ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Cassazione ribadisce la persistente differenza tra vincoli espropriativi e conformativi e la sua conformità alla Cedu, ma le incertezze restano (Nota a Cass. civ., Sez. I, Ord. 16 dicembre 2019, n. 33229)
di Giuseppe Tropea
1. La decisione che si annota, dopo aver affermato la non diretta disapplicabilità di norme di legge in contrasto con la Cedu, in linea con le consolidate opinioni della Corte costituzionale (nn. 348 e 349 del 2007, n. 49 del 2015), ritiene che la distinzione tra vincoli conformativi ed espropriativi debba ritenersi tuttora sussistente, anche alla luce dell’art. 1 del Protocollo n. 1, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che considera le misure che non si traducano nella perdita della proprietà del bene come interventi che rientrano nella regolamentazione dell’uso dei beni, ai sensi del secondo paragrafo dell’art. 1 del Protocollo n. 1.
Nel caso di specie i ricorrenti lamentavano che, nell'affermare il carattere conformativo del vincolo ad edilizia scolastica, la Corte d’appello avesse violato il principio secondo cui l'indennità di espropriazione deve riflettere l'effettivo valore dei beni ablati, sia in diretta applicazione della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, sia per effetto del Trattato di Lisbona, che la ha trasposta nel diritto dell'Unione, con conseguente efficacia diretta delle norme convenzionali, obbligo di disapplicazione delle norme interne in contrasto con essa, e superamento della distinzione tra vincoli che hanno la conseguenza di privare il proprietario del ristoro dovutogli per il sacrificio imposto da causa di pubblica utilità.
L’ordinanza in esame, nonostante la sua conformità a consolidata giurisprudenza, induce qualche riflessione di ordine più generale.
2. La giurisprudenza di legittimità, nel decidere sulla distinzione fra vincoli a carattere espropriativo e limiti di carattere conformativo, a fini indennitari nei casi di opposizione alle indennità espropriative ed a fini risarcitori nei casi di danno per occupazione acquisitiva, ha dato rilievo al carattere generale ed obbiettivo ovvero a titolo particolare della limitazione concretamente apportata al diritto di proprietà.
Mentre i vincoli conformativi sono quelli aventi i caratteri «della incidenza su una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione assolta dalla intera zona in cui questi ricadono, in ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del rapporto (per lo più spaziale) con un’opera pubblica», quelli di carattere sostanzialmente preordinato all’espropriazione si presentano «come vincoli particolari, incidenti su beni determinati, in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione puntuale (con indicazione empiricamente, per ciò, detta ‘lenticolare’) di un’opera pubblica, ‘la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata ma ne esige la traslazione in favore dell’ente pubblico’» (v., fra le tante, Cass., Sez. un., n. 173/2001); dovendosi peraltro intendere il rapporto fra le due tipologie di vincoli in termini di regola-eccezione, sicché lo scrutinio sulla sussistenza di un vincolo espropriativo deve essere condotto in termini rigorosi, applicandosi in via residuale il regime dei vincoli conformativi.
È essenziale, nelle pronunce della Cassazione, l’elemento della inclusione o meno del vincolo relativo alla singola area nell’ambito della più ampia disciplina di zona, assegnando rilievo all’estensione dell’operazione urbanistica e al carattere «di massima della destinazione nel quadro dei complessivi equilibri territoriali», ovvero, secondo un criterio più sfumato, alla circostanza che il servizio previsto dal vincolo trascenda la necessità di una zona circoscritta e sia quindi concepibile solo nella complessiva sistemazione del territorio (v. Cass., Sez. I, n. 15389/2007, relativa proprio a vincoli ad edilizia scolastica).
La pronuncia in esame riprende tale passaggio, ritenendo di dover ribadire il principio, definito consolidato (Cass. n. 15389 del 2007; n. 15616 del 2007; 12862 del 2010; n. 8231 del 2012; n. 14347 del 2012; S.U., n. 3660 del 2014), secondo cui la destinazione di aree ad edilizia scolastica configura un tipico vincolo conformativo - in quanto trascende le necessità di zone circoscritte, ed è concepibile solo nella complessiva sistemazione del territorio, nel quadro della ripartizione zonale in base a criteri generali ed astratti -, che determina il carattere di non edificabilità delle relative aree, neppure sotto il profilo di una realizzabilità della destinazione ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, giacchè l'edilizia scolastica è riconducibile ad un servizio strettamente pubblicistico, connesso al perseguimento di un fine proprio ed istituzionale dello Stato, su cui non interferisce la parità assicurata all'insegnamento privato.
Rimane in secondo piano il concorrente criterio della misura della incisione sulle facoltà di utilizzabilità del bene, di regola formalmente utilizzato non tanto al fine di definire il carattere conformativo o espropriativo del vincolo (a ciò rilevando in via principale, e quasi autosufficiente, il carattere generale o particolare dello stesso), quanto piuttosto nella fase successiva a quella di definizione della natura del vincolo, per riconoscere o escludere l’edificabilità, in applicazione della disciplina urbanistica di zona.
La decisione in commento non si discosta da tali criteri, anzi, ne riconduce la compatibilità al contesto convenzionale, in tal modo attenuando la portata del “rinascimento proprietario” da quest’ultimo recata, sia sotto il profilo assiologico che di teoria delle fonti.
3. Anche la giurisprudenza costituzionale, tanto a fini indennitari (v. sent. n. 6/1966) tanto in tema di decadenza e reiterazione del vincolo (v. sent. n. 179/1999), ha distinto fra vincoli riconducibili al potere espropriativo (art. 42, comma 3, Cost.) e ascrivibili invece alla potestà conformativa (art. 42, comma 2, Cost.), basandosi su due criteri: a) quello del carattere generale o particolare della limitazione alla proprietà: mentre i vincoli conformativi sono limiti «attinenti al regime di appartenenza o ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni ... identificabili a priori per caratteristiche intrinseche», quelli espropriativi sono privi di «questo carattere generale ed obbiettivo», in quanto comportano «un sacrificio per singoli soggetti o gruppi di soggetti rispetto a beni che non si trovino nelle condizioni suindicate»; b) quello della effettività della limitazione alla proprietà, per cui viene in rilievo, al di là del dato formale del trasferimento del diritto in capo all’Amministrazione, la concreta restrizione delle facoltà di godimento in confronto a quelle sussistenti al momento dell’imposizione, con particolare riguardo alla utilizzazione economica fondamentale (non solo edificatoria) del bene e alla variazione del suo valore di scambio.
Peraltro, a conferma di come anche nella giurisprudenza alsaziana vi sia un approccio non unilateralmente “proprietario”, si noti che la misura della incisione sulle facoltà di godimento del bene è elemento determinante pure nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ai fini di riconoscere sussistente la violazione della regola generale del “principio del rispetto della proprietà” (di cui al primo periodo del primo comma dell’art. 1), alla quale è ricondotto il tema dei vincoli espropriativi (v., fra le tante, 15 luglio 2004, Scordino, relativa a vincolo a infrastrutture scolastiche e viabilità).
Il sindacato sul rispetto da parte degli Stati contraenti del “giusto equilibrio” tra l’interesse generale della comunità perseguito con il vincolo e l’interesse fondamentale del privato al rispetto dei propri beni, quale limite al pur ampio margine di apprezzamento di cui essi godono nella disciplina dell’uso dei beni, ha infatti riguardo non solo alla durata della limitazione, ma anche alle effettive possibilità di vendita dello stesso e al suo valore di scambio, specie quando non ne sia dimostrato un possibile uso alternativo, secondo l’approccio concreto tipico della Corte EDU.
4. Può essere interessante in questa sede notare che la Cassazione arrivi alle medesime conclusioni di alcune pronunce di quasi vent’anni fa, ma attraverso un percorso meno coraggioso in punto di teoria delle fonti.
Basti qui ricordare quella decisione in cui, proprio in tema di vincoli conformativi, si è ritenuto di poter dare immediata applicazione della norma Cedu che sia dotata di immediata precettività rispetto al caso concreto, giungendosi ad affermare che in caso di contrasto con la norma interna quest’ultima debba essere disapplicata (v. Cass., sez. I, n. 10542/2002, in Corr. giur., n. 6/2003, con nota di R. Conti, La Cassazione, il diritto di proprietà, e le norme della CEDU. Una sentenza da non dimenticare).
In concreto, però, trattandosi di considerare il parametro costituzionale rispetto a quello Cedu, anche allora si è comunque ritenuta – più o meno come nella decisione in commento – manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 16 della legge 29 giugno 1939 n. 1497, e dell’art. 149 d.lgs. 29 ottobre 1999 n. 490, nella parte in cui prevedono l’apposizione, anche a mezzo di piani territoriali paesistici, di vincoli di inedificabilità senza determinazione di durata o previsione di indennizzo, poiché il sistema di tutela del paesaggio, dell’ambiente, del patrimonio storico e artistico, giustificano l’affermazione di limitazioni all’uso della proprietà dei beni vincolati - senza limitarne, peraltro, la commerciabilità, o una redditività diversa da quella dello sfruttamento edilizio - alla luce dell’equilibrio costituzionale tra gli interessi in gioco, che vede alcune delle facoltà del diritto dominicale recessive di fronte alle esigenze di salvaguardia dei valori culturali ed ambientali, in attuazione della funzione sociale della proprietà; detto sistema non contrasta con l’art. 1 del prot. n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che, pur ispirato alla necessaria proporzionalità tra l’interesse pubblico perseguito e la tutela della proprietà privata, non esclude un sacrificio dello ius aedificandi per la salvaguardia di interessi paesaggistici e ambientali.
La decisione in commento, quanto al primo profilo, sconta indubbiamente la sopravvenienza delle note sentenze “Silvestri” del 2007, non a caso adottate proprio nella materia sensibile dei rapporti fra limitazione della proprietà privata e Cedu.
Il secondo profilo, come detto, solleva invece il ricorrente problema della individuazione della linea di demarcazione fra ciò che secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo rientra tra le misure privative, per le quali si pone un problema di indennizzabilità della espropriazione - legittima o de facto – e ciò che integra una misura limitativa del godimento del bene, rispetto alle quali non si pone alcun problema di indennizzo, ma piuttosto di proporzionalità fra interesse pubblico e sacrificio imposto al privato. Tale confine, alla luce della giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo, non è affatto semplice da focalizzare (v., ancora, R. Conti, op. cit.).
La dottrina, nel tentativo di fornire un criterio di massima, ha sostenuto che laddove gli effetti sostanziali del procedimento si risolvono in una privativa delle prerogative del diritto di proprietà dotate dei caratteri della definitività e della tendenziale irreversibilità, si ricade nelle misure espropriative.
D’altra parte, anche il criterio dell'utilità economica è piuttosto generico (v. S. Amorosino, Una rilettura costituzionale della proprietà a rilevanza urbanistica, in Riv. giur. ed., 2019, 3 ss.): qual è la soglia della diminuzione percentuale del valore del bene, determinata direttamente dalla legge (o, nella nostra materia, da provvedimenti di pianificazione o regolamentari), oltre la quale il bene deve essere considerato sostanzialmente espropriato? Quella che ne impedisce qualsiasi utilizzazione o destinazione economica o quale altra? E — in molti casi — come si accerta il superamento della soglia?
5. Non è questa la sede per considerazioni relative al rapporto fra fonti. La giurisprudenza resta assestata sugli arresti della Consulta del 2007, come ha dimostrato anche più di recente in altri casi, che hanno chiamato la delicata vicenda della tenuta del giudicato interno in contrasto con le pronunce della Corte Edu (v. sent. n. 123/2017). Forse sta per avviarsi un nuovo ordine alla luce del Protocollo n. 16, ma allo stato non è prefigurabile tale assetto, né la richiamata giurisprudenza della Cassazione del 2002 appare riproponibile.
Peraltro, come detto, anche questa giurisprudenza, al netto delle coraggiose aperture in tema di rapporto fra ordinamenti e teoria delle fonti, finiva per legittimare la cittadinanza costituzionale della distinzione fra vincoli espropriativi e conformativi.
Sul punto possono adottarsi due distinti approcci.
Da un lato si potrebbe dissentire radicalmente dal merito delle conclusioni degli ermellini.
In passato la dottrina lo ha fatto, anche se da posizioni radicalmente opposte.
Come noto, infatti, c’è chi ha autorevolmente ritenuto che la distinzione tra limitazioni in via generale e imposizioni a titolo particolare, che danno luogo, avendo carattere espropriativo, ad un indennizzo, appare contraddittoria «rispetto allo specifico sistema delineato dalla Costituzione per ciò che riguarda gli interventi pubblici sulle proprietà dei privati e inoltre, pur pretendendo di svolgersi in un contesto caratterizzato da forti pretese egualitarie, introduce notevoli ed arbitrari elementi di contraddizione”» (S. Rodotà, Art. 42, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna, 1982, 121 ss., spec. 132). Altri, più di recente, sono arrivati alle medesime conclusioni, ma su premesse assiologicamente diverse, più liberali, finendo per ritenere incompatibile con la Cedu la distinzione fra vincoli conformativi ed espropriativi (G. Leone, Indennità di espropriazione: tutto risolto? Ovvero sulla (in)esistenza dei vincoli espropriativi e conformativi, in Riv. giur. ed., 2008, 185 ss.).
Il problema, ad avviso di chi scrive, sembra essere piuttosto quello dei margini interpretativi delle distinzioni, e del rispetto, in questo senso, di quella “prevedibilità” dell’incisione della proprietà privata centrale nella giurisprudenza di Strasburgo.
In tal senso, sembra che dei due profili presenti, sin dall’origine, nell’espropriazione per p.u., quello strutturale (attinente al trasferimento di proprietà alla p.a.) e quello funzionale (della realizzazione dell’interesse pubblico), col primo che risolve un problema di appartenenza (norme di relazione), e il secondo un problema di attuazione dell’interesse pubblico (norme di azione), pur a fronte del “rinascimento proprietario” dei primi del 2000 il secondo non sia mai venuto del meno, prestando il fianco a persistenti profili di criticità.
Lo dimostra plasticamente la vicenda dell’occupazione acquisitiva, sublimata in chiave di interesse pubblico dall’istituto dell’acquisizione sanante, la cui conformità a Costituzione, e quindi al Primo Protocollo Cedu, seppure ormai certificata (v. Cost. cost. n. 71/2015), continua a presentare profili di criticità, come dimostra ad esempio il controverso istituto della c.d. usucapione sanante, di fatto ammessa (sia pure con dei limiti) da Ad. plen. n. 2/2016.
Si tratta di persistenti “valvole di sicurezza del sistema” (R. Pardolesi, Occupazione appropriativa, usucapione e valvole di sicurezza, in Foro it., 2014, III, 590 ss.) che attestano risorgenti istanze di funzionalizzazione, la cui compatibilità con la Cedu appare sempre a rischio.
Nel nostro più specifico caso la pur teoricamente condivisibile distinzione fra vincoli espropriativi e vincoli conformativi appare di discutibile armonizzazione ai parametri Cedu nella misura in cui sembra declinarsi in una sorta di presunzione relativa a favore della automatica riconducibilità dell’edilizia scolastica ai secondi, a fronte di un ordine di idee che – invece – dovrebbe come detto condurre alla residualità del vincolo conformativo, o, comunque, ad una verifica in concreto, più compatibile con le modalità decisorie della Corte Edu.
Sennonché è di nuovo su questo fronte che si misurano delle distanze fra Cassazione, che resta giudice di legittimità, e cui anzi le riforme degli ultimi anni conferiscono sempre di più lo ius constitutionis, a detrimento dell’originario ius litigationis (critico, autorevolmente, G. Verde, Jus litigatoris e jus constitutionis, in Il difficile rapporto tra giudice e legge, Napoli, 2012 40-41), e Corte Edu, legata invece alle peculiarità del caso singolo.
Se è così, forse il dissidio verrà definitivamente superato facendo un passo avanti nel raccordo fra ordinamenti, non tanto ripristinando la tesi – fugacemente affermata dalla Cassazione nel 2002 – della disapplicazione, posto che anche a livello convenzionale l’interesse pubblico mantiene una sua rilevanza, quanto operando una maggiore convergenza in punto di modalità di giudizio delle Corti supreme.
Se nel “dialogo fra corti” la legalità, valore tuttora centrale quando si incide sulla proprietà, si declina pure come prevedibilità, anche la distinzione fra vincoli espropriativi e conformativi merita maggiore certezza e minore occasionalismo. Né all’uopo appaiono condivisibili unilaterali generalizzazioni presuntive, più spesso formulate a favore di persistenti sacche di funzionalizzato interesse pubblico (sul tema v. G. Tropea, Le presunzioni nel processo amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2019, 683 ss.), con buona pace della genericamente affermata residualità del vincolo conformativo.
A ciò si deve accompagnare, evidentemente, un sindacato rigoroso sulla legislazione in materia, ormai anche regionale, e sulle conseguenti misure amministrative di piano, fondato sui canoni della ragionevolezza, proporzionalità, non discriminatorietà, affidamento del cittadino, giusto procedimento.
Nuove prospettive per la magistratura onoraria?
di Silvia Iacona
L'ordinanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea emessa il 29 ottobre 2019 dal dott. Gaetano Campo, Giudice del Lavoro presso il Tribunale di Vicenza, ha il pregio di affrontare con precisione e dovizia di particolari la materia, evidenziando le diverse problematiche che hanno spinto la categoria dei magistrati onorari ad adire, sempre più numerosi, l’autorità giudiziaria per vedere riconosciute elementari tutele loro spettanti come lavoratori.
Il provvedimento ripercorre in modo preciso e dettagliato la storia della magistratura onoraria, dalla sua nascita, con il Regio decreto n- 12/1941, fino alla legge-Orlando; richiama le disposizioni nazionali relative alla fattispecie e i provvedimenti di rango secondario - costituiti dalle circolari emanate nel corso degli anni dal Consiglio Superiore della Magistratura - che hanno contribuito a trasformare il volto della magistratura onoraria, integrando in modo rilevante la legge ed a tratti derogandola. Inoltre, espone gli orientamenti della giurisprudenza di merito e di legittimità e le ragioni giuridiche sottese al loro costante rifiuto a riconoscere ai magistrati onorari la qualifica di “lavoratori” rimarcando il carattere “volontario” delle funzioni loro svolte; si sofferma sugli orientamenti dell’Unione Europea, richiamando i principi, le direttive e gli accordi quadro sui quali si fondano le note sentenze O’Brien ed Eu Pilot. Infine, dopo aver ampiamente illustrato i predetti orientamenti, espone le ragioni dell’opportunità di sollevare la pregiudiziale innanzi alla Corte di Giustizia Europea affinché interpreti la nozione di “lavoratore” e stabilisca se in essa possa rientrarvi il caso di specie e precisa che il quadro offerto dal Regio decreto n.12/1941 (provvedimento vigente sino al momento di presentazione del ricorso) non pare rispecchiare il reale e concreto atteggiarsi del fenomeno della magistratura onoraria ed dei G.o.T. in particolare.
In realtà, la figura del magistrato onorario, inizialmente concepita come di mero supporto al magistrato togato, si è profondamente evoluta negli anni per sopperire alle carenze di organico dei Tribunali ed ha finito per svolgere le medesime funzioni del magistrato professionale, contribuendo sensibilmente all’innalzamento della produttività con un impiego di tempo e risorse che esorbitano dai limiti previsti dall’onorarietà delle funzioni. Per questo si attende, fiduciosamente, un intervento della Corte di Giustizia Europea che risolva la questioni dei rapporti che da anni logorano magistratura onoraria, da un lato, e magistratura togata e Ministero, dall’altro.
Sulla giustizia tributaria e sulla necessita’ di parlarne di Enrico Manzon
Sommario: 1. Una breve premessa - 2. C’era una volta l’art. 9, secondo comma, prima parte, del codice di procedura civile: una storia giurisdizionale. - 3. Un paradosso, anzi due. - 4. La centralità della questione. E’ arrivato il tempo della riforma ? - 5. Una considerazione finale
1. Una breve premessa
Recentemente il Presidente Mattarella, rispondendo alla domanda di uno studente delle scuole superiori in visita al Quirinale sul perché in Italia è così difficile contrastare l’evasione fiscale, ha definito questa vera piaga sociale come una “indecenza” dovuta a vari fattori, ma ponendo quale primo fra tutti quello culturale.
Oltre agli ingenti danni, socio-finanziari, che lo stesso Capo dello Stato ha nell’occasione rammentato, va soggiunto che questa “specialità” -nella quale il nostro Paese ha pochi competitors all’altezza nel panorama mondiale, mantenendone saldamente il primato nella UE- negli ultimi 30/40 anni ha prodotto un ugualmente “invidiabile” volume di contenzioso.
Tale enorme massa di liti non ha però mai ricevuto le cure e l’attenzione corrispondenti al suo rilievo economico, istituzionale e sociale.
Ciò è inspiegabile sul piano di una pur minima logica di politica giudiziaria.
Non può infatti dubitarsi che l’obbligo di contribuzione alle spese pubbliche in ragione della propria capacità economica, secondo la previsione dell’art. 53, primo comma, della nostra Costituzione, sia un vero e proprio fundamentum rei publicae, estrinsecandosi in esso i principi supremi degli artt. 2 e 3 della Carta medesima.
In ogni caso l’assolvimento, almeno adeguato, di questo obbligo civico fondamentale è una misura precisa della civiltà di una Nazione, come del resto lo stesso Presidente Mattarella ha ricordato allo studente che lo interpellava.
Tuttavia, come appena detto, nel nostro Paese la regolazione dei conflitti tra gli Enti pubblici impositori ed i contribuenti è stata ed è relegata in una condizione di “minorità” ordinamentale e logistica che, si potrebbe dire ancora con Mattarella, estendendone il pensiero, ha evidentemente anch’essa una ragione prima di tutto “culturale”.
Comunque sia, questo gap ha tanti “padri e madri”; purtroppo, tra questi va sicuramente inclusa anche la magistratura ordinaria, per variegati profili, tutti ugualmente poco giustificabili ed in ogni caso dannosi.
Di questo voglio occuparmi nelle brevi note -di analisi e di proposta- che seguono.
2. C’era una volta l’art. 9, secondo comma, prima parte, del codice di procedura civile: una storia giurisdizionale
Nel codice di procedura civile del 1940 la competenza –esclusiva- a decidere sulle “imposte e tasse” era del Tribunale ordinario, quindi le impugnazioni di merito e di legittimità spettavano alle Corti di appello ed alla Corte di cassazione. La giustizia tributaria era dunque integralmente assegnata all’area della giurisdizione ordinaria.
Certo, a quel tempo il sistema del diritto tributario sostanziale era incomparabilmente diverso da quello attuale sia a livello costituzionale sia a livello della normazione sub costituzionale, primaria e secondaria. Era davvero un “altro mondo”.
Le Commissioni tributarie esistevano già, essendo state istituite negli anni ’30, ma nessuno ne dubitava la natura amministrativa, non giurisdizionale. Ed infatti in questi termini nella prima era della Costituzione repubblicana si è espressa la Corte costituzionale, a fronte di questioni di legittimità costituzionale che le riguardavano, prospettate in relazione all’art. 102, secondo comma, ed alla VI disposizione transitoria della Costituzione.
Peraltro, fino alla c.d. “riforma Visentini” dei primi anni ’70 il diritto tributario italiano si reggeva essenzialmente sulle imposte indirette, con uno spazio molto delimitato per quelle dirette. In buona sostanza era un sistema impositivo davvero ridotto e poco in linea con i principi costituzionali, particolarmente con quelli di capacità contributiva e di progressività ex art. 53, Cost., che del resto nella prima vigenza del testo costituzionale erano, come altre disposizioni costituzionali, considerate “norme programmatiche”, non precettive.
Si può senz’altro dire pertanto che l’attuazione di questi principi è iniziato proprio con i decreti legislativi del 1972 e del 1973, quindi in particolare con l’istituzione delle imposte sul reddito delle persone fisiche e giuridiche (dPR 597-598/1973), con l’introduzione dell’IVA (dPR 633/1972, in attuazione delle c.d. prima e seconda direttiva CE dell’11 aprile 1967), con i testi unici sull’accertamento e sulla riscossione delle imposte sui redditi (dPR 600-602/1973).
Indubbiamente si è trattato un “cambio di sistema”, peraltro accompagnato da una parallela riforma delle Commissioni tributarie, e del processo avanti le medesime, chiaramente improntata alla loro “giurisdizionalizzazione” (dPR 636/1972).
Questo è stato il primo, ma fondamentale, “colpo” alla regola generale del codice di procedura civile, che poi -anche con la “copertura” di vere e proprie “acrobazie ermeneutiche” da parte della Corte costituzionale- è stato portato alle sue estreme conseguenze con la riforma ordinamentale e processuale del 1992.
In particolare con l’art. 2, d.lgs, 546/1992 e successive modifiche si è progressivamente spostato tutto il sistema dei tributi nell’area della giurisdizione speciale di merito delle Commissioni tributarie, sicchè, allo stato, può tranquillamente affermarsi che l’art. 9, secondo comma, prima parte, cpc, è stato implicitamente abrogato “per incompatibilità”.
Dunque, il sistema attuale di giustizia tributaria è attualmente di tipo “misto”: speciale (Commissioni tributarie provinciali e regionali) per i due gradi di merito, ordinario per il giudizio di legittimità, secondo la Costituzione (art. 111, Cost.), spettante alla Corte di cassazione.
3. Un paradosso, anzi due
Questo “sistema” tuttavia ha subito una “mutazione genetica” dall’interno, senza tanti strepiti e senza che quasi nessuno, almeno all’esterno dell’apparato giurisdizionale stesso, se ne accorgesse ovvero vi prestasse particolare attenzione.
Per effetto di una, apparentemente minimale, modifica normativa del 2011, introdotta quasi di soppiatto nelle pieghe delle solite misure normative finanziarie di fine anno, si è sancito una sorta di “blocco” all’ingresso di nuovi componenti delle Commissioni tributarie non appartenenti a corpi professionali specifici (in particolare: magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari).
La conseguenza, di fatto, è che, oggi, quella che è una giurisdizione speciale dal punto ordinamentale, dal punto di vista “soggettivo” del personale di magistratura è -quasi- una “magistratura ordinaria”, posto che attualmente più della metà degli attuali giudici tributari sono magistrati appartenenti all’ordine giudiziario (ordinario).
Non solo. La Corte di Cassazione, anche a causa della “crisi dell’arretrato” (oltre 50 mila ricorsi pendenti, tempi di giustizia dilatati a dismisura) e per effetto delle recenti misure straordinarie conseguenti (legge di bilancio 2018), ha dotato la propria sezione tributaria (quinta civile) del più rilevante numero di magistrati (quasi 100 tra presidenti, consiglieri, addetti del massimario applicati, giudici ausiliari: poco meno di un terzo del totale della Corte, la metà circa dei magistrati addetti al settore civile).
Ed è questo un primo paradosso: dopo il termine del processo di “specializzazione” la giurisdizione tributaria attuale è divenuta molto più “ordinaria” che mai!
Ma, nella situazione attuale, di paradosso se ne può rilevare poi un altro ossia che -in termini inversamente proporzionali al silenzioso e costante processo di “colonizzazione” delle Commissioni tributarie- oggi nella magistratura ordinaria associata sempre meno interesse vi è per il “funzionamento” della giustizia tributaria e per le sue proposte di riforma.
Questo è davvero sorprendente, a fronte delle carenze strutturali generali dell’attuale assetto ordinamentale di tale settore giudiziario, che pure sono di tutta evidenza, al di là dei fatui discorsi sulla rapidità dei tempi processuali delle Commissioni: sarà pur vero che il meglio è nemico del bene (Voltaire?), ma il presto troppo spesso con il bene non ha nulla a che fare. Come diceva Ippocrate, “il giudizio è difficile”.
Tuttavia la realtà è che la communis opinio dei magistrati, anche di quelli che in queste “colonie giurisdizionali” ci vanno, è che si tratti di un “contenzioso minore”, nel quale non c’è “gloria”, come se in definitiva fossero “cose da ragionieri”, non giuristi: questo è appunto, paradossalmente, un profilo culturale, del tutto rilevante, della “questione tributaria”, che ben aderisce al senso sostanziale delle recenti considerazioni del Presidente Mattarella.
4. La centralità della questione. E’ arrivato il tempo della riforma ?
Eppure “minore” questo contenzioso non lo è. Eppure di cose da dire al riguardo ce ne sono, eccome.
Basterebbe prestare ascolto all’insoddisfazione degli stakeholders, privati contribuenti e creditori d’imposta pubblici; basterebbe leggere, “a campione”, un centinaio di sentenze di Commissione tributaria, provinciale o regionale che sia; basterebbe leggere il bilancio dello Stato ed i bilanci delle imprese; basterebbe leggere le raccomandazioni dell’UE e dell’OCSE.
Basterebbe prestare attenzione alle parole di Mattarella e di “quanta Costituzione” nelle stesse è contenuta.
Ed infine basterebbe riflettere per un attimo sul primo dei due paradossi rilevati nel paragrafo precedente e chiedersi: ma perché i magistrati ordinari sono così disponibili a lavorare per la giustizia tributaria com’è (a tempo perso e con retribuzioni piuttosto contenute, se non spesso irrilevanti, nemmeno per la “gloria”) e per contro non lo sono ad interessarsi minimamente di come invece dovrebbe e potrebbe essere?
Bene, credo sia tempo che qualcuno cominci a farlo e penso anche che la parte della magistratura che è più attenta ai valori costituzionali della giurisdizione “in generale” abbia un preciso, pressante, dovere al riguardo.
Del resto, la questione della riforma della giustizia tributaria è tornata da qualche tempo nell’agenda della politica ed addirittura all’ “onore delle cronache”, non solo delle gazzette specializzate.
E si profilano orizzonti che difficilmente possono considerarsi approvabili da parte di quella magistratura appena evocata.
Infatti, si va da –improbabili e velleitarie- soluzioni per la “quinta magistratura” (disegni di legge, attualmente in discussione in Parlamento, in particolare del Movimento 5 Stelle e della Lega) alla vindicatio potestatis della Corte dei conti (peraltro in qualche modo avallata a livello del Governo attuale o almeno di una parte, tutt’affatto irrilevante, dello stesso).
Queste linee di tendenza non preoccupano, non devono preoccupare?
Dobbiamo, anzi, salutare addirittura con sollievo il fatto che questa fetta di tutela giurisdizionale dei diritti, insomma questa “rogna”, se la prenda, in blocco, qualcun altro?
Io penso proprio di no. Penso invece che sia davvero giunto il momento (meglio tardi, che mai) del taking (these) rights seriously.
Non può più sfuggirci infatti che, essendo il “rapporto di contribuzione” fiscale alla base della nostra convivenza civile, occuparsi dei relativi conflitti è affare della massima rilevanza, costituzionale, unionale, economica, sociale.
Quindi -in generale e prima di tutto- culturale.
Magari non sarà ancora il “tempo della riforma”, per tutte le ragioni, risalenti e presenti, della vischiosità politica e corporativa italiana.
Sono però convinto che sia il tempo di pensare -appunto seriamente- ai “termini” di una riforma che riassetti il sistema secondo le direttrici della Costituzione sia nei profili ordinamentali e processuali (artt. 102, 111) sia in quelli sostanziali (artt. 2, 3, 53).
Che sia dunque il tempo per riprendersi, in qualche modo utile e possibile, quella competenza che è, tuttora, formalmente scritta nell’art. 9, secondo comma, prima parte, del codice di procedura civile.
5. Una considerazione finale
Dopo 25 anni di esperienza nelle Commissioni tributarie, iniziata ancor prima della riforma del ’92, e dopo alcuni anni “vissuti intensamente” nella sezione tributaria della Cassazione ossia nell’ occhio del ciclone, la mia, minimamente articolata, conclusione è la seguente.
Primo. Il ruolo nomofilattico della Corte di cassazione -di presidio dei valori giurisdizionali costituzionali, anche nella materia tributaria- va riaffermato e difeso con molta fermezza, senza se e senza ma.
Secondo. Non vi è alcuna possibilità di farlo, con concreta efficacia, se non promuovendo una soluzione che riporti nell’alveo della giurisdizione ordinaria, almeno, il grado di appello delle liti fiscali.
Questo per due -ugualmente essenziali- ragioni: la prima è la qualità, allo stato mediamente insoddisfacente, se non mediocre, delle sentenze ricorribili per cassazione e perciò della relativa, perniciosa, elefantiasi del giudizio tributario di legittimità; la seconda è la necessità di creare un “canale soggettivo bidirezionale” tra appello e legittimità ossia uno scambio diretto di personale giudicante, come avviene per le altre materie civili e per quella penale, così da generarne un analogo, essenziale, milieu professionale e culturale, i cui effetti positivi sono del tutto evidenti sia all’interno sia all’esterno dell’Istituzione giudiziaria e del suo servizio.
Insomma, si tratta di istituire una “circolazione virtuosa” di atti e di soggetti, per allineare l’offerta di giustizia di giustizia tributaria agli standards usuali della giurisdizione ordinaria.
All’obiezione che questa è una “pazza idea”, stante la situazione critica risalente ed attuale delle Corti territoriali, si può replicare che le risorse umane sono acquisibili in vario modo e più facilmente se si adottasse lo “schema” della sezione specializzata (che non dà comunque alcun problema di costituzionalità, anzi, stante la previsione di cui all’art.102, secondo comma, seconda parte, Cost., della quale sarebbe una precisa attuazione).
Quanto poi alle risorse materiali ed economiche è sufficiente sottolineare che si tratta dei tributi ossia del modo essenziale con il quale la Pubblica Amministrazione finanzia le proprie attività e la spesa sociale.
Questa è quindi l’unica materia nella quale il rapporto “costi/benefici” è davvero assolutamente diretto, il che giustifica all’evidenza ogni spesa –razionalmente- effettuata.
Certo l’ideale, per me, sarebbe tornare alla “casella 1” come nel gioco dell’oca ossia ripristinare in parte qua la vigenza dell’art. 9, cpc, ma devo ammettere che effettivamente questo può sembrare un azzardo eccessivo.
E quindi in virtù di questa, realistica, considerazione, il primo grado del giudizio tributario può, almeno allo stato, ben restare fuori dell’ordinamento di giustizia ordinaria, anche più o meno com’è organizzato, magari accentuandone i caratteri conciliativo deflativi, secondo modelli di “amministrazione contenziosa” che pure esistono (e funzionano in modo adeguato) in altri sistemi dell’UE.
Così non vi sarebbe una contraddizione effettiva tra l’una scelta e l’altra ed il sistema ne verrebbe comunque, assai significativamente, riequilibrato in termini valoriali e di efficienza.
E’ utopistico, è poco utile scrivere, qui o altrove, di queste cose? E’ insensato parlarne ai magistrati?
Ecco, io spero proprio di no ed in ogni caso sono convinto del contrario. Per questo concludo con l’auspicio che abbia fine questa quasi aristocratica indifferenza della magistratura associata per le “cose tributarie” e che se ne alzi dunque la voce per una giustizia tributaria -finalmente- coerente con i valori costituzionali della giurisdizione.
Il giudizio d'appello senza la prescrizione del reato di Carlo Citterio
Sommario:1. Tre premesse. Prescrizione del reato e ragionevole durata del processo. Obbligatorietà dell’azione penale, risorse e riti (i due codici vigenti), l’appello imbuto del processo penale. – 2. Il giudizio penale d’appello oggi. – 3. Il progetto Bonafede – 4. Punti fermi della “cultura della giurisdizione d’appello”.
Per i reati consumati dopo il primo gennaio 2020 la prescrizione non opera più dopo la sentenza di primo grado, di condanna ma pure di assoluzione. La preoccupazione diffusa è che si allunghino ulteriormente i tempi di trattazione dei processi nei tre gradi di giudizio, con il rischio di molti casi di ‘fine processo mai’. L’animato dibattito in corso sembra sovrapporre, a volte strumentalmente, temi che sono in realtà diversi: la prescrizione del reato come disinteresse dello Stato alla persecuzione del singolo fatto, la durata ragionevole che la Costituzione impone al legislatore di assicurare per ogni processo. Sono preannunciati alcuni interventi normativi per assicurarla. Finora l’ “imbuto” nel singolo procedimento è stato costituito dal giudizio di appello, grado di maggior morìa dei reati, una volta che l’azione penale sia stata esercitata. L’articolo propone, sulla base dell’esperienza quotidiana di giudice dell’impugnazione, spunti di riflessione sulle ragioni, passate ed attuali, di tale ‘effetto-imbuto’, sulle prospettive che gli interventi concretamente prospettati dall’Esecutivo consentono di intravedere e sulla loro adeguatezza allo scopo dichiarato, su altri possibili interventi, nell’intento di sollecitare l’indispensabile attenzione sulle problematiche odierne del giudizio penale di appello e nella convinzione che esso costituisca tutt’oggi un momento essenziale, e irrinunciabile, di garanzia del ‘giusto processo’, ma necessiti di un equilibrato e tuttavia indilazionabile efficace e responsabile intervento perché davvero ogni processo senza prescrizione del reato possa avere quella ‘ragionevole durata’ che la Costituzione impone.
1.Tre premesse. Prescrizione del reato e ragionevole durata del processo. Obbligatorietà dell’azione penale, risorse e riti (i due codici vigenti), l’appello imbuto del processo penale.
Ogni dibattito ‘politico’ sulla disciplina della prescrizione soffre di una sovrapposizione tecnicamente del tutto scorretta, quella tra la manifestazione dell’attualità dell’interesse dello Stato alla persecuzione di un reato commesso da una certa persona in un determinato giorno e la necessità che il processo abbia comunque una ragionevole durata (ora assunta a principio costituzionale con l’art. 111, secondo comma, ultima parte, Cost.: si noti che il principio impone al legislatore di assicurare la ragionevole durata di ogni processo).
Ciò spiega la strumentalizzazione e rende palesi talune ipocrisie che caratterizzano, troppo spesso, il dibattito e gli interventi normativi, l’una e le altre saldandosi nell’evitare con cura ogni approccio sistematico in cui collocare le contingenti affermazioni. Del resto, si sa: ogni sistematicità presuppone un complesso di idee e scelte coordinate e consapevoli, delle quali occorre assumersi la responsabilità…
Dalla cd ex-Cirielli (la legge n. 251 del 2005 che significativamente reca una paternità rinnegata dal primo presentatore dell’originaria proposta) all’attuale nuovo art. 159, secondo comma, cod. pen. (come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. E, legge n. 3/2019, entrato in vigore il 01/01/2020, secondo la previsione del medesimo art. 1, comma 2) si è assistito al passaggio da un sistema per fasce temporali (quello che caratterizzava il testo originario dell’art. 157 cod. pen.) ad un sistema che privilegiava la pena edittale del singolo reato (naturalmente dando così significato determinante ad un dato, preesistente, che la saggezza del precedente legislatore tale non aveva ritenuto, scardinando il senso della precedente disciplina per contingenti esigenze processuali di taluno e imponendo i futuri occasionali e asistematici interventi sul massimo di pena per singoli reati al solo fine di contenere gli effetti proprio sui tempi di prescrizione invece che per autonome trasparenti valutazioni di rilevanza sociale e di adeguatezza all’art. 27 della Costituzione).
Ora, si è passati ad un sistema in cui la prescrizione non opera più dopo la sentenza di primo grado (anche di assoluzione: perché l’aspirazione alla sistematicità deve rimanere rigorosamente delusa; quale manifestazione attuale di volontà punitiva può avere una sentenza di assoluzione è domanda destinata ad essere ignorata, perché una risposta sarebbe faticosissima). Scelta, questa ultima, che, con contestuali parole, ha consegnato il tema della ragionevole durata dei processi (nonostante principio appunto oggi costituzionale) ad aerei interventi futuri.
Raccogliendo tra le ipocrisie. Ogni reato in materia di stupefacenti riconducibile all’art. 73, comma 1, dPR n. 309/1990 prevede(va) la prescrizione dopo venticinque (25) anni; ma anche la ricettazione di una bicicletta (art. 648, comma 2, cod. pen.) commessa dal recidivo reiterato specifico (con applicazione di recidiva spesso non oggetto di specifico motivo d’appello: ma questo è un altro tema su cui tornare) si prescrive in ventidue (22) anni due mesi venti giorni. Dove, già adesso, la ragionevole durata, in relazione alle alate parole sul cambiamento delle persone nel tempo, ecc.? I maltrattamenti in famiglia (art. 572 cod. pen.) si prescrivono ora in diciassette (17) anni e sei mesi (legge n. 69/2019; prima in 15; in entrambi i casi se con doppia condanna con l’aggiunta di possibili altri tre anni di sospensione), ma una risposta eventualmente sanzionatoria che in tale delicata materia intervenga dopo quel tempo che ‘efficacia’ specifica ottiene sulla situazione ‘familiare’? (certo, l’art. 132-bis disp. att. cod. proc. pen. prevede la trattazione prioritaria per tali reati: a ben vedere, proprio ciò da un lato segnala e conferma l’autonomia dei temi della prescrizione del reato e della durata ragionevole del processo, dall’altro spalanca l’approccio, essenziale, alla grave tematica della possibilità concreta di celebrare in tempi ragionevoli i processi).
I temi della prescrizione e della ragionevole durata del processo inevitabilmente coinvolgono il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (art. 112 Cost.). Tema complesso, qui essendo consentito un solo rilievo: tale principio potenzialmente è l’unico che assicura la parità di trattamento tra i cittadini (art.3) e presuppone necessariamente che il legislatore scelga la sanzione penale per le sole condotte ed i soli eventi che effettivamente la richiedano e, al tempo stesso, assicuri in termini intelligenti ed equilibrati riti di procedimento e processo che ne permettano l’applicazione, previa verifica di un giudizio, provvedendo alle risorse umane e di mezzi necessari perché il giudizio si tratti in tempi ragionevoli.
La problematica della quantità e della qualità delle risorse messe a disposizione della funzione giudiziaria e giurisdizionale è pertanto assolutamente centrale: ipocrisia pura sarebbe infatti la pretesa della Politica istituzionale e dei Partiti (compresi i Movimenti) di tempi ragionevoli per la trattazione dei processi che si concludano tutti con decisione nel merito dell’accusa e non in rito, se quella stessa Politica non fornisse contestualmente risorse umane e materiali e norme processuali intelligenti ed equilibrate per trattare tutti i processi e ciascuno in tempi ragionevoli. Né la strada di ipotizzare responsabilità disciplinari a nastro dei magistrati anticiperebbe di un solo giorno la trattazione dei processi che, alle condizioni date, non si riesce a trattare.
Va detto con franchezza che l’abolizione della rilevanza della prescrizione dopo la sentenza (ma di condanna) in primo grado non può per sé suscitare scandalo. Se si tengono presenti le ricordate autonomie delle due tematiche (prescrizione e ragionevole durata del processo), non vi è dubbio che la sentenza di condanna in primo grado costituisca da un lato la massima possibile affermazione dell’attualità dell’interesse ‘persecutorio’ dello Stato e dall’altro un comunque autorevole, ancorché provvisorio, riconoscimento della sua fondatezza. Sicché il rilievo di parte della dottrina sul fatto della incompatibilità ad attestare disinteresse dello Stato quando il seguito del procedimento è determinato solo dalla legittima (ma non è questo il punto per quanto attiene all’attualità dell’interesse alla persecuzione) e assolutamente discrezionale iniziativa di chi contesta l’affermazione di responsabilità (sono paradossalmente paradigmatici dell’assunto gli appelli che contestino il solo trattamento sanzionatorio, ad esempio) non pare certo inconsistente o strumentale.
Il punto è invece l’altro, quello della ragionevole durata del processo. E qui spiace che la bella e meritoria iniziativa dell’Unione Camere penali con il presidio di voci e pensieri e idee per una settimana in piazza Cavour (iniziativa che forse per la prima volta, come impegno severo e visibilità, ha indicato una forma diversa di presenza associativa critica, rispetto allo stantio rito delle mere astensioni dalle udienze che a nessuno interessa, primi tra tutti legislatore e governo – ché altrimenti le risorse e i riti necessari ci sarebbero da tempo –, e che solo contribuiscono a vanificare ulteriormente gli sforzi di sopravvivenza del sistema), non sia stata accompagnata dall’affermazione netta che è interesse ed obiettivo anche dell’Avvocatura che tutti i processi penali si concludano con sentenze che deliberino sul merito dell’impugnazione, purché resa in tempi ragionevoli, dovendo quindi gli sforzi e le sollecitazioni, comuni, essere indirizzati sul come ottenere quel risultato. Sicché occorrerebbe aver chiaro se per l’Avvocatura la prescrizione del reato è comunque, per l’imputato dichiarato responsabile, una opportunità da tutelare ad ogni costo, in quanto soluzione certo più favorevole di una condanna pur ‘giusta’, ovvero se il tema è quello della costituzionale durata ragionevole dei processi, per il cui perseguimento si può lavorare insieme, con trasparenza, serietà, serenità (ovviamente con l’abbandono di certe posizioni di apparente pura ideologia, pure preoccupanti, anche dell’associazionismo dei magistrati, cui dopo brevemente si accennerà).
Va comunque detto che l’anticipazione della disciplina di irrilevanza della prescrizione a bocce ferme, senza alcun contestuale piano concreto relativo alla dotazione di risorse indispensabili (ed è tristemente significativo, in realtà decisamente allarmante, che i vincitori dell’ultimo concorso in magistratura abbiano problemi di ingresso in servizio per ragioni di copertura finanziaria) e senza che il tema-appello, quello dell’imbuto che rischia di affossare nel caos la riforma (risultato prevedibilmente certo in larga parte del territorio nazionale, ad oggi), trovi nel progetto-Bonafede indicazioni appaganti ed efficaci, ha giustificato la massima preoccupazione dell’Avvocatura e non solo. Che infatti essa sia la panacea dei mali di ingolfamento è pia e superficiale illusione.
La risposta giurisdizionale nel merito passa ovviamente per il giudizio di appello, la cui attivazione è allo stato lasciata all’insindacabile volontà dell’imputato o della parte soccombente (parte pubblica) anche solo per le statuizioni aventi esclusivo rilievo civilistico (responsabile civile e parte civile).
E’ asserzione condivisa che oggi proprio il giudizio d’appello (che normalmente riguarda il 30/40 % delle deliberazioni di primo grado, secondo le statistiche ministeriali) costituisce l’imbuto del processo. Fino ad oggi (con la possibile prescrizione del reato) tale imbuto ha determinato l’estinzione in rito di troppo numerosi processi; per i reati consumati dal 01/01/2020 l’imbuto determinerà sistematiche applicazioni dell’indennizzo previsto dalla cd. legge Pinto (n. 89/2001). L’art. 2, comma 2-sexies, prevede infatti che: “Si presume insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo, salvo prova contraria, nel caso di: a) dichiarazione di intervenuta prescrizione del reato, limitatamente all'imputato;…”. Dal trascorso primo gennaio, venuta meno la presunzione di insussistenza di pregiudizio per il reato prescritto, ogni processo definito oltre i due anni dall’iscrizione nel registro d’appello potenzialmente darà per sé titolo all’indennizzo. Una ragione probabilmente sufficiente a mantenere gli appelli strumentali, insieme con quella connessa all’interesse contingente a dilazionare l’irrevocabilità di una deliberazione con pena da eseguire o con statuizione pur sospesa ma pregiudicante.
L’asserzione comune dell’appello/imbuto è fondata, con una essenziale precisazione (nella quale ammetto una vena polemica, lavorando nella Corte veneta): l’attribuzione delle pagelle di efficienza delle corti d’appello nei tempi di definizione della sopravvenienza e della pendenza dovrebbe essere, per elementari esigenze di serietà, sempre preceduta dall’indicazione dei dati numerici su sopravvenienze, pendenze, organico dei magistrati e del personale amministrativo addetti al settore penale nei diversi Uffici di corte. Altrimenti si fa solo opera di mistificazione e di copertura delle responsabilità della Politica istituzionale e dei Partiti che dovrebbe provvedere, per solo poi pretendere, e non lo fa.
Oggi infatti esistono due tipologie di Corti: quelle che hanno un organico di personale di magistratura e amministrativo potenzialmente congruo alle sopravvenienze/pendenze e quelle che radicalmente non lo hanno. Le prime applicano il codice, le seconde debbono anche ricorrere ad accorgimenti di formale scorrettezza tuttavia indispensabili per sperare di sopravvivere (per tutti, le sentenze predibattimentali di prescrizione quando non vi è parte civile: ora in realtà indirettamente in parte legittimate da Cass. SU sent. 28954/2017, che ha escluso l’annullamento con rinvio per violazione del contraddittorio).
Gli spazi di intervento organizzativo nelle prime premiano e contribuiscono a risolvere con efficacia i problemi, nelle seconde la sollecitazione alla capacità organizzativa è solo alibi per chi dovrebbe provvedere e non lo fa [il caso di Venezia: la mia Sezione ha pendenti circa 5.500 procedimenti, numerosissimi con parte civile, quindi da sempre destinati comunque a non ‘morire mai’ ed alla trattazione in udienza partecipata, con sopravvenienze sui 1500/1700 all’anno), e siamo sei magistrati: offro disponibilità massima e incuriosita per apprendere argute soluzioni organizzative efficaci a trattare la sopravvenienza nei due anni e contestualmente eliminare la pendenza]. L’irrilevanza sopravvenuta della prescrizione dopo la sentenza di primo grado nelle prime non dovrebbe determinare difficoltà insormontabili (con gli accorgimenti in rito di cui subito si dirà), porterà invece alla paralisi definitiva le seconde con un progressivo irrecuperabile affossamento (e con la conseguente esasperazione della tematica dei criteri di priorità nella trattazione).
2. Il giudizio penale d’appello oggi.
L’errore originario del codice Vassalli (la separazione negli approcci ai giudizi di primo e di secondo grado) sconta oggi tutte le sue pesanti implicazioni, mostrando l’assoluta inadeguatezza della originaria disciplina penale d’appello.
Tra queste. Un solo rito (l’udienza partecipata, camerale o dibattimentale poco importa) per tutti i casi, quindi quali che siano: i motivi d’appello, il titolo di reato, l’entità della pena, il rito con cui si è proceduto in primo grado.
E’ l’esperienza di udienza che attesta essere ormai solo anacronistico e vuoto formalismo la enunciazione di un’assoluta generale esigenza strutturale di applicare sempre l’anche solo potenziale diritto al contraddittorio orale ed al controllo del popolo sull’amministrazione della giurisdizione d’appello. Quell’esperienza che il legislatore, e la stessa Accademia, dovrebbe tener presente per una verifica dell’adeguatezza delle soluzioni immaginate e proposte. Sono infatti i numerosi fax che per ogni udienza pervengono dai difensori (di fiducia e d’ufficio) con richiesta di sostituzioni ex art. 97, comma 4, cod. proc. pen., ovvero le conclusioni formulate riportandosi seccamente ai motivi d’appello (eventualmente con presentazione della nota spese per l’assistenza in patrocinio a spese dello Stato da parte di un giovane sostituto ex art. 102 per la liquidazione anche della voce di partecipazione all’udienza), che plasticamente attestano che il diritto al contraddittorio orale può essere invece ricondotto serenamente alla categoria dei diritti disponibili (tenuto conto che la cognizione d’appello è limitata ai punti della decisione devoluti da motivi specifici scritti nell’originario atto d’impugnazione), la cui gestione correttamente può essere lasciata al difensore titolare. Né la stessa esperienza quotidiana segnala in genere code di cittadini che premono alle porte delle aule per assistere alle udienze.
Per contro, proprio la sistematica, obbligata, fissazione di tutti i processi d’appello in udienza partecipata per la solo potenziale eventualità di un utile contraddittorio orale [quale lo spazio per la discussione in appello a fronte del carattere rigorosamente devolutivo dell’atto introduttivo scritto? È altro tema su cui tornare] per sé costituisce un elemento determinante per l’ ‘imbuto’. Ecco quindi che la previsione anche di un rito partecipato con solo contraddittorio scritto si impone quale soluzione di equilibrio tra esigenze diritti e principi diversi, tutti tutelati costituzionalmente, lasciando all’esperienza, all’equilibrio ed alla saggezza degli apporti di magistrati, avvocati, accademici, insieme al discernimento del legislatore, la individuazione dei casi, con l’eventuale clausola di salvezza di una seria, discrezionale o meno, richiesta delle parti di trattazione con contradditorio orale.
Altro punto. La riforma Orlando (con il nuovo testo degli artt. 581 e 546, lett. E: legge n. 103 del 23/06/2017), insieme con la sentenza delle SU Galtelli (n.8825/2017, deliberata il 27/10/2016, depositata il 22/02/2017, quindi di poco precedente ma che a quei lavori preparatori poi confermati dal testo definitivo si rapportava), ha inciso in modo efficace per restituire serietà all’atto di impugnazione in appello, valorizzandone il senso strutturale di critica ad una decisione, pur nel contesto della contestuale sollecitazione ad un diverso apprezzamento di merito della deliberazione sul capo o sul punto della decisione ‘specificamente’ devoluto.
In realtà l’accentuazione condivisibile sulla specificità, intrinseca, ma anche estrinseca (il confronto argomentativo con le argomentazioni del giudice ‘impugnato’, cui tuttavia si possono, e debbono, affiancare poi appunto le deduzioni specifiche di merito per sostenere la diversa deliberazione sollecitata), non è sufficiente a selezionare gli appelli palesemente solo strumentali o meramente dilatori. E’ ineludibile porsi il problema dell’estensione al giudizio d’appello dell’istituto della inammissibilità del motivo per manifesta infondatezza, già conosciuto dal rito di legittimità. Sono ovviamente note le critiche di Avvocatura e parte di Accademia all’istituto, per come già opera in Cassazione, con le accuse di genericità della distinzione tra infondatezza e manifesta infondatezza e, anche, di strumentalità del suo uso in termini di interdizione dell’effetto prescrittivo del tempo decorso dopo la deliberazione d’appello. Ma due esempi specifici possono servire per comprendere che in realtà l’esigenza sussiste e, al solito, dall’equilibrio delle soluzioni in esito anche all’apporto delle categorie professionali interessate può giungersi ad esito attento ai diversi valori e appagante. Si pensi appunto al caso in cui in primo grado non siano state chieste le attenuanti generiche, il giudice non abbia ritenuto di applicarle e non abbia spiegato perché (d’altra parte non avendo obbligo di rispondere a una richiesta specifica che non vi era stata); il motivo che sollecitasse la loro applicazione in appello con unico argomento costituito dall’incensuratezza dell’imputato, sarebbe intrinsecamente specifico, non avrebbe problemi di confronto argomentativo con una motivazione che non vi è stata e non doveva necessariamente esserci, ma proporrebbe una richiesta che per come è formulata non può essere accolta perché contraria a specifica previsione normativa; ma davvero in questo caso risponde ad esigenze costituzionalmente tutelate dover fissare udienza per dire, nel contraddittorio orale, che la richiesta non può essere accolta perché vi osta una specifica norma di legge? Oppure si consideri il caso del motivo che sollecita la riduzione della pena quando già in primo grado è stato applicato il minimo edittale: richiesta specifica, ma manifestamente infondata.
Altro punto. Ha senso una generalizzata legittimazione del difensore, specialmente se d’ufficio ma anche se di fiducia, ad appellare nel caso di imputato che non è in concreto a conoscenza della pendenza processuale (ancorché si trovi in una situazione formalmente riconducibile all’ ‘assenza’) e poi dover rifare il processo una volta che la sentenza formalmente irrevocabile è divenuta esecutiva e l’ex-imputato è stato rinvenuto (si rammenti che l’insegnamento di SU sent. 6026/2008 è stato travolto dalla sentenza Corte costituzionale n. 317/2009)? E’ il tema della procura speciale per la proposizione dell’appello, successiva alla deliberazione di primo grado, che dovrebbe pure contenere una specifica rinnovata indicazione del luogo della notifica della fissazione del giudizio d’appello (anche non volendo attivare la soluzione della notifica presso il difensore, soluzione pur diversa dalla generalizzata notificazione presso il difensore di fiducia in ogni stato e grado del procedimento e del processo, posto che la procura speciale per impugnare, rilasciata dopo il primo giudizio, è inequivoco elemento di contatto attuale tra l’imputato, responsabilizzato sul punto, e il difensore, di fiducia o d’ufficio che sia).
Vi è poi il tema, paradossalmente sostanzialmente ignorato dalla dottrina e quantomeno sottovalutato dalla giurisprudenza, anche di legittimità, della sorte dell’azione civile esercitata, ‘accessoriamente’, nel giudizio penale, dopo che l’esercizio dell’azione penale (che, solo, aveva determinato la eccezionale cognizione del giudice penale anche sulla pretesa civilistica) si sia irrevocabilmente definito (reato prescritto; proscioglimento nel merito o in rito non impugnato dalla parte pubblica). La prosecuzione dell’azione (‘accessoria’) civile nella giurisdizione penale d’appello pur quando la ragione dell’attribuzione della cognizione sia venuta irrevocabilmente meno, e con pienezza di contraddittorio orale, è tema che appunto andrebbe efficacemente rivisitato, specialmente in una prospettiva nella quale il venir meno del rilievo della prescrizione imporrà comunque la massima concentrazione degli sforzi per la tempestiva trattazione di ciò che attiene all’interesse ‘penale’ in atto della Collettività [anche su questo tema se sarà consentito si ritornerà in altra sede].
Da ultimo, ma senza pretesa di esaustività, va segnalato il tema del ruolo della parte pubblica nel processo penale d’impugnazione. Sotto due solo apparentemente contrapposti profili.
Da un lato possono ritenersi maturi i tempi per escludere l’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento. Lo aveva già fatto il legislatore con la legge n. 46 del 2006: ma in un contesto frettoloso, asistematico (si ricordi che avevano dovuto intervenire le Sezioni Unite per inventarsi una regola che spiegasse cosa era successo dell’impugnazione della parte civile: sentenza n. 27614/2007) e troppo pressato da esigenze personal/politiche contingenti. Ora, consolidatasi la giurisprudenza di legittimità sulle condizioni per un utile passaggio dalla sentenza di proscioglimento a quella di prima condanna in appello e, in particolare, sull’applicazione alla fattispecie del principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio (in estrema sintesi, non essendo sufficiente la sola pur possibile e plausibile ricostruzione alternativa, sulla base del medesimo materiale probatorio, ma richiedendosi che la ricostruzione accusatoria d’appello sia l’unica sostenibile in ragione di errori logici/giuridici nel ragionamento probatorio del primo giudice ovvero di pretermissione dell’apprezzamento di prove determinante o della considerazione di prove inesistenti: per tutte, Cass. Sez.2 sent. 17812/2015 e Sez.5 sent. 54300/2017), è proprio il principio di diritto vigente ad indirizzare i presupposti per il ribaltamento della prima sentenza a quelli che sono, sostanzialmente, i casi di ricorso per cassazione previsti dall’art. 606 cod. proc. pen.. Sicché, ora, proprio il ricorso per cassazione risulta, nell’attuale diritto vivente, idoneo a soddisfare le ragioni di impugnazione, anche ‘nel merito’, della parte pubblica (e di quella privata civile…)
Dall’altro, occorre la restituzione alla parte pubblica dell’appello, principale o incidentale, sul trattamento sanzionatorio nei processi con rito dibattimentale. L’esclusione operata a seguito della legge Orlando, che probabilmente mirava ad anticipare un incompiuto complessivo riequilibrio del sistema delle impugnazioni, risulta ancor oggi francamente non giustificata (a differenza di quanto accaduto per il rito abbreviato dove le peculiarità delle rinunce dell’imputato giustificavano, anche secondo la Corte costituzionale, lo ‘squilibrio’), anzi avendo costituito l’inconsapevole presupposto per davvero inaccettabili proposte volte ad attribuire direttamente al giudice d’appello interventi sanzionatori dell’impugnazione temeraria attraverso l’aumento della pena determinata in primo grado per il ‘fastidioso’ appellante (tra breve un cenno sul tema).
3. il progetto Bonafede.
L’ultima bozza, ‘semiclandestina ma ufficiale’, del disegno di legge per le deleghe al Governo per l’efficienza del processo penale per superare l’ imbuto-appello (e quindi giungere alla ragionevole durata del processo in questa fase) prevede: la procura speciale, rilasciata successivamente alla pronuncia della sentenza, perché il difensore (di fiducia o d’ufficio) possa impugnare (parrebbe anche per le sentenze di non luogo a procedere); l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento per reati puniti con sola pena pecuniaria o alternativa, ad eccezione di alcuni reati di lesioni colpose e del reato di cui all’art. 604-bis cod. pen.; l’inappellabilità di sentenza di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità; il giudizio monocratico d’appello per i procedimenti a citazione diretta di cui all’art. 550 cod. proc. pen.; in questi casi il rito camerale non partecipato “qualora ne facciano richiesta l’imputato o il suo difensore e non vi sia la necessità di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”; il rito camerale non partecipato nei casi in cui si procede con udienza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 599 del codice di procedura penale, “salvo diversa richiesta della parte e sempre che non sia necessaria la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”.
Francamente non sembra che si tratti di proposte ed interventi in grado di restituire al giudizio d’appello, in via generale, quella snellezza ed efficacia in grado di assicurare, in via generale, il rispetto dei due anni nella trattazione di ciascun processo sopravvenuto, invece essenziale dopo la ‘scomparsa’ della prescrizione in appello.
Condivisibile, benvenuta ed efficace la previsione auspicata della procura speciale per l’impugnazione, specialmente se accompagnata dalla ricordata previsione di una rinnovazione delle indicazioni puntuali per le successive notifiche all’imputato, e possibilmente in questo nuovo contesto per suo conto al difensore cui si è conferita la procura speciale.
Sono palliativi su casi statisticamente marginali le previsioni di inappellabilità.
Condivisibile ed auspicato il rito camerale non partecipato nei casi di cui all’art. 599 (ma potrebbero essere previsti termini per memorie rendendolo a contraddittorio scritto, che comunque consegue l’effetto di liberare il sempre più prezioso tempo di udienza di contraddittorio orale).
La previsione di tale rito anche per i processi di citazione diretta ex art. 550 cod. proc. pen. è efficace e condivisibile incidendo su una percentuale significativa di casi, non è condivisibile nel collegamento con la previsione di un giudizio d’appello monocratico, per quanto subito si dirà nel prossimo e ultimo paragrafo.
Tuttavia è ingenua e disarmante la previsione del rito camerale non partecipato quando ne facciano richiesta l’imputato o il difensore. Precedente formulazione chiariva che tale richiesta doveva avvenire nello stesso atto di impugnazione, deve comprendersi se la nuova formulazione superi o rimanga compatibile con quella specificazione. Orbene, subordinare il rito non partecipato (o nuovamente, a contraddittorio solo scritto) alla richiesta della parte privata, tanto più se solo contenuta nell’atto di impugnazione, parrebbe soluzione sorta senza la necessaria esperienza quotidiana di aule d’appello penale. Quale difensore chiederebbe subito il camerale non partecipato, anche per il processo che meno lo interessa, con il rischio di trovarsi un mese dopo la sentenza d’appello che conferma la prima condanna? Se si vuole che lo strumento processuale sia efficace e al tempo stesso rispettoso delle peculiarità dei casi la soluzione dovrebbe essere esattamente opposta: sempre, nei casi previsti, rito non partecipato o a contraddittorio scritto con facoltà di presentare motivi aggiunti o memorie in termini prefissati, fatta salva la rinnovazione istruttoria ovvero la trattazione in pubblica udienza disposta d’ufficio dalla corte e, eventualmente, fatta salva la richiesta di trattazione in udienza a contraddittorio orale da parte del difensore (con conseguenze disciplinari prefissate nel caso di successiva sua assenza in udienza o mero riportarsi ai motivi o comprovata assenza di effettive esigenze di discussione orale).
Il totale silenzio sui processi nei quali l’attivazione provenga dalla parte civile dopo la conclusione irrevocabile dell’esercizio dell’azione penale conferma la grave sottovalutazione del tema, con conseguenze nefaste sulla possibilità di trattare in tempi ragionevoli i processi per i quali vi è in atto un interesse penale specifico, specialmente se dovesse prevalere la discutibile interpretazione dell’applicazione dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. anche alla trattazione dell’appello proposto dalla sola parte civile, con la necessaria sistematica rinnovazione dell’istruttoria per la riassunzione delle prove dichiarative (che la norma, successiva alle Sezioni Unite Dasgupta e Patalano, specificamente prevede per il solo appello della parte pubblica).
La mancata restituzione alla parte pubblica della legittimazione ad impugnare sul trattamento sanzionatorio nei processi con rito dibattimentale rinuncia a risolvere un disequilibrio di dubbia tenuta costituzionale e soprattutto nuovamente trascura l’unico rimedio sistematicamente corretto nei confronti degli appelli palesemente dilatori, che è l’attivazione della parte pubblica su cui poi il giudice, terzo rispetto alle parti, debba pronunciarsi.
Il silenzio sul conosciuto e dibattuto tema dell’inammissibilità del motivo per manifesta infondatezza conferma la timidezza e la sostanziale non decisività degli interventi proposti. Nonostante l’abolizione della prescrizione dopo la prima sentenza e l’appello-imbuto.
4. Punti fermi della “cultura della giurisdizione d’appello”.
Qualunque modifica al processo del secondo grado di merito deve confrontarsi con, e rispettare, alcuni ‘punti fermi’ della giurisdizione d’appello.
Tre proposte radicali sono state avanzate nel dibattito.
La prima è quella dell’abolizione del giudizio d’appello. E’ soluzione che, significativamente, proviene per lo più da esterni alla giurisdizione e da magistrati che non hanno fatto esperienza concreta del giudizio d’appello. Le polemiche sul vizio dei ‘ritocchini’ e per i tempi del giudizio di secondo grado e la sua funzione sostanzialmente solo dilatoria sono tanto diffuse quanto superficiali. In esse il rischio dell’autoreferenzialità di pubblici ministeri e giudici del primo grado è consistente. E’ pacifico che il giudice d’appello non è per ciò solo più bravo del giudice di primo grado. Anzi, la funzione di appello è forse oggi la sola cui, in realtà, si accede solo per anzianità, a prescindere dalle storie e dalle effettive attitudini professionali individuali. Il che non va. Tuttavia è in sé la funzione d’appello che forma, perché è lavoro che si confronta con il lavoro di tanti magistrati (tutti quelli del distretto), con le diverse impostazioni, con i diversi metodi di motivazione, con le diverse modalità di formulazione dei capi di imputazione, con le diverse soluzioni anche organizzative degli Uffici del distretto; ed è lavoro che si caratterizza per il fatto che una parte si lamenta di qualcosa: sia che si decida che la doglianza è fondata, sia che la si rigetti o la si dichiari inammissibile, ogni giudizio è sperimentazione di come si fa per lavorare bene e perché a volte si lavora meno bene. E l’esperienza quotidiana conferma che la qualità dell’adeguatezza dei giudizi di primo grado presenta percentuali ancora significative di inadeguatezza della deliberazione al caso, il più delle volte per l’evidente pressione del carico di lavoro, altre per un inadeguato contraddittorio di parti non del tutto preparate, altre per qualche occasionale carenza individuale (per lo più nei meccanismi di determinazione del trattamento sanzionatorio). Abolire l’appello come occasione di rivisitazione del merito della prima decisione, nell’ambito di ciò che concretamente e solo viene devoluto, sarebbe allora, oggi, solo una soluzione muscolare ideologica.
L’appello monocratico. E’ una falsa soluzione. Innanzitutto il numero di sentenze dei singoli magistrati rimarrebbe probabilmente il medesimo, perché oggi ciascuno dei componenti dei collegi d’appello scrive, negli uffici dove si lavora, un numero di sentenze oltre il quale solo in via assolutamente eccezionale si può andare, e che lo faccia come componente di collegio o come singolo poco cambia, in termini numerici: perché il lavoro del giudice d’appello è diverso da quello del primo grado, tendenzialmente in appello ogni processo trattato in udienza si conclude subito con una sentenza. Lasciando perdere l’aspetto logistico (non si riescono a fare udienze straordinarie perché, quando vi è generosa disponibilità contingente dei magistrati mancano aule e assistenti di udienza o non vi è personale per predisporre notificare e curare ulteriori decreti di fissazione di udienza e conseguenti tempestivi scarichi), in realtà si dimentica che la legittimazione del giudice d’appello, proprio perché non è per definizione e modalità di selezione ‘più bravo’ del collega del primo grado, si àncora all’esperienza ed alla collegialità, che rappresentano i più adeguati presupposti disponibili per giustificare eventuali modifiche di sentenze di primo grado che, in assenza di impugnazione, diverrebbero irrevocabili e legittima fonte di giudicato eseguibile.
L’abolizione del divieto di riforma in peggio (art. 597, comma 3) ha, sorprendentemente, ricevuto avallo anche dal Comitato Direttivo Centrale dell’ANM. Reputo personalmente tale adesione un momento gravemente negativo e preoccupante nella cd cultura della giurisdizione che la Magistratura sostiene e promuove da sempre: un cedimento alla ‘pancia’.
Dunque, a fronte di un legislatore in ipotesi ignavo che consente anche appelli strumentali o solo dilatori, che non ha il coraggio politico di affrontare il problema (ad esempio confrontandosi con l’estensione al giudizio d’appello della ricordata inammissibilità per manifesta infondatezza del motivo) e che toglie alla parte pubblica il potere di appellare la prima sentenza sul trattamento sanzionatorio pur in esito a rito dibattimentale, dovrebbe essere il giudice d’appello a ‘punire’, d’ufficio, l’appellante per aver egli osato esercitare un diritto processuale che il legislatore, quel legislatore, tuttora gli riconosce con discrezionale ampiezza. Ed a punirlo in assenza di alcun parametro normativo, quindi senza neppure la ‘copertura’ di legge che, sola secondo l’art. 101, comma 2, Cost., lo legittima alla funzione. Insomma, una punizione penale discrezionale e occasionale, esito di un intervento di tipo sovrano più che giurisdizionale. Quindi, un giudice che per definizione agisce con il ruolo funzionale di rispondere a censure specifiche proposte dalle parti, in esito alla propria deliberazione sulla censura si dovrebbe ergere, con assoluta e sovrana discrezionalità, a sanzionare penalmente l’esercizio di un diritto specificamente riconosciuto dal legislatore e il cui esercizio il legislatore non ha inteso modificare.
Pare davvero non possibile immaginare coerente alla Costituzione un giudice, un giudice secondo il titolo IV della seconda parte della nostra Costituzione, che fa il lavoro sporco per conto di un legislatore in ipotesi imbelle, lavoro che la parte pubblica, parte, potrebbe con una propria articolata e opportuna ‘pulita’ richiesta riportare all’alveo della funzione terza propria.
Pare una proposta ‘di pancia’ che, davvero, con la cultura della giurisdizione, necessariamente imperniata sul ruolo di terzietà del giudice rispetto alle parti, avrebbe poco a che fare.
I diritti fondamentali sono diritti di tutti?
Uguaglianza, solidarietà e stereotipi nel trattamento dei migranti[1]
di Rita Russo
Sommario: 1.- Uguaglianza e diritti fondamentali. 2.- I diritti dei migranti, la solidarietà e gli stereotipi. 3.- Il ruolo del giudice e le aree di criticità del processo decisorio: la tipicità delle misure di protezione e l’horror vacui.
1. Uguaglianza e diritti fondamentali.
Il tema dei diritti fondamentali dei «non cittadini» e dei migranti in particolare, trova un suo spazio negli studi della dottrina, che si interroga anche su ciò che cambia nel nostro pensiero e nelle categorie giuridiche a noi familiari quando ci confrontiamo con fenomeni di massa come le migrazioni[2]. E chi opera nella pratica non sfugge a questi interrogativi, resi ancora più pressanti dalla necessità di trovare e mantenere un percorso dritto, nel sovrapporsi di disposizioni normative talora carenti, talora contradditorie, talora apparentemente superflue.
L'art. 3 della Costituzione italiana, nell'enunciare il principio di uguaglianza e di pari dignità sociale, si riferisce invero ai «cittadini»[3]. Sembra qui vedersi una traccia dell’incontro (o dello scontro) tra alcune delle tradizioni giuridico-filosofiche che hanno caratterizzato il dibattito costituente: la concezione universalistica dei diritti, incline a riconoscere un complesso di pretese originarie direttamente alla «persona umana» in quanto tale, di cui è espressione la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, e la concezione stato-centrica dei diritti, incline, invece, a considerare titolari di taluni diritti costituzionali i soli «cittadini».
La dottrina moderna e la stessa Corte Costituzionale avvertono però che i diritti fondamentali devono essere riconosciuti a tutti, incondizionatamente, poiché spettano «ai singoli, non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani»[4]. Se, infatti, si muove dalla premessa del carattere autenticamente fondamentale di alcuni diritti, obbligata è la conseguenza che essi, proprio perché tali, devono essere riconosciuti a tutti, e a tutti nel medesimo modo o grado senza, dunque, distinguere tra parte e parte dei diritti stessi[5].
Questo significa che il principio di uguaglianza sostanziale si applica in eguale misura a cittadini e non cittadini?
Il «non cittadino» infatti, può essere una persona che vive ed è integrata nel tessuto sociale nazionale senza alcuna particolare condizione di svantaggio, ma può essere anche una persona in condizione di speciale vulnerabilità. Per queste persone, il riconoscimento dei diritti fondamentali passa necessariamente attraverso l’attuazione del principio di uguaglianza sostanziale. Ciò che più conta, infatti, non è l’enunciazione di un diritto, ma la misura in cui esso può farsi valere, una volta che sia astrattamente riconosciuto come tale, e ciò dipende da molti fattori, in specie dal contesto in cui si inscrive[6] .
Se conveniamo che anche per i non cittadini, in quanto persone, lo Stato deve agire per rimuovere gli ostacoli limitativi, dobbiamo però essere consapevoli che l'impegno che si deve spendere per tutelare i diritti dei soggetti vulnerabili, e dei migranti in particolare, potrebbe rivelarsi particolarmente oneroso. Se è alto l'ostacolo, deve essere alto anche il salto, ed è risaputo che le risorse non sono illimitate: questo non significa però che non devono essere investite, semmai, che non devono essere sprecate.
Non possiamo fare differenze di trattamento tra cittadini e non cittadini quando sono in gioco i diritti fondamentali.
La Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 avverte che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo e con questo si rimarca definitivamente la distanza tra gli ordinamenti fondati sui diritti umani e quelli fondati sugli status, questi ultimi sulla falsariga del diritto romano, dove il civis, libero, cittadino e anche maschio – pater familias o idoneo a esserlo- era al vertice della scala sociale: vir ac vere romanus. E' vero che non si trattava di un privilegio, nel senso in cui lo intendiamo oggi; l'essere civis era caratterizzato da incisivi doveri verso gruppi politico-sociali molto più importanti dell’individuo: la familia, la gens, la res publica. Nondimeno, lo status era ciò che faceva la differenza tra individuo e individuo, e talora anche tra soggetto e oggetto di diritto.
Oggi, invece, la dottrina avverte che i diritti fondamentali agiscono quali agenti dissolutori degli status[7] e che l’idea di persona umana, nel suo porsi al centro del disegno costituzionale, porta naturalmente a quest’esito[8].
I diritti fondamentali della persona dunque: diritti che sono inviolabili, nella accezione del termine data dall'art. 2 della Costituzione, e questo significa che essi attraversano le epoche storiche, pur se si storicizzano e positivizzano, caricandosi di valenze diverse da luogo a luogo e nel tempo.
I diritti devono necessariamente storicizzarsi e positivizzarsi: in primo luogo perché, come è stato autorevolmente osservato, occorre fissare degli argini, a presidio dei «veri» diritti fondamentali, avverso la innaturale conversione di certe pretese in diritti costituzionali, dal momento che un uso inflazionistico e dozzinale della categoria finirebbe con il ritorcersi proprio avverso i diritti stessi, con implicazioni negative a largo raggio nei riguardi dell’intero tessuto sociale ed ordinamentale[9].
Inoltre, il diritto fondamentale rappresenta un valore: l'ordinamento lo riconosce e lo tutela in quanto una certa collettività si riconosce in quel valore di cui esso è espressione.
Qui viene in rilievo una questione storicamente assai dibattuta, prima ancora che dai giuristi, dai filosofi, e cioè quale sia il fondamento dei diritti. Il dibattito è assai complesso, ma vale la pena di ricordare che è oggi abbandonata l’idea giusnaturalistica che i diritti si possano considerare giustificati perché dedotti da un dato obiettivo e costante quale la natura umana (che in altre prospettive, ad esempio quella teocratica, può essere sostituito dalla ragione divina), ovvero che costituiscano verità per sé stesse evidenti e cioè valori ultimi; oggi si ritiene invece di giustificare i diritti mostrando che sono poggiati sul consenso e quindi il diritto (e il valore) tanto più è fondato quanto più è acconsentito[10]. Il consenso è cristallizzato nelle Carte dei valori o Carte dei diritti fondamentali: basti qui ricordare la Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo e la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, ma senza per questo sminuire l'importanza della nostra Costituzione.
In queste Carte dei valori la persona è definita dal concetto di dignità umana: essa indica la qualità e il valore che appartengono all’individuo in quanto tale. In diverse decisioni della Corte Costituzionale appare il riferimento alla dignità: ad esempio, è stato detto che «le esigenze della finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso talmente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana»[11].
Di recente, anche la Corte di giustizia dell’UE si è soffermata sul concetto di dignità, con particolare riferimento ai diritti dei migranti ed ha affermato che il divieto imposto dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (proibizione di tortura e trattamenti inumani e degradanti) ha carattere generale ed assoluto ed è strettamente legato al rispetto della dignità umana. La Corte rileva che anche nei paesi dell’Unione possono darsi in concreto specifiche carenze sistematiche, generalizzate o che colpiscono gruppi determinati di persone (nella specie i migranti) che raggiungono livelli di gravità tali da integrare trattamento degradante. Ciò in quanto si superi, però, una certa «soglia» di gravità delle carenze[12].
Ed invero, i diritti fondamentali sono inviolabili, ma ciò non significa che non siano soggetti a limiti: la persona, in cui il diritto si immedesima e si concretizza, vive in un contesto sociale e la società moderna è una società pluralistica, con i suoi tipici fenomeni di interessi, bisogni, valori spesso in conflitto tra loro. Si deve allora operare un bilanciamento affinché l'esercizio di un diritto fondamentale non venga a confliggere con altri interessi e diritti di pari rilievo[13].
La Corte Costituzionale ha riconosciuto, ad esempio, la possibilità per il legislatore di introdurre norme limitative dei diritti degli stranieri, volte a regolare i flussi di immigrazione nel territorio dello Stato, purché il bilanciamento operato sia adeguato e ragionevole[14].
Né va trascurata la circostanza che il riconoscimento del diritto ha il suo speculare nell’adempimento del dovere, e che a tutti può chiedersi l'adempimento di doveri inderogabili, qual è quello di solidarietà, non solo sociale, ma anche economica e politica.
La solidarietà appunto: essa è stata definita come «il collante» che unisce e salda tutti i valori[15]. Questa potrebbe essere la risposta all'interrogativo -niente affatto retorico- che sopra si è posto: il principio di uguaglianza sostanziale si applica un eguale misura a cittadini e non cittadini? E se i «non cittadini» sono migranti irregolari?
Il contesto in cui si iscrivono i diritti dei migranti irregolari, è invero particolarmente complesso. La definizione di migrante irregolare non è di per sé indicativa di un centro di interessi definito. E' migrante irregolare colui che entra (o si trattiene) nel territorio dello Stato senza avere un permesso di soggiorno; ma all'interno di questo gruppo di persone genericamente definite dall'azione di varcare irregolarmente il confine dello Stato, possiamo individuare soggetti e centri di interessi diversi. Migrante irregolare può essere – nel momento in cui varca il confine- il rifugiato, la persona in fuga dalla guerra; la persona in cerca di una chance di lavoro e di successo economico; la donna rapita o adescata con promessa di lavoro e costretta alla prostituzione; il bambino rimasto privo dei genitori, deceduti durante il viaggio; il minorenne che, considerato adulto nel contesto di provenienza, è mandato dai parenti a cercar miglior fortuna altrove. Vi sono migranti che hanno diritto a ottenere il permesso di soggiorno nonostante l'ingresso irregolare nello Stato, e migranti che questo diritto non hanno. Il tutto poi è da inquadrarsi nel contesto delle regole comunitarie ed internazionali, degli accordi per la identificazione e redistribuzione dei migranti e delle esigenze di sicurezza e di regolamentazione dei flussi di migrazione economica, in relazione alle capacità del mercato interno di assorbire l'offerta di lavoro.
In questo scenario si muovono gli attori istituzionali: il legislatore, cui sono rimesse scelte discrezionali e politiche che tuttavia non possono eccedere quel margine di apprezzamento, oltre il quale si evidenzia il conflitto con le norme costituzionali o con le norme delle convenzioni e dei trattati internazionali; la dottrina, della cui importanza si è detto; e il giudice, chiamato a dare l’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa -ma anche orientata dalle altre Carte dei valori- e, in alcuni casi, anche a svolgere attività integrativa a fronte delle lacune, vere o apparenti, dell'ordinamento.
2.- I diritti dei migranti, la solidarietà e gli stereotipi
Muovendo quindi dall'idea che la solidarietà è il valore circolare che informa di sé gli altri valori costituzionali e che se non «prendiamo sul serio» la solidarietà[16] non possiamo neppure attuare il principio di uguaglianza sostanziale, proviamo a declinare in concreto la solidarietà nel contesto del fenomeno migratorio, o quantomeno in alcuni aspetti di esso.
E' stato autorevolmente affermato che il soccorso è la prima espressione di solidarietà offerta ai migranti; la seconda è l’accoglienza e la terza è (o meglio dovrebbe essere) lo smistamento[17].
E' facile intendere perché soccorso e accoglienza sono da considerare espressione di solidarietà, specie ove si pensi alle note e drammatiche modalità dell'ingresso, e all'obbligo di soccorso posto dalla Convenzione di Montego Bay del 1982, ratificata dallo Stato italiano con legge n. 689/1994.
Soccorso e accoglienza quindi; ma dopo di ciò anche lo smistamento, e qui qualcuno potrebbe chiedersi cosa questo ha a che fare con i diritti fondamentali, poiché la parola "smistamento" sembra evocare una operazione di distribuzione meramente pratica. Si tratta invece di uno snodo fondatamente per la tutela dei diritti, e per iscrivere la loro tutela nel contesto in cui viviamo e operiamo.
L'Agenda europea sulla migrazione rileva che l’attuale pressione migratoria è caratterizzata da un flusso misto di richiedenti asilo e migranti economici. Gli stereotipi tendenziosi, osserva la Commissione UE, preferiscono spesso guardare solo ai flussi di un determinato tipo, sorvolando sulla complessità intrinseca di un fenomeno che esercita molti e diversi effetti sulla società e che richiede molte e diverse risposte. Tra le risposte che l'UE si è proposta di dare, oltre al salvataggio delle vite in mare, vi è la riduzione degli incentivi alla migrazione irregolare, e una forte e comune politica dell'asilo. Se, in prospettiva, affrontare le cause profonde della migrazione irregolare e forzata direttamente nei paesi terzi può ridurre il flusso migratorio e contenere soprattutto la migrazione economica, non si può però e non si deve derogare al sistema dell’asilo, politica comune che deve anzi essere rafforzata[18].
Il diritto di asilo è uno di quei diritti che hanno un fondamento, da rinvenirsi non solo nell'art. 10 della Costituzione, ma anche negli artt. 18 e 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: l’art. 18, volto a proteggere il diritto d’asilo, nel rispetto delle norme poste dalla Convenzione di Ginevra; l’art. 19 sul divieto di allontanamento, espulsione e estradizione se la persona corre il serio di rischio di essere sottoposta a pena di morte, torture altri trattamenti inumani o degradanti. Da ricordare poi che l’art. 78 del TFUE stabilisce che l'Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento. La Convenzione EDU, infine, rimarca il divieto di espulsioni collettive (art. 4 Prot.4); inoltre, il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, di cui all’art. 3 CEDU (che ha il suo corrispondente nell’art. 4 della Carta di Nizza), è inderogabile e pertanto in nessun caso e per nessuna ragione i migranti possono essere rinviati verso un paese ove corrono il rischio di subire un trattamento degradante.
Anche il diritto di asilo, come tutti i diritti fondamentali, è soggetto a bilanciamento con altri diritti di pari rango; si è però autorevolmente affermato che esso non può subire limitazioni intrinseche, cioè del suo contenuto, per effetto di considerazioni di carattere generale o generico. Per questo, come per tutti gli altri diritti fondamentali, le condizioni esterne non incidono sul contenuto dei diritti, ma solo sul grado di possibile attuazione pratica degli stessi[19].
Del resto, il diritto di asilo deve essere visto necessariamente nella sua dimensione dinamica. Esso si concretizza nel momento in cui allo straniero è impedito, nel suo paese, l’effettivo esercizio delle libertà democratiche, e pertanto il suo contenuto è definito dal contenuto di altri diritti fondamentali, lesi o esposti a rischio nel paese di origine: la vita, la incolumità personale, la libertà religiosa, l’identità personale e di genere, solo per citarne alcuni, e naturalmente, la dignità umana, che è la radice stessa di tutti i diritti fondamentali. Questa è la ragione per la quale la legge nazionale, nel quadro delle norme sovranazionali di cui si è detto ed in attuazione delle Direttive UE in materia, prevede forme diverse di protezione, in relazione al rischio cui sono esposti i diritti dello straniero e prevede anche che, al cessare del rischio, termini la misura di protezione. Già questo dovrebbe rassicurare sulla non idoneità dell’asilo a divenire un «diritto tiranno»: si tratta di un diritto già di per sé limitato dal fattore tempo e dalla mutevolezza delle condizioni di rischio.
La Commissione UE, nella sopra citata Agenda sulla migrazione, indica la necessità di una forte politica comune dell'asilo e ci mette in guardia dagli «stereotipi tendenziosi». Vale la pena di soffermarsi su questo concetto, non per analizzare le ragioni dell'uso degli stereotipi da parte dei soggetti che a vario titolo si occupano di migrazione, quanto per avvertire dei rischi connessi all’uso dello stereotipo.
Identificare indistintamente tutti i migranti irregolari come migranti economici significa avviarli alla espulsione collettiva senza avere preso in adeguata considerazione la loro storia individuale e quindi, tra l'altro, rischiare le condanne della Corte EDU, come è avvenuto nel caso Hirsi[20].
Si deve considerare che la persona da tutelare come richiedente asilo non è solo la persona che ha presentato domanda di protezione internazionale, ma anche colui che manifestato la volontà di chiedere tale protezione, o ancora, in taluni casi, la persona per la quale sussistono «indicazioni» sul desiderio di richiedere protezione[21]. La Corte EDU ha in più occasioni rimarcato che «la mancanza di informazioni costituisce l'ostacolo maggiore all'accesso alle procedure d'asilo»[22]. Il migrante, infatti, non sempre è in condizione di esprimere una volontà libera, informata e consapevole: la sua volontà può essere viziata da ignoranza, da stati transitori di incapacità, spesso legati al trauma del viaggio, dalle altrui minacce o pressioni. Si pensi alle donne vittime di tratta, che sono molto restie a rivelare di essere state trattate per paura di ritorsioni -anche sulla famiglia rimasta in patria- o per superstiziosa soggezione a riti magici[23] e che ignorano che esistono percorsi di speciale tutela per la loro situazione. In questi casi è particolarmente importante prestare attenzione agli indicatori di una situazione di speciale vulnerabilità, offrire le informazioni pertinenti, ma anche dare tempo, per elaborare la decisione di svincolarsi dai trafficanti.
Altrettanto insidioso però, può essere lo stereotipo del migrante irregolare visto come soggetto avente diritto per definizione all'asilo o quantomeno da avviare, quasi automaticamente, alle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. Anche per l'asilo vale infatti la profonda osservazione della dottrina,[24] già sopra esposta, sull'uso inflazionistico del diritto, che si ritorce avverso il diritto stesso, con implicazioni negative a largo raggio nei riguardi dell’intero tessuto sociale ed ordinamentale; avviare indistintamente tutti i migranti alle procedure di asilo rischia di rendere indistinta la configurazione del diritto stesso. Sul piano pratico poi, ciò contribuisce a rallentare le procedure di riconoscimento gonfiando a dismisura i ruoli degli organi giudicanti. Con l’effetto perverso finale che molte persone che vivono e soggiornano regolarmente in Italia (come richiedenti asilo) e quindi maturano in condizioni di piena legalità una integrazione sociale ed economica, si trovano, dopo sei o sette anni di regolare permanenza sul territorio, a dover fare i conti con la definitività di un rigetto della domanda di asilo e con un possibile rimpatrio. Con quel che segue, anche in termini di capacità del nostro Stato di rendere effettivo il rimpatrio: si tratta di persone che, se non rimpatriate, diventano fantasmi senza identità, facile preda di sfruttamento lavorativo e della criminalità organizzata.
3.- Il ruolo del giudice e le aree di criticità del processo decisorio: la tipicità delle misure di protezione e l’horror vacui.
Il ruolo del giudice in questa materia è particolarmente complesso.
In termini generali, il giudice è chiamato ad applicare la legge secondo una interpretazione orientata, oltre che dalla logica e dalla individuazione della ratio legis, anche dai principi e dai valori. La presenza di una pluralità di principi, dati da più Carte dei valori, comporta l'esigenza del bilanciamento, che è operato in primo luogo dalla Corte costituzionale, ma anche dal giudice comune[25].
Vi è poi un’area di possibile espansione dell’intervento del giudice e si tratta dei casi in cui, a causa della mancanza di norma di legge idonea a valere per la singola vicenda processuale, la norma stessa viene desunta dai principi costituzionali[26]. Nondimeno, avverte la Corte di legittimità, il compito del giudice non è quello di sostituirsi al legislatore: il giudice comune è «chiamato, non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo, bisognoso di definizione, dai testi normativi e dal sistema»[27].
Alla luce di queste considerazioni, si può esaminare una rilevante area di criticità del processo decisorio che è quello della tutela dei soggetti specialmente vulnerabili nel sistema della protezione internazionale.
Prima del D.L. 113/2018 (decreto sicurezza) convertito con modificazioni dalla L. 132/2018, il sistema dell’asilo era considerato completo e perfettamente attuativo del disposto dell’art. 10 Cost., perché alle misure di protezione tipiche (status di rifugiato, protezione sussidiaria) se ne aggiungeva una atipica, ma avente comunque il suo fondamento nella legge, comunemente chiamata protezione umanitaria, dal nome del permesso di soggiorno previsto dall’art. 5, comma 6, del D.lgs. 286/1998 (oggi abrogato). Si trattava di una tutela a carattere residuale posta a chiusura del sistema, in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione internazionale. I motivi di carattere umanitario per il rilascio del permesso di soggiorno si identificavano con riferimento alle Convenzioni internazionali che autorizzano o impongono al nostro Paese di adottare misure di protezione a garanzia dei diritti umani fondamentali e che trovano espressione e garanzia anche nella Costituzione, in forza dell'art. 2 Cost.[28].
La Corte di Cassazione, nell’esaminare il caso forse più discusso, e cioè l'inserimento sociale e lavorativo in Italia e l’inevitabile regresso socioeconomico che comporterebbe il rimpatrio, ha fatto riferimento alla dignità, quale parametro essenziale dei valutazione. In particolare si è affermato che il giudice deve operare una valutazione comparativa effettiva al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza[29].
Questo era il quadro, fino alla emanazione del D.L. 113/2018, che ha disposto l’abrogazione dell’art. 5, comma 6, del TU immigrazione nella parte in cui consentiva il rilascio del permesso di soggiorno per «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano». Sono state, invece, mantenute alcune ipotesi tipiche di permesso di soggiorno: «per motivi di protezione sociale» (art. 18 TU), «per le vittime di violenza domestica» (art. 18 bis TU) e per «ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo» (art. 22, comma 12 quater TU). Unitamente a questi, sono stati inseriti nel TU altri casi speciali di permesso di soggiorno: il permesso «per cure mediche» (art. 19, comma 2, lett. d bis TU), «per calamità» (art. 20 bis TU) e «per atti di particolare valore civile» (art. 42 bis TU). Secondo la circolare del Ministero dell’Interno del 19.1.2019 è solo all’interno perimetrale di tali ipotesi che attualmente le forme di tutela complementare trovano applicazione, fatti salvi i casi di riconoscimento della protezione internazionale.
Una prima questione che la giurisprudenza ha affrontato è quella dell’applicazione di questa disciplina legislativa ai giudizi in corso e sulla quale vi è stato contrasto interno alla prima sezione della Corte di Cassazione; pertanto, su questo punto, l’ultima parola è stata rimessa alle sezioni unite[30]. Qui si deve osservare tuttavia che la questione sembra riguardare più il nomen iuris della misura di protezione, e quindi le modalità di rilascio del correlativo permesso di soggiorno, che il dovere dello Stato di tutelare, senza soluzioni di continuità temporale, il diritto fondamentale esposto a rischio. Autorevole dottrina osserva che il fatto costitutivo del diritto del richiedente non è la domanda, né il provvedimento dell’autorità, bensì il verificarsi delle condizioni del diritto al permesso di soggiorno[31]. Queste condizioni possono individuarsi anche in quei gravi motivi umanitari che determinano una situazione esistenziale di bisogno della persona; ma, nota sempre la stessa dottrina, oggi il quadro protettivo è incompleto, perché le ipotesi di permesso di soggiorno, come previste dal decreto sicurezza, sono specifiche e tassative[32].
E’ infatti da chiedersi se un sistema dell’asilo sfornito –come lo è oggi- di una misura di chiusura atipica, che consenta di proteggere situazioni di vulnerabilità non codificate, ma saldamente ancorate al valore primo che è il rispetto della dignità umana, sia interamente attuativo dei principi costituzionali.
Nel nostro sistema, la tipicità delle fattispecie a rilevanza giuridica è propria del diritto penale, che ha finalità repressive. Il diritto civile è invece connotato dall’horror vacui: nella tutela dei diritti civili non si può escludere a priori che si diano nella realtà dei fatti casi non direttamente regolati dalla legge, ma comunque meritevoli di tutela e per i quali bisogna trovare la regola o mediante analogia oppure desumendola dai principi generali dell’ordinamento.
Possono farsi degli esempi.
I minori stranieri non accompagnati sono soggetti specialmente vulnerabili, e il nostro attuale sistema normativo prevede –fermo restando il diritto a chiedere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria ove ne sussistano i presupposti- che al minore migrante, che non si può espellere, è riconosciuto un permesso di soggiorno per minore età (legge n. 47/2017). I minori migranti, in attuazione del principio della preminenza dei best interests of the child, hanno diritto alla nomina di un tutore, al ricongiungimento familiare, all'assistenza sanitaria, all'istruzione e -a determinate condizioni- alla integrazione sociale con la conversione del permesso di soggiorno per minore età in permesso di soggiorno per studio e lavoro[33].
Deve però ricordarsi che non tutti i minori versano nella stessa condizione. Ci sono bambini in tenera età, anche neonati, che perdono i genitori durante il viaggio e che una volta giunti in Italia si avviano, con presumibile successo, ad un percorso di adozione. E poi ci sono minori che nel paese di provenienza sono considerati adulti o quasi e migrano perché privi di legami familiari o perché il contesto familiare è ostile, ovvero troppo povero per mantenerli. Per questi minori possono darsi situazioni di vulnerabilità atipiche: si pensi ad esempio a chi inizia il viaggio verso l'Europa da minorenne e giunge in Italia non appena compiuti i diciotto anni; si pensi a quei minori che una volta divenuti maggiorenni non riescono -per le più varie ragioni- a fruire della protezione dei tribunali minorili e della possibilità di affidamento ai servizi sociali fino all'età di anni ventuno[34].
Discorso analogo potrebbe farsi per le vittime di tratta e sfruttamento di prostituzione. Le vittime di tratta, come si è detto, spesso hanno una forte resistenza ad autoidentificarsi come tali e preferiscono (o sono indotte a) presentare richiesta di asilo sulla base di storie stereotipate quale ad esempio la fuga d'amore con un fidanzato inviso alla famiglia, liti familiari, vendette private. In questi casi, in precedenza, la vicenda poteva essere risolta riconoscendo -nelle more dell'avvio dell’appropriato percorso di tutela- un permesso di soggiorno per motivi umanitari[35].
Ma oggi, in simili casi, quid iuris?
Parte della dottrina ha evidenziato possibili profili di incostituzionalità del decreto sicurezza in particolare per la «sostituzione» del permesso di soggiorno per motivi umanitari con i permessi di soggiorno speciali[36]. E’ stato osservato che ogni scelta legislativa che impedisce al giudice di valutare la concreta sussistenza dei diritti riconosciuti, imbrigliandole nella rete di clausole chiuse o di tipizzazione, rende irragionevoli la norme introdotte, esponendole alla sanzione di incostituzionalità[37].
Tuttavia, prima di sollevare la questione di legittimità costituzionale, il giudice è obbligato a verificare se sussiste la possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata[38].
Il Consiglio Superiore della Magistratura, nel parere sul decreto sicurezza reso il 21 novembre 2018, avverte che l'abrogazione dell'istituto della protezione per motivi umanitari potrebbe condurre ad una riespansione dell’ambito di operatività dell’art. 10, comma 3 della Costituzione, immediatamente azionabile innanzi al giudice ordinario, ricordando che prima della introduzione nella legge nazionale della tutela umanitaria, era data attuazione all’asilo costituzionale mediante l’applicazione diretta dell’art. 10, configurato dalla giurisprudenza come un «vero e proprio diritto soggettivo all’ottenimento dell’asilo, anche in mancanza di una legge che, del diritto stesso, specifichi le condizioni di esercizio e le modalità di godimento».[39] Solo il successivo recepimento delle direttive europee, infatti, aveva portato la giurisprudenza di affermare che, una volta resa esaustiva la tutela normativa, non sussisteva più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui al citato art. 10.[40]
Anche il Presidente della Repubblica, nella sua lettera di accompagnamento all’emanazione del decreto sicurezza, ha autorevolmente notato che il decreto non può far venire meno «gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’articolo 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia».
Sembra concretizzarsi qui un paradosso: perseguendo l'obiettivo di rendere certi e predefiniti i casi di permessi di soggiorno, e di ridurne il numero, si apre un ambito di discrezionalità ancora più ampio, pari all’intera area coperta dall’ombrello dell’art. 10 Cost. Ma non è priva di asperità la via della diretta applicazione della norma costituzionale: tra l’altro, è necessario evitare ingiustificate disparità di trattamento, e individuare in concreto quale permesso di soggiorno, con quale durata e quali diritti conseguirebbe al riconoscimento diretto del diritto di asilo costituzionale[41].
Interessante sembra invece lo sviluppo del principio di non respingimento, sulla falsariga sentenza della CGUE sopra ricordata[42]. Il principio di non respingimento opera anche in assenza del riconoscimento dello status di rifugiato, ed è strettamente legato al rischio che siano violati i diritti fondamentali sanciti dall’articolo 4 e dall’articolo 19 della Carta di Nizza[43]. Con la sentenza del marzo 2019, la Corte europea offre una interpretazione dell’art. 4, vincolante per il giudice nazionale, che include nel concetto di trattamento inumano e degradante anche la situazione di estrema deprivazione materiale, non dipendente dalla volontà del soggetto, ma dalla sua condizione di vulnerabilità. Il permesso di soggiorno per protezione speciale, di cui all’art. 32 del D.lgs. n. 25/2008, come modificato dal decreto sicurezza, potrebbe quindi essere rilasciato in tutti quei casi in cui il rinvio al paese di origine comporterebbe una estrema deprivazione materiale, gravemente lesiva della dignità umana.
[1] Contributo destinato agli scritti in onore di Antonio Ruggeri
[2] A. RUGGERI, Note introduttive ad uno studio sui diritti e i doveri costituzionali degli stranieri in Rivista AIC, 2/2001; A. RUGGERI I diritti dei non cittadini tra modello costituzionale e politiche nazionali, in Consulta on line 1/2015; A. RUGGERI, I diritti fondamentali degli immigrati e dei migranti, tra linearità del modello costituzionale e le oscillazioni della esperienza in Consulta on line, 2/2017; A. RUGGERI, Il principio di solidarietà alla prova del fenomeno migratorio, in Consulta on line 3/2017; A. RUGGERI, I diritti sociali al tempo delle migrazioni in Rivista AIC, 2/2018 M. LOSANA, “Stranieri” e principio costituzionale di eguaglianza, in Rivista AIC, 1/2016; G. BASCHERINI, Immigrazione e diritti fondamentali. L’esperienza italiana tra storia costituzionale e prospettive europee, Jovene, Napoli 2007;
[3] Sul concetto di cittadinanza, v. L. PANELLA, La cittadinanza e le cittadinanze nel diritto internazionale, Napoli, 2008
[4] Corte Cost. sent. n. 105/2001; v. anche sent. n. 120/1967; sent. n. 104/1969; sent. 249/2010
[5] A. RUGGERI: Note introduttive ad uno studio sui diritti e i doveri costituzionali degli stranieri, op. cit. 10,ss.
[6] A. RUGGERI I diritti sociali al tempo delle migrazioni, op. cit., 12 ss.
[7] C. CAMARDI, Diritti fondamentali e “status” della persona, in Riv. crit. dir. priv., 1/2015, 7 ss.
[8] A. RUGGERI, I diritti fondamentali degli immigrati e dei migranti, tra linearità del modello costituzionale e le oscillazioni della esperienza, op.cit., 370 ss.
[9] A. RUGGERI, I diritti sociali al tempo delle migrazioni, op. cit., 3 ss.
[10] N. BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 1990, 19 ss. In termini di consenso fondato sulla lezione della Storia si esprime anche la Dichiarazione del 1948 laddove premette che “il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell'umanità”.
[11] Corte Cost. sent. n. 309/1999
[12] CGUE, sentt. del 19.3.2019, nelle cause C-163/17 e C-297/17 e altre. Nella fattispecie si trattava di migranti che contestavano il rinvio rispettivamente verso l’Italia e la Bulgaria, da loro ritenuti paesi con gravi carenze sistemiche nelle procedure per il riconoscimento dell’asilo e nell’accoglienza. Secondo la Corte, è possibile che in concreto si abbia tale livello di gravità quando “una persona completamente dipendente dall’assistenza pubblica si verrebbe a trovare, a prescindere dalla sua volontà e dalle sue scelte personali, in una situazione di estrema deprivazione materiale che non le consentirebbe di far fronte ai suoi bisogni più elementari quali, segnatamente, nutrirsi, lavarsi e disporre di un alloggio, e che pregiudicherebbe la sua salute fisica o psichica o che la porrebbe in uno stato di degrado incompatibile con la dignità umana”.
[13] Corte Cost. sent. n. 1/1956, ove si afferma che il limite è insisto nel concetto stesso di diritto.
[14] V. Corte Cost. sent. n. 62/1994; Coste Cost. sent. n. 254/2011; Corte Cost. sent. 306/2008; Corte Cost. sent. n. 187/2010; Corte Cost. sent. n. 329/2011; Corte Cost. sent. n. 40/2013.
[15] A. RUGGERI, Il principio di solidarietà alla prova del fenomeno migratorio, op. cit., 450 ss. v. anche J. HABERMAS, Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà, Roma- Bari, 2013 ove si ipotizza che la solidarietà, ponendo fine all’odio tra paesi creditori e paesi debitori, potrebbe risolvere l’attuale crisi europea. Ancora, v. S. RODOTÀ, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Roma-Bari 2016, 23 ss.; l’A. evidenzia lo stretto nesso tra principio di solidarietà e principio di dignità, e che il sacrificio del primo si converte immediatamente in violazioni del secondo.
[16] A. MORELLI Solidarietà, diritti sociali e immigrazione nello Stato sociale, in Consulta on line, 3/2018, 533 ss.
[17] A. RUGGERI, Il principio di solidarietà alla prova del fenomeno migratorio, op. cit., 451 ss.
[18] Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Agenda sulla migrazione, 13.5.2015, in https://eur-lex.europa.eu
[19] G. SILVESTRI, Il diritto fondamentale di asilo e alla protezione internazionale, relazione all'incontro della Scuola Superiore della Magistratura: Il diritto ad una tutela giudiziaria effettiva dei richiedenti protezione internazionale, Catania, 14.9. 2018 , in Questione Giustizia, ottobre 2018.
[20] Corte EDU, Grande Chambre, 23.2.2012, Hirsi Jamaa vs. Italia
[21] Cass. civ. sent. n.5926/2015; ord. n. 10743/2017
[22] Corte EDU, M.S.S. vs. Belgio e Grecia 21.1. 2011; la già ricordata Hirsi vs. Italia; Khlaifia vs. Italia, Grande Camera, 16.12.2016
[23] Report EASO ottobre 2015, Country of Origin Information. Nigeria, sex trafficking of women
[24] A. RUGGERI, I diritti sociali al tempo delle migrazioni, op. cit.
[25] v. Cass. civ. sez. un. sent. n. 217999/2010; R. CONTI, L'interpretazione conforme e il giudice dai tre cappelli, in La Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo, Roma 2011
[26] Cass. civ. sent. 21748/2007
[27] Cass.civ. sez. un. sent. n. 1946/2017
[28] Cass. civ. sez. un. sent. n. 19393/2009; Cass. civ. sent. n. 4139/2011; Cass. civ. sent. n. 15466/2014; Cass. civ. sent. n. 15466/2014
[29] Cass. civ. sent. n. 4455/2018
[30] Cass. civ. sent. n. 4890/2019 si esprime per la irretroattività; contra Cass. civ. n. 11750/2019. Le sezioni unite hanno ritenuto corretta la soluzione della irretroattività, per cui le domande presentate prima della entrata in vigore della nuova legge saranno scrutinate sulla base della normativa precedentemente in vigore quanto all’accertamento dei presupposti, pur se ciò comporterà il rilascio di un permesso di soggiorno per “casi speciali”(Cass. s.u. 29459/2019).
[31] C.M. BIANCA La legge non dispone che per l’avvenire (art. 11 disp. prel. c.c.): a proposito del decreto sicurezza, in Questione giustizia, 17.6.,2019
[32] C.M. BIANCA La legge non dispone che per l’avvenire, cit.
[33] Sul tema si veda: M.CIRESE, Minori migranti, in IlFamiliarista (Giuffrè), 2.1.2019; M. QUATTROCCHI I minori senza famiglia davanti ai giudici, 8.6.2013 in www.gruppodipisa.it
[34] In tema di diritti dei giovani adulti a mantenere l’integrazione sociale e condizioni di vita dignitose, si esprimono App. Catania 27.11.2018 e App. Catania 16.1.2017, inedite.
[35] Trib. Firenze 14.12.2017, in Questione Giustizia, 12.2.2019.
[36] M. RUOTOLO Brevi note sui possibili vizi formali e sostanziali del D.L. n. 113 del 2018 (c.d. decreto “sicurezza e immigrazione) Rivista AIC, Fasc. 3/2018 del 17.10. 2018; G. AZZARITI A proposito della nuova normativa in materia di migrazioni: le incostituzionalità non discusse. Questione Giustizia, 18.1.2019. Si veda anche Corte Cost. sent. n. 49/2000 in tema di abrogazione delle norme dirette a “rendere effettivo un diritto fondamentale della persona”.
[37] F. MANGANO L’interpretazione dei giudici nella disciplina dei permessi di soggiorno per motivi umanitari, in Questione giustizia, dicembre 2019
[38] La Corte Costituzionale avverte che l’applicazione della nuova normtiva in conformità ai principi costituzionali potrebbe far sì che il “paventato effetto restrittivo” sia contenuto entro margini costituzionalmente accettabili, diversamente dovrebbe sollevarsi la questione di costituzionalità (Corte Cost. n. 194/2019)
[39] Cass. civ. sez. un. n. 4674/1997; BENVENUTI in Il dito e la luna. La protezione delle esigenze di carattere umanitario degli stranieri, in Dir., Imm., Citt. 1/2019, parla di un possibile “grande ritorno” nelle aule giudiziarie del diritto di asilo costituzionale.
[40] Cass. civ. n. 10686/2012.
[41] v. S. ALBANO, relazione al convegno “Abrogazione della protezione umanitaria, asilo costituzionale ed obblighi internazionali dell’Italia” Roma, 12.3.2019.
[42] CGUE, sent. 19.3.2019 cit.
[43]CGUE, gande sezione, cause riunite C-8209; 391/16 e altre
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