pratica un ulteriore (e più classico) giudizio di ragionevolezza. Il tertium comparationis è quindi estratto dalla legge n. 219 del 2017: esso integra i parametri costituzionali incarnati dagli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost.[21].
Il dubbio che però attanaglia molti commentatori è se le due situazioni così poste a raffronto siano davvero analoghe. In altri termini, la vicenda “djFabo-Cappato” non aggiunge (forse) qualche ingrediente diverso a quanto già si è palesato nei casi Welby, Piludu ed Englaro (solo per citare i più noti)[22]?
La conclusione cui approda la Corte è che «entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita»[23].
Sono affermazioni con le quali la Corte evidenzia un’obbiettiva “incoerenza” dell’ordinamento. Anche il rifiuto di trattamenti salvavita impone ad esempio – già ora – qualche collaborazione di terzi (l’interruzione e il distacco dalla respirazione e dalla nutrizione artificiale; la contemporanea somministrazione di una sedazione profonda)[24]. Perché non ammettere, dunque, nelle stesse, peculiari situazioni, altre misuratissime attività esterne che, in presenza dei medesimi presupposti – e non provocando affatto l’esito finale – rispondano alle medesime esigenze del paziente, aiutandolo a compiere, su di sé, azioni peraltro non vietate?
La Corte traccia così non già un “diritto a morire”[25], bensì un diverso e ben più circoscritto diritto del malato ormai esausto e irreversibilmente immerso nel processo della sua fine a vedere affermata le proprie personalissime (e verificate) idee di dignità e di autodeterminazione anche in questa drammatica fase della propria esistenza. Rileva cioè il suo diritto ad autodeterminarsi scegliendo anche di accelerare la propria uscita di scena allorché ritenga ormai intollerabili le sofferenze che lo devastano. A tale scopo è pertanto necessario che gli sia riconosciuto un diritto alla salute davvero “a tutto tondo”, comprensivo, cioè, della scelta del “come” curarsi, fuggire dalla sofferenza, farla finita. Un diritto comprensivo, pertanto, anche della possibile autosomministrazione di sostanze letali: un’attività del tutto lecita e il cui esito – nelle condizioni date – è già consentito perseguire con l’aiuto di altri (seppure in forme diverse)[26].
In simili circostanze, chi presta aiuto nel modo anzidetto non provoca affatto la morte del paziente, ma ne agevola semplicemente il realizzarsi ormai inevitabile, ponendo termine a sofferenze divenute insopportabili con modalità, in definitiva, non tanto dissimili da chi asseconda la volontà del malato di “staccare la spina”[27].
Né convince la critica per cui esisterebbe – di contro – un dovere di vivere per solidarietà verso gli altri, e neppure l’idea per la quale, in queste personalissime ipotesi, dovrebbe vigere una versione oggettiva (e del tutto eteronoma) di dignità[28]: così ragionando si giunge infatti al paradosso di trasformare un diritto in un dovere; s’impone solidarietà a chi dovrebbe riceverla; si finisce per far coincidere l’idea di dignità con una sorta di “ordine pubblico ideale”, negandosi – al contempo – la piena e più liberale esplicazione dei principi personalista e pluralista.
3. Il “non detto” delle pronunce sul “caso Cappato”
Riproponendo l’iter argomentativo già inaugurato nell’ord. n. 207, la nuova pronuncia costituzionale non si occupa affatto di talune delicate questioni già emerse a seguito della sua prima decisione (ma “non rilevanti” nel caso che costituiva oggetto della quaestio)[29].
Non c’è, però, nulla di sorprendente nel fatto che la Corte rimarchi a chiare lettere come la sua «declaratoria di incostituzionalità» attenga, «in modo specifico ed esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza»[30]: questo era infatti il “tema” emergente dal giudizio a quo.
Certo, ciò lascia inevitabilmente inevasi taluni interrogativi riguardanti vicende cliniche che, per quanto simili, non presentino tutte le precondizioni imposte dalla Corte.
Che dire, ad esempio, del requisito per cui la persona che chieda di essere aiutata debba essere «tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale»? Potrebbe forse perdere d’importanza a certe condizioni e a fronte di fattispecie che ne evidenziassero l’inadeguatezza se non la crudele disparità di trattamento?
La mente corre immediatamente ai casi di pazienti affetti da patologie gravi, invalidanti e irreversibili ma non ancora sottoposti ad alcun trattamento salvavita. Lo stesso Fabiano Antoniani, come sottolinea la Corte, non viveva perennemente agganciato a simili strumentazioni.
Analoghe domande potrebbero sorgere con riguardo al requisito della patologia irreversibile (che non coincide certo con l’idea di una malattia allo stato terminale)[31].
Diversa – perché darebbe vita a un vero omicidio del consenziente – è invece l’eventualità di un malato senz’altro capace e informato, il quale però – in virtù della sua particolare patologia (ad esempio, una completa paralisi) – non possa in alcun modo azionare i meccanismi che darebbero finalmente seguito alle sue determinazioni suicide[32].
Altra situazione simile potrebbe essere quella di chi – pur essendo immerso in una situazione in toto conforme alle condizioni indicate dalla Corte – non voglia assolutamente compiere da sé il gesto destinato a darsi la morte (per paura di sbagliare, per il dolore fisico che anche quella minima azione gli provocherebbe, perché preferisce rimettersi alla collaudata esperienza del personale medico ecc.).
Tutte ipotesi che – senz’altro diverse da quella del giudizio a quo – sembrano determinare ingiustificate disparità di trattamento tra situazioni non certo uguali al millimetro ma senz’altro simili; esse potrebbero spesso causare sofferenze anche più intense di quelle sopportate da chi viene tenuto in vita mediante opportuni trattamenti essenziali[33].
La mancata previsione di calibrate forme d’intervento eutanasico in almeno talune delle circostanze appena richiamate potrebbe anzi indurre alcuni pazienti a dar luogo al loro suicidio assistito prima di quanto desidererebbero.
Una conferma indiretta della risposta che sembrerebbe opportuno offrire alle domande appena formulate, scaturisce dalla circostanza per cui un’eventuale, futura disciplina di simili vicende dovrebbe sostanzialmente ricalcare quanto la stessa Corte elabora nella sent. n. 242. Sebbene l’eutanasia – punita dall’art. 579 c.p. – preveda infatti che un terzo ponga in essere un’azione diretta non già ad aiutare il malato a farla finita da sé, bensì a determinarne la morte, non tanto diversi sembrerebbero infatti i requisiti, le cautele, i controlli, le procedure e le figure professionali da coinvolgere anche in tali circostanze[34].
Ma chi potrebbe spingersi su tali terreni? Se la risposta positiva, per quanto riguarda il legislatore, appare senz’altro più semplice – almeno a chi scrive – numerose perplessità suscita invece l’idea che sia la Corte a operare in tal senso. Sempre che cosi ritenesse, gli strumenti a sua disposizione sarebbero in grado di farle raggiungere simili approdi?
4. La sent. n. 242 del 2019: una pronuncia di accoglimento parziale (che cela un’audace additiva)
Nulla di tutto ciò affiora dunque dalla sent. n. 242 del 2019 né dall’ord. n. 207 del 2018. La Corte rimane, cioè, saldamente agganciata all’oggetto della quaestio: ciò è assolutamente giustificato dal dovuto rispetto per il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, oltre che in ragione della delicatissima fattispecie sulla quale essa è chiamata a esprimersi[35].
In prima battuta, viene quindi lasciato nella disponibilità del legislatore il compito di “muovere” dalla sentenza per offrire una più articolata disciplina allo specifico tema all’ordine del giorno[36].
È però assai probabile che la stessa Consulta dovrà, prima o poi, prendere posizione anche su talune delle fattispecie sopra illustrate: non sarebbe del resto la prima volta che una coraggiosa pronuncia d’illegittimità suscita “reazioni a catena” (a prescindere dal loro esito)[37].
Per ora, nel pronunciare l’illegittimità costituzionale “parziale” dell’art. 580 c.p. – nella parte in cui esso prevede la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito suicida del malato che versi nelle condizioni indicate e pur nel rispetto di quanto la stessa Corte enuncia in motivazione – alla Consulta pare evidente che ciò impone di colmare le lacune di disciplina che la sua pronuncia finirebbe per portare alla ribalta. In questa prospettiva, la sent. n. 242 assume anche i tratti di una vera e propria sentenza additiva[38].
Quanto “aggiunto” dalla Corte, e l’iter logico da essa praticato a questo scopo, fanno sorgere però molte perplessità.
5. Segue: la “parte additiva” della pronuncia e la dichiarata assenza di “rime obbligate”
È la stessa Corte a sottolineare che, sebbene la (sua) dichiarazione d’illegittimità «faccia emergere specifiche esigenze di disciplina… suscettibili di risposte differenziate da parte del legislatore», ciò non può più bloccare una decisione d’accoglimento che appare essenziale per «garantire la legalità costituzionale». A fronte dell’inerzia del Parlamento deve infatti prevalere quest’ultima esigenza «su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia»[39]. Si potrebbero altrimenti preservare sine die ampie «zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale», mantenendo intatta (per chissà quanto tempo ancora) la «menomata protezione di diritti fondamentali»[40].
In tal modo la Corte dà luogo a un particolare bilanciamento tra la necessità di rispettare scrupolosamente la discrezionalità legislativa e l’esigenza che essa stessa offra “normative” tese a colmare una grave situazione d’incostituzionalità. Se ne evince che la seconda occorrenza potrà anche prevalere sulla prima, almeno fino a quando il legislatore non avrà detto la sua[41].
È un primo (non piccolo) problema. Quando è in gioco la discrezionalità del legislatore sembrerebbe esserci davvero poco da fare per la Corte: essa dovrebbe – per definizione – tirare i remi in barca.
La Corte sostiene invece di potersi far carico di tutti questi oneri anche «non limitandosi a un accoglimento “secco” della norma costituzionale, ma ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorchè non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento»[42].
In queste poche battute, la Corte recita quindi l’ennesimo de profundis della c.d. teoria delle rime obbligate in materia penale (almeno nella sua versione più “radicale”). Non è peraltro la prima occasione in cui, negli ultimi anni, la Consulta esprime concetti simili. La stessa Corte menziona, a tal proposito, una significativa sequenza di sue recenti pronunce manipolative[43]. A essa vanno aggiunti casi in cui la Corte ha adottato, anche nella delicata materia penale, decisioni additive di principio[44].
È peraltro chiaro il motivo che ha indotto la Corte a simili (e sensibili) correzioni di rotta: esso trova origine nell’evidente necessità di supplire alla collaudata latitanza del legislatore, reagendo ad altrimenti invincibili zone franche di costituzionalità. Le stesse ragioni hanno del resto suggerito le innovative soluzioni processuali messe in campo mediante l’originale “uno-due” rappresentato dall’ord. n. 207 del 2018 e dalla sent. n. 242 del 2019 (ossia mediante l’affinamento di una nuova versione del «collaudato meccanismo della doppia pronuncia»)[45].
Ma anche ammesso che l’abbandono dell’applicazione più rigorosa della teoria in oggetto sia giustificato, nel caso in esame esso è forse andato oltre il consentito (se davvero lo è)?
6. Segue: ci sono “aggiunte” e “aggiunte”?
È a questo punto che s’impone l’aspetto più propriamente “creativo” dell’intervento della Corte.
Assumendo quale «preciso punto di riferimento» la disciplina contenuta negli artt. 1 e 2, legge n. 219 del 2017, essa forgia così la procedura destinata a far fronte «a buona parte delle esigenze di disciplina poste in evidenza nell’ordinanza n. 207 del 2018» (ma non prese in carico dal Parlamento)[46].
Si tratta, più precisamente, delle norme di legge che stabiliscono le modalità con le quali il paziente può esprimere il suo consenso al rifiuto delle cure (anche salvavita); i requisiti in base ai quali egli potrà perseguire i suoi obiettivi; come vada accertata la genuinità della sua richiesta; come dovrà atteggiarsi il rapporto tra medico e paziente; come sia da proporre al paziente l’accesso alle cure palliative.
Fin qui si rientra, tuttavia, ancora entro i binari di una rima sostanzialmente obbligata. I successivi passaggi logici escono invece da tale tracciato.
La Corte precisa pertanto che «la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio deve… restare affidata… a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale». E ciò «in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore»[47]. Si comprendono le esigenze che accompagnano questa scelta, ma le strutture pubbliche saranno effettivamente in grado di affrontare un tale compito? E chi se ne occuperà (o anche solo se ne farà carico), stante l’obiezione di coscienza generalizzata riconosciuta, in tal caso, al personale sanitario[48]? E poi: nell’ordinanza n. 207 la Corte aveva statuito che sarebbe spettato al legislatore scegliere se concentrare tali interventi nelle sole strutture pubbliche o anche altrove. Perché, dunque, essa compie ora una così decisa “scelta di campo”[49]?
Ancor più creativamente essa aggiunge poi che «la delicatezza del valore in gioco» impone «l’intervento di un organo collegiale terzo, munito di adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela di situazioni di particolare vulnerabilità». «Nelle more dell’intervento del legislatore, tale compito è affidato ai comitati etici territorialmente competenti». La Corte illustra sinteticamente i compiti dei quali tali organismi sono oggi investiti: essi affrontano «problemi di natura etica che possono presentarsi nella pratica sanitaria», oltre che operare per la «tutela dei diritti e dei valori della persona» con riguardo alle sperimentazioni di medicinali, al loro uso compassionevole e all’utilizzo di particolari dispositivi medici[50]. Si tratta, dunque, di competenze che – parrebbe – non paiono esattamente riferibili e trasferibili anche alla fattispecie sulla quale la Corte era chiamata e esprimersi[51]. E poi: quale specifico effetto avranno i responsi di un simile organismo? Saranno vincolanti (o no)[52]?
Ma ben più preoccupante è il passaggio sull’obiezione di coscienza dei medici[53]. In poche battute essa conclude infatti che la sua pronuncia d’illegittimità «si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere in capo ai medici». Dunque, «resta affidato… alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato»[54].
Con grande noncuranza la Corte riconosce pertanto un diritto all’obiezione praticamente generalizzato a favore del personale medico. Nessun accenno contiene la pronuncia sulla necessità che il sanitario (almeno) motivi il suo atteggiamento; tale obiezione non è inoltre presa in esame da un’esplicita norma di legge; non sono indicate neppure le contromisure atte a fronteggiare la ben nota tendenza a usare l’obiezione medica a scopi di autentico boicottaggio delle leggi; né viene fatto cenno alla necessità che il medico obiettore fornisca al malato le informazioni che gli consentano di ottenere altrimenti la prestazione; non è neppure ribadito quanto si trova enunciato nella legge n. 194 (ossia che la prestazione debba essere comunque assicurata al paziente) e che dunque poteva davvero ritenersi una “rima obbligata”; senza dire che la sentenza non aggiunge neanche un “principio” teso a costringere le strutture sanitarie a farsi carico di eventuali obiezioni a oltranza. I medici potranno insomma fare il bello e il cattivo tempo[55]. Ma se il diritto riconosciuto al malato sofferente ed esausto rimane in tal modo ostaggio delle convinzioni dei medici esso può davvero ritenersi un “diritto”?
Anche per questa evenienza l’ord. n. 207 del 2018 aveva inoltre rimesso alla discrezionalità del legislatore la scelta tra le varie opzioni sul tappeto: poteva dunque la Corte scegliere, adesso, ciò che diceva di non poter adottare prima? Evocare l’inerzia legislativa può essere sufficiente per giustificare questo suo passo[56]?
E poi: perché non usare anche qu il criterio adottato nella legge n. 219 del 2017, alla cui trama normativa la Corte aggancia i più significativi passaggi della sua decisione (giustificando così il suo intervento)? Legge che non prende affatto in considerazione l’obiezione di coscienza dei medici.
7. Che fare per il pregresso
Il problema era già segnalato dalla Corte nella sua ord. n. 207: s’invitava perciò il legislatore a farsene carico[57].
Adesso – posta la sua decisione di accoglimento – è la stessa Corte a doversi interrogare circa i problemi di diritto intertemporale che essa determina.
La Consulta stabilisce perciò che le procedure da essa delineate varranno solo ex nunc: di esse non potrà ovviamente imporsi il rispetto, «tal quali, in rapporto a fatti anteriormente commessi, come quello oggetto del giudizio a quo»[58].
Riguardo alle vicende pregresse, la Corte afferma dunque che la non punibilità dell’aiuto al suicidio rimarrà subordinata alla circostanza per la quale l’agevolazione sia stata prestata «con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti». La Corte illustra altresì con precisione le coordinate che dovranno caratterizzare simili valutazioni[59]. Requisiti, controlli e cautele «la cui sussistenza dovrà essere verificata dal giudice nel caso concreto».
In questi passaggi la Corte delinea perciò un ulteriore contenuto additivo della sua pronuncia, cesellato in rapporto alle sole vicende del passato.
Quella delineata dalla Corte è, dunque, un classico esempio di “delega di bilanciamento in concreto”[60]. Caso per caso, dovranno dunque essere i giudici a stabilire se i requisiti isolati dalla Consulta si rinvengano nelle fattispecie ancora pendenti davanti a essi.
Si tratta certo di un compito non agevole, il quale lascia anche dubbi circa il rispetto dei requisiti della tassatività e determinatezza della fattispecie penale (benchè senz’altro si tratti di interventi in bonam partem). Senza dire che potrebbero emergere valutazioni assai diverse di ciò che deve ritenersi “sostanzialmente equivalente” a quanto deciso dalla Corte e cosa invece si allontani da esso.
Va peraltro detto che queste medesime vicende – ove deflagrassero davanti a un giudice o fossero comunque già al suo cospetto – potrebbero fornire i materiali necessari a sollecitare ulteriori questioni di legittimità con riguardo – appunto – a casi non esattamente sovrapponibili a quelli decisi dalla Corte.
8. Conclusioni
La Corte costituzionale non ha dunque “ritirato la mano”.
A fronte dell’ennesima inerzia del legislatore essa ha – in prima battuta – inaugurato una nuova strategia processuale[61]. Il particolare utilizzo dell’istituto del rinvio dell’udienza[62] le ha così permesso di prefigurare la sua successiva dichiarazione di illegittimità, da azionarsi se, alla data stabilita, il legislatore non si fosse rimesso in carreggiata.
Un simile modo di procedere ha intanto assicurato che il processo a quo non venisse concluso applicando norme ormai riconosciute incostituzionali oltre che particolarmente punitive: la più collaudata pratica della decisione d’inammissibilità con monito al legislatore non l’avrebbe garantito.
Contemporaneamente, essa ha altresì “suggerito” anche agli altri giudici impegnati nel decidere casi analoghi a sollevare ulteriori questioni di legittimità (senza però poterlo imporre).
Più che un mero rinvio, l’ord. n. 207 del 2018 ha insomma dato vita a un vero riscontro d’illegittimità (pur non ufficialmente dichiarata), rinviando a una data precisa l’udienza della sua piena affermazione.
Non si è tuttavia trattato di un percorso privo di rischi. Cosa sarebbe, ad esempio, accaduto se, nel frattempo, qualche giudice costituzionale avesse mutato opinione? La Corte avrebbe potuto rovesciare il suo precedente responso? Con quali conseguenze (almeno sul piano della credibilità e della sua legittimazione)? Che sarebbe successo, poi, se la prima decisione avesse suscitato “manifestazioni di piazza” o “allarme sociale”[63]?
Sono dubbi che lasciano senz’altro il segno, anche se stavolta la Consulta ha parato tutti i colpi.
Mantenuta la sua “promessa” la Corte è stata però costretta a una serie di audaci “passi in avanti”. In questo senso va letta l’articolata addizione contenuta della sent. n. 242. Essa suscita però i (non pochi) dubbi appena illustrati. Sono queste le tracce di un’abnorme ingerenza nel campo d’azione del Parlamento[64]?
A farne direttamente le spese è stata la più classica versione della teoria delle “rime obbligate”. E se certo sorprende l’attribuzione ai Comitati etici di una funzione assolutamente nuova, oltre che la scelta (per nulla obbligata) di consegnare la procedura nelle mani del solo servizio sanitario nazionale[65], preoccupa non poco il tono con il quale la Consulta ha riconosciuto un generalizzato diritto all’obiezione di coscienza del personale sanitario (dopo aver opportunamente affermato che sarebbe stato il legislatore a dover scegliere il da farsi)[66].
Emerge perciò un altro interrogativo: il legislatore potrebbe eventualmente limitare l’obiezione di coscienza che la Corte ora garantisce al personale sanitario o sottrarre le procedure all’esclusiva azione del servizio sanitario nazionale?
Tutte queste domande evidenziano quali enormi novità emergano dalle due pronunce che la Corte ha dedicato al “caso Cappato”. Viene dunque spontaneo chiedersi se la Corte non avesse potuto praticare strade più “semplici” e – magari – già sperimentate. Ad esempio, non sarebbe stato forse più rispettoso delle competenze dei diversi attori coinvolti nella circostanza se la Corte avesse adottato sin da subito una dichiarazione d’illegittimità costituzionale parziale, accompagnandola con un’addizione “di principio” e da uno stringente monito rivolto al legislatore (come fece nella celebre sent. n. 27 del 1975 e come, più di recente, ha praticato anche nell’assai diversa sent. n. 170 del 2014)[67]? Se non l’ha fatto è – forse – perché non ha voluto mettere in grave imbarazzo i giudici, dando per scontato di non poter contare sulla reattività (e sulla collaborazione) del Parlamento. Questo succede quando gli organi del “sistema costituzionale” non funzionano fisiologicamente: c’è sempre qualcuno che deve far carico dell’inefficienza. E non sempre ha buone intenzioni: la Corte, quanto meno, le ha indubbiamente avute.
* In corso di pubblicazione su Studium Iuris 2020, fascicolo 2
[1] Sulla quale si v. il mio Un’incostituzionalità (solo) “di fatto” del reato di aiuto al suicidio: in attesa del seguito del “caso Cappato”, in questa Rivista 2019, p. 277 ss.
[2] Si v., ad esempio, i rilievi di A. Ruggeri, Pilato alla Consulta: decide di non decidere, perlomeno per ora (a margine di un comunicato sul caso Cappato), in www.giurcost.org 2018, fasc. 3 (26 ottobre 2018) e Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale, cit. Si v. altresì molti dei contributi pubblicati negli atti del Seminario Dopo l’ord. n. 207/2019 della Corte costituzionale: una nuova tecnica di giudizio? Un seguito legislativo (e quale)?, organizzato dalla rivista Quaderni costituzionali, presso la casa editrice Il Mulino di Bologna, il 27 maggio 2019, e pubblicati su www.forumcostituzionale.it, spesso orientati a criticare gli approdi sostanziali e processuali dell’ord. n. 207.
[3] In tal senso si v. quel che costituisce probabilmente il più tempestivo tra i suoi commenti a prima lettura: A. Ruggeri, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Corte dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito, in www.giustiziainsieme.it (24 novembre 2019).
[4] Punto 2 del Considerato in diritto. Nell’attesa della sentenza (dopo l’ord. n. 207) R. Romboli, Caso Cappato, la pronuncia che verrà, in www.forumcostituzionale.it (23 giugno 2019) aveva (giustamente) sottolineato che la futura pronuncia della Corte non avrebbe potuto che «essere figlia, o comunque strettamente collegata con la ordinanza n. 207». Auspicava invece una completa rimeditazione della quaestio, tra gli altri, E. Grosso, Il “rinvio a data fissa” nell’ordinanza n. 207/2018. Originale condotta processuale, nuova regola processuale o innovativa tecnica di giudizio?, Relazione al già citato Seminario 2019 di Quaderni costituzionali.
[5] Ord. n. 207 del 2018, punto 4 del Considerato in diritto.
[6] Nel 2002, affrontando il noto caso Pretty, la Corte di Strasburgo ha recisamente escluso che il diritto alla vita, ex art. 2 Cedu, comprenda altresì un diritto a morire, precisando tuttavia che gli Stati possono disciplinare, con le opportune cautele, sia l’aiuto al suicidio, sia l’eutanasia assolutamente volontaria e controllata delle persone sofferenti. Successivamente, il favor verso la valorizzazione delle scelte individuali in tali frangenti dell’esistenza umana è apparso ancor più netto nella successione dei casi Haas c. Svizzera del 2011, Koch c. Germania del 2012 e Gross. c. Svizzera del 2013. La preoccupazione che la Corte di Strasburgo evidenzia, in tutte queste vicende, è che si proteggano senza indugi le persone vulnerabili, approntando efficaci procedimenti e altrettanti controlli. La stessa Consulta evidenzia questo profilo nell’ord. n. 207 (punto 7 del Considerato in diritto). Sulla giurisprudenza della Corte Edu in questa materia v., ad esempio, A. D’Aloia, Il caso Piludu e il diritto di rifiutare le cure (anche life-sustaining), in questa Rivista 2018, p. 1471 s. ed E. Malfatti, Sui richiami, nell’ordinanza Cappato, alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in www.forumcostituzionale.it (25 giugno 2019).
[7] Sent. n. 242 del 2019, punto 2.3 del Considerato in diritto.
[8] Punto 2.3 del Considerato in diritto.
[9] Cfr. legge n. 38 del 2010.
[10] Punto 2.4 del Considerato in diritto. A tal proposito essa fa altresì menzione del parere del 18 luglio 2019, reso dal Comitato Nazionale per la Bioetica (“Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito”).
[11] Il dubbio emergeva già dal tenore dell’ord. n. 207 e riaffiora nell’ambiguità del passaggio contenuto nella sent. n. 242, al punto 2.4 del Considerato in diritto (ove si ragiona indifferentemente della necessità di offrire al paziente «concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua», nonché di un vero e proprio «coinvolgimento in un percorso di cure palliative») (corsivo non testuale).
[12] Sul diritto fondamentale al consenso informato si v. le sentenze costituzionali n. 438 del 2008 e n. 253 del 2009.
[13] Punto 2.3 del Considerato in diritto. Critico su questo profilo, essendo persuaso della necessità di mantenere sempre distinte le ipotesi di letting die e di killing è, tra gli altri, A. D’Aloia, In attesa della legge (o del nuovo intervento della Corte costituzionale) sul suicidio medicalmente assistito, in www.forumcostituzionale.it (30 giugno 2019), § 5.
[14] Si v. l’art. 5, commi 5 e 6.
[15] A proposito della ben nota “sentenza Englaro” della Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 27148), U. Adamo, Costituzione e fine vita. Disposizione anticipate di trattamento e fine vita, Milano 2018, p. 48 s., ragiona, non a caso, di un «punto di non ritorno». R.G. Conti, Scelte di vita o di morte. Il giudice è garante della dignità umana?, Roma 2019, p. 44, analogamente afferma che la legge n. 219 del 2017, di fatto, raccoglie semplicemente il testimone della sentenza Englaro e lo «universalizza». Si v. anche C. Tripodina, Tentammo un giorno di trovare un modus moriendi che non fosse il suicidio né la sopravvivenza, Note a margine della legge italiana sul fine vita (n. 219 del 2017), in www.forumcostituzionale.it (12 gennaio 2018).
[16] Critico su questo passaggio A. Nicolussi, Lo sconfinamento della Corte costituzionale: dal caso limite della rinuncia a trattamenti salva-vita alla eccezionale non punibilità del suicidio medicalmente assistito, in G. it. - Corti supreme e salute 2019, 2, p. 14.
[17] Punto 2.3 del Considerato in diritto.
[18] Punto 2.3 del Considerato in diritto. Corsivo non testuale.
[19] Si v., ancor più chiaramente, l’ord. n. 207 del 2018, punto 9 del Considerato in diritto. Il concetto riaffiora (più debolmente) anche nella sent. n. 242 del 2019, al punto 2.3 del Considerato in diritto, ma tutta la pronuncia muove, in realtà, da una simile idea (seppur non così valorizzata come nella precedente ordinanza). Contra v. però i commenti di C. Tripodina (più oltre) e A. Nicolussi (nel testo citato alla nota 18). La Corte non esita invece a legittimare concezioni di diversa natura (“oggettive”) della dignità in altri ambiti della sua giurisprudenza: al proposito si v. l’eloquente sent. n. 141 del 2019, in materia di favoreggiamento della prostituzione, ove la Corte afferma, appunto, l’esistenza di contesti che ammettono visioni “soggettive” e/o “oggettive” di dignità. Su tale sentenza v. R. Bin, La liberta sessuale e la prostituzione (in margine alla sent. n. 141/2019), in www.forumcostituzionale.it (26 novembre 2019).
[20] Punto 2.3 del Considerato in diritto.
[21] Benché vada segnalato come l’ordinanza di rimessione non menzioni l’art. 3 Cost., mentre l’art. 32 Cost. – afferma la Corte – vi è più volte evocato per poi essere disatteso nel suo dispositivo (sent. n. 242, punto 2.3 del Considerato in diritto). Questa incongruenza è stata immediatamente rilevata dalla dottrina: A. Alberti, Il reato d’istigazione o aiuto al suicidio davanti alla Corte costituzionale. Il “caso Cappato” e la libertà di morire, in www.forumcostituzionale.it (20 marzo 2018). Taluno ha altresì messo in luce come ciò avrebbe potuto condurre a una dichiarazione d’inammissibilità; per evitarlo la Corte sarebbe stata costretta a correggere la portata della quaestio: P.F. Bresciani, Termini di giustificabilità del reato di aiuto al suicidio e diritti dei malati irreversibili, sofferenti, non autonomi, ma capaci di prendere decisioni libere e consapevoli, in www.forumcostituzionale.it (14 dicembre 2018) p. 3 e C. Salazar, «Morire si, non essere aggrediti dalla morte». Considerazioni sull’ord. n. 207/2018 della Corte costituzionale, Relazione al Seminario 209 di Quaderni costituzionali.
[22] Il tema è evidenziato da C. Salazar, «Morire si, non essere aggrediti dalla morte», cit., e da B. Pezzini, Oltre il perimetro della rilevanza della questione affrontata dall’ordinanza n. 207/2018: ancora nel solco dell’autodeterminazione in materia di salute?, in www.forumcostituzionale.it (22 giugno 2019). Analogamente si esprime C. Tripodina, Le non trascurabili conseguenze del riconoscimento del diritto a morire “nel modo più corrispondente alla propria visione di dignità nel morire”, in www.forumcostituzionale.it (14 giugno 2019). Per A. Ruggeri, Due questioni e molti interrogativi dopo la ord. n. 207 del 2018 su Cappato, in www.forumcostituzionale.it (27 maggio 2019), con le sue affermazioni la Corte si sarebbe proprio (illegittimamente) sostituita al legislatore, producendo inevitabili discipline “rabberciate” e incomplete. Di una forzatura ragiona A. Nicolussi, Lo sconfinamento della Corte costituzionale, cit., p. 8.
[23] Punto 2.3 del Considerato in diritto. Corsivo non testuale.
[24] Sentenza n. 242 del 2019, punto 2.3 del Considerato in diritto.
[25] La Corte ribadisce la centralità del (pur implicito) diritto costituzionale alla vita al punto 2.2 del Considerato in diritto.
[26] Sottolinea come la Corte appaia restia a usare in sentenza l’espressione “diritto”, valorizzando interpretativamente questa circostanza C. Tripodina, La “circoscritta area” di non punibilità dell’aiuto al suicidio, in G. it. - Corti supreme e salute 2019, 2, p. 8 ss.
[27] C. Cupelli, Il Parlamento decide di non decidere e la Corte costituzionale risponde a se stessa, in Sistema penale 2019, n. 12, p. 48.
[28] A. Ruggeri, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale, cit., p. 571 s., il quale ribadisce, in tal modo, tesi da lui coerentemente espresse in molti altri lavori.
[29] Lo evidenziano (escludendo ogni ulteriore, possibile “avanzamento” della giurisprudenza costituzionale in materia) L. Eusebi, Il suicidio assistito dopo Corte cost. n. 242/2019. A prima lettura, in G. it. - Corti supreme e salute 2019, 2, p. 3 s. e A. Nicolussi, Lo sconfinamento della Corte costituzionale, cit., p. 5.
[30] Punto 5 del Considerato in diritto. Corsivo non testuale.
[31] A. D’Aloia, In attesa della legge, cit., § 6.
[32] Per ipotesi analoghe a questa e a quelle che s’indicheranno di seguito v. C. Tripodina, La “circoscritta area” di non punibilità, cit., p. 9 s. In Canada, dopo aver introdotto l’aiuto al suicidio del malato capace, è stata – di conseguenza – ammessa anche l’eutanasia del paziente capace ma totalmente paralizzato (nel c.d. “caso Carter”): lo rimarca C. Casonato, I limiti all’autodeterminazione individuale al termine dell’esistenza: profili critici, in D. pubbl. comp. ed europeo 2018, n. 1, p. 16 ss. Per altre significative esperienze comparatistiche si rinvia alla relazione di Marta Fasan ed Elisabetta Pulice, svolta nell’incontro di studio organizzato nell’ambito del modulo Jean Monnet-BioTell “Decisioni di fine-vita in Italia e in Europa. Le prospettive dopo l’ordinanza n. 207 della Corte costituzionale”, svoltosi presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento il 15 marzo 2019.
[33] Si rinvia ancora C. Casonato, I limiti all’autodeterminazione individuale, ibidem.
[34] A tal proposito risulta estremamente significativo il documento di sintesi del gruppo di lavoro in materia di aiuto medico a morire (Aiuto medico a morire: per la costruzione di un dibattito pubblico, plurale e consapevole) – riunitosi più volte nel corso del 2019 presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Trento – pubblicato nel fasc. 3/2019 della rivista on-line BioLaw Journal.
[35] Ex art. 27, legge n. 87 del 1953.
[36] Punto 9 del Considerato in diritto.
[37] Si pensi solo alla giurisprudenza in materia di astensione obbligatoria dal lavoro per la cura del neonato o sui permessi retribuiti per l’assistenza ai parenti vulnerabili, nonché la giurisprudenza costituzionale che ha progressivamente demolito la legge n. 40 del 2004 (in materia di procreazione medicalmente assistita).
[38] Di una sentenza ablativa parziale accompagnata altresì da un contenuto additivo ragiona anche C. Cupelli, Il Parlamento decide di non decidere, cit. p. 53.
[39] Punto 4 del Considerato in diritto.
[40] V. ancora il punto 4 del Considerato in diritto.
[41] Sembra dunque che la Corte dia in tal modo corpo a una sua supplenza sub condicione: C. Tripodina, La “circoscritta area” di non punibilità, cit., p. 12.
[42] Ibidem. Corsivo non testuale.
[43] In particolare, essa cita la sent. n. 236 del 2016, in cui ha inciso sulla misura di una pena, ritenendola irragionevole e sproporzionata rispetto all’effettiva gravità del comportamento contestato e alla sanzione già prevista per altri reati «rinvenibili nel sistema legislativo», mettendo in più specifica relazione due fattispecie che definisce «non identiche» ma dotate di alcuni «tratti comuni». Ancor più netta è però la sent. n. 222 del 2018: sempre in tema di proporzionalità e ragionevolezza di una pena, dando particolare risalto alla latitanza del legislatore nel settore delle sanzioni accessorie – pur a fronte dei suoi moniti – e considerata altresì la sua più recente giurisprudenza costituzionale in materia di «sindacato sulla misura delle pene», essa procede a una «complessiva rimeditazione dei termini della questione». «Nel senso che», afferma, «a consentire l’intervento di questa Corte… non è necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis. Essenziale, e sufficiente, a consentire il sindacato della Corte sulla congruità del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di reato è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte “precisi punti di riferimento” e “soluzioni già esistenti” (sent. n. 236 del 2016)». Affermazioni ribadite alla lettera e con convinzione anche nelle sentt. n. 40 e n. 99 del 2019.
[44] Cfr. la sent. n. 26 del 1999, ove si dichiara l’illegittimità delle norme dell’ordinamento penitenziario che non allestivano «una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della amministrazione penitenziaria lesiva dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale».
[45] Punto 4 del Considerato in diritto.
[46] Punto 5 del Considerato in diritto. Corsivo non testuale.
[47] Punto 5 del Considerato in diritto. La Corte cita, per analogia, le sue sentt. n. 96 e n. 229 del 2015, ove optò, «per ragioni di cautela», per le sole strutture pubbliche.
[48] C. Cupelli, Il Parlamento decide di non decidere, cit., p. 50. Se ne tratterà subito sotto.
[49] A. Ruggeri, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, cit.
[50] Si v. ancora il punto 5 del Considerato in diritto.
[51] Da qui i dubbi sull’idoneità del Comitato etico ad assumere le funzioni che la Corte gli attribuisce: C. Cupelli, Il Parlamento decide di non decidere, cit., p. 50
[52] L. Eusebi, Il suicidio assistito dopo Corte cost. n. 242/2019, cit., p. 5.
[53] Sottolinea come questo sia un «passaggio cruciale» C. Tripodina, La “circoscritta area” di non punibilità, cit., p. 13.
[54] Punto 6 del Considerato in diritto.
[55] Critico anche C. Cupelli, Il Parlamento decide di non decidere, cit., p. 50.
[56] V. ancora A. Ruggeri, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, cit.
[57] Ne sottolineavano l’importanza, ad esempio, M. Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale, cit., § 5 e U. Adamo, La Corte è “attendista”… «facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale». Nota a Corte cost. n. 207 del 2018, in www.forumcostituzionale.it (23 novembre 2018), § 5.
[58] Punto 7 del Considerato in diritto.
[59] Le quattro condizioni illustrate devono aver formato «oggetto di verifica in ambito medico»; la volontà del malato deve essere stata «manifestata in modo chiaro e univoco», compatibilmente con le sue condizioni; egli deve essere stato «adeguatamente informato… in ordine alle possibili soluzioni alternative» (cure palliative e sedazione profonda continua» (punto 7 del Considerato in diritto).
[60] Secondo quanto illustrato da R. Bin, Giudizio “in astratto” e delega di bilanciamento “in concreto”, in G. cost. 1991, p. 3574 ss. Molti gli esempi ricavabili dalla giurisprudenza: si pensi a quanto la Corte afferma, in più pronunce, con riguardo la divario d’età tra adottanti e adottati; alla sent. n. 282 del 2002 (poi ribadita in ulteriori decisioni) sul tema della scelta delle terapie più idonee; alle sentenze in cui essa calca l’accento sull’esigenza di individualizzazione della pena (ex multis: n. 189 del 2010, n. 436 del 1999, n. 257 del 2006, n. 79 del 2007) e su quelle in cui respinge l’idea degli automatismi punitivi (tra le altre, la n. 189 del 2010, n. 68 del 2012, n. 57 del 2013, n. 105 del 2014, n. 239 del 2014, n. 149 del 2018).
[61] La quale viene perciò letta positivamente da M. D’Amico, Il caso Cappato e le logiche del processo costituzionale, in www.forumcostituzonale.it (24 giugno 2019), che ne auspica ulteriori utilizzi, anche a fronte della sempre più evidente necessità che, in presenza di casi “scabrosi” sul fronte dei diritti fondamentali, debba essere sempre più spesso la Corte a compiere la (prima) mossa decisiva. Interessanti considerazioni al riguardo anche in G. Sorrenti, Intervento al Seminario 2019 di “Quaderni costituzionali”, in www.forumcostituzionale.it (8 giugno 2019). Fortemente critica è invece l’impostazione di E. Grosso, Il “rinvio a data fissa” nell’ordinanza n. 207/2018, cit. e di A. Ruggeri, Due questioni e molti interrogativi, cit., il quale pronostica, tuttavia, che la Corte farà uso di queste tecniche processuali sempre più di frequente, a causa dell’immobilismo del legislatore (specie nelle delicate materie del biodiritto).
[62] Si tratta infatti del primo caso in cui il rinvio dell’udienza risulta corredato da un dettagliato esame della quaestio (e dalla promessa di una dichiarazione d’illegittimità “a data certa”): cfr. U. Adamo, La Corte è “attendista”, cit., § 2 e R. Romboli, Caso Cappato, cit.
[63] Al quale ultimo riserva notevole rilevanza nella recentissima sent. n. 188 del 2019.
[64] G. Salvadori, Lo stile dell’ordinanza per una nuova Corte costituzionale. Osservazioni a margine dell’ordinanza n. 17 del 2019 (e qualche suggestione sulla scia dell’ordinanza n. 207 del 2018), in Osservatorio sulle fonti 2019, 1, p. 11. A. Ruggeri, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, cit., ragiona di una disciplina inventata «di sana pianta» e di una regolazione «ad alto tasso d’innovatività».
[65] Come affermava la stessa Corte nell’ord. n. 207 – e vi fa riferimento anche al punto 2.4 del Considerato in diritto della sent. n. 242 – il legislatore si sarebbe (appunto) dovuto esprimere sull’«eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale». Essa non è dunque una scelta “obbligata”.
[66] Si v. ancora il punto 2.4 del Considerato in diritto.
[67] G. Brunelli, Imparare dal passato: l’ord. n. 207/2018 (sul caso Cappato) e la sent. n. 27/1975 (in tema di aborto) a confronto, in www.forumcostituzionale.it (29 giugno 2019), § 3 ss.
Recensione di Dino Petralia
Arroccata sull’Aspromonte, popolata di miseria e calore, agli albori degli anni cinquanta, Africo vive l’agonia che la condurrà all’abbandono di case e cose per un’incontenibile alluvione d’acqua e di disincanto.
Uomini, donne e bambini, schiacciati dalla torchiante pressione di un’Autorità che non tollera rigurgiti sociali e da una altrettanto oppressiva malavita pronta a sedare impennate contestatrici, officiano uniti il loro riscatto esistenziale chiedendo quel poco che serve a non morire o anche a morire ma nella dignità del minimo: un medico condotto che salvi i nascituri e preservi i pochi abitanti del borgo da strenue e inutili discese giù al mare in cerca di ausilio sanitario.
Tra le orgogliose condotte di sfida - la discesa a piedi nudi in città per ottenere dalla viva voce e su carta scritta del Prefetto la promessa della condotta medica; la deliberata e rischiosa indifferenza alle minacciose ingiunzioni del capoccia locale (un Sergio Rubini in versione quasi caricaturale del mafioso don Totò); la costruzione di una strada di pietre e fango in grado di collegare il monte al piano - si consuma una storia semplice e vera, intrecciata al giusto e all’ingiusto, colorita di sofferenze, sogni e delicatezze rurali.
Promesse violate e odiose rappresaglie mafiose piegheranno gli sforzi ma non i cuori. Ed è così che Africo, umiliata dall’isolamento e martoriata dalle ostilità si trasforma in luogo ideale di lotta armonica e solidale, di sedizione pacifica, di competizione esistenziale, dove la povertà fiera degli africoti giganteggia sull’imperiosità dei potenti, istituzionali e non, assumendo un ruolo dominante e fascinoso dipinto da Calopresti con la maestria del semplice ricorso all’autenticità.
Autentica la suggestione rurale del paesaggio; autentico il lessico degli interpreti calabresi e dei due leader contadini Peppe (Francesco Colella) e Cosimo (Marco Leonardi); credibile il binomio bellezza e povertà, celebrato nella nobile dignità di un’umiliazione che diventa risorsa vitale di lotta all’ingiustizia; autentica la sapienza didascalica, rustica ed emozionale del poeta e pittore Ciccio (un incisivo Marcello Fonte neo attore da Archi) che fa da sottofondo narrante ad una storia che mescola geografia del cuore e aneliti di una civiltà immaginata ma non per questo meno reale; una civiltà lontana ma diventata ingegnosamente coeva sulle scene con l’arrivo di una maestra comasca - una naturalissima e sempre efficace Valeria Bruni Tedeschi - stupita e quasi disgustata sulle prime dei disagi della terra degli ultimi e tuttavia gradatamente conquistata dalla più sublime civiltà della giusta ribellione dei contadini del luogo, dalla seduzione dell’onesta determinazione degli ultimi a volercela fare, giungendo così a ribaltare il suo ruolo di insegnante con quello di consapevole apprendista del senso del margine sociale, promosso al rango di valore primario da tutelare.
Dallo Jonio di Africo e Bianco al Mediterraneo dal sole invincibile di Albert Camus corre idealmente l’intero Aspromonte, fatto di altezze e voragini, superficie e abisso, corse e frenate, potenze e miserie, antichità sontuose e cocenti attualità. Un Aspromonte che dal racconto di Pietro Criaco (“Via dall’Aspromonte”), cui il film si ispira, entra nel sogno nostalgico di Calopresti e Lucisano (il produttore) invitando entrambi alla costruzione di una storia sognata e agognata di ritorno alle origini comuni e, al tempo stesso, di riscatto di un’intera regione.
“Sognare non costa nulla” predica Ciccio disegnando il sogno accanto al suo animale; e il sogno degli africoti ha intatta e potente l’energia rivoluzionaria degli ultimi sprigionando nello spettatore, all’unisono con le note di Nicola Piovani, la seduzione di un gratificante contagio emozionale.
di Federica Brugnara, Stefania Ciervo, Andreina Mazzariello.
Sommario: 1.La carica dei 19.- 2.Tre Giudici da tre città diverse: motivazioni ed aspettative. 3.Il Tribunale di Reggio Calabria.
1.La carica dei 19
Era il 7 febbraio 2017 quando in 19, sui 311 M.O.T. vincitori dell’ultimo concorso, scegliemmo i posti che erano stati riservati al Tribunale di Reggio Calabria alla luce dell’ampliamento della pianta organica appena intervenuto.
Eravamo perlopiù sconosciuti l’uno all’altro e di origini molto diverse, seppur la parte preponderante fosse napoletana. I tre posti di P.M. sono stati scelti da una pugliese, un napoletano e un siciliano; alla sezione del dibattimento sono invece giunti tre giudici campani, un siciliano, due calabresi, una trentina e una veneta; la sezione del riesame è stata coperta da cinque ragazzi di origine campana e, infine, la sezione civile da due ragazze campane e una romana.
Le premesse per creare un gruppo coeso e per condividere tutte le esperienze che ci attendevano (“nella buona e nella cattiva sorte”, finché trasferimento non ci separi!) erano già insite nella scelta del nome del gruppo whatsapp che ci avrebbe poi rappresentato e unito: “Reggio dal bel panorama”. Era evidente che tutti noi eravamo animati da pensieri positivi ed aspettative elevate. Che D’Annunzio avesse realmente detto, come alcuni studiosi sostengono, che il lungomare di Reggio Calabria è “il più bel chilometro d’Italia” poco importava, per noi lo sarebbe certamente diventato.
2.Tre Giudici da tre città diverse: motivazioni ed aspettative.
A Reggio Calabria…..dal Tribunale di Trento
Avevo vinto anche il concorso speciale riservato alla Provincia Autonoma di Bolzano e il tribunale di Bolzano risultava appetibile per vari motivi: mi avrebbe consentito di vivere in una realtà vicino a casa, di abitare in una città ricca di servizi e sempre ai primi posti nelle classifiche relative alla qualità della vita, di svolgere la professione di magistrato in un contesto particolare come quello bilingue, caratterizzato anche dalla complessità scaturita dalle vicende storiche di quella provincia.
Eppure sentivo la necessità di allontanarmi dai luoghi in cui ero cresciuta e di immergermi in una esperienza nuova e stimolante e arricchente sul piano professionale.
Per questo, al momento della scelta, dopo aver espresso l’opzione per il concorso ordinario, tra le varie alternative, quella di Reggio Calabria risaltava ai miei occhi con particolare luce.
Era innanzitutto la realtà più lontana da quella in cui avevo vissuto, sia dal punto di vista chilometrico, sia da quello culturale, paesaggistico e climatico.
Proprio la palese diversità rispetto a ciò a cui ero abituata rendeva Reggio Calabria carica di forza attrattiva. Io che ero sempre stata chiusa dalla imponenza delle montagne, dalle vette avvolgenti, protettive e allo stesso tempo impervie, guardavo con estrema fascinazione l’apertura del mare e l’imprevedibilità dei suoi movimenti. Peraltro, come avrei scoperto solo dopo la mia prima visita a Reggio Calabria (fatta - con un po’ di incoscienza - solo dopo averla scelta come sede) la Calabria è anche ricca di paesaggi montani ed aspri, come suggerisce icasticamente l’Aspromonte.
E poi sapevo che, nonostante la lontananza e le difficoltà che immaginavo avrei vissuto (nostalgia di casa, carico di lavoro, complessità dei processi, realtà sociale lontana dalla mia), avrei potuto contare sulla presenza di tanti colleghi giovani come me.
Era poi l’occasione per cimentarmi con processi impegnativi e per affrontare nuove questioni processuali. Venendo da una realtà giudiziaria più piccola, quale quella di Trento, dove avevo svolto il tirocinio, non avevo mai avuto l’occasione di imbattermi in un maxi processo né ero mai entrata in contatto con un fenomeno così pervicace come quello mafioso.
In ultima analisi la realtà sociale e processuale di Reggio Calabria mi induceva a ritenere che la tutela della legalità fosse maggiormente avvertita e che il ruolo del magistrato dovesse certamente essere più attivo e dinamico.
…e dal Tribunale di Milano.
La sera in cui sono uscite le sedi, io e la mia migliore amica abbiamo studiato fino a notte, davanti a una buona bottiglia di vino, quale avrebbe potuto essere il nostro futuro, nella consapevolezza che avremmo deciso in base alla funzione: lei pubblico ministero ed io giudice penale.
Reggio Calabria è stata fin da subito la mia seconda scelta: un Tribunale distrettuale, con un numero impressionante di posti per giudicante (la maggior parte destinati al penale) e un’esperienza che mi si presentava fin da subito elettrizzante.
Come dicevo, all’inizio si trattava di una seconda scelta, perché i contra non erano di poco conto: è una città molto lontana geograficamente e culturalmente da quelle in cui avevo vissuto (Pavia e Milano) e mal collegata; ero quindi consapevole che mi avrebbe richiesto un forte atto di coraggio.
La curiosità mi aveva spinto a visitare Reggio Calabria prima della scelta: la città in sé non mi era dispiaciuta, il lungomare offriva una vista suggestiva, ma il Tribunale (soprattutto se comparato a quello milanese dove avevo svolto il tirocinio) mi aveva impressionata: una struttura interna fatiscente, cumuli di fascicoli impilati a terra per interi corridoi, volti di giovani colleghi in cui si intravedevano un lontano entusiasmo e i segni di una stanchezza infinita. A questo quadro si aggiungevano i consigli di colleghi più anziani, smentiti da poche voci fuori dal coro, che mi dicevano: “vai ovunque ma non in Calabria”.
Eppure, più ci pensavo e più mi sentivo affascinata e motivata dall’opportunità di dare il mio piccolo contributo in una terra di frontiera e di lotta contro la criminalità organizzata. Ho pensato che il lavoro non mi spaventava e che anzi, idealmente, valeva tutto il sacrificio che avrebbe comportato per la mia vita; ho creduto che con il nostro arrivo le cose sarebbero cambiate, che avremmo dato un po’ di respiro ad una sede sofferente e in forte carenza di organico e che nei nostri volti sarebbe rimasto solo il grande entusiasmo di partenza. Così, complice un po’ il destino che ha completamente eliminato la possibilità di raggiungere la sede nordica prescelta, sono arrivata a Reggio Calabria con un furgoncino e un po’ di parenti al seguito. Ero felice ed emozionata, ma decisamente ingenua.
… e dal Tribunale di Napoli.
La scelta di iniziare il mio percorso professionale come giudice del Tribunale di Reggio Calabria giunge all’esito di quello che si può definire un vero e proprio turismo giudiziario: nella settimana che ha preceduto il giorno della fatidica “scelta della sede” all’hotel Ergife a Roma insieme ad alcuni colleghi, oltre che amici con cui ho condiviso anni di studi, abbiamo intrapreso un viaggio on the road tra i tribunali che avrebbero potuto essere le nostre possibili alternative, per cui, in pochi giorni e con l’entusiasmo di chi sta per realizzare un sogno, abbiamo attraversato l’Italia partendo da Napoli (la nostra sede d’origine) arrivando a Milano per poi proseguire verso Varese, passando per Brescia per poi arrivare a Vicenza, a Verona e infine a Reggio Calabria.
Era tutto perfettamente in ordine nei Tribunali efficientissimi del Nord, i Presidenti ci parlavano di statistiche e di obiettivi da raggiungere al fine di garantire una celere risposta di giustizia all’utenza; il tutto in un clima rigorosamente istituzionale.
Giunti a Reggio Calabria la prima cosa che mi ha colpito, e che si poneva in netto contrasto con le altre realtà giudiziarie (anche quella di provenienza), è stata la dimensione ridotta degli spazi e dell’organico: la sezione del dibattimento penale (quella a cui io sarei stata destinata) si componeva di soli sei giudici che si dividevano le uniche quattro stanze dislocate lungo il piccolo corridoio del quinto piano del palazzo, che è quello dedicato al settore penale; la sezione del riesame (un vero e proprio “pronto soccorso” in un Tribunale distrettuale che, come quello di Reggio Calabria, ha giurisdizione in un territorio di frontiera in termini di criminalità organizzata), invece, contava ben quattro giudici, tutti di prima nomina.
Il disorientamento iniziale ha, però, rapidamente lasciato il posto al senso di ammirazione nei confronti di quei colleghi che, pur nelle quotidiane difficoltà derivanti dalle evidenti inadeguatezze di risorse, prima umane e poi logistiche, lavoravano tutti uniti per uno scopo comune: cercare di far funzionare al meglio una non ben oleata macchina della giustizia. È ciò in un territorio che per le peculiarità socio-culturali che lo contraddistinguono aveva, ed ha, bisogno di giustizia.
È stato quello il momento in cui, pur non facendovi ancora parte, mi sono sentita coinvolta in un progetto che reputavo nobile e in cui già credevo; è stato quello il momento in cui ho pensato che il giuramento prestato qualche mese prima di “adempiere ai doveri del mio Ufficio...per il pubblico bene”, in quel posto avrebbe assunto un significato maggiore.
Devono aver pensato lo stesso anche i miei amici. Sì, perché anche loro, pur potendo indirizzarsi verso Tribunali “meno impegnativi”, hanno fatto la mia stessa scelta, regalandomi il privilegio di affrontare con chi già avevo condiviso un impegnativo percorso di studi, un’altra sfida: quella di diventare giudici insieme, e di diventarlo in una delle realtà giuridiche più difficili del nostro paese.
3. Il Tribunale di Reggio Calabria
L’arrivo a Reggio Calabria non poteva che avere su di noi un impatto forte ma entusiasmante sia dal punto di vista lavorativo che umano: fra noi colleghi si sono presto instaurati rapporti unici. Dopo i primi tempi, tutto sommato quasi spensierati, ci siamo resi conto di cosa volesse dire lavorare in un tribunale di frontiera, con poco personale amministrativo e con un numero di magistrati insufficiente rispetto al carico di lavoro.
Dal momento della immissione in possesso a quello attuale sono trascorsi più di due anni e abbiamo dunque potuto vivere concretamente e con maggiore consapevolezza la realtà sociale e giudiziaria reggina.
Il tribunale si trova ai margini del centro cittadino di Reggio Calabria, ospitato in una struttura di proprietà del Comune, che ha nel tempo dimostrato la sua inadeguatezza, sia in termini di spazi che di limiti strutturali.
Con riferimento alla sezione del dibattimento, l’anno 2018 ha registrato 8.056 pendenze, mentre l’anno 2019 ne ha registrate sin qui 8.618. Numeri davvero impegnativi che scoraggerebbero chiunque.
A ciò si aggiunga che la sezione, ad eccezione della Presidente, è composta pressoché interamente da colleghi giovani (8 magistrati del concorso D.M. 18 gennaio 2016), oltre che da un magistrato con la seconda valutazione di professionalità. Da circa un anno la sezione si è giovata dell’esperienza di un magistrato con la quinta valutazione di cui tuttavia si è già deliberato il trasferimento ad altra sede.
Abbiamo dovuto far fronte non solo alle molte lacune ed inefficienze della città reggina a livello di servizi (sanitari, di trasporto, di infrastrutture ecc.), ma anche al carico di lavoro effettivamente molto pesante, complice anche il numero e la durata delle udienze. Ciascun magistrato della sezione si è trovato infatti a dover affrontare dalle dieci alle sedici udienze mensili, cui si sommano sistematicamente udienze straordinarie, tutte protratte fino a tarda sera (anche oltre le 22).
Ed invero la sede di Reggio Calabria, come altre sedi meridionali, sconta non solo le costanti scoperture, ma anche l’elevata mobilità dei magistrati che si trasferiscono verso altre sedi giudiziarie dopo essersi legittimati. Spesso poi per i giovani magistrati si apre la temuta “botola” della Sezione GIP/GUP del Tribunale, atteso il possibile (e probabile) trasferimento d’ufficio, non appena maturato il requisito dei due anni di esercizio delle funzioni al dibattimento penale.
Il trasferimento ravvicinato e ripetuto dei magistrati, cui va aggiunta la scopertura parziale dell’organico, ha necessariamente comportato l’adozione di soluzioni organizzative improntate sempre all’emergenza, tese ad assicurare la definizione con priorità di numerosi processi di criminalità organizzata con imputati in custodia cautelare (attualmente 40) a discapito dei processi collegiali c.d. ordinari e di competenza del giudice monocratico (di cui 27 con imputati in misura cautelare custodiale).
La regressione dell’attività processuale a causa della perdita dell’istruzione probatoria per la necessaria rinnovazione degli atti per cambiamento del magistrato ha inoltre determinato che, considerato il periodo dal 2014 al 2019, il 32 % dei processi monocratici e il 13 % dei processi collegiali si sia concluso con una sentenza di non doversi procedere a causa dell’estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
La realtà di Reggio Calabria è poi singolare anche per la celebrazione di processi non solo impegnativi, ma altresì caratterizzati da una istruttoria dibattimentale particolarmente gravosa. In particolare, si sta ora celebrando un maxi processo collegiale presieduto dalla Presidente di sezione, che ha avuto un forte richiamo mediatico a livello regionale e che prevede una quantità esorbitante di prove da acquisire (275 testimoni solo nella lista del P.M. e circa 10.000 intercettazioni in fase di trascrizione).
La maggior parte dei rimanenti processi di competenza collegiale, compresi anche i restanti maxiprocessi DDA (attualmente 21), è stata così affidata quasi interamente a collegi presieduti e composti da colleghi giovani del nostro concorso.
Reggio Calabria è impegnativa non solo per il clima giudiziario che si respira, bensì anche per la presenza di un ambiente sotterraneo difficile da comprendere e da interpretare. Risulta infatti complicato e delicato trovare il giusto equilibrio fra il mantenere un atteggiamento prudente nei confronti dell’esterno, alla luce delle conoscenze acquisite nei processi svolti e lette quotidianamente nella cronaca giudiziaria, e il rinchiudersi in una boccia di vetro impermeabile.
Tuttavia sarebbe scorretto guardare la Calabria sotto una luce totalmente negativa etichettandola tout court con la ‘ndrangheta. Abbiamo infatti sperimentato i valori dell’accoglienza, della solidarietà, del senso di sacrificio, della gioiosità e dell’apertura. E abbiamo avuto la conferma della bellezza paesaggistica che permea questa terra, aspra e accogliente allo stesso tempo, un ossimoro forte che tuttavia non può lasciare indifferenti.
È poi innegabile che abbiamo costruito dei rapporti splendidi di amicizia fra colleghi, con i quali vi è un costante e vivace confronto giuridico. Non si può tralasciare inoltre il legame di affetto instaurato con il personale della cancelleria, fortificato anche dalla condivisa situazione di disagio quotidiano.
Abbiamo anche potuto contare sull’aiuto di alcuni dei colleghi reggini, con maggiore esperienza rispetto alla nostra, i quali ci hanno aiutato senza risparmiarsi in alcun modo.
Certo, proprio le condizioni lavorative e di vita, sulle quali ci siamo soffermate, comportano momenti di sconforto, stanchezza e frustrazione; nonostante tutto siamo convinte che questa esperienza ci restituirà un prezioso bagaglio professionale ed umano su cui potremo sempre contare.
di Paola Manfredonia
Questo libro è importante perchè non è soltanto una raccolta di storie vere di giovani autori di reato narrate da un magistrato che le ha conosciute in prima persona e che ha applicato le alternative al carcere che la legge appronta nella fase esecutiva della pena.
Questo libro è un omaggio al valore della educazione come principio portante della vita di ogni essere umano, che non deve mai essere smarrito specie per quei giovani che, per i più vari motivi, hanno commesso gravi errori che li hanno privati della libertà e che li hanno allontanati o sviati dal proprio percorso di crescita.
Attraverso l’educazione, offerta all’interno di un contesto penale e giudiziario, il giovane può recuperare la costruzione della propria dignità nei confronti di sé stesso e della società, consapevole che dal proprio errore, può risollevarsi e ricominciare, o, talvolta, cominciare per la prima volta.
Maria Teresa Spagnoletti consegna, con questo libro, la propria esperienza professionale e umana, senza retorica, pietismi e/o paternalismi verso i ragazzi e le ragazze che ha incontrato, veicolando in ogni pagina l’importanza della costruzione della relazione tra le istituzioni e il minore, che non si esaurisce con l’applicazione automatica della norma, ma si attua attraverso un percorso, spesso lungo e non facile per entrambe le parti, fatto di rispetto della storia di vita, di dialogo, di elaborazione di un progetto educativo, di rigore applicativo della legge, necessario per rafforzare il significato di serietà del percorso educativo in atto e delle conseguenze che possono scaturire qualora non vi sia adesione al progetto stesso.
“Il mio territorio finisce qui” sottolinea il significato del ruolo strumentale del giudice e delle istituzioni, il senso di accompagnamento del giovane in quel luogo che è il percorso esecutivo che si situa tra la commissione del reato e l’esecuzione della pena e il senso dello sforzo teso ad evitare che quel luogo si esaurisca con il carcere.
E’ importante questo libro perché può essere letto e compreso anche dai non addetti ai lavori, in particolare da chi è convinto che il problema della c.d. devianza minorile si debba affrontare e risolvere esclusivamente con l’utilizzo della repressione carceraria.
Ma anche per gli operatori esperti di diritto minorile può costituire un utile strumento di riflessione sullo spessore e sulla complessità del proprio lavoro e sulla necessità di non cessare mai di porsi in ascolto, neutrale e senza pregiudizi, delle difficoltà dell’altro, anche nei casi più complessi, coniugando le competenze tecnico-giuridiche con quelle umane e di empatia.
di Glauco Giostra
Sommario: 1. Le scelte di civiltà giuridica si nutrono anche di parole. - 2. E’ necessario cambiare anche i moduli comunicativi. - 3. Lasciare marcire i condannati in galera è pericoloso per la collettività. - 4. Alzare il livello della risposta punitiva non ha alcuna efficacia generalpreventiva - 5. Apprestare antidoti efficaci agli slogan populistici
1.Le scelte di civiltà giuridica si nutrono anche di parole
Nello scorso mese di luglio il Board of Supervisors di San Francisco, l’assemblea legislativa della città e della Contea, ha approvato una risoluzione che ha avuto una certa eco, anche internazionale. La risoluzione contiene alcune linee-guida cui la comunicazione istituzionale dovrebbe attenersi, soprattutto quando fa riferimento ai condannati, affinché venga adottato un linguaggio che collochi al primo posto l’individuo (person-first language).
L’obbiettivo è quello di evitare parole eccessivamente stigmatizzanti come criminale, galeotto, pregiudicato, perché creano «barriere attitudinali e stereotipi persistenti, che impediscono l’accesso all’impiego, agli alloggi, alle licenze professionali (…) e ad altri aspetti integranti della vita di comunità», rendendo ancor più difficile il reinserimento nella società di coloro che hanno avuto problemi con la giustizia.
Quelle parole come una sorta di lettera scarlatta, marchiano gli individui, sospingendoli irreversibilmente ai margini della società. Di qui l’idea di sostituirle con «un linguaggio che colloca al primo posto le persone», promuovendo «una comunicazione positiva, sana e imparziale », per fare in modo che «l’individuo non venga definito in misura esclusiva o determinante in base ai suoi precedenti penali, ai suoi arresti, o ad altri contatti con il sistema giudiziario penale».
Un’attenzione, anche verbale, alla dignità della persona condannata che fa tornare alla mente la Circolare con cui il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del nostro Ministero della giustizia poco più di due anni fa – era il 31 marzo 2017 – invitava le direzioni competenti a «intraprendere tutte le iniziative necessarie al fine di dismettere nelle strutture penitenziarie, da parte di tutto il personale, l’uso sia verbale che scritto, della terminologia infantilizzante e diminutiva» che caratterizza il gergo corrente all’interno degli istituti penitenziari (ad esempio: domandina, per indicare la richiesta; dama di compagnia, per indicare la presenza di un altro detenuto nella stessa cella).
Accomuna le due iniziative la condivisibile convinzione che parole stigmatizzanti o umilianti compromettono, o quanto meno ostacolano, l’opera di recupero sociale del condannato.
Si va dunque affermando la consapevolezza che i migliori principi – come nel nostro caso quello del recupero sociale del condannato – rischiano di essere “soffocati”, quando non stravolti, nella loro attuazione
da una terminologia discriminatoria; più in generale, che una migliore convivenza civile passa
anche attraverso una “ecologia” del linguaggio.
Una consapevolezza condivisibile e molto importante, ma che si pone – per così dire – “a valle”. Ancora più importante è cominciare a ragionare su quali siano gli strumenti della comunicazione per affermare o per difendere l’irrinunciabile valore di quei principi.
2. E’ necessario cambiare anche i moduli comunicativi
Limitarsi a disinfettare il vocabolario sociale, eliminando le parole culturalmente inquinanti, non basta.
Pur dopo questa bonifica, rimarrebbero messaggi e slogan in grado di corrodere presso l’opinione pubblica la fiducia in alcune scelte di civiltà e di preparare il terreno per opzioni regressive.
Del resto, facciamo l’esperimento di apportare alla frase “quel criminale deve marcire in galera”, espressione dell’attuale (in)cultura della pena, gli opportuni adattamenti linguistici suggeriti dal Board of Supervisors: “quella persona coinvolta con la giustizia penale deve marcire in galera”.
L’indecenza del messaggio non viene meno, perché non era nella parola “criminale”, bensì nell’auspicio che l’imputato sconti la pena marcendo in galera.
Proviamo allora, interpretando lo spirito più che i suggerimenti terminologici di quella risoluzione, a riformulare l’intera frase con espressioni meno rozze: “sarebbe bene che l’accusato di questo delitto venga condannato e che sconti la pena in carcere, nell’assoluta inedia, sino all’ultimo giorno”.
L’auspicio, pur dopo il restyling, resterebbe inaccettabile. Ma il problema non è deprecarlo,
bensì disinnescarlo culturalmente, affinché intorno ad esso non si coaguli un consenso politicamente significativo.
Pensare di contrastare quell’invocazione di cieca inesorabilità della pena facendo notare che contiene una grave sgrammaticatura costituzionale, poiché per la nostra Carta costituzionale le pene debbono tendere alla rieducazione del condannato, sarebbe tanto sacrosanto, quanto inefficace: sul nobile precetto dell’art. 27 comma 3 Cost. farebbero brutalmente premio i grossolani proclami “chi sbaglia paga”, “sbattiamolo dentro e buttiamo le chiavi, un delinquente in meno in circolazione”; o il più anodino “la certezza della pena”, che, sebbene scritto come uno dei principi cardine del diritto penale liberale (relativo alla predeterminazione legale della risposta sanzionatoria dello Stato), è ormai stentoreamente pronunciato, e acriticamente inteso, come “inesorabile fissità della pena”.
Bisogna cercare di capire, invece, per quale ragione questi slogan finiscono oggi per avere la meglio.
Sino all’avvento dei mezzi di comunicazione di massa e soprattutto dei social media l’esito sarebbe stato presumibilmente diverso. Possiamo dire, infatti, semplificando molto, che gli orientamenti politici e culturali maturavano in seno alla «sfera pubblica», intesa come il complesso di attività di quei consociati i cui giudizi, commenti, suggerimenti, critiche, richieste, manifesti culturali sono in grado di influenzare l’opinione pubblica e la classe politica (Habermas, Pizzorno).
Così, per rientrare nel nostro perimetro tematico, la politica penale si avvaleva prevalentemente degli apporti di giuristi, criminologi, politologi, sociologi, filosofi. Naturalmente erano necessari il filtro e la mediazione della politica, anche perché spesso, in particolare l’accademia si esibiva nella costruzione di eleganti architetture astratte, in cui – per dirla con Calamandrei – sembrava che non circolasse l’aria del mondo.
Spettava alla politica convincere la collettività della bontà delle soluzioni che aveva scelto di mutuare da quel laboratorio di idee che era la “sfera pubblica”, per aggregare il consenso democraticamente necessario.
Con l’affermazione dei social media e con il declino dell’arte del governare il processo di formazione degli indirizzi politici segue un percorso inverso, solo apparentemente più democratico.
Slogan e parole d’ordine si diffondono epidemicamente generando convinzioni a la càrte che aggregano consenso e costituiscono un ghiotto boccone per una politica più intenta ad accodarsi alle processioni del comune sentire, piuttosto che a guidarle.
In un simile contesto, replicare al demagogico “devono scontare sino all’ultimo giorno in galera” affermando “la Costituzione vuole che l’esecuzione della pena tenda ad un progressivo reinserimento sociale del condannato” è una risposta emotivamente imbelle.
Essa anzi finisce per accreditare la diffusa, mistificante, impressione che vede, da una parte, coloro che con rassicurante rigore pretendono che la pena detentiva sia scontata fino in fondo, rinchiudendo ermeticamente i pericolosi criminali entro le mura del carcere; dall’altra, i buonisti, gli indulgenzialisti, coloro che sono monotematicamente preoccupati della sorte del condannato e del suo recupero sociale.
Una siffatta risposta non ha presa perché non si preoccupa di tutelare l’interesse di cui mostra di farsi carico l’opposto approccio. Se questo trasmette un implicito messaggio rassicurante – “non siate preoccupati, questo pericoloso individuo verrà recluso entro mura ben presidiate” – l’altro risponde: “è un suo diritto costituzionalmente garantito, se dimostrerà un significativo e protratto progresso di riabilitazione sociale, veder abbassare i ponti levatoi di quelle mura”.
3. Lasciare marcire i condannati in galera è pericoloso per la collettività
Bisognerebbe, invece, contrapporre alle esibite rodomontate punitive un perentorio warning: la segregazione senza speranza mette a grave rischio la sicurezza sociale. Un’affermazione perentoria di cui non sarebbe difficile alla bisogna dimostrare il fondamento.
Fatta eccezione per coloro che scontano un ergastolo c.d. ostativo, i condannati prima o poi, espiata la pena, escono dal carcere. Sovente per tornare a commettere reati: l’indice di recidiva, con qualche sensibile oscillazione da Paese a Paese – ad esempio, supera più dell’80% in Brasile (non a caso il Paese con il tasso di carcerazione tra i più alti del mondo),
in Inghilterra si attesta intorno al 50% – è sempre molto alto.
Questa inclinazione a ri-delinquere diminuisce fortemente quando il condannato sconta la pena in un regime carcerario che ne rispetti la dignità, lo responsabilizzi e gli offra la possibilità di guadagnarsi – anche adoperandosi in favore della collettività e delle vittime dei reati – un graduale, controllato reinserimento sociale.
Pure in tal caso gli indici statistici oscillano (in Italia si scende al 19%, in Inghilterra al 22%, in Brasile, limitatamente ai penitenziari pilota Apac, al 12%) sino a registrare circoscritte realtà con percentuali di recidiva ad una cifra (il 5%, per i dimessi dal penitenziario La Stampa di Lugano).
Sarebbe intellettualmente poco onesto non riconoscere che si tratta di percentuali non certo affidabili al decimale, essendo spesso frutto di metodiche diverse di rilevazione e di calcolo. Ma sarebbe intellettualmente disonesto negare l’esistenza di una forbice molto significativa tra i crimini commessi da ex condannati, a seconda che questi abbiano subìto una pena ciecamente segregativa, orfana di ogni speranza di cambiamento, oppure una pena severa, ma non insensibile alla loro effettiva partecipazione ad un progetto di riabilitazione che li abbia preparati a rientrare nella società civile, con l’intento e la capacità di viverci come avrebbero sempre dovuto.
Se poi opportune provvidenze di assistenza e sostegno accompagnano il condannato quando
ha terminato di scontare la pena anche nelle modalità attenuate delle misure alternative nella sua “convalescenza sociale”, quasi sempre viene restituito alla società un buon cittadino. Dunque, quando lo Stato sa offrire tali opportunità e il condannato sa meritarle, la collettività ne trae un beneficio molto significativo non solo in termini di civiltà, ma proprio in termini di sicurezza.
Il proposito di lasciar marcire i detenuti in galera sino all’ultimo giorno della pena inflitta, pertanto, non è solo in contrasto con la Costituzione e con la Convenzione europea: è un attentato alla sicurezza sociale.
Questa è l’idea che si deve riuscire a inoculare nelle vene mediatiche.
Si tratta soltanto di un esempio per cercare di cambiare il modulo comunicativo. Bisogna, nell’ordine, individuare l’interesse (securitario, economico, etico o d’altra natura) sulla cui ostentata tutela fa presa la posizione che riscuote ingiustificato consenso, denunciare l’inconferenza dello strumento proposto per garantire quell’interesse e indicare le provvidenze effettivamente utili per farsene carico.
Un modulo comunicativo che si potrebbe applicare a diversi temi di attualità per sbugiardare slogan di successo (da “la difesa è sempre legittima” a “i porti chiusi servono a combattere gli scafisti”), senza ignorare le preoccupazioni sociali che mirano strumentalmente ad intercettare.
4. Alzare il livello della risposta punitiva non ha alcuna efficacia generalpreventiva
Ma restiamo al tema della punizione penale. Da sempre, e sempre più negli ultimi tempi, i Governi di fronte a forme di criminalità che inquietano l’opinione pubblica imboccano la via meno impegnativa e più inefficace dell’innalzamento della pena.
Non sanno far altro che esibire una muscolarità sanzionatoria: mettono mano alla “fondina legislativa”, innalzando il livello della pena e restringendo i diritti dei condannati.
In questa corsa al rialzo punitivo si è arrivati anche ad adombrare la possibilità di introdurre la pena di morte per i reati più efferati (tra l’altro, inquietanti sondaggi riferiscono che il 30% degli italiani sarebbe favorevole).
Anche in questi casi, sarebbe inutile obiettare che la pena di morte è vietata dalla nostra Costituzione o che comporta la certezza di uccidere degli innocenti (più del 4% dei giustiziati, secondo studi statunitensi).
Verità intangibili, ma che sul piano dialettico-emotivo costituiscono un’aberratio ictus. Bisogna ribattere con forza che l’entità della pena non ha alcun effetto generalpreventivo (consapevolezza, che non è di oggi, né dei soli giuristi: in un quadro del xv secolo, il pittore fiammingo Dieric Bouts raffigurava un patibolo, in cui viene impiccato un ladro: tra la folla assiepata intorno alla forca per assistere all’esecuzione si vede un uomo sfilare banconote a colui che gli volge le spalle).
Anzi, la minaccia della pena di morte sembra avere effetti controproducenti. Emblematico il caso degli USA, dove è largamente ammessa. Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, non soltanto vi si registrano mediamente 5,3 omicidi ogni 100.000 abitanti, mentre in Italia la media flette sensibilmente ad uno 0,8.
Ma negli Stati degli USA che non ammettono la pena di morte si conta un minor numero di omicidi rispetto a quelli che la prevedono. Anche l’idea che aumentare le pene serva a prevenire la commissione di reati, dunque, è un’idea dileggiata dalla realtà.
5. Apprestare antidoti efficaci agli slogan populistici
Bisogna allora contrastare certe pericolosissime derive, non tanto dicendo che sono incivili o incostituzionali, quanto che sono sempre inutili, talvolta pericolose, per la collettività. È necessario elaborare moduli comunicativi nuovi, che contrastino gli slogan populistici sul terreno dove mettono più facilmente radici: la paura e l’insicurezza sociale.
Beninteso, non bastano questi accorgimenti comunicativi per debellare radicalmente la tendenza dei singoli ad agognare pene spietate e della classe politica dominante a cavalcare questa istintiva propensione.
Trent’anni fa, in uno scritto emblematicamente intitolato A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Leonardo Sciascia con la sua prosa cristallina avvertiva: «i cretini, e ancor più i fanatici, son tanti; godono di una così buona salute non mentale che permette loro di passare da un fanatismo all’altro con perfetta coerenza (…). Bisogna loro riconoscere, però, una specie di buona fede: contro l’etica vera, contro il diritto, persino contro la statistica, loro credono che la terribilità delle pene (compresa quella di morte), la repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli, siano gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti (…). E continueranno a crederlo». Il presente non sembra propriamente smentire il grande scrittore siciliano.
Ma, proprio per questo, in una “democrazia dell’opinione pubblica” come l’attuale bisogna trovare antidoti comunicativi che sappiano smascherare gli imbonitori di turno, andando sul loro terreno preferito dell’insicurezza e della paura.
Se si sapranno trovare slogan demistificatori (naturalmente sorretti dalla testarda realtà delle statistiche), gran parte della collettività – eccetto gli inguaribili fanatici, appunto – potrebbe accogliere con favore una risposta penale che si faccia più credibilmente carico delle sue inquietudini, senza seminare sentimenti di paura, di odio e di vendetta.
Se non temessi di essere equivocato, direi che oggigiorno, per condurre la società verso una convivenza più sicura e più civile, cioè verso il suo vero interesse, si deve imparare ad esercitare una virtuosa demagogia.
(dalla rivista Diritto penale e giustizia, n.6, 2019)
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