ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
A proposito di Bibbiano e casi simili ovvero alcune riflessioni critiche all’indomani del clamore mediatico
di Giuliana Mazzoni, Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e Antonietta Curci, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”
Sommario: 1. Premessa. - 2. Assunzioni teoriche e conseguenze pratiche: il pericolo di un approccio pantraumatico, e l’interpretazione dei dati epidemiologici. -3. Teorie psicologiche e dati di ricerca. 4.Elementi scientifici vs elementi probatori- 5. L’esigenza di bilanciamento tra garanzia dei diritti del minore e diritti della difesa. - 6.Conclusioni
1. Premessa
Il caso “Angeli e Demoni” aperto dalla Procura di Reggio Emilia nell’estate 2019 ha documentato, tramite intercettazioni, la cattiva prassi diffusa presso i Servizi Sociali della Val D’Enza, dove si trova il comune di Bibbiano: bambini sottratti scorrettamente ai genitori grazie a forme di suggestione e di plagio e falsificazione della documentazione; bambini collocati in centri di accoglienza e presso famiglie affidatarie che hanno continuato le coercizioni suggestive e il plagio. Una realtà ben triste. Su questo caso, a partire dall’inizio estate 2019, tutto è stato detto e scritto, in programmi televisivi, articoli quotidiani su giornali nazionali e sulle pagine regionali, convegni in cui tutti parlano con maggiore e minore livello di competenza. Anche se questa intensa attività mediatica ha avuto il pregio di esporre un problema importante, la bagarre -- perché così si può definire -- non ha certamente aiutato a chiarire quanto effettivamente accaduto, le motivazioni e i meccanismi che di questo stato delle cose sono stati e sono responsabili.
Molto poco presente è stata, al contrario, la comunità accademica e scientifica, relativamente pochi i convegni di esperti, pochi i comunicati, poche le prese di posizione dei ricercatori che si occupano di queste tematiche. Questa distanza, e lo diciamo da accademiche, è in realtà necessaria. L’Accademia deve tenersi lontana dalle zuffe basate su sentimenti momentanei e motivate da presenzialismo o da esigenze elettorali. L’Accademia ha un altro ruolo, quello di valutare quanto accade, tramite un metodo logico e scientifico, assumendo una posizione possibilmente neutra e necessariamente basata su teorie e dati, cercando semmai di spiegare che cosa ha portato la società italiana a questo punto di animosità e confusione.
Ora che la bagarre rumorosa è calata, riteniamo sia il momento che la comunità scientifica si faccia sentire, offrendo parametri di lettura dell’accaduto. A fronte del clamore e della disinformazione, delle prese di posizione poco documentate e poco ragionate, quattro sono, a nostro avviso, i punti di riflessione su cui la comunità scientifica psicologica e giuridica deve soffermarsi. Il primo dovrebbe riguardare il chiarimento sulla pericolosità di un approccio “pantraumatico”, che si presenta come ideologicamente cieco e che sposa in modo acritico posizioni e tesi di intellettuali americani non necessariamente condivise dalla comunità scientifica internazionale. Il secondo dovrebbe essere finalizzato al chiarimento del ruolo di senso comune, teorie e dati di ricerca, che non possono essere assimilati tra di loro Un terzo elemento di riflessione dovrebbe chiarire la distinzione tra elementi scientifici (teoria e dati di ricerca) da un lato, ed elementi probatori dall’altro; ne è un esempio la discussione sulla natura della prova, attualmente molto dibattuta in ambito giuridico nei paesi di lingua spagnola (es: Ferrer Beltran, 2007). Il quarto ed ultimo elemento riguarda l’esame dell’art. 403 c.c., e il bilanciamento tra garanzia dei diritti del minore e diritto al contraddittorio/diritti della difesa.
Questo articolo si propone di delineare alcuni aspetti fondamentali relativi a queste battaglie culturali che aiutino a capire sia i casi come quello di Bibbiano, sia le decisioni prese in sede giudiziaria ad essi relative. Al tempo stesso questo articolo si propone di riflettere, a partire dai fatti di Bibbiano, sul ruolo e sull’immagine che la psicologia ha assunto e dovrebbe assumere quando interviene nel contesto dei procedimenti giudiziari.
2. Assunzioni teoriche e conseguenze pratiche: il pericolo di un approccio pantraumatico, e l’interpretazione dei dati epidemiologici
I casi giudiziari in cui sono coinvolti bambini, tipicamente nel ruolo di vittime o presunte tali, sono numerosi nella casistica italiana, ma alcuni assumono, per le loro caratteristiche, il ruolo di bandiera di prese di posizione sociali e politiche. Questo è accaduto recentemente per due casi, entrambi nella regione Emilia-Romagna, uno di cui si chiede la riapertura dopo più di venti anni (il caso anche chiamato dai media “Diavoli della Bassa” o “Veleno”), l’altro è il caso recente svelato dalle intercettazioni presso i Servizi Sociali del Comune di Bibbiano. Nel caso dei “Diavoli della Bassa”, che risale agli anni ’90, molti adulti sono stati accusati di abuso sessuale collettivo di natura satanica e i loro figli sono stati sottratti alle famiglie con procedure di estrema urgenza. Dopo varie vicende giudiziarie, il caso si è concluso con l’assoluzione dei genitori imputati, con una sola eccezione. È, tuttavia, tornato ad interessare un pubblico molto vasto in tempi recenti (2018), grazie alla pubblicazione dell’inchiesta “Veleno”, un lavoro di indagine giornalistica molto accurato, inizialmente presentato sotto forma di documentario audio a puntate e, successivamente, pubblicato come libro. Il secondo caso è invece letteralmente esploso nell’estate del 2019, in seguito ad intercettazioni presso le strutture di assistenza sociale del Comune emiliano di Bibbiano, volute dalla Procura, che hanno determinato l’avvio di un procedimento penale. Le intercettazioni hanno apparentemente rivelato comportamenti penalmente e deontologicamente molto gravi sia da parte di assistenti sociali, sia di psicologi di un ente esterno, “Hansel e Gretel”, cui era stato appaltato il compito di appoggio al Servizio Sociale per i casi che coinvolgessero minori.
L’approccio pantraumatico
Ciò che accomuna questi e altri casi simili (es., i casi di Rignano Flaminio, gli asili di Brescia, ecc.) è la modalità attraverso cui si è intervenuti sui minori e sui loro ascolti. In questa sede non si discuteranno gli aspetti tecnici relativi a queste modalità, già ampiamente discussi in altre sedi (es. Mazzoni, 2011), ma il focus è sulla posizione teorica e ideologica che in parte vi sottende e può essere considerata responsabile degli errori fatti al momento dell’ascolto del minore. Si tratta di un approccio teorico specifico relativo alla comprensione e gestione del trauma, che deriva dalle posizioni proposte da alcuni autori americani (tra cui, ad es., B. van der Kolk), sostanziate da un complesso di evidenze empiriche, per cui un avvenimento traumatico spiega ogni forma di disturbo psicologico. In verità, molti altri dati di ricerca dimostrano che le esperienze traumatiche sono alla base solo di una minoranza dei disturbi psicologici che si manifestano nell’infanzia e nell’età adulta. I dati della ricerca epidemiologica svolta da un organo affidabile come il National Child Abuse and Neglect Data System negli USA indicano che il trauma in realtà sottende circa il 10% dei disturbi di sviluppo nella popolazione generale, ma, se si selezionano per l’indagine solo pazienti che presentano disturbi psicologici conclamati per i quali sono già in terapia, l’incidenza del trauma come causa sale al 30% (dato, comunque, ben lontano da un 100% voluto dai sostenitori dell’approccio pantraumatico). I problemi teorici inerenti l’approccio pantraumatico sono stati chiaramente delineati in un testo recente, “Il bambino capovolto”, scritto da uno psicoanalista italiano (Nicolais, 2018), la cui lettura permette un approfondimento di questo tema.
Come leggere i dati di incidenza relativi a maltrattamento, abuso e incuria?
Un problema addizionale che caratterizza il pensiero di larga parte di coloro che sposano l’approccio teorico pantraumatico in Italia è rappresentato dall’idea che le forme di abuso sessuale e fisico, di maltrattamento e di incuria siano endemiche nel contesto del nostro Paese e abbiano pertanto un’incidenza molto elevata nella popolazione generale. Ora, come si può facilmente capire, la valutazione di incidenza di questi fenomeni dipende molto dalla definizione che si dà degli stessi e da come si raccolgono i dati. Se la definizione di incuria (neglect) include “nessun accompagnamento nella fase dell’addormentamento” o “affidamento a persone estranee o molto anziane”, il tasso di incuria risulta estremamente alto, mentre se l’incuria viene definita come mancanza di aspetti igienici di base e/o di cure mediche, il tasso di incidenza allora sarà molto più basso nella popolazione italiana. Come secondo esempio, si consideri la definizione di abuso sessuale. Se questa include “esibizionismo” e “molestie verbali”, il tasso di incidenza dell’abuso è piuttosto alto, mentre cala notevolmente se queste voci vengono escluse e raggiunge un livello molto basso se la definizione riguarda solo forme di penetrazione. La definizione di un fenomeno necessariamente determina la percentuale di incidenza osservata dello stesso fenomeno.
Anche la metodologia utilizzata per la raccolta dei dati influenza i risultati. Risultati diversi si ottengono se il campione è formato da persone che sono seguite dai Servizi Sociali rispetto a un campione estratto dalla popolazione generale. Come si può intuire, maltrattamento e abuso sono potenzialmente più presenti nel primo che nel secondo campione. Nella ricerca svolta da CISMAI e Terres des Homes sui Servizi Sociali dei 231 comuni italiani presi a campione, per un totale di 2,4 milioni di minori già attenzionati ai Servizi Sociali comunali, si ottiene una frequenza di incuria del 47%, 40% di maltrattamento (unendo varie voci) e 4% circa di abuso sessuale. Ad ogni buon conto, nonostante provengano da un campione di minori già segnalati ai Servizi Sociali, le frequenze riportate dall’indagine sono ben lontane dal suggerire che vi sia una diffusione generalizzata del problema. Inoltre, molti dati epidemiologici relativi a maltrattamento e abuso sono ottenuti tramite questionari in cui gli intervistati, da adulti, indicano se hanno subito maltrattamento e/o abuso quando erano bambini. Si tratta, quindi, di valutazioni in cui gli individui sono abbastanza liberi di interpretare la richiesta, soprattutto quando la definizione è molto vaga.
Un’adeguata interpretazione dei dati statistici che illustrano l’incidenza di un fenomeno deve fare riferimento, quindi, alla specifica definizione utilizzata per l’indagine (es., quanto ampia, quanto vaga, quanto rigorosa), alla natura del campione su cui si sono svolte le indagini epidemiologiche e alla modalità con cui i dati sono stati acquisiti. Solo in questo modo si può capire che cosa i dati disponibili effettivamente indichino. Molte affermazioni che si leggono e che sono diffuse dai media sono purtroppo frutto di letture frettolose e poco documentate.
Chi si associa alla posizione teorica relativa al pantraumatismo è convinto ad esempio, che vi sia un enorme numero sommerso e che sia la superficiale considerazione del fenomeno a tradursi nella sua grave sottostima. Una conseguenza di queste convinzioni è che il professionista, assumendo che un minore non riveli spontaneamente e facilmente maltrattamento o abuso, debba ricorrere a procedure coercitive orientate a sollecitare il ricordo. Posizioni simili rappresentano in realtà un pensiero psicologico molto semplificato, che fa riferimento all’idea del recupero del trauma come mezzo di abreazione e catarsi, per cui il ricordare elementi “repressi” porterebbe automaticamente ad un miglioramento dei sintomi. Si tratta di un pensiero ha caratterizzato gli approcci teorici alla terapia ai suoi albori (si vedano per esempio le modalità di intervento dello psichiatra Janet, nella seconda metà del 1800), ma è stato ampiamente superato già dalla prima psicoanalisi (si veda il secondo approccio al disturbo isterico proposto da Freud). Tuttavia, è forse proprio questa estrema semplicità che ne ha determinato il successo tra molti professionisti e nel grande pubblico.
Tra le tecniche usate per recuperare ricordi considerati “rimossi”, vi sono alcune nate per scopi clinico-terapeutici, che vengono impropriamente utilizzate come strumento di indagine su esperienze di natura traumatica in ambiti psico-forensi. Una di queste è la EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), che consiste nell’attivazione di movimenti oculari che sembra possano ridurre anche sensibilmente sintomi legati a disturbi post-traumatici da stress (PTSD). Anche se ancora oggetto di disputa in ambito scientifico, vari dati di ricerca ne documentano applicabilità ed efficacia ai fini di ridurre sintomi di ansia o simili legati al disturbo posttraumatico da stress, soprattutto in ragione della rapidità con cui la EMDR permette di alleviare il disturbo. L’uso allo scopo di facilitare il recupero dei ricordi è, quindi, improprio e altrettanto pericoloso di altre forme di recupero indotto come l’ipnosi. Per altro, i criteri del Diagnostic and Statistical Manual nella sua forma corrente (DSM-5) prevedono che, senza la presenza chiara e dichiarata di un ricordo dell’avvenimento traumatico, non si possa fare una diagnosi di PTSD. La tecnica EMDR non può e non deve, quindi, essere impiegata per recuperare ricordi di traumi ipotetici e un suo utilizzo in tal senso rappresenta non solo un errore di intervento, ma anche un importante problema deontologico.
3. Teorie psicologiche e dati di ricerca
Occorre sfatare l’idea, radicata nel pubblico dei non addetti ai lavori, per cui la psicologia sarebbe un insieme di posizioni potenzialmente opinabili e in gran parte soggettive, e che in fondo ciascuno è un po’ psicologo, in quanto portatore di un bagaglio esperienziale che consentirebbe, senza grandi sforzi, di comprendere i fatti umani. La psicologia, come sanno quanti l’hanno studiata in corsi universitari, non si identifica né nella psicoanalisi, né nell’area più ampia della psicologia clinica e della psicoterapia. La psicologia è una disciplina scientifica che utilizza lo stesso metodo scientifico che caratterizza le altre scienze, come quelle fisiche, biologiche, informatiche, che ne hanno largamente influenzato lo sviluppo. Occorre quindi approcciarsi a questa disciplina come ci si approccia alla biologia o alla fisiologia o alla neurologia o all’informatica, ossia distinguendo modelli teorici e risultati di ricerca. È pur vero che i pareri spesso contrastanti tra periti psicologi nelle aule di Tribunale possono creare perplessità sulla potenziale univocità delle interpretazioni di casi e situazioni. È, però, anche vero che la disparità di pareri può essere presente tra periti che esaminano dati balistici, il DNA o le macchie di sangue. In realtà, nel caso degli psicologi, spesso il problema del conflitto tra posizioni è dovuto alla scelta errata dei periti, che dipende in particolar modo dalla mancata conoscenza delle varie specializzazioni interne alla psicologia. Così, come non si affiderebbe mai la creazione di un computer a un ingegnere civile, o la costruzione di un ponte a un ingegnere elettronico, o non si farebbe operare il cervello a un dentista, o fare una calanizzazione ad un oncologo, così non è corretto, ad esempio, scegliere come perito in casi giudiziari uno psicologo dell’età evolutiva o uno psicologo clinico che non abbiano una formazione specifica (anche) in psicologia forense. È infatti questa formazione che garantisce da parte del perito una conoscenza adeguata dei dati di ricerca che sono adottati dalla comunità scientifica di riferimento come criteri e parametri adeguati a svolgere una perizia.
Anche in Italia si è, infatti, assistito ad un progressivo sviluppo delle conoscenze relative ai dati della letteratura scientifica psico-forense. Questo però è avvenuto con grande lentezza, dovuta soprattutto al retaggio un modello culturale “gentiliano” che ha determinato una prolungata insularità della nostra formazione scientifica. La scarsa conoscenza della lingua inglese rende spesso difficile, infatti, avvicinarsi al costante e rapido sviluppo della scienza psicologica a livello internazionale, e questo favorisce la creazione di mode teoriche peculiarmente italiane. Laddove, invece, la conoscenza scientifica in psicologia si è internazionalizzata si assiste ad una drastica diminuzione dell’elemento interpretativo soggettivo e al prevalere di un approccio che segue regole e procedure in linea con la letteratura internazionale. Sono nati in Italia corsi universitari di psicologia giuridica e forense che hanno un peso anche internazionale e a questi occorre fare riferimento.
Nel distinguere tra psicologia e psicologia, occorre pertanto riflettere sulla distinzione, che è propria di ogni scienza, tra vari tipi di proposta teorica, vari tipi di modellistica teorica, e vari tipi di risultati di ricerca. Per chiarire, ognuno è libero di creare una proposta teorica su come si sia creato l’universo, e le proposte variano in termini di bizzarria, logicità, e riferimento a dati di ricerca. Esistono, ad esempio, i creazionisti, ma la loro proposta teorica deve essere validata facendo riferimento ai risultati della ricerca astronomica e fisica che si è sviluppata nel corso dei secoli. Gli stessi criteri devono essere usati per valutare una proposta teorica sulle cause del disturbo mentale, sullo sviluppo cognitivo, sulla competenza sociale, ecc., così come sulla accuratezza della testimonianza. Una proposta teorica sulla psicologia della testimonianza necessita di essere validata non in base a opinioni personali o dati soggettivi, ma in base alla solidità dei risultati di ricerca da cui prende forma e che tenta di spiegare e prevedere.
I dati di ricerca devono essere, inoltre, vagliati in base alla propria interna validità. In altri termini, occorre capire se rappresentano in modo corretto un fenomeno e sorreggono, quindi, un principio universale su cui basare conclusioni e predizioni o se sono solo risultato di un occasionale errore metodologico, che verrebbe sconfessato da altre ricerche. Due sono gli elementi da considerare, che possono venire in aiuto a chi deve valutare la solidità di un risultato di ricerca. Il primo si riferisce alla credibilità e al peso scientifico della rivista su cui sono stati pubblicati, mentre il secondo si riferisce al numero di repliche e conferme che hanno avuto in laboratori di ricerca tra loro diversi. Ma fino a che punto questi criteri di valutazione della solidità di un dato scientifico sono noti al grosso pubblico o, persino, ai magistrati che si trovano a decidere su vicende complesse come quelle in questione?
4.Elementi scientifici vs elementi probatori
In ambito giudiziario, pur non essendo il dato empirico fornito dal consulente o dal perito un mezzo di prova che sopperisca alle esigenze istruttorie, è possibile e, per certi versi, inevitabile, che il consulente includa nel suo elaborato dati che derivano dall’applicazione delle proprie tecniche di indagine, nello specifico psicologiche. Come recita una sentenza della Cassazione, “la consulenza tecnica d’ufficio costituisce un metodo di ausilio per il giudice, volto alla più approfondita conoscenza dei fatti già provati dalle parti, la cui interpretazione richiede nozioni teorico-scientifiche, e non un messo di soccorso volto a sopperire all’inerzia delle parti; la stessa tuttavia può eccezionalmente costituire fonte oggettiva di prova, per accertare quei fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di un perito” (Cass. Civ. n. 1266/2013).
In particolare, questo accade nella misura in cui l’indagine psicologica con gli strumenti diagnostici del colloquio, della valutazione testistica e dell’osservazione porta alla luce aspetti del funzionamento psicologico individuale e relazionale dei periziandi che non sono ricavabili dalla lettura e analisi dei documenti e delle testimonianze raccolte nel fascicolo processuale. In altre parole, l’esperto psicologo, proprio per la natura del suo oggetto di indagine, è nella condizione di portare all’attenzione del tribunale elementi (psicologici) che non sarebbero ottenibili altrimenti. Il procedimento scientifico ha tuttavia la peculiarità di discostarsi dal senso comune in quanto si basa sulla proposta e la validazione di ipotesi esplicative attraverso tecniche di indagine controllabili e falsificabili. Il metodo qualifica il procedimento scientifico, laddove la mente umana opera generalmente secondo un criterio economico, che tende alla conferma di ipotesi e aspettative. Risulta, infatti, più difficile proporre ipotesi che resistano al vaglio del processo di falsificazione e proprio per questo le conclusioni cui giunge un approccio di tipo falsificazionista sono più solide. Il rigore metodologico e l’approccio scientifico all’indagine sono, quindi, le necessarie premesse affinché il lavoro del consulente psicologo possa rappresentare un valido ausilio all’amministrazione della giustizia. L’indagine psicologica deve consentire di ottenere dati validi e affidabili per gli scopi giudiziari (Codognotto e Sartori, 2010). Alla consulenza psicologica si applicano, pertanto, i criteri della nota sentenza Cozzini (Cass. Pen., Sez. IV, n. 43786/2010), che recepisce ed integra i criteri della giurisprudenza americana, noti come standard Daubert, secondo cui “Gli esperti dovranno essere chiamati non solo ad esprimere il loro personale seppur qualificato giudizio, ma anche a delineare lo scenario degli studi ed a fornire elementi che consentano al giudice di comprendere se, ponderate le diverse rappresentazioni scientifiche del problema, possa pervenirsi ad una “metateoria” in grado di fondare affidabilmente la ricostruzione. Di tale complessa indagine il giudice è infine chiamato a dar conto in motivazione, esplicitando le informazioni scientifiche disponibili e fornendo razionale spiegazione, in modo completo e comprensibile a tutti, dell’apprezzamento compiuto”.
In questa ottica, il Giudice assume un ruolo essenziale, che lo porta ad essere da semplice fruitore di conoscenze tecniche e di leggi scientifiche a effettivo gatekeeper, cui è affidato il compito di fare da filtro svolgendo un ruolo di controllo sulla validità di metodi e procedure che presiedono alla formazione della prova scientifica secondo i criteri della controllabilità e falsificabilità, della revisione critica degli esperti del settore, della diffusione nell’ambito delle pubblicazioni scientifiche, della indicazione dell’errore noto o potenziale, dell’esistenza di standard di applicazione e infine della accettazione generale da parte della comunità scientifica di riferimento. Come ribadisce, in effetti, la sentenza Cozzini, “il giudice non può certamente assumere un ruolo passivo di fronte allo scenario del sapere scientifico ma deve svolgere un penetrante ruolo critico” (Cass. Pen., Sez. IV, n. 43786/2010). Gli stessi principi vengono ripresi in una successiva pronuncia di legittimità (Cass. Pen., Sez. IV, n. 268/2013) nella quale si precisa che il giudice è tenuto a dar conto, in motivazione, dell’indagine condotta circa l’apprezzamento critico della prova scientifica. Sulla base di questi elementi di riflessione, appare evidente come un approccio scientifico nel metodo e nelle procedure al lavoro di valutazione psico-forense possa rappresentare un efficace contenimento rispetto alle modalità ingenue del pensiero comune o all’adesione preconcetta ad un approccio teorico “alla moda”. L’ingresso di nozioni psicologiche non supportate sul piano scientifico all’interno del processo può rappresentare una seria minaccia all’efficienza del ragionamento giudiziario.
Se il giudice è il garante scientifico dell’intervento della psicologia nel processo, tuttavia, nella pratica, può non avere gli strumenti per valutare la scientificità di un dato psicologico. Così, l’errore più comune è porre sullo stesso piano evidenze scientificamente sostenute ed osservazioni validate dal senso comune. L’errore consiste, infatti, nel considerare entrambi gli elementi come dotati di pari dignità scientifica, laddove il processo che li ha condotti all’evidenza del tribunale è completamente diverso. Qualunque espressione di adeguatezza metodologica e scientifica perde così di valore se non è accompagnata da un processo educativo rivolto al giudicante sulla metodologia scientifica, e non una formazione centrata esclusivamente sulla contrapposizione di questo a quell’approccio, come normalmente avviene nelle sedi divulgative. L’obiettivo è consentire al giudice di poter operare una corretta discriminazione tra ciò che è scienza e ciò che non lo è e questa discriminazione passa in primis attraverso il giudizio “in ordine alla qualificazione professionale ed all’indipendenza di giudizio dell’esperto” (Cass. Pen., Sez. IV, n. 43786/2010).
5. L’esigenza di bilanciamento tra garanzia dei diritti del minore e diritti della difesa
Un ultimo punto di riflessione riguarda l’esame dell’art. 403 c.c. e il bilanciamento tra garanzia dei diritti del minore e diritto al contraddittorio/diritti della difesa. Un approccio paternalistico al problema enfatizza la necessità di interventi a tutela del minore nei casi in cui vi sia ipotesi di possibile pregiudizio rispetto alla sua condizione psicofisica. Se in ambito penalistico la decisione giudiziaria richiede la certezza “ogni oltre ragionevole dubbio”, nel contesto civile lo standard probatorio si basa sul una valutazione di maggiore probabilità che vi sia piuttosto che non vi sia il pregiudizio: nel primo caso, l’esigenza dominante è evitare il falso positivo (es., un innocente in carcere), nel secondo caso è di scongiurare il falso negativo (es., un minore sofferente non preso in carico). La portata psicologica del secondo approccio non è meno rilevante della prima. Un intervento inopportuno in relazioni familiari complesse può essere estremamente dannoso e compromettere il benessere presente e futuro di persone e relazioni, specie quando sono coinvolti minori.
La situazione si complica quando il sospetto maturato in ambito civile dà avvio ad una denuncia penale. Si considerino i casi di presunto abuso sessuale ai danni di un minore affidato congiuntamente ad una coppia in conflitto, che ha come conseguenza immediata la messa in discussione da parte del genitore denunciante della capacità dell’altro genitore di tutelare il bambino da pericoli, maltrattamenti e abusi. È stato variamente osservato che nei tribunali italiani si riscontrano con una certa frequenza casi di abusi sessuali a danni di minori coinvolti in separazioni conflittuali. La frequenza di questi casi è aumentata in particolare dal 2006, cioè dall’anno in cui la legge n. 54/2006 ha sancito il principio della bigenitorialità (Manuali, 2014). Come recita il noto teorema di Thomas (Goffman, 1974), se gli uomini definiscono reali certe situazioni, queste saranno reali anche nelle loro conseguenze. Un presunto abuso sessuale, dalla cui segnalazione viene aperto il fascicolo civile e la cui definizione in sede penale si traduce magari in una richiesta di archiviazione, produce comunque una serie di conseguenze sul piano affettivo e relazionale per gli attori coinvolti. L’ipotesi di abuso viene alimentata delle incomprensioni e dei conflitti passati e persistenti e questo scenario evoca da una parte (la madre) angosce remote e mai completamente assopite, dall’altra (il padre) provoca reazioni difensive di svalutazione, rifiuto, chiusura. Tutto ciò non può che elevare ancora di più il livello di conflitto tra le due figure parentali. Viene, quindi, da chiedersi: quale è l’interesse del minore in questo scenario conflittuale sostenuto dalle paure più profonde dei due confliggenti? In questi casi, l’intervento psicologico in sede di consulenza può non essere sufficiente a tutelare i diritti del minore, ma anzi – occorre dirlo onestamente – può persino complicare la condizione psicologica e relazionale degli attori del conflitto, imponendo indagini, approfondimenti, diagnosi e confronti spesso dolorosi e intrusivi. La garanzia di tutela del benessere del minore e dei suoi familiari viene ad essere piuttosto garantita dal contraddittorio che, in sede civile, richiama le parti al rispetto di procedure e limiti deontologici altrimenti facilmente aggirabili. Anche in sede civile, quindi, la dialettica del contraddittorio è una salvaguardia importante per la tutela dei diritti delle persone più fragili.
Analoghe considerazioni possono essere effettuate in merito alla vicenda Bibbiano. Pur senza voler presupporre intenzioni malevole da parte degli operatori coinvolti e senza avere la pretesa di trarre conclusioni che spettano all’A.G., appare quanto meno evidente come l’ansia di applicare un modello paternalistico di presa in carico di minori in condizione di disagio ha sopravanzato tanto l’esigenza di impiegare un metodo scientifico di approfondimento dei fatti, quanto di garantire una corretta applicazione del diritto al contraddittorio. Addirittura, il contraddittorio è stato qualificato nel pubblico vociare come uno strumento di negazione del disagio dovuto a presunti abusi, un modo per consentire a schiere di abusanti di ribaltare le accuse tanto faticosamente ottenute dalla bocca dei bambini. Il modello pantraumatico è stato portato alle sue estreme conseguenze giudiziarie: il bambino che mostra una sofferenza psicologica è una piccola vittima di abuso che deve essere condotta alla catarsi rispetto al trauma subito; questa operazione implica un lavoro attivo sulla sua memoria e l’accusa ai danni del suo presunto abusante. La tutela del contraddittorio può, quindi, diventare una inutile complicazione in un processo di disvelamento di tanto faticosa gestione.
6. Conclusioni
Nelle pagine precedenti abbiamo riassunto quattro aspetti su cui, a nostro parere, occorre una serena riflessione che, pur scaturita dai recenti fatti di cronaca, adesso che il clamore mediatico si è affievolito, ha in realtà una portata ben più ampia. La nostra riflessione si è estesa, pertanto, ad una considerazione generale di tipo epistemologico sulla qualità e le caratteristiche dell’intervento psicologico nel processo penale e civile. In un’epoca dominata dall’esigenza di specializzazione, non è possibile considerare la psicologia come un’entità monolitica figlia di un modello medico-clinico di normalità/patologia. La psicologia forense non ha la funzione di rendere clinicamente trattabile una condizione di fatto, bensì quella di fornire un supporto tecnico alla decisione giudiziaria. Il consulente psicologo deve dismettere l’abito terapeutico per assumere un ruolo di “ricercatore” di evidenze psicologiche da offrire alla valutazione del tribunale. Non è libero di scegliere tecniche di diagnosi e trattamento senza tener d’occhio la validità e affidabilità delle medesime, né di affidarsi a vaghe intuizioni personali. I limiti del suo lavoro sono nella scientificità dell’approccio, nel metodo e non nelle preferenze individuali.
Ciò che, da accademiche, possiamo trarre come lezione a partire dai fatti di Bibbiano non è uno schieramento innocentista o colpevolista verso i diversi protagonisti della vicenda. Né tantomeno si tratta di proporre un metodo di intervento e valutazione innovativo laddove la ricca letteratura internazionale ha già predisposto da decenni protocolli aggiornati ed ancorati a robusti dati di ricerca per l’ascolto di minori presunte vittime di abuso sessuale. La lezione di Bibbiano è un focus sulla scientificità della psicologia, dei suoi metodi e delle sue tecniche in contrapposizione ad approcci esperienziali che, per quanto seducenti e alla moda, non ne sono assolutamente comparabili. La psicologia è una scienza, non una opinione o una proposta personale e, solo in quanto scienza, può offrire il suo contributo ad un giusto processo.
Riferimenti bibliografici
Codognotto, S. e Sartori, G. (2010). La valutazione evidence-based della idoneità del minore a rendere testimonianza. In G. Gulotta e A. Curci (a cura di), Mente, società e diritto (pp. 99-129). Milano: Giuffrè.
Ferrer Beltran, J. (2012). La valutazione razionale della prova. Milano: Giuffrè.
Goffman, E. (1974). Frame analysis. An Essay on the organization of the experience. Trad. it., 2006. Roma: Armando.
Manuali, G. (2014). Le crisi coniugali ed il grave problema delle false denunce: Utilità e ruolo della Trial consultation. Psicologia e Giustizia, 14, 2
Mazzoni, G. (2011). Psicologia della testimonianza. Roma: Carocci.
Nicolais, G. (2018). Il bambino capovolto. Milano: San Paolo.
Responsabilità medica e autodeterminazione della persona. Gli orientamenti di legittimità dalla Legge Gelli-Bianco ad oggi di Remo Trezza
Sommario: 1. Omessa diligenza e violazione delle leges artis – 2. Il consenso informato – 3. La responsabilità della struttura sanitaria e l’azione di rivalsa – 4. Oneri probatori e accertamento del nesso causale – 5. Responsabilità medica prenatale, malformazione del feto, nascita indesiderata e risarcimento del danno – 6. Responsabilità dell’equipe medica – 7. Perdita di chance, colpevole ritardo nella diagnosi di patologie e liquidazione del danno – 8. Responsabilità medica ed emotrasfusione – 9. Responsabilità medica e prossimi congiunti – 10. Responsabilità della casa di cura – 11. Valutazione del giudice – 12. Profili processuali – 13. Questioni di diritto intertemporale
1.Omessa diligenza e violazione delle leges artis
In tema di responsabilità per attività medico-chirurgica, in presenza di un intervento operatorio che – sebbene eseguito in conformità alle “leges artis” e non determinativo di alcun peggioramento della condizione patologica del paziente – non abbia prodotto alcun risultato di tipo terapeutico, e ciò in ragione dell’omessa esecuzione degli interventi preparatori necessari al suo buon esito da parte della struttura sanitaria, nonché di quelli successivi di natura riabilitativa occorrenti al medesimo scopo, ricorre un inesatto adempimento della struttura per avere dato luogo ad una ingerenza priva di utilità nella sfera psico-fisica del paziente, alla quale consegue un danno di natura non patrimoniale ravvisabile sia nella limitazione del proprio agire, sofferta dal paziente per il tempo occorso per le fasi preparatorie, di esecuzione e postoperatorie dell’intervento, sia nella sofferenza derivante tanto da tale limitazione, quanto dalla successiva percezione della inutilità del trattamento subìto (Cass. civ., Sez. 3, 19 maggio 2017, n. 12597).
In tema di responsabilità medica, ove l’atto terapeutico, necessario e correttamente eseguito “secundum legem artis”, non sia stato preceduto dalla preventiva informazione esplicita del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, può essere riconosciuto il risarcimento del danno alla salute per la verificazione di tali conseguenze, solo ove sia allegato e provato, da parte del paziente, anche in via presuntiva, che, se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi a detto intervento ovvero avrebbe vissuto il periodo successivo ad esso con migliore e più serena predisposizione ad accettarne le eventuali conseguenze (e sofferenze). (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, relativamente all’asseverata mancanza di consenso di una paziente rispetto ad un intervento di salpingectomia quale complicanza di un parto cesareo, aveva affermato la responsabilità del medico senza valutare se la paziente, ove adeguatamente informata dell'intervento di sterilizzazione tubarica, avrebbe rifiutato la prestazione) (Cass. civ., Sez. 3, 31 gennaio 2018, n. 2369).
In tema di responsabilità del medico chirurgo, la diligenza nell’adempimento della prestazione professionale deve essere valutata assumendo a parametro non la condotta del buon padre di famiglia, ma quella del debitore qualificato, ai sensi dell’art. 1176, comma 2 c.c., con la conseguenza che, in presenza di paziente con sintomi aspecifici, il sanitario è tenuto a prenderne in considerazione tutti i possibili significati ed a segnalare le alternative ipotesi diagnostiche. (Nel caso di specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della corte d’appello che aveva ritenuto diligente la condotta dei sanitari che, in presenza di sintomi aspecifici, quali svenimento e cefalea, non univocamente riconducibili ad un aneurisma cerebrale, ma nemmeno tali da escluderlo, avevano omesso di prescrivere al paziente tempestivi approfondimenti diagnostici con particolare riguardo alla TAC cranica) (Cass. civ., Sez. 3, 30 novembre 2018, n. 30999).
In tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno evento consta della lesione non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione (perseguimento delle “leges artis” nella cura dell’interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato); sicché, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione (Cass. civ., Sez. 3, 11 novembre 2019, n. 28991).
2. Il consenso informato
In materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, l’acquisizione del consenso informato del paziente, da parte del sanitario, costituisce prestazione altra e diversa rispetto a quella avente ad oggetto l’intervento terapeutico, dal cui inadempimento deriva – secondo l’”id quod plerumque accidit” – un danno conseguenza costituito dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente, patite dal primo in ragione dello svolgimento sulla sua persona di interventi non assentiti, danno che non necessità di specifica prova, ferme restando la possibilità di contestazione della controparte e quella del paziente di allegare e provare fatti a sé ancor più favorevoli di cui intenda giovarsi a fini risarcitori (Cass. civ., Sez. 3, 5 luglio 2017, n. 16503).
In tema di attività medico-chirurgica, la manifestazione del consenso informato alla prestazione sanitaria costituisce esercizio di un diritto soggettivo del paziente all’autodeterminazione, cui corrisponde, da parte del medico, l’obbligo di fornire informazioni dettagliate sull’intervento da eseguire, con la conseguenza che, in caso di contestazione del paziente, grava sul medico l’onere di provare il corretto adempimento dell’obbligo informativo preventivo, mentre, nel caso in cui tale prova non venga fornita, è necessario distinguere, ai fini della valutazione della fondatezza della domanda risarcitoria proposta dal paziente, l’ipotesi in cui il danno alla salute costituisca esito non attendibile della prestazione tecnica, se correttamente eseguita, da quella in cui, invece, il peggioramento della salute corrisponda a un esito infausto prevedibile “ex ante” nonostante la corretta esecuzione della prestazione tecnico-sanitaria che si rendeva comunque necessaria, nel qual caso, ai fini dell’accertamento del danno, graverà sul paziente l’onere della prova, anche tramite presunzioni, che il danno alla salute è dipeso dal fatto che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento (Cass. civ., Sez. 3 , 13 ottobre 2017, n. 24074).
Dalla lesione del diritto fondamentale all’autodeterminazione determinata dalla violazione, da parte del sanitario, dell’obbligo di acquisire il consenso informato deriva, secondo il principio del’”id quod plerumque accidit” un danno-conseguenza autonomamente risarcibile – costituito dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di sé stesso psichicamente e fisicamente – che non necessita di una specifica prova, salva la possibilità di contestazione della controparte e di allegazione e prova, da parte del paziente, di fatti a sé ancora più favorevoli di cui intenda giovarsi a fini risarcitori (Cass. civ., Sez. 3, 15 maggio 2018, n. 11749. Annotata da I. Pizzimenti , Consenso informato e danno da lesione del diritto all’autodeterminazione: il risarcimento è automatico?, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2018, fasc. 11, p. 1644).
In tema di responsabilità sanitaria, l’omessa acquisizione del consenso informato preventivo al trattamento sanitario – fuori dai casi in cui lo stesso debba essere praticato in via d’urgenza e il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà – determina la lesione in sé della libera determinazione del paziente, quale valore costituzionalmente protetto dagli artt. 32 e 13 Cost., quest’ultimo ricomprendente la libertà di decidere in ordine alla propria salute ed al proprio corpo, a prescindere quindi dalla presenza di conseguenze negative sul piano della salute, e dà luogo ad un danno non patrimoniale autonomamente risarcibile, ai sensi dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. (Cass. civ., Sez. 3, 28 giugno 2018, n. 17022).
In materia di responsabilità sanitaria, l’inadempimento dell’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente assume diversa rilevanza causale a seconda che sia dedotta la violazione del diritto all’autodeterminazione o la lesione del diritto alla salute posto che, se nel primo caso l’omessa o insufficiente informazione preventiva evidenzia ex se una relazione causale diretta con la compromissione dell’interesse all’autonoma valutazione dei rischi e dei benefici del trattamento sanitario, nel secondo l’incidenza eziologica del deficit informativo sul risultato pregiudizievole dell’atto terapeutico correttamente eseguito dipende dall’opzione che il paziente avrebbe esercitato se fosse stato adeguatamente informato ed è configurabile soltanto in caso di presunto dissenso, con la conseguenza che l’allegazione dei fatti dimostrativi di tale scelta costituisce parte integrante dell’onere della prova – che, in applicazione del criterio generale di cui all’art. 2697 c.c., grava sul danneggiato – del nesso eziologico tra inadempimento ed evento dannoso. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito con la quale era stata respinta la domanda di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale sul presupposto che non solo gli attori non avevano allegato il presunto dissenso del congiunto, ma dalle risultanze istruttorie erano emersi elementi, come l’assenza di soluzioni terapeutiche alternative e il fatto che in precedenza il paziente si era sottoposto ad interventi analoghi, che deponevano per la presunzione di consenso al trattamento sanitario) (Cass. civ., Sez. 3, 19 luglio 2018, n. 19199).
In tema di omessa acquisizione del consenso medico informato, qualora risulti accertato, con riferimento alla sottoposizione di uno tra due coniugi ad intervento chirurgico, un peggioramento della salute inerente la sfera sessuale, rientrante nel rischio dell’intervento, sebbene non imputabile a cattiva esecuzione dello stesso, l’altro coniuge che risenta in via immediata o riflessa del danno, in quanto incidente sulla sfera relazionale e sulla vita di coppia, ha diritto al risarcimento del danno che sia conseguenza della condotta di violazione della regola del consenso informato in danno del paziente (Cass. civ., Sez. 3, 23 ottobre 2018, n. 26728).
Il diritto al consenso informato del paziente, in quanto diritto irretrattabile della persona, va comunque e sempre rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza, rinvenuti a seguito di un intervento concordato e programmato, per il quale sia stato richiesto ed ottenuto il consenso, e tali da porre in gravissimo pericolo la vita della persona – bene che riceve e si correda di una tutela primaria nella scala dei valori giuridici a fondamento dell'ordine giuridico e del vivere civile –, o si tratti di trattamento sanitario obbligatorio. Tale consenso è talmente inderogabile che non assume alcuna rilevanza, al fine di escluderlo, il fatto che l'intervento “absque pactis” sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che, a causa del totale “deficit” di informazione, il paziente non è stato messo in condizione di assentire al trattamento, consumandosi nei suoi confronti, comunque, una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza fisica e/o psichica (Cass. civ., Sez. 3, 15 aprile 2019, n. 10423).
In tema di attività medico-chirurgica, il consenso informato deve basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, portata ed estensione dell’intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, non essendo all’uopo idonea la sottoscrizione, da parte del paziente, di un modulo del tutto generico, né rilevando, ai fini della completezza ed effettività del consenso, la qualità del paziente, che incide unicamente sulle modalità dell’informazione, da adattarsi al suo livello culturale mediante un linguaggio a lui comprensibile, secondo il suo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto non adeguata l’informazione fornita ad una paziente dapprima mediante consegna di un modulo prestampato dal contenuto generico in occasione del primo intervento chirurgico e poi, senza indicazione degli esatti termini della patologia determinatasi a causa di questo, delle concrete prospettive di superamento della medesima attraverso una serie di interventi successivi) (Cass. civ., Sez. 3, 19 settembre 2019, n. 23328).
In tema di attività medico-chirurgica, la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli e, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost.; pertanto, la circostanza che esso abbia trovato espressa previsione nelle fonti eurounitarie ed internazionali (art. 3, comma 1, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e art. 5 Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina) solo successivamente al trattamento terapeutico praticato (nella specie, risalente al 1989) non può essere invocata per sostenere l’inesistenza, in epoca antecedente, dello specifico obbligo del medico di informare correttamente il paziente della tipologia e modalità delle cure, dei benefici conseguibili, dei possibili effetti indesiderati e del rischio di complicanze anche peggiorative dello stato di salute (Cass. civ., Sez. 3, 11 novembre 2019, n. 28985).
In tema di attività medico-chirurgica, sebbene l’inadempimento dell’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente sia autonomo rispetto a quello inerente al trattamento terapeutico (comportando la violazione dei distinti diritti alla libertà di autodeterminazione e alla salute), in ragione dell’unitarietà del rapporto giuridico tra medico e paziente – che si articola in plurime obbligazioni tra loro connesse e strumentali al perseguimento della cura o del risanamento del soggetto – non può affermarsi una assoluta autonomia dei due illeciti tale da escludere ogni interferenza tra gli stessi nella produzione del medesimo danno; è possibile, invece, che anche l’inadempimento dell’obbligazione relativa alla corretta informazione sui rischi e benefici della terapia si inserisca tra i fattori “concorrenti” della serie causale determinativa del pregiudizio alla salute, dovendo quindi riconoscersi all’omissione del medico una astratta capacità plurioffensiva, potenzialmente idonea a ledere due diversi interessi sostanziali, entrambi suscettibili di risarcimento qualora sia fornita la prova che dalla lesione di ciascuno di essi siano derivate specifiche conseguenze dannose (Cass. civ., Sez. 3, 11 novembre 2019, n. 28985).
In tema di attività medico chirurgica, la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonché un danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, rinvenibile quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subìto un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute. Pertanto, nell’ipotesi di omissione od inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute ma che abbia impedito l’accesso ad altri più accurati accertamenti, la lesione del diritto all’autodeterminazione sarà risarcibile ove siano derivate conseguenze dannose di natura non patrimoniale, quali sofferenze soggettive e limitazione della libertà di disporre di se stessi, salva la possibilità della prova contraria (Cass. civ., Sez. 3, 11 novembre 2019, n. 28985).
3. La responsabilità della struttura sanitaria e l’azione di rivalsa
In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dalla vedova di un paziente deceduto, per arresto cardiaco, in seguito ad un intervento chirurgico di asportazione della prostata cui era seguita un’emorragia, sul rilievo che la mancata dimostrazione, da parte dell’attrice, della riconducibilità eziologica dell’arresto cardiaco all’intervento chirurgico e all’emorragia insorta, escludeva in radice la configurabilità di un onere probatorio in capo alla struttura) (Cass. civ., Sez. 3, 26 luglio 2017, n. 18392. Annotata da D. Zorzit, La Cassazione e la prova del nesso causale: l’inizio di una nuova storia?, in Danno e responsabilità, 2017, fasc. 6, p. 696 ss.; G. D’Amico, Il rischio della “causa ignota” nella responsabilità contrattuale in materia sanitaria, in Danno e responsabilità, 2018, fasc. 3, p. 345 ss.; G. D’Amico, La prova del nesso di causalità “materiale” e il rischio della c.d. “causa ignota” nella responsabilità medica, in Il foro italiano, 2018, fasc. 4, parte 1, p. 1348 ss.).
In tema di fatto illecito, la responsabilità dei padroni e committenti per il fatto del dipendente ex art. 2049 c.c. non richiede che tra le mansioni affidate all’autore dell’illecito e l’evento sussista un nesso di causalità, essendo sufficiente che ricorra un rapporto di occasionalità necessaria, nel senso che le incombenze assegnate al dipendente abbiano reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno al terzo. (Nella specie, la S.C. ha ravvisato responsabilità dell’azienda ospedaliera per i danni provocati da un medico autore di violenza sessuale in danno di paziente, perpetrata in ospedale e in orario di lavoro, nell’adempimento di mansioni di anestesista, narcotizzando la vittima in vista di un intervento chirurgico) (Cass. civ., Sez. 3, 22 settembre 2017, n. 22058. Annotata da M. Piselli, L’attività del chirurgo dentro la struttura è condizione per il fatto, in Guida al diritto Il Sole 24 ore, 2017, fasc. 43, p. 49).
In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’evento di danno (aggravamento della patologia preesistente ovvero insorgenza di una nuova patologia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, non potendosi predicare, rispetto a tale elemento della fattispecie, il principio della maggiore vicinanza della prova al debitore, in virtù del quale, invece, incombe su quest’ultimo l’onere della prova contraria solo relativamente alla colpa ex art. 1218 cod. civ. (Cass. civ., Sez. 3, 20 agosto 2018, n. 20812).
In materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, nel giudizio risarcitorio promosso dal paziente per inesatta esecuzione di intervento chirurgico, grava sulla struttura sanitaria la quale agisca nei confronti del chirurgo in regresso e in garanzia impropria per essere tenuta indenne dalle conseguenze della eventuale condanna, l’onere di provare che la causazione del danno sia ascrivibile, in via esclusiva, alla imperizia dell’operatore medico, non competendo a quest’ultimo la individuazione di precise cause di responsabilità della clinica tali da condurre al rigetto dell’azione di regresso (Cass. civ., Sez. 6 - 3, 27 settembre 2019, n. 24167. Annotata da F. Martini, Un’altra restrizione sull’azione di rivalsa della casa di cura, in Guida al diritto Il Sole 24 ore, 2019, fasc. 45, p. 48).
In tema di azione di rivalsa nel regime anteriore alla legge n. 24 del 2017, nel rapporto interno tra la struttura sanitaria e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest’ultimo deve essere ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo degli artt. 1298, comma 2, e 2055, comma 3, c.c., in quanto la struttura accetta il rischio connaturato all’utilizzazione di terzi per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale, a meno che dimostri un’eccezionale, inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile (e oggettivamente improbabile) devianza del sanitario dal programma condiviso di tutela della salute che è oggetto dell’obbligazione (Cass. civ., Sez. 3, 11 novembre 2019, n. 28987).
4.Oneri probatori e accertamento del nesso causale
In caso di prestazione professionale medico-chirurgica di “routine”, spetta al professionista superare la presunzione che le complicanze siano state determinate dalla sua responsabilità, dimostrando che siano state, invece, prodotte da un evento imprevisto ed imprevedibile secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento; ne consegue che il giudice, al fine di escludere la responsabilità del medico nella suddetta ipotesi, non può limitarsi a rilevare l’accertata insorgenza di “complicanze intraoperatorie”, ma deve, altresì, verificare la loro eventuale imprevedibilità ed inevitabilità, nonché l’insussistenza del nesso causale tra la tecnica operatoria prescelta e l’insorgenza delle predette complicanze, unitamente all’adeguatezza delle tecniche scelte dal chirurgo per porvi rimedio (Cass. civ., Sez. 3, 13 ottobre 2017, n. 24074).
In tema di responsabilità contrattuale del medico nei confronti del paziente, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare qualificate inadempienze, astrattamente idonee a provocare (quale causa o concausa efficiente) il danno lamentato, rimanendo, invece, a carico del debitore convenuto l’onere di dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato, ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, avendo accertato la mancata esecuzione di un esame bioptico estemporaneo prescritto dal protocollo chirurgico, ha ritenuto gravare sull’azienda ospedaliera l’onere di provare l’irrilevanza causale di tale omissione, dimostrando con certezza che l’esecuzione della biopsia non avrebbe comunque consentito di individuare la corretta patologia – che richiedeva una nefrectomia soltanto parziale – e, quindi, di impedire l’erronea asportazione totale del rene effettuata al paziente) (Cass. civ., Sez. 3, 13 ottobre 2017, n. 24073).
Nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno, sicché, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata. (Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la decisione impugnata che, tenendo conto delle risultanze della c.t.u. e degli esiti peritali del procedimento penale, aveva concluso nel senso della sussistenza di un’insuperabile incertezza sul nesso di causalità) (Cass. civ., Sez. 3, 7 dicembre 2017, n. 29315).
Nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno, sicché, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (Cass. civ., Sez. 3, 15 febbraio 2018, n. 3704).
In tema di responsabilità professionale del medico, l’inadempimento dell’obbligo di informazione sussistente nei confronti del paziente può assumere rilievo a fini risarcitori – anche in assenza di un danno alla salute o in presenza di un danno alla salute non ricollegabile alla lesione del diritto all’informazione – a condizione che sia allegata e provata, da parte dell’attore, l’esistenza di pregiudizi non patrimoniali derivanti dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in sé considerato, sempre che essi superino la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e non siano futili, ovvero consistenti in meri disagi o fastidi (Cass. civ., Sez. 3, 22 agosto 2018, n. 20885).
La prova dell’inadempimento del medico non è sufficiente ad affermarne la responsabilità per la morte del paziente, occorrendo altresì il raggiungimento della prova del nesso causale tra l’evento e la condotta inadempiente, secondo la regola della riferibilità causale dell’evento stesso all’ipotetico responsabile, la quale presuppone una valutazione nei termini del c.d. “più probabile che non”. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva escluso la responsabilità del medico per la morte di un paziente causata da un aneurisma, pur in presenza del comportamento inadempiente del sanitario consistito nell’omesso espletamento di visita domiciliare, in quanto non era possibile affermare che, in caso di visita tempestiva, il paziente avrebbe avuto ragionevoli probabilità di guarigione, tenuto conto della difficoltà di identificare l’aneurisma e di intervenire sul medesimo chirurgicamente, e, dunque, dell’assenza di fattori che probabilisticamente riconducessero alla detta omissione l’evento morte, il quale, statisticamente, si sarebbe comunque verificato nel 58% dei casi) (Cass. civ., Sez. 3, 23 agosto 2018, n. 21008).
In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dalla paziente e dai suoi stretti congiunti, in relazione a un ictus cerebrale che aveva colpito la prima a seguito di un esame angiografico, sul rilievo che era mancata la prova, da parte degli attori, della riconducibilità eziologica della patologia insorta alla condotta dei sanitari, ed anzi la CTU espletata aveva evidenziato l’esistenza di diversi fattori, indipendenti dalla suddetta condotta, che avevano verosimilmente favorito l’evento lesivo) (Cass. civ., Sez. 3, 23 ottobre 2018, n. 26700).
In tema di responsabilità sanitaria, l’accertamento del nesso causale va condotto attraverso una ricostruzione non atomistica della complessiva condotta omissiva della struttura sanitaria indicata dall’attore come idonea a cagionare l’evento, in modo che il singolo episodio sia considerato e valutato come inserito in una sequenza più ampia e coerente. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza che aveva operato una parcellizzazione dei singoli episodi dell'unitario contegno omissivo addebitato alla struttura, concentrandosi soltanto sull’ultimo episodio ed ignorando del tutto i due precedenti nonché le risultanze dell’elaborato peritale, predisposto in sede penale, senza valutare se, nell’insieme, tutti gli elementi unitariamente considerati fossero idonei all’accertamento del nesso causale tra l’omessa diagnosi di patologia cardiaca e l’intervenuto decesso dal paziente per attacco ischemico, secondo il principio del “più probabile che non”) (Cass. civ., Sez. 3, 26 febbraio 2019, n. 5487. Annotata da M. Magliulo, Pluralità di condotte omissive del sanitario e accertamento del nesso di causa, in Judicium, 30 aprile 2019).
In materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, ove si individui in un pregresso stato morboso del paziente/danneggiato (nella specie, deficit da surfactante o sindrome da distress o delle membrane ialine) un antecedente privo di interdipendenza funzionale con l’accertata condotta colposa del sanitario (nella specie, intempestivo intervento di taglio cesareo di fronte a sofferenza fetale acuta), ma dotato di efficacia concausale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica riscontrata, allo stesso non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra detta condotta e l’evento dannoso, appartenendo ad una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui si inserisce il contegno del sanitario, bensì unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno, potendosi così pervenire – sulla base di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto – solamente ad una delimitazione del “quantum” del risarcimento (Cass. civ., Sez. 3, 18 aprile 2019, n. 10812).
In tema di responsabilità medica, ove l’atto terapeutico sia consistito in una serie di successivi interventi chirurgici di carattere “riparatorio” e dall’esito non risolutivo, inseriti nell’ambito di un pregiudizio già verificatosi a causa di un primo intervento, l’onere di dimostrare che, se adeguatamente informata, la paziente avrebbe verosimilmente rifiutato di sottoporvisi, ricade sul medico, proprio in considerazione dell’esito non risolutivo dei medesimi con riferimento ad intervento non correttamente eseguito (Cass civ., Sez. 3, 19 settembre 2019, n. 23328).
Le conseguenze dannose che derivino, secondo un nesso di regolarità causale, dalla lesione del diritto all’autodeterminazione, verificatasi in seguito ad un atto terapeutico eseguito senza la preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso legittimamente prestato, devono essere debitamente allegate dal paziente, sul quale grava l’onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della cd. vicinanza della prova), essendo, il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del medico, eventualità non rientrante nell’id quod plerumque accidit; al riguardo la prova può essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, non essendo configurabile un danno risarcibile “in re ipsa” derivante esclusivamente dall’omessa informazione (Cass. civ., Sez. 3, 11 novembre 2019, n. 28985).
5. Responsabilità medica prenatale, malformazione del feto, nascita indesiderata e risarcimento del danno
In tema di responsabilità medica, qualora risulti che un ginecologo, al quale una gestante si sia rivolta per accertamenti sull’andamento della gravidanza e sulle condizioni del feto, abbia omesso di prescrivere l’amniocentesi, esame che avrebbe evidenziato la peculiare condizione dello stesso (“sindrome di down”), la mera circostanza che, due mesi dopo quella prestazione, la gestante abbia rifiutato di sottoporsi ad ulteriori accertamenti prenatali non elide l’efficacia causale dell’inadempimento del medico quanto alla perdita della “chance” di conoscere lo stato del feto sin dal momento in cui quell’inadempimento si è verificato; conseguentemente, ove la gestante lamenti di aver subito un danno alla salute psico-fisica, per aver scoperto la condizione del figlio solo al termine della gravidanza, la perdita di quella “chance” deve essere considerata parte del danno ascrivibile all’inadempimento del medico (Cass. civ., Sez. 3, 10 gennaio 2017, n. 243. Annotata da M. Cortese, Nascita indesiderata o conseguenze da nascita malformata: insoliti profili risarcitori e prova del nesso causale, in Danno e responsabilità, 2017, fasc. 4, p. 507 ss.).
In materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, il ginecologo di fiducia della gestante che riscontri, tramite esame specialistico, un’alterazione cromosomica o altre anomalie del feto, non può limitarsi a comunicare tale dato alla propria paziente, indirizzandola al laboratorio di analisi per ulteriori approfondimenti, atteso che gli obblighi di informazione a suo carico devono estendersi a tutti gli elementi idonei a consentire a quest’ultima una scelta informata e consapevole, sia nel senso della interruzione della gravidanza, che della sua prosecuzione, non sottacendo, in tal caso, l’illustrazione delle problematicità da affrontare; a propria volta, il laboratorio di analisi ed il genetista non possono limitarsi alla verifica della esistenza della anomalia, reindirizzando la paziente al ginecologo di fiducia ma, a specifica richiesta della gestante, devono soddisfare le sue richieste di informazione anche in relazione alle più probabili conseguenze delle anomalie riscontrate (Cass. civ., Sez. 3, 28 febbraio 2017, n. 5004)
In tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, la mancanza della mano sinistra del nascituro non è una malformazione idonea a determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, requisito imposto dall’art. 6, lett. b), della l. n. 194 del 1978 per far luogo all’interruzione della gravidanza dopo i primi 90 giorni dal suo inizio, sicché, non potendosi legittimamente ricorrere all’aborto, dall’omessa diagnosi dell’anomalia fetale non può derivare un danno risarcibile (Cass. civ., Sez. 3, 11 aprile 2017, n. 9251. Annotata da M. Petruzzi, Il danno da nascita indesiderata: una conferma all’orientamento espresso dalle Sezioni Unite, in Danno e responsabilità, 2017, fasc. 5, p. 549 ss.).
In materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, il rispetto, da parte del sanitario, delle “linee guida” – pur costituendo un utile parametro nell’accertamento di una sua eventuale colpa, peraltro in relazione alla verifica della sola perizia del sanitario – non esime il giudice dal valutare, nella propria discrezionalità di giudizio, se le circostanze del caso concreto non esigessero una condotta diversa da quella da esse prescritta. (In applicazione del principio, è stata annullata la sentenza impugnata che – nel respingere una domanda risarcitoria in relazione ad un’ipotesi di omessa informazione, ad una gestante, dei rischi connessi ad una possibile malformazione genetica del nascituro – aveva attribuito rilievo, tra l’altro, alla circostanza che, all’epoca dei fatti, le linee guida per la diagnosi citogenetica, impartite nel 2001, non erano ancora entrate in vigore, circostanza ritenuta irrilevante dalla S.C. sul presupposto che per i sanitari, operanti all’interno di una struttura altamente specializzata, risultava non solo opportuno, ma doveroso, in presenza di una gravidanza ritenuta a rischio, di un “tritest” positivo, nonché di un numero ritenuto oggettivamente eccessivo di esami ecografici, riferire che l’esame dei cd. “villi coriali” aveva raggiunto solo dodici – e non sedici – “metafasi”, sebbene la minore attendibilità di un referto formulato su tali basi fosse stata, poi, sancita solo dalle citate linee guida del 2001) (Cass. civ., Sez. 3, 9 maggio 2017, n. 11208).
Nell’ipotesi di erronea esecuzione dell’intervento d’interruzione della gravidanza che abbia dato luogo ad una nascita indesiderata, in virtù dell’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 1 e 4 della l. n. 194 del 1978, deve essere riconosciuto non soltanto il danno alla salute psico-fisica della donna ma anche quello sofferto da entrambi i genitori per la lesione della loro libertà di autodeterminazione, da riconoscersi in relazione alle negative ricadute esistenziali derivanti dalla violazione del diritto a non dar seguito alla gestazione nell'ambito dei tempi e delle modalità stabilite dalla legge e prescindendo totalmente dalle condizioni di salute del nato (Cass. civ., Sez. 3, 29 gennaio 2018, n. 2070).
In tema di responsabilità del medico per erronea diagnosi concernente il feto e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni, che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento della struttura sanitaria all’obbligazione di natura contrattuale gravante sulla stessa, spetta non solo alla madre, ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sulla procreazione cosciente e responsabile, considerando che, agli effetti negativi della condotta del medico ed alla responsabilità della struttura ove egli opera non può ritenersi estraneo il padre che deve, perciò, considerarsi tra i soggetti “protetti” e, quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadempimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni, immediati e diretti, fra cui deve ricomprendersi il pregiudizio patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli. (Nella specie, era stato eseguito in maniera erronea un intervento di raschiamento uterino in seguito ad una non corretta diagnosi di aborto interno, accertata dopo la ventunesima settimana e, quindi, oltre il termine previsto dalla l. n. 194 del 22 maggio 1978, con la conseguenza che la gravidanza era proseguita e si era conclusa con la nascita indesiderata di una bambina) (Cass. civ., Sez. 3, 5 febbraio 2018, n. 2675. Annotata da V. Carbone, Nascita indesiderata: anche il padre ha diritto al risarcimento dei danni, in Il Corriere giuridico, 2018, fasc. 7, p. 921).
In materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, ove si individui in un pregresso stato morboso del paziente/danneggiato (nella specie, leucomalacia periventricolare – danno alla sostanza bianca presente nel cervello – un antecedente privo di interdipendenza funzionale con l’accertata condotta colposa del sanitario (nella specie, intempestivo intervento di taglio cesareo di fronte a sofferenza fetale acuta), ma dotato di efficacia concausale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica riscontrata, allo stesso non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra detta condotta e l’evento dannoso, appartenendo ad una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui si inserisce il contegno del sanitario, bensì unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno, potendosi così pervenire – sulla base di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto – solamente ad una delimitazione del “quantum” del risarcimento (Cass. civ., Sez. 3, 21 agosto 2018, n. 20829. Annotata da B. Tassone, Ancora su negligenza medica e pregressa situazione patologica, in Il Foro italiano, 2019, fasc. 4, parte 1, p. 1387).
La responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria è configurabile, oltre che nei confronti del paziente, anche relativamente a soggetti terzi cui si estendono gli effetti protettivi del contratto; ne consegue che il contratto stipulato tra una gestante, una struttura sanitaria ed un medico, avente ad oggetto la prestazione di cure finalizzate a garantire il corretto decorso della gravidanza, riverbera per sua natura effetti protettivi a vantaggio anche del padre del concepito, il quale in caso di inadempimento, è perciò legittimato ad agire per il risarcimento del danno (Cass. civ., Sez. 3, 18 aprile 2019, n. 10812. Annotata da D. F. Ponzù, Responsabilità medica contrattuale per danni neonatali nei confronti del padre e dei prossimi congiunti, in Famiglia e diritto. Mensile di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 2019, fasc. 12, p. 1095).
In materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, l’acquisizione del consenso informato del paziente, da parte del sanitario, costituisce prestazione diversa rispetto a quella avente ad oggetto l’intervento terapeutico, con la conseguenza che l’errata esecuzione di quest’ultimo dà luogo ad un danno suscettibile di ulteriore e autonomo risarcimento rispetto a quello dovuto per la violazione dell’obbligo di informazione, anche in ragione della diversità dei diritti – rispettivamente, all’autodeterminazione delle scelte terapeutiche ed all’integrità psicofisica – pregiudicati nelle due differenti ipotesi. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la decisione con cui i giudici di merito, nel rigettare la domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla omessa rilevazione e comunicazione della malformazione del feto, avevano pronunziato esclusivamente in ordine ai danni da mancata interruzione della gravidanza, per carenza di prova in ordine alla volontà della donna di non portare a termine la gravidanza, omettendo del tutto di valutare gli altri e diversi danni e le relative conseguenze, nella specie indicate nell'impossibilità di prepararsi, come genitori, psicologicamente e materialmente alla nascita di un figlio malformato) (Cass. civ., Sez. 3, 25 giugno 2019, n. 16892).
6. Responsabilità dell’equipe medica
L’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, sicché rientra tra gli obblighi di ogni singolo componente di una equipe chirurgica, sia esso in posizione sovra o sotto ordinata, anche quello di prendere visione, prima dell’operazione, della cartella clinica contenente tutti i dati per verificare la necessità di adottare particolari precauzioni imposte dalla specifica condizione del paziente ed eventualmente segnalare, anche senza particolari formalità, il suo motivato dissenso rispetto alle scelte chirurgiche effettuate ed alla scelta stessa di procedere all’operazione, potendo solo in tal caso esimersi dalla concorrente responsabilità dei membri dell’equipe nell’inadempimento della prestazione sanitaria. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto sussistente la concorrente responsabilità del secondo aiuto di una equipe chirurgica il quale, pur avendo correttamente eseguito i compiti di sua stretta competenza, aveva omesso di rilevare che il paziente versava in condizioni fisiche alterate, individuabili attraverso gli esami ematici presenti nella cartella, tali da sconsigliare altamente l'intervento operatorio, peraltro non necessario né urgente) (Cass. civ., Sez. 3, 29 gennaio 2018, n. 2060).
In tema di omessa acquisizione del consenso medico informato, la responsabilità grava non solo sul capo equipe esecutore dell’operazione ma anche sull’aiuto chirurgo, partecipante ad essa, che abbia in precedenza consigliato al paziente l’esecuzione dell’intervento, in quanto responsabile di non aver assicurato l’informazione dovuta nell’eseguire la propria prestazione consistente nel consigliare l’intervento (Cass. civ., Sez. 3, 23 ottobre 2018, n. 26728).
7.Perdita di chance, colpevole ritardo nella diagnosi di patologie e liquidazione del danno
In tema di danno alla persona, la perdita di “chance”, ovvero di una concreta possibilità di conseguire un determinato bene della vita, integrante la lesione di un’entità patrimoniale attuale suscettibile di autonoma valutazione economica, non può coesistere con il danno alla salute (e con il correlato danno morale), il quale presuppone l’accertamento che l’illecito si sia concretizzato in una menomazione dell’integrità psicofisica, e che, di conseguenza, l’inadempimento del sanitario abbia non soltanto privato il paziente di una possibilità di cura ma concretamente inciso sullo stato di salute (Cass. civ., Sez. 3, 15 febbraio 2018, n. 3691).
La violazione del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali, determinata dal colpevole ritardo diagnostico di una patologia ad esito certamente infausto, non coincide con la perdita di “chances” connesse allo svolgimento di specifiche scelte di vita non potute compiere, ma con la lesione di un bene di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere l’assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno sulla base di una liquidazione equitativa (Cass. civ., Sez. 3, 23 marzo 2018, n. 7260. Annotata da G. Petroni, Difficile così garantire un sistema uniforme per i vari trattamenti, in Guida al diretto Il Sole 24 ore, 2018, fasc. 22, p. 36; C. Irti, Il danno non patrimoniale da lesione del diritto all’autodeterminazione: danno in re ipsa?, in Giurisprudenza italiana, 2019, fasc. 2, p. 287).
Il c.d. “modello patrimonialistico”, che storicamente ha costituito il riferimento teorico della evoluzione giurisprudenziale in tema di perdita di “chance”, mal si concilia con la perdita della possibilità di conseguire un risultato migliore sul piano non patrimoniale; la “chance” patrimoniale, infatti, presenta i connotati dell’interesse pretensivo (mutuando tale figura dalla dottrina amministrativa), e cioè postula la preesistenza di un “quid” su cui sia andata ad incidere sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante, impedendone la possibile evoluzione migliorativa, mentre la chance “non pretensiva”, pur essendo anch’essa rappresentata, sul piano funzionale, dalla possibilità di conseguire un risultato migliorativo della situazione preesistente (segnatamente nel sistema della responsabilità sanitaria), è morfologicamente diversa dalla prima, in quanto si innesta su una preesistente situazione sfavorevole (cioè patologica), rispetto alla quale non può in alcun modo rinvenirsi un “quid” inteso come preesistenza positiva. Ne consegue che, in sede risarcitoria, il giudice di merito deve inevitabilmente tener conto di tale diversità, sia pure sul piano strettamente equitativo, ai fini della liquidazione del danno (Cass. civ., Sez. 3, 9 marzo 2018, n. 5641. Annotata da S. Garreffa, I paralogismi della teoria della chance perduta, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2018, fasc. 9, p. 1285; D. Zorzit, La Cassazione e lo “statuto” della perdita di chance: incertezze (di nessi) e possibili suggestioni sul “ritorno” del danno da perdita della vita, in Danno e responsabilità, 2019, fasc. 2, p. 271).
In caso di perdita di una “chance” a carattere non patrimoniale, il risarcimento non potrà essere proporzionale al “risultato perduto” (nella specie, maggiori “chance” di sopravvivenza di un paziente al quale non era stata diagnosticata tempestivamente una patologia tumorale con esiti certamente mortali), ma andrà commisurato, in via equitativa, alla “possibilità perduta” di realizzarlo (intesa quale evento di danno rappresentato in via diretta ed immediata dalla minore durata della vita e/o dalla peggiore qualità della stessa); tale “possibilità”, per integrare gli estremi del danno risarcibile, deve necessariamente attingere ai parametri della apprezzabilità, serietà e consistenza, rispetto ai quali il valore statistico-percentuale, ove in concreto accertabile, può costituire solo un criterio orientativo, in considerazione della infungibile specificità del caso concreto (Cass. civ., Sez. 3, 9 marzo 2018, n. 5641).
In tema di attività medico-chirurgica, grava sul sanitario che esegua un esame diagnostico l’obbligo di informare il paziente, in forma completa e con modalità congrue al livello di conoscenze scientifiche dello stesso, sugli esiti dell’accertamento, sul grado di rischio delle patologie riscontrate e sulla necessità ed urgenza di ulteriori approfondimenti diagnostici, dal cui inadempimento può conseguire in capo al paziente un danno da perdita di “chance” di guarigione o di sopravvivenza. Questo danno presuppone che il paziente, benché malato grave o anche gravissimo, abbia tuttavia ancora dinanzi – ove la condotta medica fosse corretta – la possibilità di uscire da tale situazione mediante una guarigione o una sopravvivenza di entità consistente, misurabile in termini di anni (cd. lungo-sopravvivenza), e si distingue dal diverso pregiudizio alla qualità della vita nel tempo conclusivo dell’esistenza, il quale presuppone, invece, che il paziente versi nella condizione di malato terminale, la cui sopravvivenza – sempre nell’ipotesi di condotta medica corretta – sia circoscritta ad un tempo limitato, misurabile in termini di poche settimane o di pochi mesi (Cass. civ., Sez. 3, 19 marzo 2018, n. 6688).
In caso di colpevole ritardo nella diagnosi di patologie ad esito infausto, l’area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente, né nella perdita di “chance” di guarigione, ma include la perdita di un “ventaglio” di opzioni con le quali scegliere come affrontare l’ultimo tratto del proprio percorso di vita, che determina la lesione di un bene reale, certo – sul piano sostanziale – ed effettivo, apprezzabile con immediatezza, qual è il diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali; in tale prospettiva, il diritto di autodeterminarsi riceve positivo riconoscimento e protezione non solo mediante il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non più reversibili, ovvero, all’opposto, mediante la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche attraverso la mera accettazione della propria condizione. (Nel ribadire il principio, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito la quale aveva rigettato la domanda risarcitoria, fatta valere “iure hereditatis”, esclusivamente sulla base dell’assenza di prova che la ritardata diagnosi del carcinoma avesse compromesso “chances” di guarigione della paziente o, quantomeno, di maggiore e migliore sopravvivenza, ignorando che l’accertato negligente ritardo diagnostico aveva determinato la lesione del diritto della stessa di autodeterminarsi) (Cass. civ., Sez. 3, 15 aprile 2019, n. 10424).
In tema di lesione del diritto alla salute da responsabilità sanitaria, la perdita di chance a carattere non patrimoniale consiste nella privazione della possibilità di un miglior risultato sperato, incerto ed eventuale (la maggiore durata della vita o la sopportazione di minori sofferenze) conseguente – secondo gli ordinari criteri di derivazione eziologica – alla condotta colposa del sanitario ed integra evento di danno risarcibile (da liquidare in via equitativa) soltanto ove la perduta possibilità sia apprezzabile, seria e consistente. (Nella fattispecie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso la sussistenza di una perdita di chance rilevando che, anche in caso di corretta esecuzione della prestazione sanitaria, la possibilità di sopravvivenza della paziente era talmente labile e teorica da non poter essere determinata neppure in termini probabilistici) (Cass. civ., Sez. 3, 11 novembre 2019, n. 28993).
8.Responsabilità medica ed emotrasfusione
In materia di emotrasfusione e contagio da virus HBV, HIV, HCV, non risponde per inadempimento contrattuale la singola struttura ospedaliera, pubblica o privata, inserita nella rete del servizio sanitario nazionale, che abbia utilizzato sacche di sangue, provenienti dal servizio di immunoematologia trasfusionale della USL, preventivamente sottoposte ai controlli richiesti dalla normativa dell’epoca, esulando in tal caso dalla diligenza a lei richiesta il dovere di conoscere e attuare le misure attestate dalla più alta scienza medica a livello mondiale per evitare la trasmissione del virus, almeno quando non provveda direttamente con un autonomo centro trasfusionale. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di appello che aveva escluso la responsabilità contrattuale della struttura ospedaliera, per contagio da virus HCV nel luglio 1983, ritenendola non tenuta ad alcun controllo sulle sacche di sangue, invece attribuito per legge al Ministero della salute, e, quindi, in assenza di un concreto accertamento circa la diligenza qualificata nell'utilizzo di sacche di sangue acquisite tramite la struttura pubblica ed all’esecuzione, da parte di quest'ultima, dei controlli imposti dalla normativa all’epoca vigente) (Cass. civ., Sez. 6 - 3, 29 marzo 2018, n. 7884).
In epoca antecedente l’entrata in vigore dell’art. 5, comma 7, del d.l. n. 443 del 1987, conv., con modif. dalla l. n. 531 del 1987 – che ha stabilito l’obbligo per le USL di compiere preventivi controlli del sangue da destinare alle trasfusioni, al fine di accertare l’assenza del virus HIV – l’attività di trasfusione era già connotata da obiettiva pericolosità; sicché, l’inosservanza della normativa esistente, del protocollo, delle linee guida e delle “leges artis”, emanati allo scopo di evitare i rischi specifici, configura grave inadempimento contrattuale del medico per condotta commissiva ed omissiva, imputabile anche alla struttura sanitaria ex art. 1228 c.c. (Cass. civ., Sez. 6 - 3, 29 marzo 2018, n. 7814).
In tema di patologie conseguenti ad infezioni contratte a causa di assunzione di emotrasfusioni o di emoderivati con sangue infetto, incorre in responsabilità contrattuale, imputabile anche alla struttura sanitaria, il medico che, in mancanza di una situazione di reale emergenza e senza informare adeguatamente il paziente del rischio obiettivo che tale pratica terapeutica presentava, abbia eseguito una trasfusione di sangue a causa della quale il paziente abbia contratto un’infezione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, in relazione ad una trasfusione eseguita nel 1990, cui era conseguito il contagio di un neonato con il virus dell’epatite C, aveva desunto la prova che i genitori, se informati, avrebbero negato il consenso alla terapia dall’assenza di prova della necessità della trasfusione) (Cass. civ., Sez. 3, 22 gennaio 2019, n. 1567).
La responsabilità del Ministero della salute per i danni conseguenti ad infezioni da virus HBV, HIV e HCV contratte da soggetti emotrasfusi è di natura extracontrattuale, né sono ipotizzabili, al riguardo, figure di reato tali da innalzare i termini di prescrizione (epidemia colposa o lesioni colpose plurime); ne consegue che il diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto tali patologie per fatto doloso o colposo di un terzo è soggetto al termine di prescrizione quinquennale che decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947, comma 1, c.c., non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, bensì da quello in cui tale malattia viene percepita, o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l'ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche, da ritenersi coincidente non con la comunicazione del responso della Commissione medica ospedaliera di cui all’art. 4 della l. n. 210 del 1992, ma con la proposizione della relativa domanda amministrativa, che attesta l’esistenza, in capo all’interessato, di una sufficiente ed adeguata percezione della malattia (Cass. civ., Sez. 6 - 3, 18 giugno 2019, n. 16217).
In tema di risarcimento del danno alla salute causato da emotrasfusione con sangue infetto, ai fini dell’individuazione del’”exordium praescriptionis”, una volta dimostrata dalla vittima la data di presentazione della domanda amministrativa di erogazione dell’indennizzo previsto dalla l. n. 210 del 1992, spetta alla controparte dimostrare che già prima di quella data il danneggiato conosceva o poteva conoscere, con l’ordinaria diligenza, l’esistenza della malattia e la sua riconducibilità causale alla trasfusione anche per mezzo di presunzioni semplici, sempre che il fatto noto dal quale risalire a quello ignoto sia circostanza obiettivamente certa e non mera ipotesi o congettura, pena la violazione del divieto del ricorso alle “praesumptiones de praesumpto”. (Nella specie la Corte ha ritenuto che il fatto noto non potesse essere desunto dalla mera preesistenza della malattia, al fine di stabilire il dies a quo della prescrizione) (Cass. civ., Sez. 3, 28 giugno 2019, n. 17421).
Non spetta al primario di chirurgia od al chirurgo operatore il controllo diretto sul sangue, la corretta tenuta dei registri o la verifica della preventiva sottoposizione a tutti i test sierologici richiesti dalla legge delle sacche di sangue trasfuse, poiché si tratta di accertamenti di competenza del centro trasfusionale, che trasmette al reparto richiedente le dette sacche regolarmente etichettate. In particolare, solo il responsabile dell’acquisizione del sangue – il primario di ematologia, che dirige il citato centro trasfusionale – può rispondere della non completa compilazione della scheda di ciascuna sacca, della mancata esecuzione, da parte di tale centro, dei controlli di legge o dell’omessa annotazione sulle sacche in esame delle indicazioni imposte dalla normativa. (Nella specie, la S.C. ha escluso la responsabilità del primario del reparto di ostetricia e ginecologia di un ospedale per le lesioni patite da una donna dal medesimo operata in conseguenza della trasfusione di sangue infetto proveniente dal centro trasfusionale interno della struttura interessata, del quale esisteva un apposito responsabile) (Cass. civ., Sez. 3, 14 ottobre 2019, n. 25764).
In caso di patologia ingravescente dal possibile esito letale che determini un’invalidità espressa nei gradi percentuali dei “barèmes” medico legali, l’aggravamento delle condizioni del danneggiato costituisce la mera concretizzazione del rischio, già considerato nella scala dei gradi di invalidità, di un’evoluzione peggiorativa eziologicamente riconducibile all’originaria infermità e, perciò, non integra un ulteriore danno biologico risarcibile, a meno che al tempo dell’accertamento il successivo evento dannoso, ancorché riconducibile all’originaria lesione, fosse sconosciuto alla scienza medica e, quindi, non considerato dai “barèmes”. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva escluso il risarcimento - in aggiunta al danno biologico precedentemente accertato e liquidato – del pregiudizio derivante dal peggioramento delle condizioni di salute e, poi, dal decesso di un soggetto affetto da virus HCV contratto a seguito di emotrasfusione, trattandosi di avveramento di un prevedibile rischio di aggravamento della patologia epatica originaria) (Cass. civ., Sez. 3, 14 novembre 2019, n. 29492).
9.Responsabilità medica e prossimi congiunti
In tema di responsabilità civile (nella specie: contrattuale ed extracontrattuale da attività medico-sanitaria), laddove il danneggiato, prima dell’evento, versi in pregresso stato di vulnerabilità (o di mera predisposizione) ma l’evidenza probatoria del processo, sotto il profilo eziologico, non consente di dimostrare con certezza che, a prescindere dal comportamento imputabile al danneggiante, detto stato si sarebbe comunque evoluto, anche in assenza dell’evento di danno, in senso patologico-invalidante, il giudice in sede di quantificazione del danno non deve procedere ad alcuna diminuzione del “quantum debeatur”, posto che, diversamente, darebbe applicazione all’intollerabile principio secondo cui persone che, per loro disgrazia (e non già per colpa imputabile ex art. 1227 c.c. o per fatto addebitabile a terzi), siano più vulnerabili di altre, dovrebbero irragionevolmente appagarsi di una tutela risarcitoria minore rispetto agli altri consociati affetti da cosiddetta “normalità”. (Fattispecie in cui, a fronte di riconosciuto nesso causale tra la condotta dei sanitari e della AUSL, per errata diagnosi, ed il pregiudizio psichico subito, “iure proprio” e quali eredi, dai familiari della paziente, poi deceduta, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che ha quantificato il danno psichico dei congiunti senza considerare i loro presunti processi patologici pregressi, in ipotesi originati da fattori diversi dalla reazione alla malattia della defunta) (Cass. civ., Sez. 3, 21 agosto 2018, n. 20836).
10.Responsabilità della casa di cura
In tema di responsabilità di una casa di cura, l’acquisizione del consenso informato del paziente, da parte del sanitario, costituisce prestazione altra e diversa rispetto a quella avente ad oggetto l’intervento terapeutico e si pone come strumentale rispetto a questa, sicché anche per essa la struttura sanitaria risponde a titolo contrattuale dei danni patiti dal paziente, per fatto proprio, ex art. 1218 c.c., ove tali danni siano dipesi dall’inadeguatezza della struttura, ovvero per fatto altrui, ex art. 1228 c.c., ove siano dipesi dalla colpa dei sanitari di cui l’ospedale si avvale, e ciò anche quando l’operatore non sia un suo dipendente (Cass. civ., Sez. 3, 17 gennaio 2019, n. 1043).
La polizza stipulata da una casa di cura “per conto proprio” a copertura della responsabilità civile (tanto per il fatto proprio quanto per quello altrui) non può “operare in eccesso” rispetto all’assicurazione “personale” del medico che in essa operi, poiché i due contratti, che sono diversi e riguardano soggetti differenti, non coprono il medesimo rischio. (In applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha cassato la sentenza di appello, affermando che presupposto necessario perché possano sussistere una coassicurazione, una assicurazione plurima od una copertura “a secondo rischio” è proprio l’identità del rischio coperto) (Cass. civ., Sez. 3, 21 novembre 2019, n. 30314).
11. Valutazione del giudice
In tema di responsabilità medica, il giudice, verificata l’omissione di una condotta prescritta dal protocollo operatorio chirurgico, può ritenere la sussistenza della relazione eziologica in base a un criterio di prevedibilità oggettiva (desumibile da regole statistiche o leggi scientifiche), verificando se il comportamento omesso era o meno idoneo ad impedire l’evento dannoso (Cass. civ., Sez. 3, 13 ottobre 2017, n. 24073).
In tema di responsabilità professionale sanitaria, l’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente soltanto quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno.(Nella specie, la S.C., in applicazione del principio, ha confermato la sentenza impugnata che aveva negato rilevanza causale all’incompletezza della cartella clinica in quanto la documentazione agli atti, anche prodotta dall’attore, era sufficiente ad escludere la responsabilità del medico) (Cass. civ., Sez. 3, 21 novembre 2017, n. 27561).
12. Profili processuali
In un giudizio di responsabilità per attività sanitaria, integra “mutatio libelli”, non consentita con la memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c., la deduzione – in una domanda risarcitoria fondata sulla responsabilità di dipendenti di aziende sanitarie pubbliche ed ascritta a specifiche e ben determinate condotte – di un diverso titolo di responsabilità per differenti condotte, addebitate ad altri dipendenti o strutture sanitarie, benché facenti capo alla stessa azienda, nonché realizzate nell’ambito delle cure somministrate in occasione della medesima infermità (Cass. civ., Sez. 3, 5 luglio 2017, n. 16504).
Non integra questione nuova, da sottoporre preventivamente alle parti, a pena di nullità della sentenza per violazione del divieto di “terza via” sancito dall’art. 101, comma 2, c.p.c., la lettura delle conclusioni di una consulenza tecnica d’ufficio in modo congruente con le sue argomentazioni, anche quando comporti il riconoscimento di un mero errore materiale ivi presente. (Principio enunciato dalla S.C. con riferimento ad un elaborato tecnico in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica che, pur argomentando nel senso di escludere l’esistenza del nesso causale tra le condotte denunciate – consistenti nella ritarda diagnosi di una malattia oncologica – ed il danno lamentato dal paziente, nelle conclusioni recava l’omissione dell’avverbio di negazione “non”, prima delle parole “correlabile al ritardo diagnostico”) (Cass. civ., Sez. 3, 5 luglio 2017, n. 16504).
Nel caso in cui l’attore abbia chiesto con l’atto di citazione il risarcimento del danno da colpa medica per errore nell’esecuzione di un intervento chirurgico (e, quindi, per la lesione del diritto alla salute), e domandi poi in corso di causa anche il risarcimento del danno derivato dall’inadempimento, da parte dello stesso medico, al dovere di informazione necessario per ottenere un consenso informato (inerente al diverso diritto alla autodeterminazione nel sottoporsi al trattamento terapeutico), si verifica una “mutatio libelli” e non una mera “emendatio”, in quanto nel processo viene introdotto un nuovo tema di indagine e di decisione, che altera l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, tanto da porre in essere una pretesa diversa da quella fatta valere in precedenza (Cass. civ., Sez. 3, 13 ottobre 2017, n. 24072).
La domanda introduttiva di un giudizio relativo ad un diritto cd. eterodeterminato (nella specie diritto al risarcimento del danno da responsabilità medica) richiede – ai fini dell’individuazione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti ragione della domanda ai sensi dell’art. 163, comma 3, n. 4, c.p.c. – l’espressa indicazione di quelli, tra i fatti storici oggetto della pregressa narrazione, sui quali è fondata la “causa petendi”, non essendo sufficiente la mera attività narrativa senza alcuna esplicitazione in merito all’essere quei fatti “ragione della domanda” (Cass. civ., Sez. 3, 4 maggio 2018, n. 10577).
In tema di produzione di nuovi documenti in appello, ai sensi dell’art. 345, comma 3, c.p.c., nella formulazione, “ratione temporis” applicabile, anteriore sia alla novella introdotta con la l. n. 69 del 2009 che a quella di cui al d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella l. n. 134 del 2012, il giudizio d’indispensabilità relativo a prove documentali nuove non può riguardare quelle dichiarate inammissibili nel grado precedente. In tale ipotesi la richiesta di ammissione deve essere reiterata all’udienza di precisazione delle conclusioni del giudizio di primo grado, dovendo altrimenti ritenersi che la parte vi abbia tacitamente rinunciato con conseguente inammissibilità della riproposizione della medesima richiesta in appello. (Nella specie, la Corte ha cassato la sentenza impugnata, perché, in relazione ad una responsabilità medica, dichiarata inammissibile la produzione del “diario clinico” della parte in primo grado, perché irritualmente prodotto, la Corte di Appello ne aveva ammesso la produzione nel secondo grado, ritenendola indispensabile, pur in mancanza di una reiterazione della richiesta in udienza di precisazione delle conclusioni) (Cass. civ., Sez. 3, 15 maggio 2018, n. 11752).
In ipotesi di annullamento con rinvio per violazione di norme di diritto, la pronuncia della Corte di cassazione vincola al principio affermato e ai relativi presupposti di fatto, onde il giudice del rinvio deve uniformarsi non solo alla “regola” giuridica enunciata, ma anche alle premesse logico-giuridiche della decisione, attenendosi agli accertamenti già compresi nell’ambito di tale enunciazione, senza poter estendere la propria indagine a questioni che, pur se non esaminate nel giudizio di legittimità, costituiscono il presupposto stesso della pronuncia, formando oggetto di giudicato implicito interno, atteso che il riesame delle suddette questioni verrebbe a porre nel nulla o a limitare gli effetti della sentenza, in contrasto col principio di intangibilità. (Nella specie, in un caso di responsabilità medica per le gravi lesioni riportate da un neonato al momento della nascita, la S.C. ha cassato la sentenza emessa dal giudice di merito il quale, in sede di rinvio, aveva individuato nella struttura ospedaliera in cui la gestante aveva partorito la responsabile esclusiva dei danni, non tenendo conto della circostanza che la condizione precaria di salute della partoriente e il parto prematuro erano già state accertate quali concause dei danni medesimi, sicché la condotta dei sanitari avrebbe dovuto essere esaminata, nel giudizio di rinvio, unicamente in funzione della valutazione del suo apporto concausale rispetto alla determinazione del danno) (Cass. civ., Sez. 3, 22 agosto 2018, n. 20887).
In materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, qualora venga allegato e provato, come conseguenza della mancata acquisizione del consenso informato, unicamente un danno biologico, ai fini dell’individuazione della causa “immediata” e “diretta” (ex art. 1223 c.c.) di tale danno-conseguenza, occorre accertare, mediante giudizio controfattuale, quale sarebbe stata la scelta del paziente ove correttamente informato, atteso che, se egli avesse prestato senza riserve il consenso a quel tipo di intervento, la conseguenza dannosa si sarebbe dovuta imputare esclusivamente alla lesione del diritto alla salute determinata dalla successiva errata esecuzione della prestazione professionale, mentre, se egli avesse negato il consenso, il danno biologico scaturente dalla inesatta esecuzione della prestazione sanitaria sarebbe riferibile “ab origine” alla violazione dell’obbligo informativo, e concorrerebbe, unitamente all’errore relativo alla prestazione sanitaria, alla sequenza causale produttiva della lesione della salute quale danno-conseguenza (Cass. civ., Sez. 3, 11 novembre 2019, n. 28985).
13. Questioni di diritto intertemporale
In tema di responsabilità sanitaria, le norme poste dagli artt. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012, convertito dalla legge n. 189 del 2012, e dall’art. 7, comma 3, della legge n. 24 del 2017, non hanno efficacia retroattiva e non sono applicabili ai fatti verificatisi anteriormente alla loro entrata in vigore (Cass. civ., Sez. 3, 11 novembre 2019, n. 28994).
In tema di responsabilità sanitaria, i criteri di accertamento della colpa e di valutazione della diligenza previsti dagli artt. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012, convertito dalla legge n. 189 del 2012, e 7, comma 3, della legge n. 24 del 2017, non hanno efficacia retroattiva e non sono applicabili ai fatti verificatisi anteriormente alla loro entrata in vigore (Cass. civ., Sez. 3, 8 novembre 2019, n. 28811).
In tema di risarcimento del danno alla salute conseguente ad attività sanitaria, la norma contenuta nell’art. 3, comma 3, del d.l. n. 158 del 2012 (convertito dalla l. n. 189 del 2012) e sostanzialmente riprodotta nell’art. 7, comma 4, della l. n. 24 del 2017 – la quale prevede il criterio equitativo di liquidazione del danno non patrimoniale fondato sulle tabelle elaborate in base agli artt. 138 e 139 del d.lgs. n. 209 del 2005 (Codice delle assicurazioni private) – trova applicazione anche nelle controversie relative ad illeciti commessi e a danni prodotti anteriormente alla sua entrata in vigore, nonché ai giudizi pendenti a tale data (con il solo limite del giudicato interno sul “quantum”), in quanto la disposizione, non incidendo retroattivamente sugli elementi costitutivi della fattispecie legale della responsabilità civile, non intacca situazioni giuridiche precostituite ed acquisite al patrimonio del soggetto leso, ma si rivolge direttamente al giudice, delimitandone l’ambito di discrezionalità e indicando il criterio tabellare quale parametro equitativo nella liquidazione del danno (Cass. civ., Sez. 3, 11 novembre 2019, n. 28990).
HAMMAMET, recensione di Eva Di Palma
Un bambino armato di fionda, con sguardo da monello, pantaloni alla zuava e viso paffuto, lancia con impegno e precisione un sasso con cui infrange il vetro di una finestra del collegio. La rottura rende sfuocata l’immagine, come se improvvisamente si fossero rotti gli occhiali che ci fanno da lenti sul mondo.
Così si apre il film, è da lì che scaturiscono le immagini successive.
E lì si tornerà: la finestra infranta, inquadrata – questa volta – dall’interno ci avvierà alla conclusione della pellicola.
Il film altro non è se non la dimensione tra le due finestre rotte, tra il doppio lancio, del quale ci viene offerta la visione dall’esterno e dall’interno, da aggressori e da aggrediti (discrimen non sempre nitido nella realtà, per chi non si accontenta di visioni assiomaticamente partigiane).
La narrazione passa, con un salto tipico dei sogni, al 45° Congresso del PSI tenutosi nel 1989 nell’ex fabbrica Ansaldo di Milano, in cui Craxi, che troneggia come un moderno faraone sugli schermi piramidali ideati da Filippo Panseca (l’inventore del Garofano, per intenderci), venne confermato per la sesta volta segretario.
Non il personaggio e neppure la persona, bensì la sua immagine, affidata a un iperrealista Pierfrancesco Favino (superlativo e scrupoloso il suo lavoro mimetico), è al centro del lavoro di Gianni Amelio, che ci offre una rappresentazione densa di atmosfere oniriche, felliniane, lasciando sullo sfondo una storia, le cui ferite si pagano ancora quotidianamente.
Non la persona, ma la sua immagine (interessante la scelta dei formati, 16:9 e 4:3, a sottolineare che è la rappresentazione a voler prevalere) e, conseguentemente, la sua pesante assenza: cercherà i fotografi, Bettino, fuori dalla porta dell’ambulatorio tunisino, ma non li troverà. Il ritratto di quell’immagine mancante è rappresentazione di un’identità smarrita, quella dell’uomo, del partito, della politica tutta (se non dell’intero Paese) e ricorda vagamente il ritratto dell’identità smarrita dello Specchio di Tarkovskij (non a caso definito il film della sua emarginazione politica), in cui l’artista ci propone il suo sguardo sul proprio rapporto fragile – e sempre più distaccato – con la società sovietica e con le gerarchie del potere ideologico, quindi con la sua identità di cittadino, cui affida una profonda riflessione sul senso del tempo, che, qui, Amelio, lascia a noi.
Non la persona, ma il luogo in cui si consuma il corpo affaticato del re solo: la villa di Hammamet, quella vera, impiegata come set dal regista su concessione della famiglia proprietaria.
La storia resta fuori da quel fortino decadente, nel quale tenta di insinuarsi sotto varie forme: la cancrena (metafora inquietante e perfetta del nostro fatalista Paese), personaggi volutamente non ben delineati, le evocate sentenze e le parole dei magistrati (si parla di un “giudice” di Milano, dando per scontato che l’interlocutore ben lo conosca), in un incalzante senso di attesa che tanto ricorda l’inquietudine di Giovanni Drogo de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati.
Tutti i personaggi, anche quelli palesemente riconducibili alla realtà, primo fra tutti il protagonista, riportano nomi di fantasia. Si tratta di una scelta stilistica interessante, quasi che Amelio volesse rifuggire il realismo, a vantaggio talvolta della sua rappresentazione iperrealistica e talaltra del sogno. Il protagonista mai viene chiamato per nome, così come la figlia ci si presenta come “Anita”, in un fin troppo chiaro parallelismo con l’Anita garibaldina (evocata nella canzoncina che il nonno affettuosamente affida al nipote appassionato di fanciullesche strategie belliche), che, seppur febbricitante e incinta, dolorosamente seguì nella fuga il marito a cavallo, tanto quanto la ragazza del film ci appare appassionata e decisa, infuocata dall’amore paterno, che la rende capace di qualsiasi abnegazione, come una moderna Elettra. E ancora, è inutile arrovellarsi su chi sia l’ospite che lo raggiunge (in un “pellegrinaggio” che fu di molti, all’epoca), interpretato da un ottimo e teatrale Renato Carpentieri; o Fausto, l’ambivalente giovane al quale il Craxi del film affida il delicato compito di ricostruire – per immagini, appunto – la sua esperienza politica (un’unica pecca: Fausto è un personaggio debole, al quale viene affidato un ruolo eccessivo, come se spettasse a lui il compito di ricucire le falle nella rete della pellicola) o, infine, l’amante Claudia Gerini, che porta con sé la malinconia di appetiti sessuali, smodati come la golosità craxiana.
Costituirebbe, dunque, una dissertazione sterile stilare l’elenco di ciò che c’è e di ciò che manca rispetto ai ricordi di chi, invece, c’era: sarebbe uno sforzo ingrato al regista, oltremodo riduttivo. Del pari riduttiva è la visione di chi asserisce che Amelio si sia concentrato esclusivamente sulla “pietas” verso un uomo malato. Non innalziamo, non celebriamo, né denigriamo, ma non scomodiamo neppure divinità romane a sproposito: la Pietas – che non è pietà umana, né la συμπἀθεια, il cum patior della compassione – che fu del pio Enea, che, fuggendo da Troia in fiamme caricandosi sulle spalle il vecchio padre Anchise, assolvendo, con pazienza infinita e accettazione senza riserve, ai suoi doveri nei confronti dei genitori, degli antenati e, quindi, della patria e degli dei non può, qui, trovar luogo senza scivolare in un nostalgico revisionismo, nel quale si rischierebbe di inciampare anche avvicinando la Milano onirica a un’irraggiungibile Itaca (prezzo da pagare per un empio e geniale Ulisse, che pecca di ὕβϱις e vince la guerra con l’inganno).
Sulle belle note di Nicola Piovani (che ci regala una stonata e dissonante Internazionale) resta l’umorismo dissacrante di un moderno king Lear, ultima traccia di una genialità che sopravvivrà all’immagine rimessa all’ebete sarcasmo in stile “Bagaglino”, mentre tenta la fuga da quel vetro infranto attraverso i sogni, a piedi scalzi, quando, ormai, non rappresentano più, nemmeno quelli, una via d’uscita.
IL VALORE DELLA MEMORIA
di Antonella Dell’Orfano
Confrontarsi con la memoria di mio padre e con la sua drammatica esperienza dei lager nazisti non è semplice, per l’assoluto riserbo che egli ebbe sempre, in famiglia, su tutte le atrocità di cui fu testimone nei lager nazisti, e perché non parlava volentieri della sua prigionia, non avendo mai aspirato, assieme a tanti altri che vissero la medesima tragica esperienza, ad essere giudicati degli eroi, ritenendo di aver fatto unicamente il proprio dovere, con dignità, in condizioni durissime, per libera e meditata decisione personale.
Aveva poco più di venti anni quando, giovane ufficiale, fu tra i protagonisti dell’episodio eroico della resistenza di Barletta.
Dopo l’8 settembre 1943 il suo presidio, di stanza a Barletta, si schierò a difesa della città dall’occupazione nazista con l’appoggio della popolazione civile.
Con grande sorpresa dei generali comandanti e dello stesso feldmaresciallo Kesserling, l'attacco alla città fallì per la strenua resistenza di questo piccolo gruppo di eroici soldati italiani che distrussero quattro carri armati, due autoblindo e fecero 150 prigionieri fra gli attaccanti; solo dopo due giorni di battaglia, di fronte alla minaccia dei nazisti di far saltare la città intera, mio padre ed i residui reparti, che, assieme al loro colonnello, si erano chiusi a difesa all'interno del castello, accettarono di arrendersi e vennero tutti deportati, preferendo i lager all’adesione al fascismo, mentre ebbe inizio la feroce rappresaglia nazista sulla popolazione civile con la fucilazione di dodici inermi Vigili Urbani, e l’episodio è tutt’ora ricordato come il primo atto di rappresaglia compiuto dai nazisti sul territorio italiano.
Visse quindi il trauma della cattura, della deportazione in carri bestiame, dell'impatto terribile con i lager, in Polonia ed in Germania.
E nei lager ebbe inizio la vera lotta, non solo per la sopravvivenza, ma contro l’adesione al nazifascismo, che era lotta contro se stessi, contro la fame, il freddo, gli stenti, le epidemie, la morte, la fortissima nostalgia di casa dopo la notizia del rientro degli aderenti.
A più riprese, infatti, durante tutti gli anni di prigionia, fu loro offerta la possibilità di arruolarsi con i nazisti o nelle forze armate della Repubblica di Salò; mio padre e l’assoluta maggioranza degli internati nei lager rifiutarono convintamente ogni forma di collaborazione, ben sapendo che, dinanzi ad ogni rifiuto, soprattutto degli ufficiali, i nazisti avrebbero aggravato ancora di più le loro tragiche condizioni.
Operarono una scelta cosciente, etica perché ispirata ad alti principi morali, ed eroica perché comportava il rischio della vita, pur partendo da condizioni disumane che avrebbero potuto essere cancellate con una diversa decisione.
Fu infatti una lotta bianca, senza armi, combattuta ogni giorno nelle condizioni che emergono vivide nei diari del suo colonnello, che descriveva “uomini ridotti, senza alcuna loro colpa, allo stato di esseri inferiori e sottoposti ad ogni specie di umiliazione e di privazione”, che “soffrono la fame i cui stimoli diventano sempre più tormentosi”, che “ hanno dovuto prima recuperare le briciole di patate rimaste attaccate alle bucce e poi divorare le bucce stesse ... messi nelle condizioni di frugare nelle immondizie come cani randagi e di precipitarsi sui mastelli del rancio per raccogliere, con le mani o col cucchiaio, gli avanzi melmosi della “sbobba”, che “dopo aver tutto ingerito, sono ancora portati a masticare e ad ingoiare saliva”, e che “neppure nel sonno possono trovare sollievo”, perché “ogni minimo loro atto diventa fatica”.
Le pagine dei magri quadernetti di mio padre, qualche mese prima della liberazione da parte delle armate russe, sono un quotidiano, tristissimo elenco dei compagni di prigionia caduti; nell’ultima riga, accanto al nome ed al cognome del compagno, scrive solo questo: “Aveva 26 anni, era un eccellente pianista, era mio amico”.
La vita di mio padre e dei compagni di prigionia era dunque freddo, fame e privazioni, ma anche resistenza ed enorme dignità.
Le parole di Giovanni Guareschi - o meglio, Giovannino, come lo chiamava mio padre -, suo compagno di baracca: ”Fummo peggio che abbandonati, ma questo non bastò a renderci dei bruti: con niente ricostruimmo la nostra civiltà”.
E ricordava ancora: “Ognuno di noi si trovò improvvisamente nudo: tutto fu lasciato fuori del reticolato: la fama e il grado, bene o male guadagnati. E ognuno si trovò soltanto con le cose che aveva dentro. Con la sua effettiva ricchezza o con la sua effettiva povertà. E ognuno diede quello che aveva dentro e che poteva dare".
Nel lager, in quella baracca un gruppo di giovani uomini, tra i quali intellettuali, musicisti, filosofi, persino un attore, tutti uniti da un obiettivo condiviso, far fronte comune per restare umani, con una disperata energia decisero così di dare vita ad una sorta di organizzazione culturale con “giornali parlati”, lezioni universitarie, conferenze di storia, di letteratura, di fisica, rappresentazioni di teatro e musica, infine con quel piccolo prodigio di ingegno e di astuzia che fu “Radio Caterina”.
Si trattava di una radio ricevente clandestina, costruita con materiale di fortuna, consistente in barattoli, grafite di matita, ecc., salvata innumerevoli volte, come raccontava mio padre, dalle perquisizioni degli aguzzini, arrivati quasi a distruggere i pavimenti, i tetti e le pareti della baracca alla ricerca della sfuggente radio, che, grazie alla sua prodigiosa smontabilità, veniva sempre nascosta e mimetizzata, persino in una gavetta, sotto scorze di patate.
In questo modo tutti i tentativi di scoprire Radio Caterina furono sempre elusi e per più di dodici mesi questa rappresentò la loro porta sul mondo, il filo di speranza necessario a lenire l’angoscia della prigionia agli uomini che, oltre a vivere in condizioni precarie, erano anche all’oscuro di ciò che accadeva fuori dal reticolato; riuscirono così a ricevere prima dei loro carcerieri e a diffondere tra gli altri prigionieri notizie da Radio Londra, Berlino, Parigi, e l’Italia dell'approssimarsi della liberazione ed infine l’annuncio dello sbarco in Normandia, il 6 giugno del 1944.
E c’è poi il ricordo commovente di un Natale in quella baracca, quando i compagni di prigionia ebbero la sorpresa di avere qualcosa in più della misera razione quotidiana; per molto tempo, dal piccolo tozzo di pane nero che gli veniva assegnato, mio padre, nonostante fosse già molto indebolito e provato nel fisico dalle lunghe privazioni, aveva infatti iniziato a toglierne una mollica ed a conservarla, ed a Natale la divise tra tutti i compagni per alleviare in piccola parte la loro sofferenza.
Questa è stata la principale lezione di mio padre, l’umanità e la solidarietà nonostante tutto, e di come l'uomo, anche nei momenti più cupi, spaventosi, disperati, possa trovare in se stesso la forza di sopravvivere perché, come scriveva Primo Levi, “la facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa anche in circostanze apparentemente disperate è stupefacente e meriterebbe uno studio più approfondito”.
Non ho mai sentito pronunciargli parole di vendetta, ma sin da bambina, gradualmente, senza alcun approccio traumatico, mi è stato detto cosa furono la Shoah, i genocidi, i campi di sterminio e mi è stato fatto comprendere il valore assoluto della libertà e del rispetto dei diritti umani, anche facendo ricorso alla letteratura (dalla sterminata biblioteca di mio padre non ricordo neppure più il numero di libri letti nel corso degli anni sui campi di sterminio e le persecuzioni, per citarne solo una parte dal Diario di Anna Frank, a L’amico ritrovato, dal Giardino dei Finzi Contini ai libri di Primo Levi), ai documentari e ai film perché tutto concorre alla ricostruzione e alla narrazione delle storie individuali e della Storia collettiva.
Mio padre amava molto Charlie Chaplin, con un piccolo proiettore casalingo mi fece vedere fin da bambina tutti i suoi film, ed uno in particolare, che tante e tante volte abbiamo rivisto insieme, costituisce forse il più grande insegnamento di tutta la mia infanzia ed adolescenza.
È indelebile in me (lo conservo, stampato, anche sul tavolo del mio studio, che fu quello di mio padre) il Discorso all’Umanità di Charlie Chaplin, che pronuncia alla fine del suo capolavoro assoluto, “Il Grande Dittatore”; un inno alla pace universale, gridando alla razionalità, implorando i soldati e gli uomini di difendere la libertà, non di minacciarla, che continua a commuovermi come allora per la bellezza, la forza, la strabiliante capacità di immaginare un mondo giusto.
L’educazione familiare ha indubbiamente influenzato il mio percorso di studi e professionale.
Scelsi senza esitazione di laurearmi in Diritto Penale Internazionale, con una tesi su “La repressione dei crimini contro l’umanità”, ed alla cerimonia di premiazione della Croce Rossa Italiana come miglior tesi di diritto internazionale umanitario, mentre illustravo i miei studi e le mie ricerche da Norimberga sino all’attualità, vidi forse per la prima volta mio padre, sempre così schivo e riservato, commuoversi, con gli occhi che brillavano.
I valori che mi sono stati trasmessi in famiglia sono stati riversati anche nella vita professionale, sentendomi onorata di poter contribuire ad essere custode della Costituzione, in cui punto di riferimento della società diventano le pari dignità di ciascuno, al contrario della discriminazione, punto di riferimento delle leggi razziali, ed ogni giorno mi confronto e traggo forza dalla storia di chi, come mio padre, è riuscito a sopravvivere all’inferno dei campi di dolore e di morte senza odiare nessuno, preservando la propria dignità umana e perseverando nel credere nella pace, nella giustizia e nel rispetto dei diritti umani.
Con immenso dolore assisto al progressivo affievolirsi della memoria dei lager e delle atrocità del nazifascismo perché i testimoni, nella stragrande maggioranza, sono scomparsi.
Eppure, la loro testimonianza silenziosa resta ed è più che mai necessario tenere vivo il dialogo tra le generazioni perché le radici del male non sono state estirpate, sono solo “emigrate” altrove.
Non è più possibile delegare ai sopravvissuti il compito di testimoniare “l’intestimoniabile”, l’orrore che supera la comprensione umana; adesso spetta a noi che rimaniamo, in prima persona, far sì che la memoria e il loro esempio nutrano la nostra umanità, alimentino solidi anticorpi di moralità che, unici e soli, possono fare da argine all’orrore, puntellino dentro ciascuno di noi solidi muri, che impediscano di assuefarci ai racconti dei genocidi e dei crimini contro l’umanità, e sviluppino il senso di responsabilità individuale, avendo ogni uomo innata in sé la capacità di reagire nei confronti del male estremo quando si presenta.
Perché il mondo intero è salvato nei piccoli atti compiuti dagli uomini “Giusti” nella propria quotidianità, nello spazio della propria libertà; perché, come recita il Talmud, “basta che esista un solo giusto perché il mondo meriti di essere stato creato”.
La Cassazione ribadisce la persistente differenza tra vincoli espropriativi e conformativi e la sua conformità alla Cedu, ma le incertezze restano (Nota a Cass. civ., Sez. I, Ord. 16 dicembre 2019, n. 33229)
di Giuseppe Tropea
1. La decisione che si annota, dopo aver affermato la non diretta disapplicabilità di norme di legge in contrasto con la Cedu, in linea con le consolidate opinioni della Corte costituzionale (nn. 348 e 349 del 2007, n. 49 del 2015), ritiene che la distinzione tra vincoli conformativi ed espropriativi debba ritenersi tuttora sussistente, anche alla luce dell’art. 1 del Protocollo n. 1, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che considera le misure che non si traducano nella perdita della proprietà del bene come interventi che rientrano nella regolamentazione dell’uso dei beni, ai sensi del secondo paragrafo dell’art. 1 del Protocollo n. 1.
Nel caso di specie i ricorrenti lamentavano che, nell'affermare il carattere conformativo del vincolo ad edilizia scolastica, la Corte d’appello avesse violato il principio secondo cui l'indennità di espropriazione deve riflettere l'effettivo valore dei beni ablati, sia in diretta applicazione della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, sia per effetto del Trattato di Lisbona, che la ha trasposta nel diritto dell'Unione, con conseguente efficacia diretta delle norme convenzionali, obbligo di disapplicazione delle norme interne in contrasto con essa, e superamento della distinzione tra vincoli che hanno la conseguenza di privare il proprietario del ristoro dovutogli per il sacrificio imposto da causa di pubblica utilità.
L’ordinanza in esame, nonostante la sua conformità a consolidata giurisprudenza, induce qualche riflessione di ordine più generale.
2. La giurisprudenza di legittimità, nel decidere sulla distinzione fra vincoli a carattere espropriativo e limiti di carattere conformativo, a fini indennitari nei casi di opposizione alle indennità espropriative ed a fini risarcitori nei casi di danno per occupazione acquisitiva, ha dato rilievo al carattere generale ed obbiettivo ovvero a titolo particolare della limitazione concretamente apportata al diritto di proprietà.
Mentre i vincoli conformativi sono quelli aventi i caratteri «della incidenza su una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione assolta dalla intera zona in cui questi ricadono, in ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del rapporto (per lo più spaziale) con un’opera pubblica», quelli di carattere sostanzialmente preordinato all’espropriazione si presentano «come vincoli particolari, incidenti su beni determinati, in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione puntuale (con indicazione empiricamente, per ciò, detta ‘lenticolare’) di un’opera pubblica, ‘la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata ma ne esige la traslazione in favore dell’ente pubblico’» (v., fra le tante, Cass., Sez. un., n. 173/2001); dovendosi peraltro intendere il rapporto fra le due tipologie di vincoli in termini di regola-eccezione, sicché lo scrutinio sulla sussistenza di un vincolo espropriativo deve essere condotto in termini rigorosi, applicandosi in via residuale il regime dei vincoli conformativi.
È essenziale, nelle pronunce della Cassazione, l’elemento della inclusione o meno del vincolo relativo alla singola area nell’ambito della più ampia disciplina di zona, assegnando rilievo all’estensione dell’operazione urbanistica e al carattere «di massima della destinazione nel quadro dei complessivi equilibri territoriali», ovvero, secondo un criterio più sfumato, alla circostanza che il servizio previsto dal vincolo trascenda la necessità di una zona circoscritta e sia quindi concepibile solo nella complessiva sistemazione del territorio (v. Cass., Sez. I, n. 15389/2007, relativa proprio a vincoli ad edilizia scolastica).
La pronuncia in esame riprende tale passaggio, ritenendo di dover ribadire il principio, definito consolidato (Cass. n. 15389 del 2007; n. 15616 del 2007; 12862 del 2010; n. 8231 del 2012; n. 14347 del 2012; S.U., n. 3660 del 2014), secondo cui la destinazione di aree ad edilizia scolastica configura un tipico vincolo conformativo - in quanto trascende le necessità di zone circoscritte, ed è concepibile solo nella complessiva sistemazione del territorio, nel quadro della ripartizione zonale in base a criteri generali ed astratti -, che determina il carattere di non edificabilità delle relative aree, neppure sotto il profilo di una realizzabilità della destinazione ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, giacchè l'edilizia scolastica è riconducibile ad un servizio strettamente pubblicistico, connesso al perseguimento di un fine proprio ed istituzionale dello Stato, su cui non interferisce la parità assicurata all'insegnamento privato.
Rimane in secondo piano il concorrente criterio della misura della incisione sulle facoltà di utilizzabilità del bene, di regola formalmente utilizzato non tanto al fine di definire il carattere conformativo o espropriativo del vincolo (a ciò rilevando in via principale, e quasi autosufficiente, il carattere generale o particolare dello stesso), quanto piuttosto nella fase successiva a quella di definizione della natura del vincolo, per riconoscere o escludere l’edificabilità, in applicazione della disciplina urbanistica di zona.
La decisione in commento non si discosta da tali criteri, anzi, ne riconduce la compatibilità al contesto convenzionale, in tal modo attenuando la portata del “rinascimento proprietario” da quest’ultimo recata, sia sotto il profilo assiologico che di teoria delle fonti.
3. Anche la giurisprudenza costituzionale, tanto a fini indennitari (v. sent. n. 6/1966) tanto in tema di decadenza e reiterazione del vincolo (v. sent. n. 179/1999), ha distinto fra vincoli riconducibili al potere espropriativo (art. 42, comma 3, Cost.) e ascrivibili invece alla potestà conformativa (art. 42, comma 2, Cost.), basandosi su due criteri: a) quello del carattere generale o particolare della limitazione alla proprietà: mentre i vincoli conformativi sono limiti «attinenti al regime di appartenenza o ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni ... identificabili a priori per caratteristiche intrinseche», quelli espropriativi sono privi di «questo carattere generale ed obbiettivo», in quanto comportano «un sacrificio per singoli soggetti o gruppi di soggetti rispetto a beni che non si trovino nelle condizioni suindicate»; b) quello della effettività della limitazione alla proprietà, per cui viene in rilievo, al di là del dato formale del trasferimento del diritto in capo all’Amministrazione, la concreta restrizione delle facoltà di godimento in confronto a quelle sussistenti al momento dell’imposizione, con particolare riguardo alla utilizzazione economica fondamentale (non solo edificatoria) del bene e alla variazione del suo valore di scambio.
Peraltro, a conferma di come anche nella giurisprudenza alsaziana vi sia un approccio non unilateralmente “proprietario”, si noti che la misura della incisione sulle facoltà di godimento del bene è elemento determinante pure nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ai fini di riconoscere sussistente la violazione della regola generale del “principio del rispetto della proprietà” (di cui al primo periodo del primo comma dell’art. 1), alla quale è ricondotto il tema dei vincoli espropriativi (v., fra le tante, 15 luglio 2004, Scordino, relativa a vincolo a infrastrutture scolastiche e viabilità).
Il sindacato sul rispetto da parte degli Stati contraenti del “giusto equilibrio” tra l’interesse generale della comunità perseguito con il vincolo e l’interesse fondamentale del privato al rispetto dei propri beni, quale limite al pur ampio margine di apprezzamento di cui essi godono nella disciplina dell’uso dei beni, ha infatti riguardo non solo alla durata della limitazione, ma anche alle effettive possibilità di vendita dello stesso e al suo valore di scambio, specie quando non ne sia dimostrato un possibile uso alternativo, secondo l’approccio concreto tipico della Corte EDU.
4. Può essere interessante in questa sede notare che la Cassazione arrivi alle medesime conclusioni di alcune pronunce di quasi vent’anni fa, ma attraverso un percorso meno coraggioso in punto di teoria delle fonti.
Basti qui ricordare quella decisione in cui, proprio in tema di vincoli conformativi, si è ritenuto di poter dare immediata applicazione della norma Cedu che sia dotata di immediata precettività rispetto al caso concreto, giungendosi ad affermare che in caso di contrasto con la norma interna quest’ultima debba essere disapplicata (v. Cass., sez. I, n. 10542/2002, in Corr. giur., n. 6/2003, con nota di R. Conti, La Cassazione, il diritto di proprietà, e le norme della CEDU. Una sentenza da non dimenticare).
In concreto, però, trattandosi di considerare il parametro costituzionale rispetto a quello Cedu, anche allora si è comunque ritenuta – più o meno come nella decisione in commento – manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 16 della legge 29 giugno 1939 n. 1497, e dell’art. 149 d.lgs. 29 ottobre 1999 n. 490, nella parte in cui prevedono l’apposizione, anche a mezzo di piani territoriali paesistici, di vincoli di inedificabilità senza determinazione di durata o previsione di indennizzo, poiché il sistema di tutela del paesaggio, dell’ambiente, del patrimonio storico e artistico, giustificano l’affermazione di limitazioni all’uso della proprietà dei beni vincolati - senza limitarne, peraltro, la commerciabilità, o una redditività diversa da quella dello sfruttamento edilizio - alla luce dell’equilibrio costituzionale tra gli interessi in gioco, che vede alcune delle facoltà del diritto dominicale recessive di fronte alle esigenze di salvaguardia dei valori culturali ed ambientali, in attuazione della funzione sociale della proprietà; detto sistema non contrasta con l’art. 1 del prot. n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che, pur ispirato alla necessaria proporzionalità tra l’interesse pubblico perseguito e la tutela della proprietà privata, non esclude un sacrificio dello ius aedificandi per la salvaguardia di interessi paesaggistici e ambientali.
La decisione in commento, quanto al primo profilo, sconta indubbiamente la sopravvenienza delle note sentenze “Silvestri” del 2007, non a caso adottate proprio nella materia sensibile dei rapporti fra limitazione della proprietà privata e Cedu.
Il secondo profilo, come detto, solleva invece il ricorrente problema della individuazione della linea di demarcazione fra ciò che secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo rientra tra le misure privative, per le quali si pone un problema di indennizzabilità della espropriazione - legittima o de facto – e ciò che integra una misura limitativa del godimento del bene, rispetto alle quali non si pone alcun problema di indennizzo, ma piuttosto di proporzionalità fra interesse pubblico e sacrificio imposto al privato. Tale confine, alla luce della giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo, non è affatto semplice da focalizzare (v., ancora, R. Conti, op. cit.).
La dottrina, nel tentativo di fornire un criterio di massima, ha sostenuto che laddove gli effetti sostanziali del procedimento si risolvono in una privativa delle prerogative del diritto di proprietà dotate dei caratteri della definitività e della tendenziale irreversibilità, si ricade nelle misure espropriative.
D’altra parte, anche il criterio dell'utilità economica è piuttosto generico (v. S. Amorosino, Una rilettura costituzionale della proprietà a rilevanza urbanistica, in Riv. giur. ed., 2019, 3 ss.): qual è la soglia della diminuzione percentuale del valore del bene, determinata direttamente dalla legge (o, nella nostra materia, da provvedimenti di pianificazione o regolamentari), oltre la quale il bene deve essere considerato sostanzialmente espropriato? Quella che ne impedisce qualsiasi utilizzazione o destinazione economica o quale altra? E — in molti casi — come si accerta il superamento della soglia?
5. Non è questa la sede per considerazioni relative al rapporto fra fonti. La giurisprudenza resta assestata sugli arresti della Consulta del 2007, come ha dimostrato anche più di recente in altri casi, che hanno chiamato la delicata vicenda della tenuta del giudicato interno in contrasto con le pronunce della Corte Edu (v. sent. n. 123/2017). Forse sta per avviarsi un nuovo ordine alla luce del Protocollo n. 16, ma allo stato non è prefigurabile tale assetto, né la richiamata giurisprudenza della Cassazione del 2002 appare riproponibile.
Peraltro, come detto, anche questa giurisprudenza, al netto delle coraggiose aperture in tema di rapporto fra ordinamenti e teoria delle fonti, finiva per legittimare la cittadinanza costituzionale della distinzione fra vincoli espropriativi e conformativi.
Sul punto possono adottarsi due distinti approcci.
Da un lato si potrebbe dissentire radicalmente dal merito delle conclusioni degli ermellini.
In passato la dottrina lo ha fatto, anche se da posizioni radicalmente opposte.
Come noto, infatti, c’è chi ha autorevolmente ritenuto che la distinzione tra limitazioni in via generale e imposizioni a titolo particolare, che danno luogo, avendo carattere espropriativo, ad un indennizzo, appare contraddittoria «rispetto allo specifico sistema delineato dalla Costituzione per ciò che riguarda gli interventi pubblici sulle proprietà dei privati e inoltre, pur pretendendo di svolgersi in un contesto caratterizzato da forti pretese egualitarie, introduce notevoli ed arbitrari elementi di contraddizione”» (S. Rodotà, Art. 42, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna, 1982, 121 ss., spec. 132). Altri, più di recente, sono arrivati alle medesime conclusioni, ma su premesse assiologicamente diverse, più liberali, finendo per ritenere incompatibile con la Cedu la distinzione fra vincoli conformativi ed espropriativi (G. Leone, Indennità di espropriazione: tutto risolto? Ovvero sulla (in)esistenza dei vincoli espropriativi e conformativi, in Riv. giur. ed., 2008, 185 ss.).
Il problema, ad avviso di chi scrive, sembra essere piuttosto quello dei margini interpretativi delle distinzioni, e del rispetto, in questo senso, di quella “prevedibilità” dell’incisione della proprietà privata centrale nella giurisprudenza di Strasburgo.
In tal senso, sembra che dei due profili presenti, sin dall’origine, nell’espropriazione per p.u., quello strutturale (attinente al trasferimento di proprietà alla p.a.) e quello funzionale (della realizzazione dell’interesse pubblico), col primo che risolve un problema di appartenenza (norme di relazione), e il secondo un problema di attuazione dell’interesse pubblico (norme di azione), pur a fronte del “rinascimento proprietario” dei primi del 2000 il secondo non sia mai venuto del meno, prestando il fianco a persistenti profili di criticità.
Lo dimostra plasticamente la vicenda dell’occupazione acquisitiva, sublimata in chiave di interesse pubblico dall’istituto dell’acquisizione sanante, la cui conformità a Costituzione, e quindi al Primo Protocollo Cedu, seppure ormai certificata (v. Cost. cost. n. 71/2015), continua a presentare profili di criticità, come dimostra ad esempio il controverso istituto della c.d. usucapione sanante, di fatto ammessa (sia pure con dei limiti) da Ad. plen. n. 2/2016.
Si tratta di persistenti “valvole di sicurezza del sistema” (R. Pardolesi, Occupazione appropriativa, usucapione e valvole di sicurezza, in Foro it., 2014, III, 590 ss.) che attestano risorgenti istanze di funzionalizzazione, la cui compatibilità con la Cedu appare sempre a rischio.
Nel nostro più specifico caso la pur teoricamente condivisibile distinzione fra vincoli espropriativi e vincoli conformativi appare di discutibile armonizzazione ai parametri Cedu nella misura in cui sembra declinarsi in una sorta di presunzione relativa a favore della automatica riconducibilità dell’edilizia scolastica ai secondi, a fronte di un ordine di idee che – invece – dovrebbe come detto condurre alla residualità del vincolo conformativo, o, comunque, ad una verifica in concreto, più compatibile con le modalità decisorie della Corte Edu.
Sennonché è di nuovo su questo fronte che si misurano delle distanze fra Cassazione, che resta giudice di legittimità, e cui anzi le riforme degli ultimi anni conferiscono sempre di più lo ius constitutionis, a detrimento dell’originario ius litigationis (critico, autorevolmente, G. Verde, Jus litigatoris e jus constitutionis, in Il difficile rapporto tra giudice e legge, Napoli, 2012 40-41), e Corte Edu, legata invece alle peculiarità del caso singolo.
Se è così, forse il dissidio verrà definitivamente superato facendo un passo avanti nel raccordo fra ordinamenti, non tanto ripristinando la tesi – fugacemente affermata dalla Cassazione nel 2002 – della disapplicazione, posto che anche a livello convenzionale l’interesse pubblico mantiene una sua rilevanza, quanto operando una maggiore convergenza in punto di modalità di giudizio delle Corti supreme.
Se nel “dialogo fra corti” la legalità, valore tuttora centrale quando si incide sulla proprietà, si declina pure come prevedibilità, anche la distinzione fra vincoli espropriativi e conformativi merita maggiore certezza e minore occasionalismo. Né all’uopo appaiono condivisibili unilaterali generalizzazioni presuntive, più spesso formulate a favore di persistenti sacche di funzionalizzato interesse pubblico (sul tema v. G. Tropea, Le presunzioni nel processo amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2019, 683 ss.), con buona pace della genericamente affermata residualità del vincolo conformativo.
A ciò si deve accompagnare, evidentemente, un sindacato rigoroso sulla legislazione in materia, ormai anche regionale, e sulle conseguenti misure amministrative di piano, fondato sui canoni della ragionevolezza, proporzionalità, non discriminatorietà, affidamento del cittadino, giusto procedimento.
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