ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’Intelligenza Artificiale nel processo?
Commento alla firma del Protocollo per la definizione del contesto etico e giuridico per l’applicazione dell’Intelligenza Artificiale ai procedimenti amministrativi e giurisdizionali, firmato il 17 febbraio dal Ministero per l’innovazione e dalla Fondazione Leonardo.
di Franco De Stefano
SOMMARIO: 1. Il protocollo d’intesa tra Governo e Fondazione Leonardo. 2. La prevedibilità e l’affidabilità dell’attività amministrativa. 3. L’Intelligenza Artificiale nella giustizia all’attenzione dei legislatori sovranazionali. 4. Automazione e giurisdizione. 5. L’Intelligenza Artificiale nella giurisdizione?
1. Il protocollo d’intesa tra Governo e Fondazione Leonardo.
Prima di tutto, la notizia in sé e per sé, come si ritrae dai siti istituzionali, rispettivamente www.innovazione.gov.it e www.fondazioneleonardo-cdm.com.
Il Ministro per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione Paola Pisano e il Presidente della Fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine Luciano Violante hanno firmato il 17 febbraio scorso un protocollo d’intesa, per definire il contesto etico e giuridico all’interno del quale sviluppare e applicare l’intelligenza artificiale (d’ora in avanti, anche solo IA), in particolare per rispondere alle esigenze della Pubblica Amministrazione con l’impiego delle tecnologie più moderne e, in buona sostanza, mettendo a frutto le potenzialità della gestione automatizzata dei processi decisionali ed operativi[1].
Lo scopo è quello di introdurre applicazioni di intelligenza artificiale nella gestione dei procedimenti amministrativi “con l’impegno di mettere l’uomo al centro”, lavorando per promuovere “un’intelligenza artificiale sostenibile sul piano sociale, culturale e democratico”.
Il ministro, richiamato il piano Italia 2025, ha ricordato come l’intelligenza artificiale e i big data possano sostenere i decisori pubblici verso scelte sempre più consapevoli, se ed in quanto basate sull’analisi di dati, gestendo in maniera efficiente una serie di procedimenti amministrativi: progettare, sviluppare e sperimentare soluzioni di intelligenza artificiale, purché etiche, progettate in modo sicuro e con sempre al centro l’uomo e i suoi valori, per poi applicarle ai procedimenti amministrativi significa dare attuazione moderna ai principi costituzionali che vogliono un’amministrazione efficiente. La scelta è stata prospettata come imposta dallo sviluppo tecnologico, ma foriera di grandi ricadute positive sulla vita di tutti i giorni dei cittadini.
Il presidente della fondazione, dal canto suo, sottolinea come la collaborazione con il MID rappresenti, per la Fondazione Leonardo, il seguito della Conferenza Internazionale sullo statuto etico e giuridico dell’IA, tenutosi a novembre presso la Camera dei deputati, nello sviluppo dell’impegno per la modernizzazione del Paese nel contesto europeo.
La collaborazione avviata con il protocollo, della durata di un anno ed articolata intanto nella costituzione di un gruppo di lavoro composto dai rappresentanti dei due firmatari, prevede:
- la definizione di una metodologia di valutazione che possa garantire, durante le fasi di progettazione, sviluppo e implementazione, l’utilizzo sostenibile dell’IA nei servizi pubblici, nel rispetto dei nostri valori costituzionali;
- la stesura di una proposta di “codice di conformità” per l’implementazione dell’IA nel settore pubblico o in quello privato, anche in vista della definizione di un sistema di certificazione di sostenibilità etica e giuridica;
- la definizione di un piano di formazione per il personale docente delle scuole, su concetti basilari e metodi dell’IA, partendo dall’analisi dei benefici e dei rischi, fino alle regole di condotta per un’IA “benefica”;
- la definizione di almeno due progetti, destinati a una possibile sperimentazione, dedicati all’applicazione di IA nei procedimenti amministrativi e giurisdizionali; questi progetti saranno identificati anche nell’ambito della cabina di regia interministeriale per l’innovazione del Paese, avviata dal Ministro per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione.
In particolare, la Fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine prosegue così la sua attività nel settore, dopo l’adozione dello “Statuto etico e giuridico dell’IA”[2] e l’organizzazione della Conferenza Internazionale sullo statuto etico e giuridico dell’IA, presso la nostra Camera dei Deputati nel novembre 2019.
2. La prevedibilità e l’affidabilità dell’attività amministrativa.
L’intera attenzione dei preamboli e delle dichiarazioni programmatiche dei due firmatari del progetto è in modo espresso rivolta esclusivamente al procedimento amministrativo e all’estensione ad esso delle potenzialità tecnologiche dell’Intelligenza Artificiale.
Lo spunto è evidentemente dato dall’ingresso imperioso di quest’ultima nel procedimento amministrativo, nell’eclatante esempio della gestione algoritmica di procedure assunzionali e dei trasferimenti dei docenti, i cui risultati sono stati molto discussi.
Il giudice amministrativo ha affrontato il processo di automazione nel procedimento amministrativo in alcune fondamentali recentissime sentenze del Consiglio di Stato: la n. 881 del 4 febbraio 2020, la n. 8474 del 13 dicembre 2019 e la n. 2270 del dì 8 aprile 2019.
Non è questa la sede per affrontare la portata dei principi così affermati, qui dovendo bastare la conclusione della sostanziale accettazione dell’algoritmo nel procedimento amministrativo, a determinate condizioni.
In sostanza, sono dai supremi giudici amministrativi individuati come regolatori della materia tre basilari principi, ricavati dal diritto soprattutto sovranazionale (e, verosimilmente, dal GDPR, ovvero dal General Data Protection Regulation, cioè il Regolamento europeo per la protezione dei dati personali, n. 2016/679):
- il principio di conoscibilità;
- il principio di non esclusività della decisione algoritmica;
- il principio di non discriminazione algoritmica.
In forza del primo, ognuno ha diritto a conoscere l’esistenza di processi decisionali automatizzati che lo riguardino ed in questo caso a ricevere informazioni significative sulla logica utilizzata; in forza del secondo, quando una decisione automatizzata “produca effetti giuridici che riguardano o che incidano significativamente su una persona”, questa ha diritto a che tale decisione non sia basata unicamente su tale processo automatizzato; in forza del terzo, è opportuno che il titolare del trattamento utilizzi procedure matematiche o statistiche appropriate per la profilazione, mettendo in atto misure tecniche e organizzative adeguate al fine di garantire, in particolare, che siano rettificati i fattori che comportano inesattezze dei dati e sia minimizzato il rischio di errori.
Si è, in buona sostanza, presa coscienza del fatto che l’impiego degli strumenti tecnologici moderni comporta in realtà una serie di scelte e di assunzioni tutt’altro che neutre: l’adozione di modelli predittivi e di criteri in base ai quali i dati sono raccolti, selezionati, sistematizzati, ordinati e raggruppati e coordinati, la loro interpretazione e la conseguente formulazione di giudizi sono tutte, benché ridotte ad operazioni automatizzate, conseguenze di precise scelte e di valori, consapevoli o inconsapevoli; da ciò consegue che tali strumenti sono chiamati ad operano una serie di scelte, le quali dipendono in gran parte dai criteri e dai dati di riferimento utilizzati, in merito ai quali si esige la necessaria trasparenza.
La “caratterizzazione multidisciplinare” dell’algoritmo è evidente in quanto la sua elaborazione non richiede solo competenze giuridiche, ma tecniche, informatiche, statistiche, amministrative; una volta applicata al diritto, occorre allora che la “formula tecnica”, che di fatto rappresenta l’algoritmo, sia corredata da spiegazioni che la traducano nella “regola giuridica” ad essa sottesa e che la rendano leggibile e comprensibile.
In primo luogo, occorre rendere applicabili le norme generali e tradizionali in tema di imputabilità e responsabilità, sicché va garantita la riferibilità della decisione algoritmica finale all’autorità ed all’organo competente in base alla legge attributiva del potere.
In secondo luogo, è riconosciuto alla persona il diritto di non essere sottoposta a decisioni automatizzate prive di un coinvolgimento umano e che, allo stesso tempo, producano effetti giuridici o incidano in modo analogo sull’individuo: pertanto, non può mai mancare la precisa e chiara individuazione di un centro di imputazione e di responsabilità, che sia in grado di verificare la legittimità e logicità della decisione dettata dall’algoritmo. La regola algoritmica deve essere non solo conoscibile in sé, ma anche soggetta alla piena cognizione, e al pieno sindacato, del giudice amministrativo.
Non può quindi ritenersi applicabile, in modo indiscriminato, all’attività amministrativa algoritmica tutta la legge sul procedimento amministrativo, concepita in un’epoca nella quale l’amministrazione non era investita dalla rivoluzione tecnologica, né sono condivisibili richiami letterari a scenari orwelliani: da considerarsi anzi con cautela, perché la materia merita un approccio non emotivo ma capace di delineare un nuovo equilibrio, nel lavoro, fra uomo e macchina differenziato per ogni campo di attività.
In definitiva, il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) deve essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico.
Tale conoscibilità dell’algoritmo deve essere garantita in tutti gli aspetti: dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti. E tanto al fine di poter verificare che gli esiti del procedimento automatizzato siano conformi alle prescrizioni e alle finalità stabilite dalla legge o dalla stessa amministrazione a monte di tale procedimento e affinché siano chiare – e conseguentemente sindacabili – le modalità e le regole in base alle quali esso è stato impostato.
3. L’intelligenza artificiale nella giustizia all’attenzione dei legislatori sovranazionali.
Il quadro europeo, evidentemente sospinto dalla turbinosa velocità dell’evoluzione tecnologica, è in movimento, sia al livello dell’Unione europea, che a quello del Consiglio d’Europa.
Il Parlamento europeo ha approvato, in seduta plenaria, il 12 febbraio 2020, una risoluzione sui processi decisionali automatizzati[3], che segue quella del 12 febbraio 2019 sulla politica generale europea industriale sull’intelligenza artificiale e sulla robotica e quella del 16 febbraio 2017[4] sulle raccomandazioni alla Commissione su regole di diritto civile sulla robotica, per riprendere il rapporto sulla responsabilità per intelligenza artificiale ed altre tecnologie digitali emergenti (predisposto dal Gruppo di esperti su responsabilità e nuove tecnologie e pubblicato il 21 novembre 2019) ed alle Linee guida per una AI affidabile pubblicate l’8 aprile 2019; ed è in dirittura di arrivo il Piano per l’approccio europeo all’intelligenza artificiale.
L’ottica rimane certamente di impronta consumeristica: constatata la superiorità rispetto a quelle umane della precisione e della velocità degli algoritmi di apprendimento quale ragione della loro diffusione, ragione di preoccupazione sono i rischi di un’intelligenza artificiale in grado di prendere decisioni senza la supervisione umana.
Il principale rischio, visto che l’apprendimento automatico si basa sul riconoscimento di modelli all’interno di sistemi di dati, è quello della sistematizzazione dei pregiudizi e delle discriminazioni, in base alle modalità stesse di progettazione dei relativi meccanismi: sicché, per proteggere i consumatori nell’era dell’intelligenza artificiale, si è ravvisata la necessità di sviluppare strumenti per una adeguata informazione dei consumatori nel momento in cui interagiscono con l’intelligenza artificiale ed i processi decisionali automatizzati, al fine di prendere decisioni consapevoli sul loro utilizzo.
E l’auspicio è quindi quello di più incisive misure per una tutela solida dei diritti dei consumatori, garantendoli da pratiche commerciali sleali e/o discriminatorie, o da rischi derivanti da servizi commerciali di intelligenza artificiale, assicurando la maggiore trasparenza possibile in questi processi e prevedendo l’utilizzo soltanto di dati non discriminatori e di alta qualità.
Parallelamente, il Parlamento europeo, col suo Servizio Ricerche, ha adottato nell’aprile 2019 il suo rapporto per il quadro di riferimento per un’autorità per l’affidabilità e la trasparenza algoritmica[5].
Il Consiglio d’Europa ha, dal canto suo, istituito un Comitato ad hoc per l’intelligenza artificiale (CAHAI)[6], il quale, col sistema della consultazione ampliata delle parti interessate (multi-stakeholder consultations), si prefigge lo scopo di esaminare la fattibilità e gli elementi potenziali di una cornice legale per lo sviluppo, la progettazione e l’applicazione di un’intelligenza artificiale basata sugli standard del Consiglio d’Europa sui diritti umani, la democrazia e lo Stato di diritto. A questo scopo, il Comitato verificherà lo stato attuale della legislazione anche con riferimento alle tecnologie digitali, ma prenderà in considerazione gli strumenti legali sovranazionali o regionali, gli esiti dei lavori intrapresi dagli altri organismi del Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali o regionali, con particolare attenzione alle problematiche di genere ed alla promozione di società coesive e protezione dei diritti delle persone con disabilità.
Sempre in seno al Consiglio d’Europa, la Commissione per l’efficienza nella giustizia (Commission for the Efficiency of Justice – CEPEJ) ha adottato, il 3 dicembre 2018, la prima Carta etica europea sull’uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari[7], individuando i seguenti principi fondamentali nella progettazione e nell’applicazione degli strumenti e servizi di intelligenza artificiale applicati alla Giustizia:
1) il principio del rispetto dei diritti fondamentali, nel senso che quegli strumenti e quei servizi siano compatibili con questi ultimi;
2) il principio di non discriminazione, a specifica prevenzione dello sviluppo o della stessa intensificazione di ogni discriminazione tra individui o gruppi di individui;
3) il principio di qualità e sicurezza: mediante l’impiego, nell’elaborazione dei dati e delle decisioni di giustizia, di fonti certificate di dati inalterabili su modelli concepiti in modalità multidisciplinare ed ambiente tecnologico sicuro;
4) il principio di trasparenza, imparzialità ed equità: assicurando l’accessibilità e la comprensibilità dei processi di acquisizione ed elaborazione dati, ammettendo revisioni esterne;
5) il principio “sotto il controllo dell’utente”: con un approccio prescrittivo e garanzia agli utenti di un ruolo di attori informati nel controllo delle loro scelte.
4. Automazione e giurisdizione.
Una prima annotazione, a caldo, per lasciare ogni approfondimento a più meditate riflessioni: impressiona lo iato tra la premessa della proclamazione dell’intervenuta sottoscrizione del Protocollo e la conclusione, visto che dopo l’enfatizzazione del suo obiettivo principale, vale a dire l’applicazione di IA ai procedimenti amministrativi, si estende, con un’aggiunta finale dall’apparenza innocente ma autentico fulmen in cauda e praticamente a sorpresa, l’ambito del progetto ai procedimenti giurisdizionali. Stando a quanto traspare dai comunicati dei due sottoscrittori, quindi, si studierà l’Intelligenza Artificiale nella giurisdizione.
Il nostro Governo, sia pure attraverso il meccanismo apparentemente neutro della collaborazione informale con un organismo formalmente privato, sia pure di grande autorevolezza quale la Fondazione Leonardo e di sostanziale riferibilità alle scelte pubbliche per la natura del suo fondatore, pare iniziare quindi a studiare come applicare IA alla Giustizia; e pare farlo sullo spunto della necessaria digitalizzazione, nel senso di “efficientamento”, della Pubblica Amministrazione, alla quale soltanto, a ben vedere, il ministro e il presidente della fondazione si erano riferiti nella descrizione del progetto.
Il tenore delle comunicazioni dei sottoscrittori del protocollo, non disponendosi il testo di questo, induce qualche riflessione.
Per la pubblica opinione, evidentemente, l’esigenza di modernizzazione della gestione dei processi decisionali si avverte come impellente ed indifferibile almeno per la corrente e quotidiana gestione della cosa pubblica, intesa come amministrazione in senso classico; dinanzi alla crescita esponenziale della mole di affari da sbrigare ed all’opacità o viscosità delle procedure, l’atavico pregiudizio culturale di diffidenza verso la neutralità e l’efficienza della pubblica amministrazione giustifica evidentemente a sufficienza l’aspirazione a metodiche di disbrigo e decisione che rispettino in modo rigoroso i principi, pur sempre costituzionalizzati, dell’art. 97 Cost.
Come si è visto, il giudice amministrativo ha già iniziato ad occuparsi della digitalizzazione, per adottare una soluzione che può definirsi di moderata o cauta apertura; ed è su questa via che potrà svilupparsi anche la linea d’azione del nostro legislatore e, verosimilmente, del gruppo di lavoro istituito dal Protocollo tra il Ministero e la Fondazione.
È però l’estensione ex abrupto ai “procedimenti giurisdizionali”, in apparenza – e sempre stando al tenore dei comunicati ufficiali – senza alcuna distinzione o specificazione, dello studio delle potenzialità applicative di IA che desta serie perplessità: è un campo che il diritto ha solo da poco iniziato a studiare[8] e che apre scenari ampi e sostanzialmente inesplorati.
È l’accesso dell’Automa al processo, civile, penale o amministrativo; un accesso in sordina, strisciante, forse inconsapevole; ma offre l’occasione di interrogarsi su quanto del processo, delle sue sequenze, dei suoi segmenti e delle attività intellettive di norma prettamente umane espletate in ciascuno di quelli si vorrà deputare o delegare o trasferire all’Automa.
Dal campo del settore penale, dove in diversi contesti l’algoritmo è già stato impiegato per la prognosi della personalità del reo perfino al fine di determinare la pena idonea[9] o per l’acquisizione di prove dal valore sostanzialmente legale, a quello del settore civile (e amministrativo, nel senso di giustiziale amministrativo), dove la possibilità di definizione di procedimenti elementari in via completamente automatizzata (generalmente in settori definibili ad alta serialità e salva la sola facoltà, disegnata come eccezionale, di successivo intervento umano) è ormai apertamente studiata, gli orizzonti si schiudono sterminati.
E da tempo oramai sono a disposizione, sempre più sofisticati, sistemi di vera e propria on line dispute resolution[10], che implicano una decisione robotica formalmente negoziale, sostanzialmente assimilata all’arbitrato.
5. L’Intelligenza Artificiale nella giurisdizione?
Il concetto è ormai recepito come giustizia predittiva[11], anche se l’espressione è obiettivamente riduttiva: infatti, non si tratta soltanto di predire o prevenire o calcolare[12] l’esito giudiziario delle situazioni conflittuali, al fine di misurare fenomeni seriali o di massa e di individuarne i costi e i rischi[13]; si tratta di scegliere quali delle attività, soprattutto intellettive oltre che materiali, inerenti al giudizio umano devolvere o delegare o deputare all’Automa.
Normalmente, il ricorso all’automa è sempre stato ricostruito come teso a liberare l’umano dal peso o dai rischi di un lavoro sempre meno sostenibili ed al contempo a fornire un risultato reputato più consono od efficace rispetto all’attività che l’umano potrebbe compiere[14]: e, se la prima delle motivazioni può già in prima approssimazione in modo accettabile riferirsi alle attività materiali di raccolta e comparazione efficienti di dati soprattutto in contenziosi seriali indotti dalla massificazione dei rapporti commerciali ed umani in generale, è chiaro che, quanto alla seconda di quelle motivazioni, molto, anzi moltissimo, può dipendere dalle scale assiologiche che si vorranno adottare, risultando ormai indifferibile intendersi su cosa si intenda per efficienza della giustizia.
Le famose leggi della robotica, elaborate dapprima in ambito letterario e poi assurte al ruolo di principi generali della materia nel diritto eurounitario[15], non soccorrono, pensate come erano per attività sostanzialmente materiali od elementari e quindi inidonee a fronteggiare l’enorme complessità del diritto e dei concetti da definire quanto alle attività in cui sostituire l’umano.
Basti pensare, tanto per incominciare, alla scissione tra giudizio di fatto e giudizio di diritto, vale a dire tra la nozione di ricostruzione del fatto – intesa come rappresentazione di eventi passati mediante strumenti di prova e pertanto estranei all’ambiente in cui sono considerati – e quella di formulazione della regola di diritto da applicare alla fattispecie concreta, ognuna sorretta da un’elaborazione di dottrina, giurisprudenza e prassi che rimonta nei secoli ed è fortemente influenzata dall’ideologia del sistema del tempo.
Occorrerà riflettere con grande attenzione e scegliere quali risultati affidare all’automa: e soprattutto in che termini declinare la certezza del diritto, nelle sue molteplici accezioni, cui orientare le decisioni del giudice e, in sua vece o in suo ausilio, del suo alter ego digitale.
Già nell’attuale momento storico è difficile ridurre la definizione di quella certezza come trattamento uguale di casi uguali: questa soluzione è reclamata dalla dilatazione globale dei traffici commerciali e giuridici come un bene essenziale, sotto il profilo della conoscibilità o calcolabilità delle decisioni di giustizia, contrapposta alla - o comunque in tensione dialettica con la - sua flessibilità per un adeguamento alle peculiarità della fattispecie; senza considerare le millenarie dispute sul ruolo del diritto in generale e, quindi, della sua funzione di mantenimento e protezione dello status quo in contrapposizione all’altra di ordinatore e propulsore di uno sviluppo e di un cambiamento anche sostanziale degli assetti correnti.
L’esigenza, dinanzi alla massificazione dei rapporti, di un trattamento uguale per casi uguali è sempre più sentita; ma la libertà e la creatività del pensiero umano, che nessun automa è per definizione – almeno finora – in grado di replicare, è un valore che si vuole continuare a ritenere irrinunciabile: e sta nel bilanciamento tra queste esigenze la chiave di volta della inarrestabile sostituzione dell’automa a segmenti sempre più estesi dell’attività non più solo materiale, ma anche intellettiva, del suo creatore per il proprio beneficio e progresso.
Quale giustizia si vuole? E quale giudice? Un giudice automa, allora, darà più garanzie di efficienza, trasparenza, neutralità, indipendenza, equità? In definitiva, la vera giustizia sarà una giustizia non umana?
Il creatore dell’automa, scegliendo cosa affidargli della giustizia, disegna così il suo proprio futuro.
[1] Per le definizioni basilari rilevanti per il giurista ci si permette un rinvio a F. De Stefano, Spunti di riflessione sulla decisione robotica negoziale, in questa Rivista, dal 06/03/2019.
[2] Reperibile all’URL https://fondazioneleonardo-cdm.com/site/assets/files/2553/fle1_booklet_conferenza_ita_ibm_111119.pdf (ultimo accesso 29/02/2020). Da segnalare la sezione dedicata agli aspetti applicativi dell’IA al settore del diritto e, soprattutto, del processo (pagine 77 e seguenti).
[3] Il testo sottoposto alla votazione è reperibile all’URL https://www.europarl.europa.eu/meetdocs/2014_2019/plmrep/COMMITTEES/IMCO/DV/2020/01-22/RE_1194746_EN.pdf (ultimo accesso 29/02/2020).
[4] Reperibile all’URL https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-8-2017-0051_EN.html#title1.
[5] Reperibile all’URL https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2019/624262/EPRS_STU(2019)624262_EN.pdf (ultimo accesso 29/02/2020).
[6] Il sito istituzionale è all’URL https://www.coe.int/en/web/artificial-intelligence/cahai (ultimo accesso 29/02/2020).
[7] Reperibile all’URL https://www.coe.int/en/web/cepej/cepej-european-ethical-charter-on-the-use-of-artificial-intelligence-ai-in-judicial-systems-and-their-environment (ultimo accesso 29/02/2020)
[8] Si veda, tra gli altri, A. Carleo (a cura di), Decisione robotica, Bologna (il Mulino), 2018.
[9] È l’ormai celebre caso Loomis: la Corte Suprema del Wisconsin (State of Wisconsin v. Eric L. Loomis, 13 Luglio 2016) si è pronunciata sull’appello dell’imputato, la cui pena a sei anni di reclusione era stata comminata dal Tribunale circondariale di La Crosse: nel determinare la pena, i giudici avevano tenuto conto dei risultati elaborati dal programma COMPAS (Correctional offender management profiling for alternative sanctions) di proprietà della società Northpointe (ora Equivant), secondo cui Loomis era da identificarsi quale soggetto ad alto rischio di recidiva. La Corte suprema dello Stato ha rigettato l’appello, ma precisando che i giudici possono sì considerare i dati forniti dal software nella determinazione finale, insieme però ad altri fattori, poiché illegittimo sarebbe basare la sentenza su tali risultati, utilizzandoli quindi come fattori determinanti della decisione.
[10] Basti qui un cenno al portale dedicato dall’Unione europea, reperibile all’URL (ultimo accesso 29/02/2020) https://ec.europa.eu/consumers/odr/main/index.cfm?event=main.home2.show&lng=IT.
[11] L. Viola (a cura di), Giustizia predittiva e interpretazione della legge con modelli matematici (Atti del Convegno tenutosi presso l’Istituto dell’enciclopedia Italiana Trecccani), Milano (Dirittoavanzato), 2019. Idem, Giustizia predittiva, in www.treccani.online (all’URL http://www.treccani.it/enciclopedia/giustizia-predittiva_%28Diritto-on-line%29/, ultimo accesso 29/02/2020). L’Autore ne definisce l’oggetto nella previsione dell’esito di sentenze attraverso calcoli matematici, ne indica quale principale linfa legittimante l’art. 3 Cost. e l’art. 348 bis cod. proc. civ. e rileva come in altri Paesi sia già una realtà consolidata; e, precisato che si tratta della “possibilità di prevedere l’esito di un giudizio tramite alcuni calcoli”, avverte che “non si tratta di predire tramite formule magiche, ma di prevedere la probabile sentenza, relativa ad uno specifico caso, attraverso l’ausilio di algoritmi”. Insomma, “il diritto può essere costruito come una scienza, che trova la sua principale ragione giustificativa nella misura in cui è garanzia di certezza: il diritto nasce per attribuire certezza alle relazioni umane, tramite una complessa attribuzione di diritti e doveri”.
[12] A. Carleo (a cura di), Calcolabilità giuridica, Bologna (Il Mulino), 2017.
[13] VIOLA (a cura di), Giustizia predittiva e interpretazione della legge con modelli matematici, Milano, DirittoAvanzato, 2019.
[14] M. Luciani, La decisione giudiziaria robotica, in Riv. Associazione italiana dei costituzionalisti, n. 3-2018, § 1, poi ripresa nel testo di cui alla nota precedente.
[15] Il riferimento è esplicito, quale punto di partenza di un’elaborazione, alle leggi della robotica elaborate da Isaac Asimov, scienziato noto soprattutto come scrittore di fantascienza, al punto “T” della risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2017, di cui alla nota 4. Questa la loro trascrizione in quel testo:
(1) Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno.
(2) Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.
(3) Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge. (cfr. Isaac Asimov, Runaround [Circolo vizioso], New York, 1942)
La successiva elaborazione dello stesso Autore condusse poi alla formulazione della quarta legge, anteposta alle altre: (0) Un robot non può recare danno all'umanità, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, l'umanità riceva danno.
Lo stato di diritto e l’incostituzionalità di una interpretazione retroattiva delle modifiche peggiorative in tema di concedibilità delle misure alternative. Una prima lettura della sentenza Cost. Cost. 32/2020 sulla “spazzacorrotti”.
di Fabio Gianfilippi
Sono state depositate, mercoledì scorso, le motivazioni della sentenza con la quale la Corte Costituzionale, censurando l’interpretazione contraria data sul punto dal diritto vivente, in assenza di una disposizione transitoria, considera non applicabili le modifiche normative peggiorative derivanti dall’inserimento di un reato nel copioso catalogo di quelli già presenti nell’art. 4-bis ord. penit., ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge, con riferimento però alla sola concedibilità delle misure alternative alla detenzione.
La pronuncia interviene in particolare relativamente all’art. 1, co. 6, lett. b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nota con l’icastica definizione di “legge spazzacorrotti”. Un epiteto, per quanto almeno concerne l’esecuzione penale, evocativo di per sé di scenari assai distanti dal precetto costituzionale, per il quale le pene sono rivolte alla risocializzazione di chi ha violato la legge penale, facendo del pur grave reato commesso una ragione di stigma che aderisce sempiternamente alla persona, considerata ormai uno scarto irrecuperabile, con espressione mutuabile dal pensiero di Bauman.
La predetta nuova disposizione normativa prevede che la gran parte dei reati contro la pubblica amministrazione siano annoverati nell’elenco contenuto nell’art. 4-bis co. 1 ord. penit. con una serie di conseguenze assai gravose: l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione non possono essere concesse, a meno che non sia intervenuta collaborazione con la giustizia ai sensi degli art. 58-ter ord. penit. o 323-bis co. 2 cod. pen. oppure non intervenga il meccanismo surrogatorio previsto nel co. 1-bis del medesimo art. 4-bis. Preclusa diviene, in forza del richiamo contenuto nell’art. 2 d.l. 13.05.1991 n. 152, alle stesse condizioni, la liberazione condizionale. Non concedibili la detenzione domiciliare in ragione della condizione di ultrasettantenne, né quella c.d. generica per le pene inferiori ad anni 2 di reclusione, né l’affidamento in prova di tipo terapeutico per pene superiori ai 4 anni, e più lunga la quota di pena espianda per ottenere la semilibertà, o accedere a permessi premio e lavoro all’esterno. Correlativamente, per il richiamo contenuto in tal senso nell’art. 656 co. 9 cod. proc. pen., non risulta sospendibile l’ordine di esecuzione anche per le pene non superiori a quattro anni, con il conseguente ingresso obbligatorio in carcere in attesa delle eventuali decisioni del Tribunale di sorveglianza sulle misure alternative. Molteplici, infine, le conseguenze in termini di trattamento penitenziario: dal numero di colloqui visivi e telefonici sensibilmente ridotto, alla possibilità di vedersi applicato il regime differenziato in peius di cui all’art. 41-bis ord. penit.
Gli effetti prodotti dalla storica pronuncia della Corte Costituzionale, tuttavia, non possono intendersi confinati alla legge “spazzacorrotti”, dovendo ormai rileggersi la disposizione normativa alla ricerca delle precedenti aggiunte in cui, analogamente assente una regola intertemporale, l’applicazione delle modifiche peggiorative è stata sino ad oggi ritenuta applicabile retroattivamente sulla base della interpretazione offerta da una granitica giurisprudenza di legittimità (vd. per tutte la sentenza sez. un. cass. 18.09.2006 n. 30792 in tema di limitazioni per i condannati recidivi), assurta a diritto vivente.
D’altra parte molte volte si è fatto ricorso a questo meccanismo di ampliamento dell’estensione dell’art. 4-bis e, come ricordato recentemente dalla stessa Corte Costituzionale, sembra essersene persa l’originaria ratio di contrasto al fenomeno della criminalità organizzata, poichè “le numerose modifiche intervenute negli anni, rispetto al nucleo della disciplina originaria, hanno variamente ampliato il catalogo dei reati ricompresi nella disposizione, in virtù di scelte di politica criminale tra loro disomogenee, accomunate da finalità di prevenzione generale e da una volontà di inasprimento del trattamento penitenziario, in risposta ai diversi fenomeni criminali di volta in volta emergenti. L’art. 4-bis ordin. penit. si è, così, trasformato in «un complesso, eterogeneo e stratificato elenco di reati» (sentenze n. 32 del 2016 e n. 239 del 2014), nel quale, accanto ai reati di criminalità organizzata, compaiono ora, tra gli altri, quelli di violenza sessuale (…), di scambio elettorale politico-mafioso (…), di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (…) e, da ultimo, anche quasi tutti i reati contro la pubblica amministrazione (…).” (sent. Corte Cost. 188/2019). Una presa d’atto, forse non obbligata, che richiede paletti significativi che, comunque, la Consulta sta ponendo a più livelli con martellante efficacia.
Il problema oggi affrontato, e risolto attraverso una sentenza interpretativa di accoglimento tanto radicata nei principi essenziali dello stato di diritto da poter trarre argomenti persino da una epocale sentenza del 1798 della Corte Suprema degli Stati Uniti (cfr. pr. 4.3.1 del considerato in diritto), si era dunque già varie volte posto, perché il legislatore aveva mancato di introdurre disposizioni transitorie idonee ad evitare una applicazione retroattiva delle modifiche peggiorative contenute nell’art. 4-bis già in occasione di precedenti ampliamenti del catalogo, ma anche ad esempio quando fu stabilita una stretta in materia di trattamento rieducativo per i condannati recidivi reiterati (cfr. L. 251/2005). La natura non sostanziale delle norme di ordinamento penitenziario era stata ogni volta ribadita, in sede di merito e poi di legittimità. La stessa Corte Costituzionale a questo proposito era stata già chiamata ad esprimersi e con l’odierna pronuncia ha in tal senso rivendicato espressamente, pur poi ricordando la complessa strada interpretativa sin qui seguita e non abbandonata, la facoltà di rimeditare i propri stessi orientamenti interpretativi nel tempo (cfr. par. 3.6 del considerato in diritto).
Mai però, come in questo caso, erano state così ampie e diffuse le perplessità sull’applicazione del principio del tempus regit actum alle modificazioni peggiorative intervenute in materia di concedibilità delle misure alternative, come a tutte le norme di ordinamento penitenziario, in correlazione con la loro sempre ritenuta natura non sostanziale.
Alcune pronunce di merito, in realtà, si erano spinte verso il superamento di questa impostazione, soprattutto alla luce dell’insegnamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo maturato in relazione alla garanzia, in termini di effettiva prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie, di cui all’art. 7 CEDU (vd. in particolare la sent. Grande Chambre 21.10.2013, Del Rio Prada c. Spagna, che ritiene soggette al divieto di applicazione retroattiva le norme in materia di esecuzione penale che determinino una “ridefinizione o modificazione della portata applicativa della pena”).
Allo stesso modo le undici ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale, che hanno dato origine alla sentenza in commento, sollevano la quaestio anche in relazione all’art. 7 CEDU e all’art. 117 Cost.
Provengono da Tribunali di sorveglianza chiamati a vagliare istanze di misure alternative e di permessi premio, oppure muovono da giudici dell’esecuzione in relazione ad incidenti relativi ad ordini di esecuzione che avevano determinato la carcerazione per condannati per reati contro la pubblica amministrazione commessi in data precedente all’entrata in vigore della legge e che avevano visto peggiorare ex abrupto le proprie prospettive di esecuzione penale.
I parametri costituzionali invocati sono molteplici, ma è risultato assorbente il riferimento al contrasto con la garanzia dell’irretroattività di cui all’art. 25 co. 2 Cost. Come anticipato la Corte utilizza lo strumento della sentenza interpretativa di accoglimento, con intervento additivo che, in forza dello stesso tenore letterale della norma costituzionale evocata, appare obbligato e comporta la non applicabilità delle modifiche peggiorative (o meglio di alcune di esse, per come vedremo) ai condannati per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge che le ha introdotte.
Come noto, in forza dell’art. 25 co. 2 Cost. è vietata l’applicazione retroattiva di una norma incriminatrice, sia laddove la condotta fosse in precedenza penalmente irrilevante, sia dove fosse, al momento del fatto, già prevista come reato ma con pena meno severa di quella poi introdotta nell’ordinamento.
La Corte ricorda che ciò consente che le persone possano ragionevolmente prevedere le conseguenze penali delle proprie scelte e, anche nel corso di un procedimento penale eventualmente instauratosi, governino adeguatamente le opzioni difensive che sono loro garantite. Consente, soprattutto, e perciò si evoca a ragione il “cuore stesso del concetto di stato di diritto”, di erigere un bastione nei confronti degli eventuali abusi di un potere politico che volesse cedere alla tentazione, storicamente non infrequente, di utilizzare gli strumenti della legge penale per vendicarsi del proprio avversario e “stabilire o aggravare ex post pene per fatti già compiuti”.
Nel caso che ci occupa viene quindi dichiarata l’incompatibilità costituzionale del diritto vivente a mente del quale tutte le norme che disciplinano l’esecuzione penale sono sottratte al divieto di applicazione retroattiva in forza della loro natura non sostanziale, e se ne estrapolano quelle che comportano “una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale”, per le quali l’applicazione retroattiva è preclusa proprio dal principio di cui all’art. 25 co. 2 Cost. In particolare, sono considerate rientranti in questo sottoinsieme, tutte quelle che comportavano, prima dell’introduzione della “legge spazzacorrotti”, la prevedibilità di una esecuzione penale al di fuori delle mura del carcere, mediante misure alternative in cui è marcato il profilo rieducativo e ridotta la pur sussistente limitazione della libertà personale. Si tratta di misure che incidono sulla qualità e quantità della pena “di natura sostanziale” (cfr. già sent. Corte Cost. 349/1993) e ciò deve dirsi anche della sospensione dell’ordine di esecuzione che, al di là della collocazione nel codice di procedura, spiega l’effetto sostanziale, decisivo, di consentire al condannato di attendere in libertà la pronuncia del Tribunale di sorveglianza sulla eventuale concessione di misure alternative alla detenzione, in presenza delle altre condizioni previste dall’art. 656 cod. proc. pen., invece che di subire intanto, e per tempi non prevedibili, la carcerazione.
Quanto alle altre modificazioni peggiorative derivanti dall’inserimento nell’elenco di cui all’art. 4- bis co. 1 ord. penit., la Corte Costituzionale ritiene che per le stesse sia invece compatibile una applicazione a tutte le pene al momento della loro esecuzione, a prescindere dall’eventuale commissione del reato della cui esecuzione si parla in epoca precedente alla loro introduzione. Gli argomenti sembrano essere soprattutto che in tal modo si garantisce omogeneità al trattamento penitenziario, che altrimenti soffrirebbe la coesistenza di “una pluralità di regimi esecutivi paralleli, ciascuno legato alla data del commesso reato”, incompatibile con una oculata gestione del complesso mondo penitenziario, e si consente inoltre all’ordinamento di reagire con appropriatezza alle esigenze di sicurezza che sopravvengano nel tempo, come pure di non compromettere eventuali modificazioni che, al di là di una semplicistica riconduzione al novero delle novità favorevoli o sfavorevoli al condannato, ne mutino la vita penitenziaria.
Tra queste modifiche per le quali non è preclusa la retroattività, non figurano però soltanto, secondo la Consulta, le disposizioni relative ad esempio ai colloqui visivi e alle telefonate o alla possibilità di vedersi inseriti in un circuito Alta Sicurezza o applicato il regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. penit., ma anche quelle che riguardano i benefici penitenziari come il permesso premio e l’autorizzazione a svolgere il lavoro all’esterno ex art. 21 ord. penit.
Nel distinguere le strade che può prendere l’esecuzione penale “dentro e fuori” dal carcere, questi ultimi strumenti vengono considerati parte del percorso intramurario e dunque legittimamente limitabili al sopravvenire di un mutamento normativo in tal senso. Eppure la Corte Costituzionale, ancora con la sent. 253/2019, aveva ribadito la “funzione pedagogico-propulsiva” del permesso premio quale momento di prodromica sperimentazione verso la concessione delle misure alternative. Eppure il lavoro all’esterno ex art. 21, pur dogmaticamente ben distinto dalla semilibertà, gli è equiparabile dal punto di vista dei concreti spazi liberi lasciati al condannato (al punto che negli istituti penitenziari i detenuti che possono accedere all’uno o all’altro di questi benefici convivono nelle stesse sezioni, diverse da quelle che ospitano i ristretti che non ne sono destinatari).
Alla strada, pure percorribile, di separare gli strumenti del trattamento rieducativo (e dunque tutti i benefici penitenziari) da quelli della mera vita penitenziaria, la Corte Costituzionale ha preferito quella che distingue nettamente gli strumenti di accesso a misure di comunità fuori dal contesto penitenziario, e quelli che parlino ancora il linguaggio intramurario e che, appunto, non trasformino la natura della pena. E ciò anche se è lo stesso Giudice delle leggi a mostrare consapevolezza dell’importanza di una esecuzione in carcere illuminata dall’obbiettivo, in tempi anche medio-lunghi, di poter rientrare sul territorio seppur solo per quelli parentesi feconde di libertà che sono i permessi premio.
Per questi ultimi benefici la pronuncia considera incompatibile con i principi costituzionali soltanto che il detenuto, che abbia già concretamente raggiunto un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio, se lo veda oggi precludere dalla novità normativa, nel solco di un insegnamento costituzionale molto radicato circa la non regressione incolpevole nel trattamento.
All’esito della pronuncia della Corte Costituzionale, dunque, ai condannati per delitti commessi prima dell’entrata in vigore della “legge spazzacorrotti” tornano ad essere concedibili, previo prudente apprezzamento della magistratura di sorveglianza, le misure alternative alla detenzione e la liberazione condizionale, a prescindere dalla collaborazione con la giustizia, e debbono sospendersi gli ordini di esecuzione per le pene relative ai delitti contro la pubblica amministrazione, in presenza delle altre condizioni richieste dall’art. 656 cod. proc. pen. e senza applicazione del divieto di cui al co. 9 lett. a).
Allo stesso modo, deve ritenersi che non sia compatibile con l’art. 25 co. 2 Cost. l’applicazione retroattiva delle limitazioni in tale materia anche per tutti gli altri delitti compresi negli elenchi dell’art. 4-bis ord. penit., ove commessi prima dell’inserimento, e ciò potrà avere rilevanti conseguenze soprattutto per coloro che eseguano oggi pene a distanza di molti anni dal commesso reato (ad esempio frequenti sono i casi di condannati per fatti di violenza sessuale commessi in data anteriore al luglio 2009, quando gli stessi furono inseriti nell’elenco, o di immigrazione clandestina, in data anteriore al più prossimo febbraio 2015).
Deve dedursene inoltre che qualsiasi ulteriore modifica normativa che dovesse intervenire anche in futuro ad opera del legislatore, mediante l’introduzione di limitazioni alle possibilità di accesso alle misure alternative, in quanto determinante un mutamento delle modalità esecutive della pena che si traduce in una trasformazione della sua natura, deve ritenersi costituzionalmente compatibile soltanto se non retroattiva.
In ordine all’inserimento dei delitti contro la pubblica amministrazione nell’elenco di cui all’art. 4-bis, in particolare in rapporto agli art. 3 e 27 Cost, erano state infine proposte anche questioni di legittimità costituzionale non collegate al profilo intertemporale e miranti ad evidenziare l’estraneità di alcune di queste fattispecie alla ratio della norma, come nel caso del peculato (cfr. ord. cass. 18.06.2019 n. 31853; ord. Corte App. Caltanissetta 8.10.2019) e dell’induzione indebita a dare o promettere utilità (cfr. ord. Corte App. Palermo 29.05.2019). Al momento l’esame di tali profili appare rinviato, poiché la Corte Costituzionale, con decisione del 26.02.2020, ha restituito gli atti ai giudici rimettenti per le valutazioni in termini di rilevanza delle questioni, all’esito della sentenza n. 32/2020, poiché si trattava in tutti i casi di fatti commessi in data anteriore all’entrata in vigore della “legge spazzacorrotti”. Uno spazio di rilevanza che, almeno per ciò che concerne, ad esempio, le preclusioni all’accesso ai permessi premio ed al lavoro all’esterno, così come in materia di limitazioni al trattamento (e loro funzionalità agli obiettivi di sicurezza perseguiti dall’art. 4-bis ord. penit.) sembra di fatto esservi ancora.
Appunti sparsi per una rivoluzione terra terra del giudiziario
di Pasquale Profiti
“In nome del popolo italiano”: i battiti salivano veloci, impetuosi, fuori controllo. Avevo la sensazione che se mi fossi tolto la toga si sarebbe vista la camicia muoversi al ritmo del cuore. Dovevo appoggiare qualsiasi cosa avessi in mano, per occultare il palese tremore delle mani. Ero all’inizio della mia attività di Pubblico Ministero e questo era l’effetto che subivo ogni qualvolta sentivo suonare il fatidico campanello ed il giudice usciva dalla camera di consiglio per leggere il dispositivo della sentenza. Ne parlai con il mio medico, un amico di famiglia, un po' preoccupato per lo stress che subiva il cuore. “Pressione labile”, diagnosticò: somatizzi le emozioni, ma non ti preoccupare, un cuore sano e forte sopporta uno stress del genere e passerà con il tempo, quando ascoltare quella frase diverrà routine.
La diagnosi era giusta, la prognosi si è rivelata errata. I verbi che ho utilizzato all’imperfetto, posso riprenderli al presente, perché il tumulto del cuore in pochi secondi, il tremolio delle mani, il sudore che corre lungo la schiena sono rimasti dopo 28 anni. Ogni volta penso che sarà l’ultima.
Ho parlato recentemente di queste sensazioni in un incontro organizzato per gli studenti delle classi quinte delle scuole superiori della provincia di Trento; i ragazzi hanno incontrato una decina di persone, lavoratori dei più diversi settori del vivere collettivo: medicina, economia, educazione, sociale, religioso, istituzionale, tra cui un magistrato. Ho parlato in termini entusiastici, non solo del mio mestiere, ma anche della soddisfazione per quelle sensazioni “giovanili” che non si erano placate, non erano diventate routine. Sono rimasto tale e quale; giovane, ho aggiunto con un sorriso. È un bagno di umiltà; ogni volta il processo mette a prova la tua professionalità, che è di più, molto di più che capacità tecnica. Nelle decisioni che si assumono come magistrato metti in gioco ben oltre che la tua competenza tecnica, ma la professionalità, che include la consapevolezza che ogni volta che risuona quella frase le vite delle persone sono cambiate, per sempre. Non solo. È anche un bagno di umiltà perché 28 anni di magistratura, fors’anche con la stima dei colleghi, non ti assicurano che le tue richieste saranno accolte. Un giudice appena in funzione ti dovrà dar torto se penserà che le tue valutazioni della prova o la tua interpretazione della legge non sono corrette. È quello che mi è accaduto ieri e potrà accadermi anche domani. Ma questo è il fascino del mio mestiere; quando lo inizi hai una libertà che nessun altro lavoro ti assicura al momento della tua prima assunzione: dal primo giorno di funzioni nessuno ti potrà condizionare su come decidere il tuo primo processo, che sia il Procuratore Generale o il Presidente della Corte di appello o della Cassazione. Libertà che si accoppia con la responsabilità, morale prima ancora che giuridica, della tua decisione: ecco il perché dell’emozione sempre viva ed intensa.
Lo sguardo dei ragazzi, quegli occhi spalancati che rispecchiavano il lavorio emozionale della loro mente nell’immedesimarsi nello spaccato del mio vivere lavorativo, mi hanno indotto a fermarmi qui. Era giusto non bloccare i loro sogni e la loro utopia, perché i ragazzi se ne devono nutrire.
Ho detto cose vere, ma non tutta la verità.
Non ho rivelato che sono tanti i colleghi che fuggono da quel “in nome del popolo italiano”. Che si è consolidata l’idea che far carriera è allontanarsi dalle aule di giustizia, “dedicarsi alla dirigenza” e rifiutare quel bagno di umiltà perché disonorevole per loro e per la loro autostima.
Non ho raccontato che anche tra noi si è insediato nel linguaggio il seme della gerarchia. Parliamo di capi degli uffici perché un testo legislativo lo ha disgraziatamente introdotto. Rigettiamolo questo linguaggio, per favore. Parliamo invece, vi prego, di responsabili, nel senso inglese di accountable, di dover dar conto e assumersi le conseguenze del loro organizzare, del loro non organizzare o del loro disorganizzare.
Non mi andava proprio di raccontare a quei ragazzi che nella mia vita lavorativa ho imparato ed imparo quotidianamente molto di più da giovanissime colleghe che portano avanti processi complicati, fissando udienze di sabato e che con tatto segnalano un’ultima Cassazione che ti era sfuggita o una recentissima modifica legislativa che avevi letto troppo distrattamente, rispetto ai tanti c.d. capi che non sbagliano mai solo perché non gli si rende conto del loro non fare i processi e perché il rinnovo quadriennale dipende dal non aver fatto disastri, più che dall’aver fatto bene.
Torniamo a concepire il nostro lavoro per quello che è. Il cuore è il processo, inteso come tutti quei procedimenti che danno una soluzione, definitiva o meno, ad una controversia; chi si occupa di quel processo è colui che fa battere quel cuore, che tiene in vita l’organismo. Dovrebbe essere principalmente il cuore a dirci se è stato messo in grado di ben funzionare e non viceversa. Dovrebbe quindi essere chi fa i processi e non viceversa a giudicare i responsabili dell’organizzazione, i c.d. capi degli uffici, dando il loro contributo alla valutazione sul rinnovo. Sono chi fa i processi le vere eccellenze della giurisdizione, anche se continuiamo a chiamare Eccellenza, con la E maiuscola, anche chi le aule di giustizia le frequenta solo per le cerimonie.
Le valutazioni di professionalità dei magistrati da noi sono concepite come valutazione del singolo. In alcuni paesi del nord Europa e sempre più in alcuni profili di disciplina di altri paesi, sono invece intesi come strumento di valutazione sistemica dell’efficienza del giudiziario. La valutazione del lavoro del singolo deve essere fatta evidenziando il contesto organizzativo che gli si è messo a disposizione e se i programmi del responsabile dell’organizzazione, il c.d. capo, abbiano davvero consentito un lavoro efficiente e di qualità. In altri termini se qualcosa nel lavoro del singolo non ha raggiunto i risultati auspicabili, il primo a dover dare risposte è il c.d. capo dell’organizzazione, per verificare se ha messo a disposizione gli strumenti, ove disponibili, per poter ovviare alle problematiche riscontrate; solo dopo aver escluso problematiche organizzative e le responsabilità del dirigente, ci si concentra su eventuali inefficienze del singolo. Non sarebbe difficile elaborare indici di valutazione della professionalità dei magistrati e dei dirigenti che tengano conto primariamente dell’efficienza e della qualità del sistema, prima ancora che della carriera del magistrato. Noi siamo invece ancorati, affezionati, alla costruzione della nostra carriera, che ha successo se si conclude con la nomina a capo, ancor di più se da quel capo si passa all’Eccellenza, lì dove in nome del popolo italiano diventa un ricordo lontano e la giovanile emozione del battito del cuore si inaridisce per sempre, per assumere la comoda posizione del controllore di chi fatica o del dispensatore di ordini. So bene che per tutti non è così, che ci sono e ci sono stati dirigenti e colleghi ministeriali che hanno inteso il loro ruolo come servizio a beneficio di chi i processi li tiene. Ma la cultura del bagno di umiltà, dell’accountability, dell’essere servente di chi fa i processi si allontana progressivamente sempre di più. Solo noi possiamo invertire la rotta. Ma è inutile nasconderlo, dobbiamo prima domandarci se siamo pronti e disposti ad una rivoluzione copernicana che cominci dal guardarci allo specchio e descrivere con onestà che cosa siamo diventati. Perché mi piacerebbe tanto che quel racconto del lavoro del magistrato italiano ai ragazzi che stanno per scegliere il loro futuro, non sia più solo una mezza verità.
Il mare dei diritti umani. Relazione Prof.T.Scovazzi
(atti del Convegno di Milano 4 ottobre 2019)
Gli aspetti peggiori della politica italiana in tema di migrazione irregolare via mare
di Tullio Scovazzi
SOMMARIO: 1. Il viaggio. 2. Le manovre cinematiche d’interposizione (Kater i Rades) 3. Il respingimento diretto verso la Libia (Hirsi Jamaa e altri c. Italia) 4. La complicità nel respingimento verso la Libia (la regione SAR libica) 5. Considerazioni conclusive.
1. Il viaggio
Negli ultimi tempi troppi esseri umani hanno rischiato la loro vita per attraversare una frontiera. Sono spinti dal desiderio di vivere in un luogo dove si possano evitare persecuzioni, conflitti, povertà, disastri naturali o altre calamità. Pagano somme enormi, considerate le loro risorse, per rischiare anche la vita in un percorso che si svolge attraverso il deserto e il mare. Del viaggio conoscono l’orario di partenza, ma non quello d’arrivo. Se riuscissero ad arrivare, dovrebbero affrontare l’esistenza vulnerabile di chi si trova in una condizione di clandestinità. È troppo semplice concludere che gli emigrati clandestini sono le vittime di trafficanti senza scrupoli che lucrano sui viaggi che organizzano per migliaia di disperati. Non c’è dubbio che i trafficanti siano criminali e che nei loro confronti vadano applicate le sanzioni penali previste dal degli Stati interessati, come anche indicato dal Protocollo contro il contrabbando di migranti per terra, mare e aria (Palermo, 2000), relativo alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale (Palermo, 2000) . Ma gli emigranti clandestini sono anche le vittime di una frontiera o, per essere più precisi, di chi non riesce a vedere che una frontiera e i respingimenti che ne sono la conseguenza non potranno mai essere strumenti utili a far fronte a un dramma umano collettivo che sta assumendo dimensioni sempre più imponenti .
Perché un essere umano è disposto a pagare molte volte il prezzo di un normale biglietto per trovarsi a rischiare la propria vita e, spesso, quella della propria famiglia in un viaggio disperato? La risposta più evidente è che, essendo costretto a lasciare il proprio paese, risulta impossibile a quell’essere umano acquistare un ordinario biglietto di viaggio, in quanto l’esistenza di una frontiera gli impedisce di viaggiare in condizioni normali. Il trafficante, per quanto criminale egli sia, è un elemento naturale in una situazione complessiva dove, mentre merci e capitali passano sempre più regolarmente e liberamente le frontiere, gli esseri umani o, meglio, i più sfortunati tra di loro non lo possono fare. Le politiche di respingimento in mare di tanto in tanto adottate dall’Italia, dimostrano quanto sia assurdo pensare di far fronte a un dramma umano collettivo mediante una frontiera, quanto sia indegno accanirsi contro i più deboli e, per chi resta comunque attaccato a concezioni utilitaristiche, quanto sia improduttivo condannare al rischio di morte centinaia di migliaia di esseri umani intelligenti e intraprendenti.
2. Le manovre cinematiche d’interposizione (Kater i Rades)
Si pensava tempo fa in Italia che, per respingere i migranti irregolari che cercano di arrivare via mare, fosse necessaria un’azione coercitiva di blocco e dirottamento affidata a unità della Marina Militare. Proprio una simile concezione ha determinato la sorte dei migranti albanesi che sono rimasti uccisi a seguito della collisione tra la corvetta italiana Sibilla e la nave priva di bandiera Kater i Rades A-451 . Le vittime morirono a causa di qualcosa che risponde a un nome misterioso: le manovre cinematiche d’interposizione. L’incidente avvenne nel 1997, a circa 35 miglia nautiche da Brindisi e, quindi, in alto mare. In quel periodo una grave crisi economica aveva colpito l’Albania e molti albanesi cercavano di emigrare clandestinamente all’estero, in particolare in Italia, nella speranza di trovare un futuro migliore, servendosi di natanti che prendevano il mare in assenza delle minime condizioni di sicurezza. Le cause sull’incidente sono state accertate nelle sentenze penali italiane che hanno trattato del caso (Tribunale di Brindisi del 19 marzo 2005; Corte d’Appello di Lecce del 29 giugno 2011) e che hanno visto come imputati il comandante della Sibilla e il capitano-timoniere della Kater i Rades. È utile ricordare qui di seguito l’agghiacciante sequenza dei dati di fatto accertati nelle sentenze, anche a seguito del recupero del relitto della Kater i Rades e della consulenza tecnica disposta dal Pubblico Ministero :
- al comandante della Sibilla erano state impartite dai superiori direttive che gli ordinavano di svolgere “manovre cinematiche d’interposizione” (o d’interdizione) al fine di far desistere i natanti carichi di clandestini dalla navigazione verso le coste italiane; queste manovre rientrano tra le pratiche dirette a creare intralcio ai movimenti di un’altra nave, dette anche manovre di harassment (in italiano: disturbo intenzionale), termine utilizzato in ambito NATO (North Atlantic Treaty Organization) per indicare l’azione condotta da una nave per impedire, limitare o disturbare l’azione di un’altra nave.
- l’incidente avvenne alle 18,57 del 28 marzo 1997, in condizioni d’oscurità;
- al momento dell’incidente il mare era vicino a forza 3, una situazione non gravosa per la Sibilla, ma certamente impegnativa per la motovedetta albanese, che aveva moti di deriva e imbardata abbastanza vistosi e, quindi, spostamenti orizzontali della poppa e della prua di ampiezza non normale;
- la Sibilla è una corvetta di 87 m di lunghezza e 10 m di larghezza, con dislocamento di 1285 t, mentre la Kater i Rades era lunga 21,5 m e larga 3,5 m, con dislocamento di 56 t; la prima nave era quindi 4,2 volte più grande della seconda e i dislocamenti erano in rapporto di 38 a 1;
- la Kater i Rades, che era stata frettolosamente rimessa in mare da persone non esperte pochi giorni prima dell’incidente, non era una nave progettata e realizzata per il trasporto di passeggeri e, in condizioni normali, era dotata di un equipaggio di nove unità; - la Kater i Rades aveva preso il largo da Valona con un equipaggio composto di soli due membri (il comandante-timoniere e il motorista);
- la Sibilla era subentrata nelle manovre di dissuasione a un’altra e più grossa nave della Marina italiana (la fregata Zeffiro), in quanto la Kater i Rades si dimostrava molto manovriera e poneva in essere rapide contromanovre evasive; - alle 18 il Dipartimento militare marittimo “Ionio e Canale d’Otranto” di Taranto aveva comunicato alla Sibilla che, qualora le azioni d’intimidazione non avessero avuto effetto, si sarebbe dovuto procedere a bloccare la Kater i Rades e a rimorchiarla sotto scorta verso le coste albanesi;
- alla stessa ora la Sibilla aveva posto in essere una prima manovra di disturbo intenzionale, raggiungendo da poppa la Kater i Rades, mantenendo con essa una distanza laterale di circa 50 m e intimandole con altoparlanti di fermarsi;
- in risposta a tale manovra la Kater i Rades aveva compiuto un’improvvisa virata passando di prua alla Sibilla;
- presumibilmente al fine di bloccare la Kater i Rades, il comandante della Sibilla, intorno alle 18,40, aveva impartito l’ordine di filare un cavo in mare per impigliare le eliche dei motori della motovedetta albanese; il cavo era stato calato in mare per 10-15 m, ma era poi stato recuperato a seguito di un contrordine; - era stata poi la Sibilla ad avvicinarsi alla Kater i Rades fino a una distanza non di sicurezza, in quanto il comandante della nave italiana era intenzionato a svolgere un’azione di disturbo intenzionale con la massima consentita determinazione;
- la Kater i Rades trasportava 100-120 persone ed era priva di mezzi individuali (salvagenti o giubbotti) e collettivi (scialuppe o zattere gonfiabili) di salvataggio;
- la distanza ravvicinata consentiva ai militari italiani di vedere che la vedetta albanese era priva di tali dispositivi e che la stessa trasportava anche donne e bambini;
- la Sibilla aveva raggiunto di nuovo da poppa la Kater i Rades e aveva iniziato a sorpassarla, avendola alla sua sinistra a una distanza ridottissima;
- le persone che erano sul ponte della piccola nave avevano avvertito il pericolo e si erano spostate sul lato sinistro della nave, il meno vicino alla nave militare italiana;
- le manovre cinematiche d’interposizione della Sibilla “ben poterono consistere nel tenere una rotta rettilinea ma convergente, finalizzata quanto meno ad affiancarsi pericolosamente alla motovedetta, smuovendo le onde in sua direzione, tenuto conto dell’enorme differenza di massa e, quindi, di dislocamento esistente fra le due unità, sì da indurla ad arrestarsi” ;
- il comandante-timoniere della Kater i Rades, “scorgendo la corvetta avvicinarsi paurosamente e nel tentativo di sottrarsi a un ingaggio così stretto, manovrò per far evoluire la nave a sinistra ed allontanarsi dalla corvetta, come impone di ritenere la più volte richiamata circostanza che i due timoni della motovedetta furono rinvenuti ruotati di 27°” ; - “purtroppo, durante la ‘fase di manovra’, quindi mentre la piccola nave subiva lo sbandamento dovuto al fenomeno del c.d. ‘saluto’, il moto ondoso creò una imbardata ed una deriva della poppa della A-451 che portano questa rapidamente verso il lato sinistro della prua della corvetta” ;
- “il comandante F. L., realizzato l’imminente pericolo, ordinò “pari indietro tutta” nella speranza di riuscire ad evitare il contatto tra le due navi o, comunque, di ridurne le conseguenze, ma la manovra fu inutile per la esigua distanza laterale tra le stesse” ;
- alle 18,57 vi fu un primo urto strisciante tra le due navi, che intervenne tra l’estrema prua della Sibilla e l’estrema poppa della Kater i Rades;
- al momento dell’urto la velocità della Sibilla era di circa 10 nodi, leggermente superiore a quella della Kater i Rades, di poco inferiore ai 10 nodi;
- sulla Sibilla si avvertì “solo il rumore sordo di un tonfo”; la Kater i Rades, già inclinata di alcuni gradi sul lato sinistro (sia per effetto dello sbandamento di saluto sia perché le persone si erano spostate sul lato sinistro del ponte), fu sospinta ad inclinarsi ulteriormente a sinistra ed a ruotare intorno all’asse verticale in modo da portare la poppa al largo e la prua verso la corvetta;
- questa rotazione portò la Kater i Rades davanti alla prua della Sibilla e si determinò così un secondo urto tra le prue delle due navi, che “ebbe conseguenze più gravi del primo per la Kater i Rades, che sbandò ulteriormente e rapidamente sul lato sinistro (tanto da consentire all’acqua di entrare da alcuni oblò)” ;
- subito dopo “la corvetta fu nuovamente sulla piccola nave, ormai inclinata trasversalmente di circa 80°, colpendola con la parte bassa del dritto di prua” ;
- dopo il primo e soprattutto dopo il secondo urto le persone che erano sul ponte furono scaraventate contro l’impavesato e caddero in mare; “mentre per quelle, numerose, che si trovavano nelle tre cabine, il secondo urto ebbe effetti catastrofici: ancora pochi istanti e la motovedetta A-451 si inabissò con il suo carico di corpi inanimati” ;
- immediate furono le operazioni di soccorso ai superstiti da parte dell’equipaggio della Sibilla e di altre unità;
- restarono uccisi nell’incidente 58 cittadini albanesi, numero corrispondente a quello dei corpi recuperati, “pur essendo ragionevole assumere, anche in difetto di un elenco affidabile dei soggetti imbarcati, che il numero reale delle vittime sia senz’altro superiore” .
In presenza di una tale sequenza di eventi, il Tribunale di Brindisi giunse alla conclusione che “la collisione fu dunque il risultato delle condotte colpose dei due comandanti delle navi interessate al sinistro”, stabilendo il concorso di colpa nella misura del 60% per F. L. (il comandante della Sibilla) e del 40% per X. N. (il conducente della Kater i Rades). Il Tribunale di Brindisi condannò F. L. alla pena di tre anni di reclusione e X. N. alla pena di quattro anni di reclusione, entrambi per i reati di naufragio colposo, omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. In appello fu confermata la sentenza di primo grado, ad eccezione della ripartizione del concorso di colpa tra i due imputati, modificata al 50%. La pena fu ridotta a tre anni e dieci mesi per X. N., essendo il reato di lesioni colpose caduto in prescrizione, e a due anni e quattro mesi per F. L., per lo stesso motivo e per la concessione delle attenuanti generiche, che erano state negate in primo grado. La Corte di Cassazione, con sentenza del 10 giugno 2014, n. 24527, rigettò i ricorsi presentati dai due imputati e dal responsabile civile (il Ministero della Difesa), rideterminando però la pena in tre anni e sei mesi per X. N. e in due anni per F. L., a seguito dell’intervenuta prescrizione anche del reato di omicidio colposo. Non è possibile entrare in questa sede nelle complesse questioni relative al risarcimento dei danni subiti dalle numerose parti civili costituite in giudizio, danni che furono posti a carico di F. L. e, in solido, del responsabile civile.
Nel caso della collisione tra la Sibilla e la Kater i Rades i dati di fatto sono più significativi delle norme giuridiche applicabili, ivi comprese le norme di diritto internazionale sulla prevenzione delle collisioni in mare. Proprio i dati di fatto rivelano un insieme inaudito di aggressività e di irresponsabilità da parte degli organi di Stato italiano coinvolti nell’incidente. Le “manovre cinematiche d’interposizione” – un’espressione che maschera il semplice concetto “ci è venuta addosso”, espresso più volte dai testimoni albanesi – sono tratte dalle “Regole d’ingaggio per le forze NATO che operano in ambiente marittimo”. La NATO è un’alleanza politico-militare istituita con un trattato concluso a Washington nel 1949 e avente il principale obiettivo di far fronte a un attacco armato che uno Stato terzo porti contro uno Stato membro dell’alleanza. Una nave malandata e carica all’inverosimile di uomini, donne e bambini può mai essere equiparata a un mezzo impegnato in un attacco armato e fronteggiata con strumenti di natura militare, come un blocco navale con conseguenti manovre di dirottamento? Evidentemente, no; ma, purtroppo, sì, secondo quanto credevano i politici e i militari italiani che avevano immaginato e attuato la pratica del dirottamento in mare contro i migranti clandestini.
I dati raccolti nei procedimenti sull’incidente della Kater i Rades mostrano come le autorità italiane che dirigevano le operazioni delle navi militari agissero in un’“atmosfera di forte tensione” e tramite “concitate direttive” . Risulta pure “che erano state disposizioni alla nave Zeffiro “di fare un’azione più decisa, affiancando fino a toccare” e che “appare del tutto impensabile (…) che lo stesso ordine non sia stato poi ‘girato’ dalla Zeffiro alla Sibilla, che ad essa era pacificamente subentrata nel tentativo di interrompere la marcia di avvicinamento all’Italia della Kater i Rades” . A un esperto di diritto penale le parole “affiancando fino a toccare” evocherebbero il concetto di dolo eventuale, che si ha quando l’agente si rappresenta e accetta la possibilità che l’evento si verifichi.
Spiace che le sentenze sull’incidente della Kater i Rades, per quanto esemplari per l’accurata ricostruzione dei fatti, non abbiano potuto accertare anche l’eventuale responsabilità di coloro che avevano dato l’ordine di effettuare le “manovre cinematiche d’interposizione” . Questo anche perché il filmato che documentava le fasi dell’ingaggio tra le due navi s’interrompeva inspiegabilmente , le bobine contenenti le registrazioni radio tra le navi e tra le navi e i comandi riproducevano conversazioni scarsamente intellegibili e l’imputato F. L. si era avvalso della facoltà di non rispondere alle domande del pubblico ministero .
Le conclusioni da trarre dal naufragio della Kater i Rades devono essere chiare, come esige il rispetto dovuto alla memoria delle vittime, uomini, donne e bambini che cercavano un luogo dove vivere una vita decente e hanno invece trovato la morte sul fondo del mare. È una vergogna per l’Italia che il dirottamento in mare sia stato concepito come uno strumento adatto a far fronte a un dramma umano collettivo, come era l’emigrazione di massa dall’Albania; ed è una vergogna per l’Italia aver adottato a tal fine la pratica delle manovre cinematiche d’interposizione. Le battaglie navali vanno combattute contro nemici ben diversi da coloro che si trovavano a bordo della Kater i Rades.
3. Il respingimento diretto verso la Libia (Hirsi Jamaa e altri c. Italia)
Se le manovre cinematiche d’interposizione non sono attuabili, i migranti irregolari possono essere respinti in un altro modo? Si può, invece di usare la forza, approfittare delle norme sull’obbligo di soccorso di chi è in pericolo in mare per respingere forzatamente coloro che sono stati soccorsi? Un simile tentativo è stato fatto dall’Italia nel 2009 con una serie di respingimenti di migranti irregolari verso la Libia, il paese di transito dal quale essi si erano imbarcati per attraversare il Mediterraneo. È utile considerare qual era il quadro delle norme di diritto internazionale applicabili al riguardo.
L’obbligo di soccorrere chi è in pericolo, che discende da antiche consuetudini marinare, è oggi previsto dall’art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Montego Bay, 1982) e vincola tutte le navi, siano esse pubbliche o private, che siano in grado di farlo senza incorrere esse stesse in grave pericolo. Specifiche norme in proposito si trovano nella Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare (Londra, 1979; emendata nel 1998 e 2004 ), che pone a carico delle parti l’obbligo di fornire assistenza alle persone in pericolo in mare . Gli obblighi delle parti non si limitano a salvare le persone in pericolo, ma comprendono anche la consegna di tali persone in un “luogo sicuro” (place of safety), come conferma la definizione di “soccorso”:
“‘Rescue’. An operation to retrieve persons in distress, provide for their initial medical or other needs, and deliver them to a place of safety” (allegato, cap. 1.3.2).
È un dato di fatto che, una volta soccorse da una nave, le persone tratte in salvo, compresi i migranti irregolari, non si smaterializzano, ma devono essere sbarcate da qualche parte. Purtroppo, la Conv. SAR, nonostante i suoi emendamenti e nonostante le indicazioni (non vincolanti) date dalle Linee-guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, adottate nel 2004 dal Comitato sulla sicurezza marittima dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), non fornisce indicazioni precise su come determinare il luogo sicuro. Si tratta di una grave carenza della Conv. SAR, che dimostra la riluttanza degli Stati ad assumere chiari impegni quando il tema dell’immigrazione irregolare entra in gioco. Tale carenza ha portato a ben note situazioni di protratto divieto di sbarco, come dimostrano i casi della nave norvegese Tampa, che riguardava l’Australia , della nave tedesca Cap Anamour, che riguardava Italia e Malta , o di altre navi che di recente sono restate in attesa di entrare in porti italiani. Resta però il fatto che gli individui che si trovino in situazione di pericolo in mare hanno diritto di essere soccorsi e di essere trasportati in un luogo sicuro, per quanto difficile possa essere, in certi casi, la determinazione dello stesso. È soltanto in tale luogo che si potrà stabilire con precisione chi sono e che cosa intendevano fare gli individui soccorsi (siano essi emigranti irregolari oppure marinai professionisti, terroristi oppure diportisti). Circa il diritto di migrare, l’art. 13, par. 2, della Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, stabilisce che ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, compreso il proprio . Lo stesso diritto è previsto nell’art. 12, par. 2, del Patto internazionale sui diritti civili e politici (New York, 1966) . Il diritto umano di emigrare è però un diritto asimmetrico, nel senso che esso non si accompagna a un corrispondente diritto umano di immigrare. Secondo il diritto internazionale consuetudinario e a meno che disposizioni di trattati prevedano diversamente, ogni Stato ha il diritto sovrano di consentire o di vietare agli stranieri di entrare nel proprio territorio. All’ovvia domanda “se non è ammesso in alcuno Stato, dove avrà diritto di stabilirsi il migrante?” si possono dare risposte in concreto poco soddisfacenti, come “in alto mare”, “nel settore antartico non rivendicato da alcuno Stato” o “sulla Luna o sugli altri corpi celesti”.
Vi sono però alcuni limiti al diritto di uno Stato di respingere coloro che volessero entrare nel suo territorio. Un primo limite deriva dal diritto umano a non essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni disumani o degradanti. Questo diritto è previsto, per richiamare trattati di cui l’Italia è parte, dall’art. 3 della Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali (Roma, 1950; detta Convenzione europea dei diritti umani ), dall’art. 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (New York, 1966) e dalla Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti (New York, 1984) .
L’individuo è protetto dalla tortura anche in modo indiretto, in quanto il diritto internazionale vieta allo Stato di estradare, espellere o comunque respingere una persona verso un altro Stato dove sussista un fondato rischio che essa sia sottoposta a tortura. Questa norma è chiaramente espressa nell’art. 3 della Convenzione contro la tortura ed è stata affermata in molte decisioni di corti internazionali competenti in tema di diritti umani . Ne consegue che i migranti irregolari, come tutti gli altri esseri umani, non possono essere respinti verso uno Stato dove corrano il fondato rischio di essere torturati, anche se questo Stato è quello di cui essi sono cittadini o dove hanno la residenza o da dove sono partiti nel loro viaggio.
Un secondo limite è collegato alla condizione di rifugiato, regolata dalla Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati (Ginevra, 1951) , di cui l’Italia è parte, e dalle norme rilevanti dei diritti interni . Essere un rifugiato è un dato di fatto, che non dipende da un riconoscimento da parte di un’autorità e che, in base all’art. 1, par. A.2, Conv. Rif., caratterizza un individuo che, trovandosi al di fuori del paese di cui è cittadino, abbia il fondato timore di essere perseguitato per ragioni di razza, religione, nazionalità appartenenza a un particolare gruppo sociale od opinione politica. Come è facile notare, la definizione non include le persone che intendono fuggire da conflitti, internazionali o interni, da disastri naturali o dalla povertà, che sono invece la maggior parte degli attuali migranti irregolari. La Conv. Rif. non attribuisce al rifugiato il diritto di ricevere asilo sul territorio di uno Stato parte. Al rifugiato è soltanto dato il diritto di non essere respinto verso uno Stato, compreso il proprio, dove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate per una serie di specifiche ragioni (diritto di non-refoulement, secondo l’espressione francese comunamente usata) . Tuttavia, benché la Conv. Rif. non sia chiara in proposito, si può considerare implicito che un rifugiato che si presenta a un agente di uno Stato parte abbia il diritto di sottoporre una domanda d’asilo e di vederla esaminata in modo efficiente ed equo . Questo diritto spetta anche ai rifugiati che si trovano in alto mare. Ne consegue il fondato timore che le misure di respingimento poste in essere in mare, non distinguendo tra rifugiati e migranti irregolari, abbiano di fatto il risultato di impedire a un rifugiato di presentare una domanda d’asilo .
L’illegalità delle misure di respingimento italiane del 2009 è stata posta in evidenza dalla sentenza del 23 febbraio 2012 della Corte Europea dei Diritti Umani (Grande Camera) sul caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia. Il ricorso era proposto da undici somali e tredici eritrei che facevano parte di un gruppo di circa duecento migranti soccorsi in mare da navi di Stato italiane, presi a bordo e trasportati forzatamente verso la Libia. I ricorrenti sostenevano che erano state violate alcune disposizioni della Conv. Eur. Dir. Um., tra le quali l’art. 3 (tortura) e l’art. 4 (divieto di espulsioni collettive di stranieri) del Protocollo n. 4.
La Corte muove dalla premessa che la Conv. Eur. Dir. Um. si applica anche in alto mare, che non può essere considerato uno spazio al di fuori della legge: “(…) as regards the exercise by a State of its jurisdiction on the high seas, the Court has already stated that the special nature of the maritime environment cannot justify an area outside the law where individuals are covered by no legal system capable of affording them enjoyment of the rights and guarantees protected by the Convention which the States have undertaken to secure to everyone within their jurisdiction” . Conseguentemente, la Corte precisa che le operazioni d’intercettazione devono essere svolte in conformità con gli obblighi derivanti dalla Conv. Eur. Dir. Um.:
“Having regard to the foregoing, the Court considers that the removal of aliens carried out in the context of interceptions on the high seas by the authorities of a State in the exercise of their sovereign authority, the effect of which is to prevent migrants from reaching the borders of the State or even to push them back to another State, constitutes an exercise of jurisdiction within the meaning of Article 1 of the Convention which engages the responsibility of the State in question under Article 4 of Protocol No. 4” .
La Corte segnala che gli obblighi derivanti dalla Conv. Eur. Dir. Um. non possono essere violati per dare esecuzione a trattati bilaterali che l’Italia aveva o avrebbe concluso con la Libia in tema di lotta all’immigrazione clandestina : “Italy cannot evade its own responsibility by relying on its obligations arising out of bilateral agreements with Libya. Even if it were to be assumed that those agreements made express provision for the return to Libya of migrants intercepted on the high seas, the Contracting States’ responsibility continues even after their having entered into treaty commitments subsequent to the entry into force of the Convention or its Protocols in respect of these States” .
Sul merito, la Corte conclude all’unanimità che l’Italia era responsabile di una violazione dell’art. 3 della Conv. Eur. Dir. Um., in quanto, respingendo i migranti, li aveva esposti al rischio di essere sottoposti a tortura o a trattamenti disumani o degradanti in Libia o nei loro paesi d’origine:
“During the period in question no rule governing the protection of refugees was complied with by Libya. Any person entering the country by illegal means was deemed to be clandestine and no distinction was made between irregular migrants and asylum seekers. Consequently, those persons were systematically arrested and detained in conditions that outside visitors, such as delegations from the UNHCR, Human Rights Watch and Amnesty International, could only describe as inhuman. Many cases of torture, poor hygiene conditions and lack of appropriate medical care were denounced by all the observers. Clandestine migrants were at risk of being returned to their countries of origin at any time and, if they managed to regain their freedom, were subjected to particularly precarious living conditions as a result of their irregular situation. Irregular immigrants, such as the applicants, were destined to occupy a marginal and isolated position in Libyan society, rendering them extremely vulnerable to xenophobic and racist acts” .
“(…) according to the UNHCR and Human Rights Watch, individuals forcibly repatriated to Eritrea face being tortured and detained in inhuman conditions merely for having left the country irregularly. As regards Somalia, in the recent case of Sufi and Elmi (…) the Court noted the serious levels of violence in Mogadishu and the increased risk to persons returned to that country of being forced either to transit through areas affected by the armed conflict or to seek refuge in camps for displaced persons or refugees, where living conditions were appalling” . La situazione di violazione dei diritti umani esistente in Libia era ben nota alle autorità italiane e poteva comunque essere da queste facilmente verificata sulla base di multiple fonti .
Secondo la Corte, indipendentemente dal fatto che un’intenzione di chiedere asilo fosse stata manifestata dai ricorrenti (una circostanza che era in contestazione tra le parti), l’Italia aveva l’obbligo di non respingere i migranti verso la Libia:
“In any event, the Court considers that it was for the national authorities, faced with a situation in which human rights were being systematically violated, as described above, to find out about the treatment to which the applicants would be exposed after their return (…) Having regard to the circumstances of the case, the fact that the parties concerned had failed to expressly request asylum did not exempt Italy from fulfilling its obligations under Article 3” .
La Corte accerta anche che l’Italia era responsabile di una violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4 alla Conv. Eur. Dir. Um., che vieta le espulsioni collettive di stranieri. In particolare, la Corte respinge l’argomento formalistico avanzato dall’Italia, secondo il quale un’espulsione può avere luogo soltanto se gli stranieri sono già sul territorio nazionale. Dopo avere notato che l’art. 4 non usa la parola “territorio” , la Corte interpreta la Conv. Eur. Dir. Um. e il Protocollo in un modo che “renda le garanzie pratiche ed effettive e non teoriche e illusorie” , mostrando la dovuta attenzione per la situazione dei migranti che rischiano la loro vita in mare:
“The Court has already found that, according to the established case law of the Commission and of the Court, the purpose of Article 4 of Protocol No. 4 is to prevent States being able to remove certain aliens without examining their personal circumstances and, consequently, without enabling them to put forward their arguments against the measure taken by the relevant authority. If, therefore, Article 4 of Protocol No. 4 were to apply only to collective expulsions from the national territory of the States Parties to the Convention, a significant component of contemporary migratory patterns would not fall within the ambit of that provision, notwithstanding the fact that the conduct it is intended to prohibit can occur outside national territory and in particular, as in the instant case, on the high seas. Article 4 would thus be ineffective in practice with regard to such situations, which, however, are on the increase. The consequence of that would be that migrants having taken to the sea, often risking their lives, and not having managed to reach the borders of a State, would not be entitled to an examination of their personal circumstances before being expelled, unlike those travelling by land” . Infine la Corte conclude che vi era stata una violazione dell’art. 13 (diritto a un rimedio effettivo) della Conv. Eur. Dir. Um., in quanto i ricorrenti erano stati privati di ogni possibilità di presentare un ricorso effettivo a un’autorità competente, prima che la misura del respingimento fosse eseguita .
4. La complicità nel respingimento verso la Libia (la regione SAR libica)
Se non sono attuabili né le manovre cinematiche d’interposizione, né i respingimenti diretti verso la Libia, i migranti irregolari possono essere respinti in modo indiretto? Si può far in modo che un altro Stato faccia quello che l’Italia non può fare personalmente, vale a dire respingere forzatamente verso la Libia coloro che sono stati soccorsi?
La già ricordata Conv. SAR prevede che gli Stati parte si dotino di un servizio di ricerca e soccorso in mare che abbia alcuni requisiti fondamentali e che essi istituiscano, individualmente o in cooperazione con altri Stati, delle regioni di ricerca e soccorso (regioni SAR), al fine di assicurare l’appropriato coordinamento operativo per svolgere effettivamente tale servizio . La regione SAR è intesa come “un’area di dimensioni definite associata a un centro di coordinamento del soccorso entro la quale sono forniti servizi di ricerca e di soccorso” (cap. 1.3.4 dell’allegato alla Conv. SAR) . Tale centro ha la responsabilità di promuovere l’efficiente organizzazione dei servizi di ricerca e soccorso e di coordinare le operazioni di ricerca e soccorso in una determinata regione SAR (cap. 1.3.5 All. Conv. SAR). Lo Stato che ha istituito la regione SAR non ha il monopolio delle attività di ricerca e di soccorso, ma è soltanto chiamato a gestire, tramite il proprio centro di coordinamento del soccorso, le comunicazioni con le persone in pericolo, con i mezzi di ricerca e soccorso e con altri centri di coordinamento (cap. 2.3.2 All. Conv. SAR). Nulla esclude che, se questo renda più efficaci le operazioni, debbano venire impiegati nelle attività di ricerca e di soccorso nella regione SAR di un determinato Stato i mezzi di altri Stati o navi private che si trovino nelle vicinanze delle persone in pericolo.
È evidente che, se anche fosse istituita una regione SAR della Libia e fosse stabilito un centro di libico di coordinamento del soccorso, le persone soccorse non potrebbero essere sbarcate in Libia, perché tale Stato, come già messo in evidenza , non costituisce il “luogo sicuro” dove il soccorso deve avere termine. Per quanto indeterminabile a priori sia tale luogo sicuro, vi è certezza che esso non può essere collocato in Libia, almeno fino a quando la presente situazione di conflitto interno e di gravi violazioni dei diritti umani persista in quel paese.
Risulta invece che il 10 luglio 2017 proprio la Libia ha comunicato all’IMO di aver istituito una propria regione SAR, di estensione assai ampia, delegando a Malta le attività che ivi si sarebbero esercitate, “data la presente mancanza di risorse e di attrezzature” . Tuttavia, il 6 dicembre 2017 questa dichiarazione era dalla Libia formalmente ritirata. Pochi giorni dopo, il 14 dicembre 2017, la Libia depositava una terza dichiarazione, con la quale veniva di nuovo dato conto dell’istituzione di una regione SAR libica, senza più alcuna delega a Malta, e venivano ampliate le coordinate geografiche di tale regione rispetto a quanto risultava dalla prima dichiarazione. Tuttavia, soltanto in un momento successivo, collocabile tra fine giugno e inizio luglio 2018, l’IMO rendeva disponibili gli indispensabili dati (indirizzo, numero di telefono, numero di facsimile e indirizzo di posta elettronica) del centro di coordinamento libico.
Ci si può chiedere perché le autorità di uno Stato che sono in grado di esercitare il loro potere soltanto in una parte ridotta del territorio nazionale, in quanto il paese è devastato da un conflitto interno, si preoccupino di istituire un apparentemente efficiente sistema di ricerca e soccorso in mare che, in concreto, dovrebbe tutelare i migranti irregolari stranieri che transitano nel paese stesso per raggiungere altri paesi, come l’Italia. Una risposta plausibile è che il tutto avvenga perché tali autorità ricevono a tal fine finanziamenti da qualcun altro e, in particolare, da chi, vale a dire l’Italia, ha concluso con la Libia il 2 febbraio 2017 un Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere . Il memorandum prevede che l’Italia s’impegni a finanziare un’ampia serie d’iniziative (sostegno alle istituzioni di sicurezza e militari al fine di arginare i flussi di migranti illegali; fornitura di supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina, in particolare la Guardia di frontiera e la Guardia costiera; completamento del sistema di controllo dei confini terrestri del Sud della Libia; adeguamento e finanziamento dei centri di accoglienza temporanei di migranti in Libia; sostegno alle organizzazioni internazionali presenti in Libia per sforzi miranti al rientro dei migranti nei paesi d’origine; avvio di programmi di sviluppo nelle regioni libiche colpite dal fenomeno dell’immigrazione illegale; altre iniziative proposte da un comitato misto istituito dal memorandum), tramite fondi nazionali e fondi disponibili dall’Unione europea . In esecuzione del memorandum stesso, è stato emanato il decreto-legge 10 luglio 2018, n. 84, convertito nella legge 9 agosto 2018, n. 98 , con il quale si dispone, tra l’altro, la cessione gratuita alla Libia di fino a un massimo di dodici unità navali già in dotazione a corpi militari italiani (Corpo delle Capitanerie di Porto e Guardia di Finanza) e si autorizzano le spese per il ripristino dell’efficienza delle stesse, al fine di incrementare la capacità operativa della Guardia costiera libica nelle attività di controllo e sicurezza rivolte al contrasto e al traffico di esseri umani, nonché nelle attività di soccorso in mare.
È chiaro che simili finanziamenti da parte dell’Italia e, indirettamente, dell’Unione europea sarebbero una lodevole iniziativa, se avessero l’obiettivo di prestare soccorso a coloro che si trovano in pericolo in mare, al fine di poterli poi sbarcare in un luogo sicuro. Sarebbero, invece, la ripetizione di un grave illecito internazionale se avessero il fine di facilitare il respingimento verso la Libia dei migranti irregolari, con le conseguenti gravi violazioni dei diritti umani che ne conseguono , contrabbandando la falsa supposizione che, nella neo-istituita regione SAR libica, il soccorso-respingimento possa essere svolto soltanto dalle unità libiche e precludendo di fatto attività di ricerca e soccorso da parte di navi che non fossero disponibili a riportare i migranti sul territorio libico. Come prevede un principio generale di diritto, che è ripreso anche nel diritto internazionale generale e che dovrebbe essere conosciuto anche dall’Italia e dall’Unione europea, chi consapevolmente assiste un altro soggetto nel compimento di un illecito risponde dello stesso illecito compiuto (rapporto di complicità in un illecito).
Quale sia in concreto il destino dei migranti irregolari che si trovano in Libia era già chiaro a seguito della richiamata sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia ed è stato ulteriormente confermato da molti documenti, come un rapporto pubblicato il 20 dicembre 2018 da due agenzie delle Nazioni Unite. Si tratta di una serie di “orrori inimmaginabili”:
“Migrants and refugees suffer unimaginable horrors during their transit through and stay in Libya. From the moment they step onto Libyan soil, they become vulnerable to unlawful killings, torture and other ill-treatment, arbitrary detention and unlawful deprivation of liberty, rape and other forms of sexual and gender-based violence, slavery and forced labour, extortion and exploitation by both State and non-State actors” . Un simile situazione, caratterizzata dagli abusi commessi indistintamente da bande di criminali, gruppi armati o agenti di Stato, è facilitata dalla certezza dell’impunità derivante da anni di conflitto interno e vede i migranti irregolari privi di qualsiasi difesa:
“Years of armed conflict and political divisions have weakened Libyan institutions, including the judiciary, which have been unable, if not unwilling, to address the plethora of abuses and violations committed against migrants and refugees by smugglers, traffickers, members of armed groups and State officials, with near total impunity. (…) This climate of lawlessness provides fertile ground for thriving illicit activities, such as trafficking in human beings and criminal smuggling, and leaves migrant and refugee men, women and children at the mercy of countless predators who view them as commodities to be exploited and extorted for maximum financial gain. Abuses against SubSaharan migrants and refugees, in particular, are compounded by the failure of the Libyan authorities to address racism, racial discrimination and xenophobia” .
Considerato anche che il diritto della Libia non prevede l’asilo e criminalizza l’entrata irregolare nel territorio nazionale, i migranti sono di fatto detenuti indefinitamente senza processo in centri di raccolta, dove essi subiscono condizioni di detenzione disumane per sovraffollamento, malnutrizione e condizioni igieniche e sanitarie, oltre ad essere vittime di facili ricatti (tipiche sono le torture, anche mortali, per estorcere denaro ai familiari dei reclusi):
“They are systematically held captive in abusive conditions, including starvation, severe beatings, burning with hot metals, electrocution, and sexual abuses of women and girls, with the aim of extorting money from their families through a complex system of money transfers, extending to a number of countries. They are frequently sold from one criminal gang to another and required to pay ransoms multiple times before being set free or taken to coastal areas to await the Mediterranean Sea crossing. The overwhelming majority of women and older teenage girls interviewed by UNSMIL [= United Nations Support Mission in Libya] reported being gang raped by smugglers or traffickers or witnessing others being taken out of collective accommodations to be abused. Younger women travelling without male relatives are also particularly vulnerable to being forced into prostitution. Countless migrants and refugees lost their lives during captivity by smugglers or traffickers after being shot, tortured to death, or simply left to die from starvation or medical neglect. Across Libya, unidentified bodies of migrants and refugees bearing gunshot wounds, torture marks and burns are frequently uncovered in rubbish bins, dry river beds, farms and the desert” . Alcune autorità ufficiali della Libia sono complici nelle violenze e negli abusi; altre usano indiscriminatamente la forza letale contro i migranti irregolari:
“UNSMIL continues to receive credible information on the complicity of some State actors, including local officials, members of armed groups formally integrated into State institutions, and representatives of the Ministry of Interior and Ministry of Defence, in the smuggling or trafficking of migrants and refugees. These State actors enrich themselves through exploitation of and extortion from vulnerable migrants and refugees. (…)
Security forces in Libya, including armed groups integrated into the Ministry of Interior, have used excessive or unwarranted lethal force against migrants and refugees in the course of law enforcement operations, leading to loss of life and injury” .
In un simile contesto, non sorprende che il Tribunale di Trapani, con un’esemplare sentenza del 23 maggio 2019, abbia assolto, “perché il fatto non costituisce reato, essendo scriminati dalla legittima difesa”, due migranti irregolari accusati di aver minacciato l’equipaggio e il comandante di una nave privata che li aveva soccorsi e che, seguendo l’ordine ricevuto dalle autorità marittime italiane e libiche, li stava riconducendo in Libia:
“Se si riflette un momento sul fatto che i 67 migranti imbarcati dalla Vos Thalassa avevano subito, prima della partenza dal territorio libico, le disumane condizioni sopra rappresentate, appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse per loro una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti dell’uomo”. Sorprende, invece, - e molto – il fatto che l’Italia abbia concluso con la Libia un trattato che ha l’evidente, anche se non dichiarato, fine di fornire agli agenti libici i mezzi per riportare indietro i migranti irregolari soccorsi .
5. Considerazioni conclusive
Nelle pagine precedenti si è cercato di mettere in luce quanto di peggio sia reperibile nell’alterna politica italiana riguardo all’immigrazione irregolare via mare : l’affondamento colposo di una nave sovraccarica di migranti; il respingimento volontario dei migranti verso un paese dove essi sono torturati; l’assistenza volontaria a un altro Stato perché esso riporti i migranti verso un paese dove essi sono torturati. Non c’è dubbio che vi siano stati – ed è doveroso segnalarli – anche altri tipi di comportamenti, che possono invece essere portati a merito dell’Italia. Nell’ottobre 2013, dopo che 366 migranti erano annegati nei pressi dell’isola di Lampedusa, l’Italia ha messo in atto l’operazione Mare Nostrum, che ha visto coinvolte varie unità della Marina e di altre Forze italiane per prestare soccorso ai molti migranti irregolari che rischiavano la vita in mare e per portarli in salvo in Italia. È però noto che, nell’ottobre 2014, Mare Nostrum è venuta a cessare e non è stata sostituita da un’altra operazione altrettanto efficace sotto il profilo umanitario.
Vi sono alcuni punti fermi che non dovrebbero venire trascurati. Alla luce del diritto internazionale, i migranti irregolari hanno il diritto di essere trattati umanamente e non come criminali. Se si trovano in pericolo in mare, essi hanno il diritto di essere soccorsi e trasportati in un luogo sicuro. Se sono anche rifugiati, essi hanno il diritto di non essere respinti verso un luogo dove possano subire persecuzioni e di essere messi in condizione di presentare una domanda d’asilo. Come tutti gli esseri umani, anche i migranti clandestini hanno diritto di non essere respinti verso uno Stato dove corrono il rischio di essere torturati. Questi diritti sussistono nonostante il fatto che il quadro giuridico internazionale sia tutt’altro che adeguato, soprattutto per quanto riguarda la determinazione del luogo sicuro dove i migranti irregolari soccorsi devono essere sbarcati.
Resta il fatto che le questioni giuridiche sono una parte soltanto di un problema molto più complesso. Sul piano morale, è inaccettabile che uno Stato forte e ricco, come l’Italia, concentri le proprie forze e ricchezze contro gli esseri umani più deboli e che un’entità ancora più forte e ricca, come l’Unione europea, della quale anche l’Italia fa parte, non sia in grado di elaborare una linea politica decente in materia di migranti e rifugiati. Gli attuali flussi di migranti irregolari costituiscono un dramma umano collettivo che è illusorio pensare di fronteggiare con persistenti misure di chiusura da parte degli Stati sviluppati. Come è stato posto in evidenza dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati,
“la verità è che non possiamo scoraggiare delle persone che sono in fuga per salvarsi la vita. Arriveranno. Possiamo però scegliere se gestire bene il loro arrivo, e con quanta umanità. (…)
Se le nazioni occidentali continueranno a rispondere chiudendo le porte, continueremo a condurre migliaia di persone disperate nelle mani di reti criminali, rendendoci tutti meno sicuri” .
ABSTRACT: The paper describes the worst aspects of the Italian policy as regards non-autorized migrations at sea. In 1997 a ship of the Italian Navy engaged herself in an attempt to divert an Albanian ship overcrowded with irregular migrants and was responsible for a collision with the latter. Not less than 58 migrants died. In 2009 Italy started a policy of trasnporting back to Libya irregular migrants rescued at sea. The European Court of Human Rights found (judgment of 2012 in the case Hirsi Jamaa and others v. Italy) that Italy was responsible for a violation, inter alia, of Art. 3 (prohibition of torture) of the European Convention on human rights, as many cases of torture of irregular migrants were reported in Libya. In 2018 Italy and the European Union financed the establishment by Libya of a Search and Rescue (SAR) region in the desire to have the irregular migrants pushed back by Libya itself (as if those who assist in the commission of an internationally wrongful act were not also responsible for it). A much better behaviour is expected by rich and powerful entities, such as Italy and the European Union, that should not devote their strength against the weakest. In the last years too many people have put at risk their lives in attempts to cross a border. They are driven by the desire to enter into a country where they will be safe from persecution, poverty, conflicts, natural disasters or other calamities and where they will have the chance to spend a decent life. The hope to migrate is the reason why the waters of some seas, such as the Mediterranean, have become the graveyard of thousands of human beings, including children, who are moving from a number of African or Asian countries to reach the European Union. This is a great human tragedy that unfortunately is not yet completely understood by the countries of destination, where an adequate immigration and asylum policy is still lacking.
Diritto dell’Unione europea e tradizioni costituzionali nel dialogo tra le Corti
di Franco De Stefano- parte prima*
Sommario: 1. Premessa metodologica. - 2. Le tradizioni costituzionali, comuni e nazionali, degli Stati membri dell’U.E. - 3. Il primato del diritto eurounitario negli ultimi interventi della Corte di Giustizia - 4. Il conflitto tra norma eurounitaria e principio fondamentale nazionale: le tradizioni costituzionali come momento di pluralismo dialettico. - 5. Il caso Taricco-bis: la richiesta italiana. - 6. Il caso Taricco-bis: la risposta di Lussemburgo e l’epilogo. - 7. Le tradizioni costituzionali del singolo Stato membro ed il diritto dell’Unione.
1 Premessa metodologica.
Per uno sguardo d’insieme, necessariamente sommario, dal punto di vista del giudice comune, quand’anche di legittimità, pare necessario soffermarcisi su due tematiche: il conflitto tra norma europea e principio fondamentale interno e la c.d. doppia pregiudizialità (eurounitaria e costituzionale interna).
Per gli intrinseci limiti del presente intervento, dovrà qui bastare una mera impostazione del problema che quelle tematiche pongono e ad entrambe va premessa una duplice considerazioni.
Non è questa la sede per la compiuta disamina della ricca problematica della reciproca interazione tra le Carte (la Costituzione nazionale, la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione[1]).
Basti qui osservare – ma occorre averlo per postulato – che il rinvio della Carta (di cui al terzo comma dell’art. 53) al significato ed alla portata dei diritti fondamentali corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – impregiudicata una protezione ancora più estesa – comporta l’immediata applicazione dei principi sul punto elaborati dall’unica interprete di quella Convenzione e cioè della Corte europea dei diritti dell’Uomo.
Il campo di applicazione, anche con riferimento al campo di concreta o pratica applicazione dell’istituto delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, è stato finora soprattutto quello del giusto processo e, v’è da dire, principalmente di quello penale.
Ma nella giurisprudenza di Strasburgo è evidente ormai la crescente attenzione anche ai diritti civili e non solo tra privati e Stato, ma pure direttamente tra privati[2], come pure al giusto processo civile[3]: e la Corte di cassazione si sta di recente focalizzando anche sul giusto processo civile di legittimità.
Insomma, i diritti fondamentali, nella loro declinazione più ampia e idonea ad interferire positivamente con la vita quotidiana di ogni cittadino dell’Unione, conquistano di giorno in giorno, in un sistema multilivello nel quale è importante che i singoli agenti cooperino per ampliare o garantire quella protezione anziché litigare col risultato di indebolirla o vanificarla, uno spazio sempre più importante: e si auspica che tanto possa contribuire a rinsaldare nella coscienza di ogni cittadino dell’Unione la sensibilità verso un’Istituzione che non si preoccupa più soltanto di aspetti burocratici e tecnici, ma della diretta gestione degli effettivi diritti fondamentali di ciascuno.
È un’occasione importante, soprattutto nell’attuale contesto: ed è doveroso coglierla.
2 Le tradizioni costituzionali, comuni e nazionali, degli Stati membri.
Le «tradizioni costituzionali» - non menzionate, se non presupposte nel preambolo[4], nella Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, firmata a Roma il 04/11/1950 - degli Stati membri vengono in considerazione come sostrato materiale del diritto fondamentale dell’Unione europea da un duplice punto di vista:
- quando sono condivise dagli Stati membri, esse assurgono a fonte del contenuto di quelli che sono qualificati principi generali del diritto dell’Unione, cioè i diritti fondamentali garantiti da questo e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali;
- quando sono peculiari e proprie di uno Stato membro, esse sono erette a limite individualizzante per l’elaborazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell’Unione, poiché questo non può prescinderne, ma è chiamato a riconoscerle per quanto possibile.
Quanto al primo profilo, la nozione di «tradizioni costituzionali» assume l’attributo di «comuni» ed è generalmente ricondotta ad una clausola generale, di creazione pretoria – come si vedrà – ma infine oggetto di codificazione. Al riguardo, le fonti normative sono, ad oggi, almeno:
a) l’art. 6 del TUE, a norma del terzo comma del quale:
«I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali»;
b) l’art. 52, co. 4, della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e dopo una espressa menzione nel suo preambolo, a mente del quarto comma del quale: «Laddove la presente Carta riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni».
Quanto al secondo profilo, ai fini che qui interessano meritano menzione altri testi normativi di rango eguale ai precedenti:
a) l’art. 4 del TUE, per il secondo comma del quale «l’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali»;
b) l’art. 67 del TFUE (ex articolo 61 del TCE ed ex articolo 29 del TUE), il cui primo comma recita «L’Unione realizza uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri»;
c) lo stesso art. 52 della CDFUE (dopo l’esordio nel suo Preambolo), ove proclama (al co. 6) che «si tiene pienamente conto delle legislazioni e prassi nazionali, come specificato nella presente Carta».
È evidente come le due accezioni siano in reciproca tensione dialettica. Pur potendosi riferire a quella che, in prima approssimazione, può definirsi la «costituzione materiale» degli Stati membri (secondo quanto si evince dallo stesso art. 4, co. 2, TUE, che si riferisce alla loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali), esse rilevano diversamente a seconda che siano comuni o peculiari e proprie di un singolo Stato: nel primo caso rappresentano un elemento di convergenza idoneo a contribuire a fondare il diritto eurounitario e quindi lo stesso sistema ordinamentale sovranazionale; nel secondo fungono invece da elemento di preservazione, anche contro tale sistema, delle peculiarità dei singoli Stati membri e quindi in funzione antitetica alla tendenziale pervasiva supremazia del primo.
3 Il primato del diritto eurounitario negli ultimi interventi della Corte di Giustizia.
Si tratta di principi fondamentali del diritto eurounitario, consolidati fin dalla storica sentenza Simmenthal[5], ai quali deve bastare qui un richiamo, solo segnalandosi come anche di recente la Corte di giustizia sia intervenuta a puntualizzarli e ribadirli.
In una recente importante pronuncia[6], in particolare, premesso l’insopprimibile diritto dei singoli ad ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto dell’Unione imputabile a uno Stato membro[7], si è ricordato che, al fine di garantire l’effettività dell’insieme delle disposizioni del diritto dell’Unione, il principio del primato impone, in particolare, ai giudici nazionali di interpretare, per quanto possibile, il loro diritto interno in modo conforme al diritto dell’Unione; sicché quelli, ove non possano procedere a un’interpretazione della normativa nazionale conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione, hanno comunque l’obbligo di garantire la piena efficacia delle disposizioni di quest’ultimo, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, ogni disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale[8].
Pure rimarcando, quale connotato essenziale del diritto dell’Unione, che solo ad una sua parte può riconoscersi un effetto diretto, sicché non vige un regime unico di applicazione di tutte le disposizioni del diritto dell’Unione da parte dei giudici nazionali, la Corte ha sottolineato che l’obbligo di disapplicazione di tutte le disposizioni nazionali opera per quelle contrarie a una disposizione del diritto dell’Unione che abbia effetto diretto nella controversia di cui è investito; al contrario, una disposizione del diritto dell’Unione che sia priva di effetto diretto non può essere fatta valere, in quanto tale, nell’ambito di una controversia rientrante nel diritto dell’Unione, al fine di escludere l’applicazione di una disposizione di diritto nazionale ad essa contraria ed il giudice nazionale non è quindi tenuto, sulla sola base del diritto dell’Unione, a disapplicare una disposizione del diritto nazionale incompatibile con una disposizione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che sia priva di effetto diretto.
Pertanto, le disposizioni prive di effetto diretto, quali quelle di una direttiva - che di norma non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti dinanzi a un giudice nazionale[9] - la quale non sia sufficientemente chiara, precisa e incondizionata, non legittimano di per sé sole la disapplicazione di una disposizione nazionale ad opera di un giudice di uno Stato membro.
Tuttavia le disposizioni prive di effetto diretto, pur prive, come le decisioni quadro, di carattere vincolante se non per lo Stato membro, implicano in capo alle autorità nazionali un obbligo di interpretazione conforme del loro diritto interno a partire dalla data di scadenza del termine di recepimento, alla luce della lettera e dello scopo di quelle.
L’intero contesto è però caratterizzato da alcuni limiti: i principi generali del diritto, in particolare i principi di certezza del diritto e di irretroattività, ostano segnatamente a che detto obbligo possa condurre a determinare o ad aggravare, sul fondamento di una decisione quadro e indipendentemente da una legge adottata per l’attuazione di quest’ultima, la responsabilità penale di coloro che hanno commesso un reato; il principio di interpretazione conforme non può porsi a fondamento di un’interpretazione contra legem del diritto nazionale; in altri termini, l’obbligo di interpretazione conforme cessa quando il diritto nazionale non può ricevere un’applicazione tale da sfociare in un risultato compatibile con quello perseguito dalla normativa priva di effetto diretto di cui trattasi.
Al contrario, il principio d’interpretazione conforme esige che venga preso in considerazione il diritto interno e che vengano applicati i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia della decisione quadro di cui trattasi e di pervenire a una soluzione conforme allo scopo perseguito da quest’ultima; sicché quell’obbligo di interpretazione conforme impone ai giudici nazionali di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto interno incompatibile con gli scopi di una normativa eurounitaria priva di effetto diretto, e di disapplicare, di propria iniziativa, qualsiasi interpretazione accolta da un organo giurisdizionale superiore alla quale essi siano vincolati, ai sensi di tale disposizione nazionale, se detta interpretazione non è compatibile con detta normativa eurounitaria di cui trattasi[10].
In estrema sintesi[11]:
- il principio del primato del diritto dell’Unione sancisce la preminenza del diritto dell’Unione sul diritto degli Stati membri ed impone a tutte le istituzioni degli Stati membri di dare pieno effetto alle norme dell’Unione;
- il principio di interpretazione conforme del diritto interno, secondo il quale il giudice nazionale è tenuto a dare al diritto interno, per quanto possibile, un’interpretazione conforme ai requisiti del diritto dell’Unione, è inerente al sistema dei Trattati, in quanto consente al giudice nazionale di assicurare, nell’ambito delle sue competenze, la piena efficacia del diritto dell’Unione quando risolve la controversia ad esso sottoposta;
- sempre in base al principio del primato, ove gli sia impossibile procedere a un’interpretazione della normativa nazionale conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione, il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto dell’Unione ha l’obbligo di garantire la piena efficacia delle medesime, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale;
- a tal riguardo, ogni giudice nazionale, chiamato a pronunciarsi nell’ambito delle proprie competenze, ha, in quanto organo di uno Stato membro, più precisamente l’obbligo di disapplicare qualsiasi disposizione nazionale contraria a una disposizione del diritto dell’Unione che abbia effetto diretto nella controversia di cui è investito;
- con riferimento all’articolo 47 della Carta, tale disposizione è sufficiente di per sé e non deve essere precisata mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale per conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale[12].
Ed ancora[13], in forza del principio del primato del diritto dell’Unioneil fatto che uno Stato membro invochi disposizioni di diritto nazionale, quand’anche di rango costituzionale, non può sminuire l’efficacia del diritto dell’Unione nel territorio di tale Stato[14].
Pertanto, il recepimento di una direttiva da parte degli Stati membri rientra ad ogni modo nella situazione, prevista dall’articolo 51 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in cui gli Stati membri attuano il diritto dell’Unione, in sede di recepimento deve essere raggiunto il livello di protezione dei diritti fondamentali previsto dalla Carta, indipendentemente dal margine di discrezionalità di cui gli Stati membri dispongono in occasione del recepimento.
Solamente qualora, in una situazione in cui l’operato degli Stati membri non è del tutto determinato dal diritto dell’Unione, una disposizione o un provvedimento nazionale attui tale diritto ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta, resta consentito alle autorità e ai giudici nazionali applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione.
Ed è allora conforme al diritto dell’Unione che i giudici e le autorità nazionali facciano dipendere tale applicazione dalla circostanza, evidenziata dal giudice del rinvio, che le disposizioni di una direttiva «lascino margini discrezionali per il loro recepimento nel diritto nazionale», a patto che detta circostanza sia intesa nel senso che essa riguarda il grado di armonizzazione operato da tali disposizioni, dato che una simile applicazione è ipotizzabile solo laddove le disposizioni in parola non operino un’armonizzazione completa.
In particolare[15], l’obbligo per gli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato previsto da quest’ultima, così come il loro dovere, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 3, TUE, di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, si impongono a tutte le autorità degli Stati membri, comprese, nell’ambito della loro competenza, quelle giurisdizionali.
Pertanto, nell’applicare il diritto interno, i giudici nazionali chiamati a interpretarlo sono tenuti a prendere in considerazione l’insieme delle norme di tale diritto e ad applicare i criteri ermeneutici riconosciuti dallo stesso al fine di interpretarlo, per quanto più possibile, alla luce della lettera e dello scopo della direttiva di cui trattasi, onde conseguire il risultato fissato da quest’ultima e conformarsi pertanto all’articolo 288, terzo comma, TFUE; e l’esigenza di un’interpretazione conforme include l’obbligo, per i giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva.
4 Il conflitto tra norma eurounitaria e principi fondamentali nazionali: le tradizioni costituzionali come momento di pluralismo dialettico.
Una delle due accezioni di tradizione costituzionale, rilevante per il diritto eurounitario, è quella della tradizione non più comune, ma peculiare alla costituzione di un singolo Paese.
Soprattutto negli ultimi anni si è visto che non solo Paesi di più recente adesione, ma anche due tra i Paesi fondatori della Comunità economica hanno rimesso in dubbio i confini tra il diritto eurounitario e quello nazionale, rivendicando orgogliosamente gli spazi di quest’ultimo.
Nel caso Gauweiler[16], l’Avvocato generale ha potuto richiamare l’istituto delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, per esaltarne il ruolo, così esprimendosi: … la Corte opera già da molto tempo con la categoria delle «tradizioni costituzionali comuni» degli Stati membri quando si tratta di trovare ispirazioni nella costruzione del sistema di valori sui quali è fondata l’Unione. In particolare, su tali tradizioni costituzionali comuni la Corte ha cercato, in via del tutto preferenziale, di fondare una propria cultura dei diritti, quella dei diritti dell’Unione. L’Unione ha acquisito in tal modo il carattere non solo di una comunità di diritto, ma anche di una «comunità di cultura costituzionale». Tale cultura costituzionale comune fa parte dell’identità comune dell’Unione, con l’importante conseguenza … che l’identità costituzionale di ciascuno Stato membro, certo dotata di caratteri specifici nella misura che occorra, non può - per dirla in termini prudenti - sentirsi a una distanza astronomica da detta cultura costituzionale comune. Al contrario, un bene inteso atteggiamento di apertura al diritto dell’Unione dovrebbe dare luogo, nel medio e lungo periodo, a una convergenza sostanziale, in linea di principio, tra l’identità costituzionale dell’Unione e quella di ciascuno degli Stati membri».
In linea di massima, un terreno di grande frizione tra l’ordinamento nazionale e quello eurounitario si è rivelato quello del principio del ne bis in idem in materia non soltanto penale, ma anche lato sensu sanzionatoria e soprattutto per il concorso di misure tradizionalmente penali ed altre, di pari carattere afflittivo, ma normalmente ammesse, quanto meno nel nostro ordinamento, in parallelo alle prime: sul punto non è possibile uno specifico ulteriore approfondimento, dovendo qui accontentarcisi di un rinvio generico alle numerose pronunce[17].
Il caso, però, in cui la tradizione nazionale di uno dei Paesi membri è stato prospettato come in inconciliabile conflitto col diritto eurounitario è senz’altro quello della nota vicenda Taricco (CGUE, Grande Camera, 08/09/2015 in causa C-105/14, Taricco) e relativo alla durata della prescrizione dei reati in danno delle risorse finanziarie dell’Unione, qualificata come eccessivamente contenuta da Lussemburgo e in tale accezione dichiarata però incompatibile con la tradizione costituzionale italiana, ma pure con quella comune ai Paesi di civil law dalla celeberrima Corte cost. n. 24 del 2017.
La «vicenda Taricco»[18] prende nome dalla sentenza della Corte di giustizia 8 settembre 2015, in c. Taricco, emanata in via pregiudiziale sulla interpretazione dell’art. 325, § 1-2, TFUE, relativamente alla prescrizione dei reati in materia di IVA. Il contenuto della sentenza europea ha indotto la Corte di cassazione e la Corte di appello di Milano a sollevare incidenti di costituzionalità.
La Corte costituzionale ha posto tre questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia, con ordinanza 23 novembre 2016-26 gennaio 2017, n.24. La Corte europea ha risposto con la sentenza 5 dicembre 2017, in causa M.A.S. e M.B. (indicata anche «Taricco 2» o «Taricco-bis»), a cui ha fatto seguito la sentenza della Corte cost. 10 aprile-31 maggio 2018, n. 115.
In estrema sintesi e dando atto della sterminata letteratura già maturata al riguardo, si può così ricostruire la vicenda (comunque riassunta già dalla richiamata ordinanza della nostra Consulta):
- nella propria sentenza del 2015 la CGUE, adita con rinvio pregiudiziale dal GUP di Cuneo, ha ritenuto che la normativa italiana in tema di prescrizione, impedendo, nei casi di frode grave in materia IVA, l’inflizione effettiva e dissuasiva di sanzioni agli autori del reato, a causa di un termine complessivo di prescrizione troppo breve, lede gli interessi finanziari dell’Unione tutelati dall’art. 325 TFUE, norma considerata dalla Corte di effetto diretto;
- pertanto, i giudici nazionali si sono trovati nella difficile situazione di dover scegliere se disapplicare la normativa italiana in tema di prescrizione, ove questa finisse per ledere gli interessi finanziari dell’Unione in casi di frode grave in materia di IVA, oppure continuare ad applicarla, considerandola una garanzia irrinunciabile, ma in questo modo opponendo un c.d. controlimite al primato del diritto dell’Unione europea;
- i giudici nazionali, secondo le regole stabilite dalla giurisprudenza costituzionale per il caso di contrasto della norma europea non immediatamente precettiva con la Costituzione[19], si sono rivolti alla Corte costituzionale per sciogliere questa alternativa[20]: in particolare, hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, l. 2 agosto 2008, n. 130 (che ordina l’esecuzione del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona), nella parte in cui impone di applicare l’art. 325, § 1 e 2, TFUE, disposizione da cui - nell’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia nella pronuncia Taricco - discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160, co. 3, e 161, co. 2, cod. pen., in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, allorquando ne derivi la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di IVA: anche se dalla disapplicazione, e dal conseguente prolungamento del termine di prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l’imputato, per contrasto di tale norma con gli artt. 3, 11, 25, co. 2, 27, co. 3, 101, co. 2, Cost.;
- la nostra Corte costituzionale, anziché risolvere il dubbio circa il rispetto del primato del diritto dell’Unione o la prevalenza dei diritti fondamentali dell’imputato (e dunque l’applicazione dei controlimiti), ha preferito continuare il dialogo con la Corte di giustizia, chiedendo (in buona sostanza) conferma dell’interpretazione della pronuncia Taricco e prospettando alla Corte come possibile conseguenza l’applicazione dei controlimiti, ma senza decidere autonomamente per tale opzione interpretativa.
L’ordinanza è estremamente complessa, ma è evidente che ha preferito, sia pure assortendolo con la minaccia dell’azionamento dei controlimiti, il riconoscimento alla Corte di giustizia del compito istituzionale « d’effectuer la constatation et la synthèse des valeurs et des principes communs, car elle seule se trouve dans la condition institutionnelle et fonctionnelle pour définir leur portée et pour évaluer donc leur degré de compatibilité et d’adaptabilité avec les valeurs et les principes constitutionnels qui sont éventuellement en jeu »[21].
In sostanza, secondo questa prospettazione, solo dopo che la Corte di Lussemburgo avrà valutato la coerenza tra i valori dell’Unione e l’identità nazionale e costituzionale degli Stati membri, verificandone l’inconciliabilità, le giurisdizioni nazionali potranno invocare detti controlimiti.
5 Il caso Taricco-bis: la richiesta italiana.
La Corte costituzionale italiana ha, in sostanza, posto alla Corte di giustizia l’interrogativo se la regola eurounitaria debba trovare applicazione anche quando confligga in modo inconciliabile con un principio cardine dell’ordinamento nazionale.
Per la peculiarità dell’istituto della prescrizione, che, almeno al momento dei fatti, non era disciplinato direttamente dalla normativa eurounitaria nemmeno quanto ai reati contro le risorse finanziarie dell’Unione ed era prevalentemente inteso come attinente al diritto processuale penale e non a quello sostanziale, così da non rientrare nella protezione giuridica normalmente concessa dal principio di legalità delle pene e dall’irretroattività della norma penale sfavorevole al reo, la nostra Consulta ha rilevato che la norma eurounitaria, come interpretata dalla Corte di Lussemburgo con la sentenza Taricco e col conseguente obbligo per il giudice italiano di disapplicare sic et simpliciter la norma sulla prescrizione per i reati in questione, avrebbe violato il principio di legalità.
Infatti, il regime legale della prescrizione è, nel nostro ordinamento giuridico, soggetto al principio di legalità in materia penale, di cui all’art. 25 Cost.: con una scelta che, sebbene non propria di tutti gli Stati membri, è condivisa almeno da altro ordinamento, cioè quello spagnolo; e, soprattutto, in una materia in cui non vi è alcuna esigenza di uniformità dei differenti ordinamenti degli Stati membri per imperative esigenze eurounitarie; del resto, non avendo la sentenza Taricco imposto ad uno Stato membro la rinuncia alle proprie «disposizioni e tradizioni costituzionali», ove risultassero di maggior favore per l’imputato.
L’attrazione dell’istituto sostanziale della prescrizione nell’ambito del principio di legalità impone poi, nel nostro ordinamento, la determinatezza della sua disciplina, da formularsi in termini «chiari, precisi e stringenti, sia allo scopo di consentire alle persone di comprendere quali possono essere le conseguenze della propria condotta sul piano penale, sia allo scopo di impedire l’arbitrio applicativo del giudice»; ed il principio di determinatezza, così inteso, è stato ricondotto dalla stessa Corte di Lussemburgo alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri quale corollario del principio di certezza del diritto.
Dopo un’attenta analisi della fattispecie e delle sue implicazioni sia dal lato della prevedibilità – e quindi della base legale – del regime di punibilità al momento del fatto che da quello della negazione, al giudice negli ordinamenti di civil law e quale corollario del principio cardinale della riserva di legge in materia, del potere di integrare discrezionalmente la disciplina penale dinanzi ad una norma che, come interpretata dal Lussemburgo, si risolverebbe nella fissazione di un obiettivo generico, cioè un regime adeguatamente dissuasivo della repressione penale delle frodi al fisco UE, per superare la sistematica impunità che il regime legale italiano della prescrizione comporterebbe per le frodi fiscali.
In questo contesto, il contrasto o conflitto tra la norma eurounitaria ed un principio fondante dell’ordinamento nazionale, uno dei «principi supremi dell’ordine costituzionale», sarebbe insanabile e la nostra Corte costituzionale sarebbe costretta a dichiarare costituzionalmente illegittima la norma che autorizza l’adesione al Trattato UE nella parte in cui imponesse di violare uno di quei principi irrinunciabili (ciò che va comunemente e descrittivamente ricondotto alla c.d. teoria dei controlimiti, per una compiuta esposizione della quale basti un richiamo alla celebre pronuncia della nostra Consulta del 2014[22]): il principio di legalità e quello di divisione tra i poteri (quest’ultimo nell’accezione propria dei Paesi di civil law o di tradizione continentale, definito «principio cardine oggetto di largo consenso diffuso tra gli Stati membri»).
Di qui lo snodo cruciale della decisione: «i rapporti tra Unione e Stati membri sono definiti in forza del principio di leale cooperazione, che implica reciproco rispetto e assistenza. Ciò comporta che le parti siano unite nella diversità. Non vi sarebbe rispetto se le ragioni dell’unità pretendessero di cancellare il nucleo stesso dei valori su cui si regge lo Stato membro. E non vi sarebbe neppure se la difesa della diversità eccedesse quel nucleo giungendo ad ostacolare la costruzione del futuro di pace, fondato su valori comuni, di cui parla il preambolo della Carta di Nizza».
Pertanto, riconosciuta la competenza esclusiva della Corte di giustizia nell’interpretazione del diritto dell’Unione, la Consulta esprime l’auspicio che, nei casi in cui la valutazione del suo impatto sulla «identità costituzionale di ciascun[o] Stato membro» sia di non immediata evidenza, il giudice europeo provveda a stabilire il significato della normativa dell’Unione, rimettendo alle autorità nazionali la verifica ultima circa l’osservanza dei principi supremi dell’ordinamento nazionale, competendo poi a ciascuno di questi ordinamenti – e, in quello italiano, alla Corte costituzionale – stabilire a chi spetti tale verifica.
Impregiudicata la (evidentemente, inevitabile) responsabilità della Repubblica italiana per omissione di un efficace rimedio contro le gravi frodi fiscali in danno degli interessi dell’Unione o in violazione del principio di assimilazione, per avere in particolare limitato l’operatività della prescrizione, la Consulta precisa che la soluzione auspicata non contrasterebbe col diritto dell’Unione e con l’esclusiva competenza della Corte di giustizia nella sua interpretazione, perché l’impedimento al giudice nazionale ad applicare direttamente la regola enunciata da quest’ultima deriverebbe da un elemento qualificante esterno, cioè dalla normativa nazionale sulla prescrizione e dall’imperativa necessità di rispettare l’«identità costituzionale» italiana, nella specie integrata dal principio di legalità da applicare pure al regime della prescrizione: quale livello di protezione più alto e quindi tutelato dall’art. 53 della CDFUE, ma anche perché, altrimenti, il processo di integrazione europea avrebbe l’effetto di degradare le conquiste nazionali in tema di libertà fondamentali e si allontanerebbe dal suo percorso di unificazione nel segno del rispetto dei diritti umani di cui all’art. 2 del TUE[23].
6 Il caso Taricco-bis: la risposta di Lussemburgo e l’epilogo
La Corte di giustizia, accolta la richiesta di procedimento accelerato, ha reso la sentenza della Grande Camera del 5 dicembre 2017 (M.A.S. e M.B., causa C-42/17), con cui, in estrema sintesi:
- ha ricordato come incombano ai singoli Stati membri, cui è lasciata la libertà di scelta e pure di combinazione tra le sanzioni penali o amministrative, la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione ed il recupero delle somme sottratte al bilancio di questa a causa di frodi: sicché spetta a ciascuno di quelli, a pena di inadempimento dell’obbligo derivante dal primo comma dell’art. 1 TFUE, l’adozione di misure dotate di carattere effettivo e dissuasivo, per di più non diverse da quelle previste contro la frode degli interessi nazionali domestici o nazionali;
- tanto integra però un obbligo di risultato, che grava in prima battuta sul legislatore nazionale, ma in un quadro – quello relativo alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione – di competenza concorrente tra l’Unione e gli Stati membri;
- pertanto, da un lato incombe ai giudici nazionali di disapplicare norme sulla prescrizione che deprivino la sanzione di quel carattere o la regolino in maniera differente rispetto ai reati di frode agli interessi finanziari nazionali;
- spetta, dall’altro lato, ai giudici nazionali competenti garantire il rispetto dei diritti degli imputati derivanti dal principio di legalità dei reati e delle pene, la cui importanza è riconosciuta non solo nell’ordinamento dell’Unione, ma anche in quello dei singoli Stati membri, tanto da potersi dire appartenere alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri[24], sancito da vari trattati internazionali e segnatamente all’art. 7, § 1, della CEDU[25];
- il principio di legalità va interpretato anche alla stregua della definizione che vi ha attribuito via via la Corte europea dei diritti dell’Uomo, in virtù dell’equiparazione del suo significato a quello ricostruito da quest’ultima, disposta dall’art. 52, § 3, CDFUE: e tanto in relazione ai requisiti indefettibili di prevedibilità, determinatezza ed irretroattività della legge penale applicabile;
- pertanto e nei confronti dei giudici italiani: da un lato, il diritto dell’Unione, sub specie di tutela degli interessi finanziari di questa, osta all’applicazione della legge penale italiana sulla prescrizione dei delitti di frode ai danni dell’Unione; dall’altro, lo stesso diritto dell’Unione, sub specie di principio fondamentale di legalità come sopra ricostruito, osta a tale disapplicazione, pure se quest’ultima consentisse di rimediare ad una situazione nazionale incompatibile col diritto dell’Unione: spettando allora al legislatore adottare le misure necessarie[26].
È infine sopraggiunta[27] la sentenza della Corte cost. 10 aprile-31 maggio 2018, n. 115, che ha dichiarato non fondata la questione di costituzionalità, ma con una imprevista accentuazione del ruolo centrale della valutazione, rimessa alla stessa Consulta, della preminenza della tradizione costituzionale nazionale.
In sostanza, si è decisamente riaffermata la centralità, se non anzi la esclusività, del ruolo di interprete e garante dei principi fondamentali e, per ciò pure, per logica necessità, del modo con cui vengono a formazione le tradizioni comuni. Se, infatti, si fosse continuato a fare diretto ed esclusivo riferimento a queste ultime, sarebbe stato inevitabile il coinvolgimento della Corte dell’Unione in ordine al loro apprezzamento ed alla loro salvaguardia. Insomma, una pronunzia che s’immette nel solco già tracciato dalla 269 del 2017, prolungando e rimarcando la linea in essa tracciata per ciò che attiene all’individuazione della sede istituzionale (la Consulta, appunto) nella quale sono definite le questioni assiologicamente pregnanti, siccome coinvolgenti i valori fondamentali dell’ordine costituzionale, pure – qui è il punto – nelle loro proiezioni al piano dei rapporti interordinamentali[28].
La conclusione è anomala: due sentenze della Grande Chambre della Corte di giustizia (sulla interpretazione di due disposizioni del TFUE) sono state giudicate dal giudice costituzionale prive di effetto rispetto alla nostra giustizia penale perché le norme che il giudice europeo ha tratto in via interpretativa da queste disposizioni (la c.d. regola Taricco) violano il principio di legalità penale, ed in particolare il principio di determinatezza della norma penale.
La motivazione della sentenza della Corte costituzionale si conclude con una chiara e recisa affermazione: la violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all’ingresso della «regola Taricco» nel nostro ordinamento. La Corte costituzionale riferisce il giudizio di indeterminatezza alla interpretazione non solo del § 1, ma anche del § 2 dell’art. 325 TFUE, perché nella «regola Taricco» vengono unificate le norme che la Corte europea aveva desunto da ambedue i detti paragrafi.
L’irrilevanza, rispetto alla vigente normativa della giustizia penale (specificamente, della prescrizione del reato), delle due pronunzie della Corte europea, a dispetto della particolare autorevolezza dell’organo che le ha emanate, è ormai sancita[29].
7 Le tradizioni costituzionali del singolo Stato membro ed il diritto dell’Unione.
La vicenda ha suscitato ampi commenti ed ha avuto un’eco obiettivamente eccezionale, per le ricadute sia sul diritto interno, sia su quello dell’Unione, a cominciare dal profilo dei rapporti tra l’uno e l’altro in un momento obiettivamente delicato per il procedimento di integrazione europea; e competono ai costituzionalisti ed agli accademici gli approfondimenti necessari, che possano sorreggere nel modo più adeguato e conforme allo spirito dei Trattati il cammino verso l’epilogo.
Può qui osservarsi che l’arma finale dei cc.dd. controlimiti è stata disinnescata dalla Corte di Lussemburgo mediante un’accorta riconduzione del contenuto dei principi fondamentali o di «identità costituzionale», rivendicati come propri dell’ordinamento italiano e tali da giustificare perfino una disapplicazione della norma che autorizza l’adesione alla UE, ad un’accezione di quei principi sussunta entro le «tradizioni costituzionali comuni» ai singoli Stati: il principio di legalità, come rivendicato in Italia, rientra anch’esso fra queste ultime e giustifica un’interpretazione del diritto dell’Unione che ne tenga conto, nella specie consentendo la … «non disapplicazione» della normativa interna perfino nel senso codificato dalla stessa Corte di giustizia.
È un accorto meccanismo di bilanciamento degli interessi di ordinamenti a pluralità di livello: fermo il primato del diritto dell’Unione (dogma che anche nell’ord. 24 del 2017 la nostra Consulta proclama di rispettare, sia pure adeguatamente finalizzandolo agli obiettivi del Trattato e, quindi, per così dire contestualizzandolo ed esigendo che quello stesso diritto rispetti le identità giuridiche nazionali[30]), il giudice nazionale, primo e diretto operatore del diritto dell’Unione, deve applicarlo anche disapplicando la normativa nazionale che con quello contrasti; ma, ove tale disapplicazione contrasti a sua volta con principi fondanti – tali cioè da definire la stessa «identità costituzionale» e, quindi, le «tradizioni costituzionali» – dello Stato cui appartiene, egli potrebbe avere la facoltà di non disapplicare la normativa nazionale e di prestare ossequio prevalente alla tradizione costituzionale del proprio Stato.
Insomma, le tradizioni costituzionali comuni e le singole identità nazionali, quali ricavate dalle tradizioni costituzionali peculiari di ciascuno Stato, non sono contrapposte, ma reciprocamente interagiscono; e, anche se non è mai stata affrontata la questione di cosa sia davvero comune tra le tradizioni nazionali e la legge europea, tanto da trascendere le une e l’altra fino ad entrare in conflitto con entrambe, il ruolo formale delle prime assorbe – quasi distilla o deriva – i suoi contenuti dalle seconde.
Pur non potendo configurarsi un obbligo giuridico formale dell’Unione di rispettare le identità nazionali (che sarebbe la negazione del fondamento stesso dell’Unione, che mira ad armonizzarle in un quid novi che dalla mera sommatoria di quelle si differenzi), la circostanza che queste, mediante le tradizioni costituzionali comuni e la loro concreta interpretazione, concorrano inevitabilmente alla formazione del diritto dell’Unione come principi ispiratori influenza – come una sorta di fonte della fonte, che dovrebbe essere a sua volta una fonte o almeno a questa sovraordinata, quale principio generale del diritto dell’Unione riconosciuto dall’art. 52, co. 3, della CDFUE – necessariamente il medesimo diritto eurounitario.
La prospettiva è quindi tracciata: grazie anche a questo proficuo dialogo preventivo, le due Corti – quella costituzionale a Roma e quella di giustizia a Lussemburgo – hanno fornito un utile precedente, suscettibile di replica nei casi, che si auspica restino eccezionali, di conflitto insanabile fra il diritto dell’Unione ed i principi che fondino la stessa «identità costituzionale», potendosi essi ricondursi, quali elementi costitutivi, a quelle «tradizioni costituzionali comuni».
L’identità nazionale dei singoli Stati membri convive e coesiste, in evidente tensione dialettica, con la sintesi di ognuna che si esprime nel concetto di «tradizioni costituzionali comuni»: ed è chiaro che la sintesi risenta delle peculiarità di ogni sua componente, ma, come per ogni sintesi, è agli elementi comuni che occorre fare riferimento, in modo tale che essi siano in grado di esprimere un minimo comune denominatore appunto condiviso, non compromesso dalle pure inevitabili particolarità di ogni sua componente.
Non va dimenticato che, del resto, le «tradizioni costituzionali», siano esse comuni o – al contrario – proprie e particolari di ciascun ordinamento nazionale, rilevano per il diritto dell’Unione solo quanto alla delimitazione del significato dei diritti fondamentali: ed essendo intuitivo come la incoercibile diversità delle singole realtà nazionali europee ancora sia di ostacolo ad una condivisione di ogni altro aspetto della realtà economica, sociale, politica e, infine, giuridica.
Una proficua interazione tra le tradizioni costituzionali ed il diritto dell’Unione sembra idonea a consentire, quando le prime siano comuni agli Stati membri e comunque pur sempre ristretto il campo della loro operatività alla protezione dei diritti fondamentali, di individuare tratti comuni agli ordinamenti di più Stati, ancora però non formalizzati in norme scritte: insomma, un utile strumento di quella che potrebbe chiamarsi interpretazione evolutiva.
L’ulteriore operatività del meccanismo sopra delineato, peraltro, esige una duplice riflessione da un punto di vista applicativo.
In un delicato ed importante passaggio dell’ordinanza n. 24 del 2017[31] la Corte costituzionale ha avallato la correttezza della scelta procedurale del giudice ordinario di rimetterle la verifica della compatibilità della normativa dell’Unione, come sovranamente interpretata dalla Corte di giustizia, con i principi supremi dell’ordinamento nazionale: e, per il contesto in cui è pronunciata, la regola vale certamente quando il conflitto riguardi un diritto fondamentale, il cui significato sia definito dalle «tradizioni costituzionali comuni» degli Stati membri e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo; soprattutto quando il contrasto impedisca l’applicazione della protezione eventualmente maggiore accordata dal singolo Stato membro ad un diritto fondamentale in base alla propria «tradizione costituzionale», prospettata come di portata evidentemente più ampia rispetto a quella comune agli altri Stati.
Nella vicenda Taricco e Taricco-bis, l’interpretazione del diritto europeo era già stata fornita in modo vincolante dalla Corte di giustizia, sicché la via obbligata era appunto quella di sottoporre la questione alla Consulta: la quale però offre un altro prezioso spunto di impostazione procedurale, quando preannuncia che, ove dalla Corte di giustizia fosse condivisa la sua interpretazione (della rimessione alle autorità nazionali della valutazione della compatibilità del diritto dell’Unione con la «identità nazionale» del singolo Stato membro e della facoltà di non disapplicare la normativa nazionale in favore di quella eurounitaria quando questa non sia compatibile con la «identità costituzionale» dello Stato membro), la questione di legittimità costituzionale – della norma che, dando esecuzione al Trattato di Lisbona, autorizza l’adesione dell’Italia all’UE, limitatamente al conseguente obbligo di conformarsi all’interpretazione del diritto di quest’ultima nel caso di specie – «non sarebbe accolta».
Si può allora affermare che, ove la singola disposizione del diritto eurounitario debba ancora essere interpretata dalla Corte di Lussemburgo, sia necessario – per le Corti di ultima istanza – od almeno opportuno – per tutti gli altri giudici – sottoporre dapprima a quest’ultima la questione dell’esatta interpretazione di quel diritto ai sensi dell’art. 267 TFUE, onde valutare solo in un secondo momento gli effetti di tale interpretazione nell’ordinamento italiano e, in particolare, se sia sufficiente la facoltà di non applicare la norma eurounitaria nel caso concreto o se sia necessario sollecitare un intervento demolitore erga omnes della Consulta in un senso o nell’altro: tale soluzione avrebbe il pregio di rispettare i dogmi della gestione diffusa dell’applicazione del diritto eurounitario e del principio del suo primato, che risponde a sua volta al riparto dei rispettivi ambiti come delineato almeno fino alla fine del 2017.
* Prima parte della relazione tenuta sul tema “Rapporti tra diritto dell’Unione europea e principi fondamentali dell’ordinamento italiano nel dialogo tra le Corti” nell'ambito dell'incontro di studi organizzato dalla Struttura per la Formazione decentrata della Scuola Superiore della Magistratura in Firenze il 29/01/2020 avente ad oggetto “Il ruolo del giudice nazionale nell’attuazione del diritto dell’Unione europea”.
L’autore è consigliere della Corte suprema di cassazione, assegnato dal 2010 alla terza sezione civile e dal 2016 alle sezioni unite civili – componente, dalla sua istituzione a gennaio 2016, del gruppo dei referenti per i protocolli di intesa tra la Corte suprema di cassazione e la Corte europea dei diritti dell’Uomo e, poi, la Corte di Giustizia dell’Unione europea.
[1] Sia consentito un mero richiamo a: A. Di Stasi (a cura di) Tutela dei diritti fondamentali e spazio europeo di giustizia – l’applicazione giurisprudenziale del titolo VI della Carta, Napoli 2019; F. Biondi, Quale dialogo tra le Corti?, in www.federalismi.it; R. Caponi, Dialogo tra Corti nazionali e internazionali, in http://www.treccani.it/enciclopedia/dialogo-tra-corti-nazionali-e-corti-internazionali_%28Il-Libro-dell%27anno-del-Diritto%29/
[2] Tra le ultime: Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 20 dicembre 2016, Ljaskaj c. Croazia, definitiva il 20/03/2017; Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 18 luglio 2019, ricorso n. 16812/17, Rustavi 2 Broadcasting Company ltd c/ Georgia, par. 310 [«310. The Court notes that private-law disputes do not themselves engage the responsibility of the State under Article 1 of Protocol No. 1 to the Convention (see, mutatis mutandis, Ruiz Mateos v. the United Kingdom, no. 13021/87, Commission decision of 8 September 1988, Decisions and Reports (DR) 57, pp. 268 and 275; Tormala v. Finland (dec.), no. 41258/98, 16 March 2004; Eskelinen v. Finland (dec.), no. 7274/02, 3 February 2004; Kranz v. Poland (dec.), no. 6214/02, 10 September 2002; and Skowronski v. Poland (dec.), no. 52595/99, 28 June 2001). In particular, the mere fact that the State, through its judicial system, provided a forum for the determination of such a private-law dispute does not give rise to an interference by the State with property rights under Article 1 of Protocol No. 1 (see, for example, Kuchař and Štis v. the Czech Republic (dec.), no. 37527/97, 21 October 1998).The State may be held responsible for losses caused by such determinations if court decisions are not given in accordance with domestic law or if they are flawed by arbitrariness or manifest unreasonableness contrary to Article 1 of Protocol No. 1 (see, for example, Vulakh and Others v. Russia, no. 33468/03, § 44, 10 January 2012). However, it should be borne in mind that the Court’s jurisdiction to verify that domestic law has been correctly interpreted and applied is limited, and it is not its function to take the place of the national courts. Rather, the Court’s role is to ensure that the decisions of those courts are not arbitrary or otherwise manifestly unreasonable (see, for example, Anheuser-Busch Inc. v. Portugal [GC], no. 73049/01, § 83, ECHR 2007‑I).»]
[3] Sia consentito un richiamo a F. De Stefano, Le principali decisioni della Corte in materia civile verso l’Italia, in F. Buffa, M.G. Civinini (a cura di) La Corte di Strasburgo, speciale Questione Giustizia on line, dall’aprile 2019, specialmente § 2. In materia esecutiva, si veda, se si vuole, F. De Stefano, Le tecniche decisionali e l’interpretazione del titolo esecutivo giudiziale civile nella giurisprudenza della CEDU e della Corte di Cassazione, in B. Capponi, A. Storto (a cura di), Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della P.A., Napoli 2018, pp. 335 ss.
[4] Il riferimento è allo spirito con cui si sono accinti alla firma gli Stati contraenti, «animati da uno stesso spirito e forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto».
[5] Corte di giustizia, sentenza del 9 marzo 1978, causa 106/77. In base ad essa, tra l’altro, l’effetto diretto e il primato delle norme comunitarie impongono che sia data loro applicazione immediata; pertanto, non solo le norme interne successive incompatibili non si formano validamente, ma l’efficacia del sistema di controllo giurisdizionale sul rispetto del diritto comunitario, fondato sulla cooperazione tra giudice comunitario e giudice nazionale, verrebbe indebitamente ridotta se quest’ultimo non avesse il diritto di fare immediata applicazione delle norme comunitarie.
[6] Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza del 24 giugno 2019, Popławski, causa C-573/17, punti 53 ss.
[7] Corte di giustizia, sentenza del 19 novembre 1991, Francovich e a., cause C-6/90 e C-9/90, punto 33.
[8] Corte di giustizia, sentenza del 4 dicembre 2018, Minister for Justice and Equality e Commissioner of An Garda Síochána, causa C-378/17, punto 35 e giurisprudenza ivi citata.
[9] Corte di giustizia, Grande Sezione, Popławski, cit., punto 65.
[10] Corte di giustizia, Grande Sezione, Popławski, cit., punto 78, ove ulteriori richiami giurisprudenziali. In particolare, si è negato al giudice nazionale il potere di validamente ritenere di trovarsi nell’impossibilità di interpretare una disposizione nazionale conformemente al diritto dell’Unione per il solo fatto che detta disposizione è stata costantemente interpretata in un senso che è incompatibile con tale diritto o è applicata in un modo siffatto dalle autorità nazionali competenti
[11] Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza del 19 novembre 2019, A.K., cause riunite C-585/18, C-624/18 e C-625/18, punti 157 ss..
[12] La conclusione, dirompente, di Corte di giustizia, Grande Sezione, A.K., cit., è che l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a che controversie relative all’applicazione del diritto dell’Unione possano ricadere nella competenza esclusiva di un organo che non costituisce un giudice indipendente e imparziale, ai sensi della prima di tali disposizioni. Ciò si verifica quando le condizioni oggettive nelle quali è stato creato l’organo di cui trattasi e le caratteristiche del medesimo nonché il modo in cui i suoi membri sono stati nominati siano idonei a generare dubbi legittimi, nei singoli, quanto all’impermeabilità di detto organo rispetto a elementi esterni, in particolare rispetto a influenze dirette o indirette dei poteri legislativo ed esecutivo, e quanto alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti e, pertanto, possano portare a una mancanza di apparenza di indipendenza o di imparzialità di detto organo, tale da ledere la fiducia che la giustizia deve ispirare a detti singoli in una società democratica. Spetta al giudice del rinvio determinare, tenendo conto di tutti gli elementi pertinenti di cui dispone, se ciò accada con riferimento a un organo come la Sezione disciplinare del Sąd Najwyższy (Corte suprema). In una tale ipotesi, il principio del primato del diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che esso impone al giudice del rinvio di disapplicare la disposizione di diritto nazionale che riservi a detto organo la competenza a conoscere delle controversie di cui ai procedimenti principali, di modo che esse possano essere esaminate da un giudice che soddisfi i summenzionati requisiti di indipendenza e di imparzialità e che sarebbe competente nella materia interessata se la suddetta disposizione non vi ostasse.
[13] Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza del 29 luglio 2019, Spiegel Online GmbH, punti 19 ss.
[14] Corte di giustizia, sentenza del 26 febbraio 2013, Melloni, causa C-399/11, punto 59.
[15] Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza del 14 maggio 2019, Federación de Servicios de Comisiones Obreras (CCOO), causa C-55/18, punti 68 ss.
[16] Corte di Giustizia, Grande Sezione, conclusioni del 15 giugno 2015, causa C-62/14, di puntuale rivendicazione della primazia del diritto eurounitario, nonostante il monito contrario del Tribunale costituzionale federale tedesco e la prospettazione, anche da parte di questo, dell’evenienza di un’applicazione dei cc.dd. controlimiti.
[17] Tra cui si segnala, per l’ampiezza del recepimento della pronuncia di Lussemburgo sul rinvio pregiudiziale disposto nel corso dello stesso giudizio di legittimità, Corte di Cassazione, sentenza del 30 ottobre 2018, n. 27564, a mente della quale «il principio del ne bis in idem di cui all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non impedisce che a un soggetto, già penalmente condannato con sentenza irrevocabile per il reato di cui all’art. 185 del d.lgs. n. 58 del 1998, sia successivamente irrogata la sanzione di natura penale, benché formalmente amministrativa, di cui all’art. 187 ter del citato d.lgs., purché siano garantiti: 1) il rispetto del principio di proporzionalità delle pene sancito dall’art. 49, par. 3, della richiamata Carta, secondo cui le sanzioni complessivamente inflitte devono corrispondere alla gravità del reato commesso; 2) la prevedibilità di tale doppia risposta sanzionatoria in forza di regole normative chiare e precise; 3) il coordinamento tra i procedimenti sanzionatori in modo che l’onere, per il soggetto interessato da tale cumulo, sia limitato allo stretto necessario».
[18] La ricostruzione è quella di E. Lupo, La «vicenda Taricco» impone di riconsiderare gli effetti del decorso del tempo nella giustizia penale sostanziale?, in http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2019/02/Lupo-Vicenda-pdf.pdf. La dottrina può dirsi sterminata sul punto; per un’indicazione bibliografica v. già F. Donati, La tutela dei diritti tra ordinamento interno ed ordinamento dell’Unione europea, in DUE 2019, fasc. 2, pp. 261 ss.
[19] Corte costituzionale, sentenza del dì 8 giugno 1984, n. 170, c.d. Granital.
[20] V. le ordinanze di rinvio della Corte d’appello di Milano del 18 settembre 2015 e della Corte di cassazione del dì 8 luglio 2016, rispettivamente iscritte al n. 339 del registro ordinanze 2015 e al n. 212 del registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 2 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2016.
[21] A. Tizzano, Notes sur le rôle de la Cour de justice de l’Union européenne, in M. D’Alessio, V. Kronenberger, V. Placco (dirs.), De Rome à Lisbonne: les juridictions de l’Union européenne à la croisée des chemins. Mélanges en l’honneur de Paolo Mengozzi, Bruxelles, 2013, pp. 223 ss.
[22] Corte costituzionale, sentenza del 22 ottobre 2014, n. 238, relativa ad una controversia civile per risarcimento di danni arrecati da uno Stato estero per atti qualificabili delicta imperii, in Foro it., 2015, I, 1152; la letteratura sul punto è sterminata. Alla sentenza 238/14 della Consulta si richiamano espressamente non poche pronunce di legittimità, l’ultima delle quali consta essere quella di Corte di Cassazione, sentenza del 3 settembre 2019, n. 21995.
[23] La conclusione è stata, com’è noto, la formulazione del triplice quesito:
- se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata;
- se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità;
- se la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco, debba essere interpretata nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione europea, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro.
[24] Per quanto riguarda il principio di irretroattività della legge penale: Corte di giustizia, sentenza del 13 novembre 1990, Fedesa e a., causa C-331/88, punto 42.
[25] In tal senso, Corte di giustizia, sentenza del 3 maggio 2007, Advocaten voor de Wereld, causa C-303/05, punto 49.
[26] Di qui la risposta ai primi due quesiti, con assorbimento del terzo: «l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso impone al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di IVA, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione o che prevedano, per i casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato».
[27] Dal canto suo, la Corte di cassazione comunque precisava che, in materia di reati tributari, l’applicazione dei principi affermati dalla sentenza 8 settembre 2015 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Camera, Taricco e aa., C-105/14 - sull’obbligo di disapplicazione della disciplina della prescrizione prevista dagli artt. 160 e 161 cod. pen., se ritenuta idonea a pregiudicare gli obblighi a tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea - non si applicano ai fatti commessi prima della sua pronuncia: Corte di Cassazione penale, sentenza resa all’udienza del 20 marzo 2018 e depositata il 18 aprile 2018, n. 17401, imp. Pennacchini; nello stesso senso: Corte di Cassazione penale, sentenza resa all’udienza del 27 febbraio 2019 e depositata il 12 giugno 2019, n. 25831, imputato Scanu. In precedenza (Corte di Cassazione penale, sentenza resa all’udienza del 7 febbraio 2018 e depositata il 2 marzo 2018, n. 9494, imputato Schiavo e aa.), la Corte aveva concluso che la soluzione di non applicabilità della c.d. regola Taricco era stata già ammessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, richiamandone la sentenza del 5 dicembre 2017, in causa C- 42/17.
[28] Questa la severa lettura di A. Ruggeri, Dopo Taricco: identità costituzionale e primato della Costituzione o della Corte costituzionale? in Osservatorio sulle fonti, n. 3/2018, disponibile all’URL: http://www.osservatoriosullefonti.it
[29] Ne prende atto la Corte di cassazione; ad es., v. Corte di Cassazione penale, sentenza resa all’udienza del 27 febbraio 2018, depositata il 19 febbraio 2019, n. 7384, imputati Di Carlo e aa.
[30] Icastica è la puntualizzazione: «il principio del primato del diritto dell’Unione … riflette piuttosto il convincimento che l’obiettivo della unità, nell’ambito di un ordinamento che assicura la pace e la giustizia tra le Nazioni, giustifica una rinuncia a spazi di sovranità, persino se definiti da norme costituzionali. Al contempo la legittimazione (art. 11 della Costituzione italiana) e la forza stessa dell’unità in seno ad un ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art. 2 del TUE) nascono dalla sua capacità di includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art. 4, paragrafo 2, del TUE). In caso contrario i Trattati europei mirerebbero contraddittoriamente a dissolvere il fondamento costituzionale stesso dal quale hanno tratto origine per volontà degli Stati membri».
[31] Ultimo periodo del paragrafo 6.
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