ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Fabio Squillaci
Sommario: 1. Premessa – 2. Il “pacchetto corruzione”: i nuovi volti della pena – 3. Conclusioni
1.Premessa
Il dettato costituzionale secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27, III comma Cost.) rappresenta il fulcro del lavoro che segue. Questo è il presupposto essenziale e irrinunciabile da cui si deve muovere quando si parla di pene e delle loro funzioni. Tuttavia, specie gli ultimi decenni del secolo scorso sono stati segnati – come è noto – da un notevole aumento della popolazione presente negli istituti di pena e la drammatica situazione carceraria ha suscitato “interesse” anche nei confronti della la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha condannato il nostro ordinamento per violazione dell’articolo 3 della Convenzione. È proprio attraverso la riduzione della popolazione ristretta, invero, che si creano i presupposti affinché quella funzione risocializzante possa essere davvero perseguita all’interno degli istituti penitenziari, in cui devono essere necessariamente garantiti e tutelati i diritti dei detenuti. È fuori discussione, del resto, che una detenzione disumana perde gli stessi connotati assegnati dalla Costituzione al trattamento sanzionatorio penale e, primo tra tutti, la sua attitudine rieducativa, coerentemente a quella che è la lettura data dalla Corte circa l’interpretazione dell’articolo 27, terzo comma della Costituzione.
Storicamente, facendo riferimento a una formulazione risalente a Seneca, si possono individuare due diverse concezioni del senso della pena. Da un lato vi sono quelle dottrine che giustificano la pena in base al concetto di quia peccatum est, con uno sguardo rivolto esclusivamente al passato; dall’altro, vi sono le dottrine che giustificano la pena in base al ne peccetur, guardando al futuro, focalizzandosi sullo scopo, sul miglioramento che può derivare dalla pena. Avendo puntualizzato tale discrepanza tra le due scuole di pensiero, possiamo affermare che il primo gruppo è formato essenzialmente da una sola dottrina, la teoria assoluta o retributiva della pena; e il secondo gruppo è composto da varie dottrine, che sono riconducibili ad almeno tre orientamenti: la teoria della prevenzione, dell’emenda e della difesa sociale.
Il Codice Rocco è riuscito, nell’ambito del sistema sanzionatorio, a fondere le idee della Scuola Classica e della Scuola Positiva, e su questo punto si è sostanziato, a lungo, il connotato dell’originalità dell’impianto sanzionatorio codicistico, noto comunemente con l’espressione di “doppio binario”. Un termine sintetico con la quale si richiama il profilo di coesistenza della pena e della misura di sicurezza. Si tratta, in entrambi i casi, di sanzioni penali che vengono connotate da diversi indici distintivi: infatti, la pena è commisurata alla gravità del reato commesso e la sua funzione è quella di essere la sanzione per il reo in relazione all’avvenuta commissione di un fatto, previsto dalla legge come reato. La misura di sicurezza, invece, non è ricollegata alla commissione del fatto delittuoso, ma al diverso profilo della pericolosità sociale dell’agente, la quale si rinviene nella probabilità, e non nella mera possibilità, della commissione, da parte di quello stesso soggetto, di ulteriori reati. Vengono, quindi, introdotte le misure di sicurezza per ragioni di carattere politico, volendo sanzionare anche circostanze non riconducibili alla commissione di un delitto tout court, ma che richiedevano un controllo da parte dell’autorità istituzionale, come afferma Rocco nella Relazione di accompagnamento al codice del 1930: “La necessità di costituire un sistema di rigida difesa sociale, sistema reclamato dalla mutata coscienza nazionale che ha bisogno dell’impiego di mezzi che assicurino in maniera decisa ed energica la prevalenza degli interessi generali sugli interessi particolari ovvero la subordinazione della parte al tutto per una necessità ferrea di comune disciplina”. Il sistema del doppio binario si rivelò, nei fatti, contraddittorio ed incongruente a causa della sua natura eccessivamente compromissoria. La dottrina vi ritrovò una pesante contraddizione teorica, dovuta al fatto che il sistema così licenziato suppone una concezione dell’uomo come “diviso in due parti”: una parte libera e responsabile, quindi, assoggettabile a pena; e una parte, determinata e pericolosa, assoggettabile a misura di sicurezza.
2.Il “pacchetto corruzione”: i nuovi volti della pena.
Scandita la premessa è opportuno muovere verso lidi più consoni al vero punto focale del lavoro, ovverosia le novità sanzionatorie in tema di delitti contro la P.A. Si fa riferimento al nuovo volto “punitivo” assunto dalla normativa vigente sempre più lontano da schemi repressivi tradizionali ed aperto, finalmente, ad una commistione tra modelli, influenzato forse da quella cultura europeista che considera la “pena” come un unicum pur se pregno di sfumature. La legislazione emergenziale degli ultimi anni in tema di corruzione permette di cogliere a pieno l’itinerario di viaggio del legislatore. Dopo la legge “Severino” legge n. 190/2012 e la legge n. 69/2015, è sopraggiunta il 9 gennaio scorso la legge n. 3/2019, recante «Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza e movimenti politici». Ad innescare il trend di profonda rivisitazione delle discipline anticorruzione è stata la legge n. 190/2012 che ha rappresentato un reale spartiacque nelle strategie di contrasto ai fenomeni corruttivi. La prima ha seguito lo schema dell’espansione del diritto penale: nuovi reati, fattispecie più ampie, pene più severe; da un altro versante, il legislatore del 2012 ha infranto, mediante lo sdoppiamento della fattispecie di concussione e la creazione del nuovo delitto di cui all’art. 319-quater c.p., un tabù che appariva sino a quel momento inviolabile: l’impunità, in qualità di vittima-concusso, del privato “indotto” ad un pagamento indebito dall’abuso del pubblico agente. La successiva legge n. 69/2015 si è limitata a razionalizzare il materiale normativo eliminando qualche incongruenza normativa. In aggiunta, la penna del legislatore ha ulteriormente arricchito il corpus degli strumenti anticorruzione, mediante l’innesto nel codice penale della riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater e l’attenuante della collaborazione processuale, collocata nel nuovo comma 2 dell’art. 323-bis. Questo programma politico-criminale trova ora la sua definitiva affermazione mediante la l. n. 3/2019, battezzata dalla critica legge “Spazzacorrotti”. Sarebbe dunque riduttivo presentare quest’ultimo prodotto della penna legislativa un “accidente” della storia, giacché esso rappresenta piuttosto la chiusura di un cerchio legislativo iniziato poco più di un lustro fa. In secondo luogo, il robusto aumento delle pene comminate per i predetti reati, risponde a esigenze pragmatiche che spaziano da profili filosofici ad aspetti pratici: ad esempio nell’innalzamento dei minimi edittali si cela la voluntas legislatoris di rendere più difficile la sospensione condizionale della pena e l’accesso alle misure alternative alla detenzione, i cui spazi operativi peraltro sono stati via via compressi pure attraverso manipolazioni dirette delle relative norme. Ovviamente, questa escalation punitiva sottende l’idea, tutt’altro che fondata, che basti inasprire la minaccia edittale e incrementare i tassi di carcerazione per ottenere un corrispondente effetto dissuasivo. Sembra che il legislatore abbia accolto gli approdi dell’AED che ricollega l’effetto di deterrenza al paradigma della convenienza economica degli attori in campo, tanto in chiave di svantaggio per il reo, quanto in chiave di costi di per il soggetto pubblico inquisitore. In tal senso viene svilito il postulato di Beccaria secondo cui la probabilità di condanna è più importante del malum passionis minacciato. Certo, l’assoluta “certezza del castigo”, a cui anelava il padre del diritto penale moderno, appare oramai un’utopia, tanto più che molti studi ormai attestano come conti più che l’oggettiva probabilità della pena la sua percezione psicologica, vale a dire la probabilità attesa.
Oltre alla già riscontrata dilatazione delle fattispecie incriminatrici, all’introduzione di nuovi tipi penali e all’aumento smisurato delle pene edittali, ci sembra paradigmatica l’evoluzione conosciuta dall’immane apparato degli strumenti di abbattimento dei patrimoni illecitamente acquisiti. Un primo ambito di “contaminazione” ha riguardato il sistema delle misure di prevenzione patrimoniale: una regione ai confini del diritto penale, dilatatasi grandemente negli ultimi anni, ben oltre l’originaria sfera dell’antimafia (cfr. la legge “Rognoni-La Torre” n. 646/1982). Sennonché, al di là delle etichette formali, è arduo distinguere dal diritto penale in senso stretto (soprattutto) le misure patrimoniali, essendo queste protese più che al contenimento di una pericolosità soggettiva (dell’indiziato di reati) alla salvaguardia del sistema economico da intorbimenti criminosi.
Le novità su cui intendiamo soffermarci è la nuova sanzione della “riparazione pecuniaria” introdotta all’art. 322 quater c.p. Tale istituto, introdotto nel 2015, e la cui disciplina ora è stata ulteriormente rafforzata, completa quell’effetto “moltiplicatore” della risposta sanzionatoria che in un clima emergenziale si è voluto attribuire ai reati contro la p.a. in difetto di qualsivoglia ragionamento di sistema.
Innanzitutto, l’art. 322 quater c.p. delinea una forma di riparazione coattiva, di tipo non risarcitorio (restando difatti impregiudicato il risarcimento dei danni), non affidata all’iniziativa volontaria del reo e neppure subordinata ad un’espressa richiesta della persona offesa. Inoltre, la quantificazione dell’ammontare dovuto a titolo compensativo non è rimessa all’apprezzamento del giudice né commisurata ai pregiudizi complessivamente subiti dall’amministrazione di appartenenza, ma forfettariamente calibrata sui proventi materiali indebitamente ricevuti. Tali peculiarità rendono la misura del tutto inedita nel nostro sistema penale. Di certo, essa ha assai poco a che spartire con l’idea della riparazione del danno: nel caso di specie, la restituzione coattiva dell’indebito costituisce una sanzione patrimoniale che si aggiunge alla reclusione, operando contestualmente e indipendentemente da questa, anche in sede esecutiva. Va, inoltre, osservato che nonostante il nomen iuris (“riparazione pecuniaria”), l’istituto adombra una vocazione funzionale non solo compensatoria, ma anche (e soprattutto) punitivo-deterrente. In particolare, essa solleva seri problemi di coordinamento e sovrapposizione con l’istituto della confisca del prezzo o profitto del reato ex art. 322-ter c.p. Per queste ragioni, un’irrogazione cumulativa comporterebbe una violazione del ne bis in idem sanzionatorio e del principio di proporzione (art. 3 Cost.), anche per come delineato dai casi Grande Stevens c. Italia et similia, scongiurabile solo attraverso un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente (CEDU) orientata. Di fatto, e prescindendo dalle differenze nominalistiche, la somma delle due misure darebbe luogo ad una pena patrimoniale, formalmente inespressa, quantificata nel doppio del vantaggio illecito.
Con riferimento ai reati di corruzione la nuova misura non colpisce anche il privato corruttore, posto il mancato richiamo all’art. 321 c.p.: la norma fa riferimento a quanto ricevuto dal pubblico agente e non anche al vantaggio tratto dal privato e tale circostanza dovrebbe determinare la non applicabilità del nuovo istituto nei confronti del “privato indotto” e nei confronti del “privato corruttore internazionale”. La logica repressiva riformatrice non si esaurisce nell’innalzamento delle pene principali: il vero punctum dolens sono infatti le pene accessorie applicabili alle persone fisiche per i principali delitti contro la p.a. Le apportate modifiche normative, da un lato, tendono ad allungarne la durata e, dall’altro, a presidiarne l’effettività in caso di sospensione condizionale, patteggiamento o a seguito di riabilitazione del condannato. Analogo disegno è stato replicato nei riguardi dei soggetti collettivi, come emerge dall’inasprimento delle sanzioni interdittive irrogabili ai sensi del d.lgs. n. 231/2001. La ricerca di una severità “oltranzistica” dell’apparato punitivo ha raggiunto risultati per certi versi aberranti con l’estensione ai corrotti e ai corruttori del regime carcerario differenziato preveduto dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, il tutto in uno scenario appena scosso dalla pronuncia dei giudici di Strasburgo. Inoltre, sono cresciuti sia i casi di interdizione accessoria perpetua sia la durata della corrispondente misura temporanee. Il rigore repressivo è per giunta amplificato dall’attuale innalzamento edittale concernente la maggior parte dei delitti contro la p.a., che riduce sensibilmente le chances di condanna a una pena detentiva inferiore a 2 anni. Se l’innesto dell’induzione indebita del pubblico agente sana una stortura della riforma del 2012, l’inclusione della corruzione per l’esercizio delle funzioni e soprattutto del traffico di influenze illecite suscita non poche perplessità dall’angolazione della proporzione. Tale severità riverbera i suoi effetti anche sulla fase cautelare del procedimento, giacché la novella del 2019 ha altresì introdotto il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione quale ulteriore misura interdittiva applicabile prima della condanna, senza necessità di attenersi ai limiti di pena previsti dall’art. 287, comma 1, c.p.p. (nuovo art. 289-bis c.p.p.). Il legislatore, in secondo luogo, ha inteso enfatizzare la capacità afflittiva delle pene accessorie pure in caso di sospensione condizionale della pena e, sul piano processuale, di applicazione della pena su richiesta delle parti. La stessa logica si riverbera sull’istituto del patteggiamento nonché quelli dell’affidamento in prova al servizio sociale e della riabilitazione. Il nuovo comma 1-ter dell’art. 445 c.p.p. affida al giudice la scelta se applicare le pene previste dall’art. 317-bis c.p. anche nei casi di condanna a pena detentiva che non superi i 2 anni soli o congiunti a pena pecuniaria. Quanto all’affidamento in prova, l’esito positivo della misura estingue gli effetti penali della condanna ad esclusione delle pene accessorie perpetue, mentre, l’istituto della riabilitazione, si è detto, «non produce effetti» sulle pene accessorie perpetue.
3.Conclusioni In definitiva gli ultimi approdi sanzionatori nell’ambito dei reati contro la p.a. rivelano una pericolosa incapacità selettiva del legislatore che, influenzato dalle “emozioni di repressioni esemplari”, ha congeniato un sistema bizzarro che presta il fianco ad innumerevoli censure e rischia di essere colpito dalla scure della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. L’inasprimento delle comminatorie edittali cela una volontà di sterilizzare gli istituti premiali per alcune categorie di reati, evidenziando il serio rischio di concepire la pena detentiva quale misura fisiologica per i reati commessi dai white collars. Per altro verso lo snaturamento delle pene accessorie che, perduta la loro caratura di automatismo sanzionatorio e lasciati nella disponibilità decisionale del giudicante, diventano da predicato della pena una seconda pena, radicano nel sistema ordinamentale nuove ipotesi di contrasto con il principio del ne bis in idem sostanziale. Da ultimo la misura introdotta dall’art. 322 quater c.p., lasciando intatte le perplessità di cui si è detto, potrebbe rappresentare un principio di rinnovamento della logica punitiva attraverso l’affermazione di una seriazione di reati (ad esempio quelli contro la p.a.) per i quali la risposta detentiva non può essere l’unica concepibile e percorribile. In altri termini, in chiave futuristica, l’istituto de quo è un germe per inaugurare una nuova stagione punitiva in cui il diritto penale qualifichi la sanzione pecuniaria quale unico strumento più idoneo a realizzare quegli obiettivi di prevenzione, punizione ed emenda che sono posti a fondamento dell’art. 27 della
di Filippo Ruggiero
Tra le diverse narrazioni che ha avuto, nei diversi ambiti giudiziario, storico, e artistico letterario, Piazza Fontana al cinema è soprattutto Romanzo di una strage (Marco Tullio Giordana, 2012). A 50 anni dal 12 dicembre del 1969, le riflessioni ancora oggi si concentrano sulla scena di allora, che ha marcato indelebilmente la storia recente italiana. Come del resto suggerito dal titolo, a guardare gli eventi di allora attraverso il cinema si guarda un romanzo, efficace ed ancora attuale. In due ore di narrazione sono concentrate tante pillole di fatti, necessari alla contestualizzazione; sullo sfondo dell’autunno caldo si intrecciano le vite spezzate di semplici comparse della storia, come Annarumma, e l’intimità dell’ambiente familiare e domestico di un protagonista, come il commissario Calabresi (Valerio Mastandrea) e la moglie Gemma (Laura Chiatti); una società civile in fermento in relazione alla quale, tra i vari, lo sguardo si sofferma da una parte sulla figura di Pinelli (Pierfrancesco Favino), visto come padre nelle sue due diverse famiglie, e dall’altra su quelle di altri attori che hanno giocato il ruolo dei soldati, su un palcoscenico diretto da chi, dietro la scena, cercava di guidare a sé gli eventi. In questo contesto, un venerdì pomeriggio, in una banca allora colma di gente in piena attività di contrattazione, un orologio segna le 16.37 e una deflagrazione attesa si materializza agli occhi dello spettatore. Si può sentire lo stordimento di chi accorre sulla scena; si può vedere la reazione commossa della città, nelle scene di repertorio dei funerali sullo sfondo della musica di Mozart. La storia è storia, ed è nota. Al romanzo sono concesse licenze. Così è concessa la costruzione di un rapporto personale pacificante tra due protagonisti come Pinelli e Calabresi; è concesso prendere una posizione anche solo parziale sui fatti che seguirono la strage, la morte di un uomo che si trovava nelle mani di rappresentanti dello Stato; così come è concessa la libera ispirazione sul racconto dell’ultimo cambio di cravatta della vita del commissario Calabresi (stando al racconto che ne fu poi fatto dalla moglie). Ma al di là delle licenze, il romanziere vuole mostrare il crinale che la democrazia italiana ha attraversato in quel periodo. Perché in situazioni di incertezza, gli italiani seguono le voci sicure; perché in situazioni di incertezza si assiste al muoversi di spinte autoritarie; perché le tendenze della società civile, inoltre, possono orientarsi sulla base di fake news ante litteram, costruite ad arte, fatte diffondere allo scopo e che diventano verità. Il romanziere, alla fine del racconto, non crede che sia stata fatta giustizia per i fatti di allora; crede, anzi, che si sia preferita un’opera di rimozione, lasciando che fosse il tempo a lenire la ferita di morti innocenti. Ma ciononostante, non è la delusione il sentimento prevalente e il romanzo è caratterizzato da una tensione positiva; a fronte delle tentazioni autoritarie, una democrazia giovane – come quella italiana di allora e di oggi – è una conquista che si deve preservare e custodire con premura, attraverso il necessario impegno di tutti i suoi attori: sapienti uomini delle istituzioni, pronti a non assecondare tali impulsi; uno Stato composito, dove giostrano servizi oscuri e personaggi stravaganti come il questore Guida, ma anche persone come lo stesso commissario Calabresi o il magistrato Paolillo; una vedova, rappresentante della società civile che, nonostante tutto, trova in questi interlocutori la conferma alla propria fiducia nella giustizia. È grazie all’impegno di uomini come loro, a vario titolo, che il pericolo può essere evitato.
di Marco Imperato
La legge 69 del 2019 (il c.d. Codice Rosso), in vigore dallo scorso 9 agosto, è l’ennesimo intervento del legislatore che si occupa del fenomeno della violenza domestica e di genere.
Sono introdotte numerose novità di natura sostanziale, a cominciare dall’ennesimo aumento delle pene edittali e dall’introduzione di nuove figure di reato: diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate (cd. revenge porn), deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, costrizione o induzione al matrimonio e la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
La norma manifesto dell’intero provvedimento, tuttavia, è quella che stabilisce l’obbligo di assumere informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia entro 3 giorni dall’iscrizione nel registro delle notizie di reato.
Il vero intento della regola, sintomatica di profonda sfiducia verso la magistratura, è quello di esercitare pressione sulle Procure affinché garantiscano l’ascolto delle vittime in tempi strettissimi: da un’eventuale violazione del termine, infatti, non deriverebbe alcuna sanzione processuale e l’unica conseguenza effettiva sarebbe solo un procedimento disciplinare a carico del Pubblico Ministero inadempiente. Questo monito non credo contribuirà in alcun modo a garantire un servizio migliore; anzi, toglie serenità a chi deve valutare quotidianamente moltissimi fatti potenzialmente delicati ma ciascuno diverso dall’altro (e se io fossi una vittima o un indagato ci terrei molto alla serenità dell’autorità giudiziaria…).
L’ urgenza presunta ex lege per casi tra loro eterogenei (maltrattamenti e atti persecutori di qualsiasi gravità, violenze sessuali, lesioni aggravate di vario tipo) è incongrua e illogica perché costringe a trattare allo stesso modo e con analoga urgenza situazioni che dovrebbero consentire scelte e valutazioni differenziate.
Sarebbe come pretendere di diminuire i tempi di attesa al Pronto Soccorso solo stabilendo che tutti i malati vanno trattati con codice rosso (appunto…) e quindi massima priorità: è lapalissiano che senza aumentare le risorse a disposizione non vi potranno essere miglioramenti, ma si rischierà soltanto di ingolfare ancor di più il lavoro di chi deve gestire l’emergenza, senza alcun beneficio per le vittime in sala d’attesa.
Si tratta di scelte che non rispondono a logiche di funzionalità ma a strategie di propaganda.
La legge si preoccupa anche della formazione degli operatori ma non bastano enunciati generici; in questa materia l’esperienza è necessaria e la sfida sarebbe garantire un approccio adeguato anche da parte delle forze dell’ordine più “periferiche”, baluardo indispensabile nel Paese dei centri medio-piccoli (due terzi degli italiani vivono in comuni da meno di 50.000 persone), ma a cui è difficile chiedere una gestione professionale quando manca loro la possibilità stessa di specializzarsi. Senza dimenticare la difficoltà a districarsi in una giungla di novità legislative compulsive in cui si disorientano anche gli operatori giuridici più esperti.
Soprattutto agli operatori di prima linea sarebbe di aiuto un quadro normativo chiaro, stabile e semplificato, per aiutarli ad orientarsi nelle prime decisive scelte dell’indagine e nelle indicazioni da dare alla vittima al primo contatto.
Per gestire in modo più razionale l’emergenza del fenomeno, nella Procura Bologna si è data disposizione di utilizzare un protocollo di valutazione del rischio denominato SARA (Spousal Assault Risk Assessment), che consente di dare maggiore uniformità ed oggettività alla verifiche di rischi e priorità, ma non si potrà mai prescindere da esperienza, sensibilità personale e contesto culturale.
In questo quadro, la previsione dell’audizione automatica e immediata della vittima entro 3 giorni (spesso la seconda audizione, perché in molti casi l’indagine scaturisce da una denuncia\querela) rischia per un verso di essere inutile perché ripetitiva, per altro verso di risultare dannosa, perché si traduce nella c.d. vittimizzazione secondaria della persona offesa, cui ogni rievocazione delle condotte subite può provocare sofferenza ulteriore. Tanto è vero che nel recente passato la scelta legislativa era stata di segno opposto, mirando ad un’audizione unica della vittima, mediante la previsione dell’incidente probatorio per le persone offese dei medesimi reati per cui oggi si pretende invece un (secondo) ascolto frettoloso e senza contraddittorio.
Mi occupo di violenza domestica e di genere ormai dal 2004 e ho spesso ritenuto essenziale risentire le vittime di questi reati, ma non di rado è opportuno farlo solo dopo aver ampliato il ventaglio di conoscenze del contesto mediante altre indagini (così da saper porre anche le domande giuste); quando non emergono immediati ed evidenti elementi di rischio sarà anzi utile procedere ad una nuova audizione almeno dopo qualche settimana e non immediatamente.
Chi si occupa di queste vicende sa bene quanto fluide e instabili siano queste situazioni e quindi volta per volta va verificato l’andamento della vicenda e anche se vi siano dei cambiamenti nell’approccio della persona offesa. Eventuali ripensamenti della vittima non sono sempre determinanti o affidabili, potendo a volte essere il segnale anzi di situazione di vulnerabilità e paura, ma nemmeno possono essere ignorati: la persona che subisce dei maltrattamenti non va spremuta ma accompagnata, con un lavoro e un’attenzione che non sono mai meramente investigativi ma che devono farsi carico del contesto concreto.
Ancora una volta il profilo che manca in questa iniziativa legislativa è la prevenzione (non potendosi ritenere tale la mera previsione di misure di prevenzione in senso tecnico): ci si illude di risolvere un fenomeno così complesso e radicato concentrandosi solo sui sintomi e sulle conseguenze, senza fare alcuna seria riflessione o investimento sulle cause culturali, sociali ed economiche.
Si è di fatto investito il procedimento penale anche di funzioni preventive, che possono essere svolte dai nostri Uffici solo in casi specifici e comunque solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza e concrete esigenze cautelari. Questo approccio non solo è inadeguato, ma complica le cose nel momento in cui il processo penale pone (giustamente e inevitabilmente) standard molto alti dal punto di vista probatorio e delle garanzie.
Se vogliamo davvero invertire la tendenza che vede questi fenomeni crescere inesorabilmente (e con loro crescono i costi umani e sociali della violenza), le vere sfide da affrontare sono al di fuori del processo penale:
- Prevenzione culturale che rimetta al centro la donna, la sua dignità e indipendenza nella società e all’interno dei nuclei familiari
- Sostegno alle pari opportunità come primo passo di emancipazione delle donne (la fragilità economica è un fattore non secondario nel rafforzare situazioni di maltrattamento e abuso)
- Forte campagna di informazione ed educazione per aiutare a riconoscere e prevenire gli abusi e per rendere le vittime consapevoli dei propri diritti
- Sostengo alle famiglie e alle comunità
- Politiche di integrazione in particolare verso il mondo dell’immigrazione, nel quale spesso la condizione femminile è ancor più vulnerabile e isolata
- Sostegno dopo il processo: cosa ne è della vittima una volta terminata la misura cautelare o emessa la sentenza?
Tutto questo poi deve trovare alla fine un sistema giustizia complessivamente credibile ed efficace, perché le vittime devono poter riporre fiducia nelle forze dell’ordine, nella magistratura e nella capacità delle istituzioni di non lasciarle da sole.
Nel contrasto alle violenze domestiche e di genere bisogna uscire dall’eterna emergenza di una stagione di propaganda, per avviare una percorso di serio investimento in cultura e risorse, affinché le regole già esistenti siano conosciute ed applicate con effettività e al contempo si diffonda consapevolezza di quanto sia prioritario proteggere le donne e sostenere la loro piena emancipazione e realizzazione.
di Giuseppe Fichera
Sommario: 1. – L’antefatto processuale. 2. – L’ordinanza interlocutoria delle Sezioni Unite del 2018. 3. – Il contraddittorio nel procedimento di approvazione del piano di riparto. 4. – Le conseguenze della violazione del contraddittorio. 5. – La decisione delle Sezioni Unite del 2019.
1. – L’antefatto processuale.
La vicenda che si commenta con queste brevi note ha certamente un tratto assai singolare: la violazione del contraddittorio tra tutti i creditori ammessi al concorso fallimentare nell’ambito del procedimento di approvazione di un piano di riparto delle somme da distribuire tra i medesimi creditori, viene rilevata d’ufficio per la prima volta dalle Sezioni Unite della S.C., dopo che la questione era passata sostanzialmente inosservata – nessuna delle parti avendo sollevato eccezioni di sorta sul punto – sia davanti al giudice delegato alla procedura che al tribunale fallimentare e pure innanzi ad un collegio della Prima sezione civile della medesima S.C.
In fatto la questione portata all’esame della S.C. può così riassumersi in breve: il commissario straordinario di una società, già posta in amministrazione straordinaria ex d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (la c.d. Prodi bis), depositò un piano di riparto parziale dell’attivo disponibile tra taluni creditori già ammessi al concorso.
Avverso il detto piano di riparto venne proposto reclamo dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, dal Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (di seguito breviter i “Ministeri”), tutti soggetti che risultavano non ancora ammessi al concorso, essendo pendente il relativo giudizio di opposizione innanzi al tribunale fallimentare; il giudice delegato accolse il reclamo, ordinando l’accantonamento di tutte le somme appostate nel detto piano di riparto.
I Ministeri reclamanti, in particolare, contestavano la possibilità di procedere al riparto, sussistendo un loro credito di natura prededucibile – conseguente a danni da disastro ambientale cagionato dall’attività industriale svolta dalla società debitrice – pari complessivamente a circa 3,439 miliardi di euro, destinato ad essere pagato in via preferenziale; il giudice delegato, in prime cure, ritenne che fosse necessario un accantonamento integrale dell’attivo liquidato, in vista del relativo accertamento dei crediti all’esito del cennato giudizio di opposizione pendente.
Un creditore concorrente, già ammesso alla distribuzione dell’attivo disponibile in base al progetto di riparto parziale originario, propose allora reclamo avverso il decreto del giudice delegato, che venne accolto dal tribunale; il collegio del reclamo affermò che, alla luce delle risultanze dello stato passivo, non poteva tenersi in considerazione il credito vantato dalle amministrazioni – escluso dal concorso e dunque senza titolo idoneo a fondare una pronuncia interinale di accantonamento –, non potendosi includere i crediti degli opponenti allo stato passivo tra quelli di cui all’art. 110, comma quarto, l.fall., posto che la detta norma si riferisce esclusivamente ai crediti già inclusi nel piano di riparto anche se contestati; in mancanza quindi di una giustificazione dell'accantonamento, il tribunale dichiarò l’esecutività del progetto di ripartizione depositato dal commissario.
I Ministeri reclamati a questo punto proposero ricorso per cassazione avverso il decreto del tribunale; ad esso resistettero con controricorso il creditore concorrente e, in unica difesa, la società in amministrazione straordinaria e il suo commissario straordinario.
Con ordinanza interlocutoria n. 9250 del 13 aprile 2018, la Prima sezione civile, rimise gli atti al Primo presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
In particolare, le Sezioni Unite furono sollecitate dall’ordinanza interlocutoria a decidere la seguente questione di massima di particolare importanza: «se sia ammissibile il ricorso per cassazione, ex art. 111, comma settimo, Cost., nei confronti del decreto del tribunale fallimentare che, decidendo sul reclamo contro il provvedimento del giudice delegato, abbia ordinato l’esecuzione del piano di riparto parziale, avuto riguardo alla sua idoneità a stabilire, in maniera irreversibile o meno, da un lato, il diritto del creditore concorrente a partecipare al riparto dell’attivo fino a quel momento disponibile e, dall’altro, il diritto degli altri interessati ad ottenere gli accantonamenti nei casi previsti dall’art. 113 l.fall.».
2. – L’ordinanza interlocutoria delle Sezioni Unite del 2018.
Va premesso che con Cass. S.U. 26 settembre 2019, n. 24068, le Sezioni Unite in commento hanno risolto, in maniera abbastanza agevole, la questione di massima di particolare importanza sottoposta dalla cennata ordinanza interlocutoria della prima sezione civile, dando continuità a quello che si può definire un orientamento “granitico” della S.C. (a partire già dalle remote Cass., Sez. 1, 27 gennaio 1961, n. 124 e Cass., Sez. 1, 4 aprile 1962, n. 703, cui fecero seguito una serie di arresti tutti in assoluta continuità, tra i quali merita di essere menzionata la fondamentale Cass., Sez. 1, 6 maggio 1992, n. 5358), pronunciando il seguente principio di diritto: «il decreto del Tribunale che dichiara esecutivo il piano di riparto parziale, pronunciato sul reclamo avente ad oggetto il provvedimento del giudice delegato, nella parte in cui decide la controversia concernente, da un lato, il diritto del creditore concorrente a partecipare al riparto dell'attivo fino a quel momento disponibile e, dall'altro, il diritto degli ulteriori interessati ad ottenere gli accantonamenti delle somme necessarie al soddisfacimento dei propri crediti, nei casi previsti dall'art. 113 l.fall, si connota per i caratteri della decisorietà e della definitività e, pertanto, avverso di esso, è ammissibile il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111, co. 7°, Cost.».
Quello che ci interessa approfondire in questa sede, invece, è il tema sollevato con una precedente ordinanza interlocutoria – la n. 31266 del 4 dicembre 2018 – delle medesime Sezioni Unite della Corte di Cassazione; con il cennato provvedimento il S.C. aveva espressamente richiesto all’Ufficio del Massimario del Ruolo della S.C. una “relazione di approfondimento” (ai sensi del § 71.2. delle vigenti tabelle di organizzazione della Cassazione), evidenziando l’esistenza di una questione processuale, mai sollevata da alcuna delle parti nel corso del procedimento né rilevata d’ufficio dai giudici, concernente la esatta individuazione di chi sia legittimato all'impugnativa di un piano di riparto e, conseguentemente, sui soggetti nei cui confronti vada sempre integrato in contraddittorio in sede di reclamo endofallimentare.
3. – Il contraddittorio nel procedimento di approvazione del piano di riparto
La problematica sollevata d’ufficio dalla cennata ordinanza interlocutoria delle Sezioni Unite, tra origine dal singolare iter processuale seguito dalle impugnazioni al piano di riparto sottoposto all’esame del Giudice di legittimità.
E invero, l’iniziale progetto di ripartizione in favore dei creditori in prededuzione e di ripartizione parziale in favore dei creditori pignoratizi, ipotecari e privilegiati generali fino al nono grado, già ammessi al concorso, presentato dal commissario straordinario al giudice delegato, venne comunicato, su ordine di quest’ultimo, a tutti i creditori concorrenti a mezzo PEC.
Nei quindici giorni successivi avverso il detto progetto di riparto parziale i Ministeri proposero reclamo ex art. 36 l.fall.; il giudice delegato, con decreto inaudita altera parte, dispose la sospensione dell’esecuzione del riparto delle somme, ordinando ai reclamanti di dare comunicazione del reclamo a mezzo PEC al commissario straordinario.
La società in amministrazione straordinaria depositò quindi una memoria difensiva, in seno alla quale chiedeva di respingere il reclamo; pure taluni tra i creditori ammessi al concorso con il privilegio generale mobiliare ex art. 2751-bis, n. 2), c.c. (tutti professionisti che avevano reso le proprie prestazioni in favore della società quando era ancora in bonis), intervennero volontariamente nel procedimento, concludendo senz’altro per il rigetto del reclamo.
Il giudice delegato, in primo luogo ritenne inammissibile l’intervento volontario in giudizio sia della società in amministrazione straordinaria che dei creditori non reclamanti – essendo, secondo il suo parere, unici contraddittori, nel reclamo ex art. 36 l.fall., il reclamante e il commissario della società in amministrazione straordinaria – e, invece, giudicò ammissibile il reclamo proposto dai creditori non ancora ammessi al concorso; accolse poi integralmente il reclamo, rigettando la richiesta di esecutività del progetto di ripartizione parziale avanzata dal commissario straordinario e disponendo nel decreto che le somme indicate nel piano di riparto restassero “accantonate”.
Uno soltanto tra i creditori concorrenti che erano intervenuti volontariamente nel reclamo, propose allora reclamo, ex art. 26 l.fall., avverso il detto decreto del giudice delegato. Fissata dal presidente della sezione fallimentare udienza per la comparizione delle parti, il reclamo venne notificato, a cura del medesimo reclamante, ai Ministeri – che si costituirono con memoria difensiva –, nonché alla società in amministrazione straordinaria e al suo commissario straordinario, che invece non spiegarono alcuna difesa.
Il tribunale, sovvertendo integralmente la decisione del giudice delegato, ritenne ammissibile senz’altro l’intervento dei creditori concorrenti nel procedimento di impugnazione del piano di riparto; accolse pure il reclamo proposto dal professionista intervenuto volontariamente in prime cure, dichiarando esecutivo il progetto di ripartizione parziale in precedenza depositato dal commissario straordinario.
A questo punto i Ministeri proposero ricorso per cassazione avverso il decreto del tribunale fallimentare reso sul reclamo proposto dal professionista; ad esso resistettero con controricorso il creditore concorrente vittorioso in sede di reclamo, e, in unica difesa, la società in amministrazione straordinaria e il suo commissario straordinario.
Ora, per capire meglio il tema di indagine, è forse utile qui ricordare che il testo dell’art. 110, comma terzo, l.fall., come introdotto dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, prevedeva che il giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, ordinasse il deposito del progetto di ripartizione in cancelleria, disponendo che tutti i creditori, compresi quelli per i quali era in corso un giudizio di opposizione allo stato passivo, ne fossero avvisati mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento o altra modalità telematica.
I creditori, entro il termine perentorio di quindici giorni dalla ricezione della comunicazione di cui al secondo comma, potevano «proporre reclamo contro il progetto di riparto nelle forme di cui all’articolo 26».
Ai sensi del quarto comma dell’art. 110 l.fall., decorso il termine per proporre reclamo, il giudice delegato, su richiesta del curatore, dichiarava esecutivo il progetto di ripartizione.
Con il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 (il c.d. “decreto correttivo”), si è stabilito invece che il giudice ordina il deposito del progetto di ripartizione in cancelleria, disponendo che tutti i creditori, compresi quelli per i quali è in corso uno dei giudizi di cui all’articolo 98 l.fall., ne abbiano conoscenza integrale a mezzo PEC; non è più previsto invece, dopo il decreto correttivo del 2007, che il giudice delegato debba acquisire il parere del comitato dei creditori.
I creditori, entro il termine perentorio di quindici giorni dalla ricezione della detta comunicazione, possono proporre reclamo al giudice delegato contro il progetto di riparto, ai sensi dell’art. 36 l.fall.
La riformulazione dell’art. 110, terzo comma, l.fall., che ha sostituito al reclamo ex art. 26 l.fall. quello ex art. 36 l.fall., è espressione della scelta della riforma di ridefinire le attribuzioni degli organi delle procedure fallimentari, residuando in capo al giudice delegato soltanto le funzioni di controllo per decidere le impugnative avverso un atto del curatore .
Ora, mentre l’art. 26 l.fall. stabilisce che «Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato, a cura del reclamante, al curatore ed ai controinteressati entro cinque giorni dalla comunicazione del decreto», non potendosi dubitare che nella categoria vi rientrino tutti i creditori che potrebbero subire modifiche nelle quote di riparto loro assegnate, il discorso appare diverso per l’art. 36 l.fall., norma che – essendo prevista in tema di impugnazione dei provvedimenti di amministrazione del curatore – si limita seccamente a disporre che sono legittimati al reclamo il fallito e ogni altro interessato, mentre sotto il profilo procedurale stabilisce che «Il giudice delegato, sentite le parti, decide con decreto motivato, omessa ogni formalità non indispensabile al contraddittorio».
Orbene, sulla legittimazione attiva a proporre reclamo avverso il progetto depositato dal curatore non sembrano sorgere soverchi dubbi, dovendo farsi coincidere i creditori interessati con i destinatari della comunicazione tramite PEC del progetto medesimo; forse più problematico, invece, riuscire a stabilire se il reclamo, da chiunque proposto, debba essere comunicato, oltre al curatore come espressamente presuppone la norma («sentito il curatore»), anche a tutti gli altri creditori concorrenti controinteressati.
L’opinione della dottrina sul punto, peraltro, è unanime nel ritenere che il contraddittorio vada esteso anche ai controinteressati, da intendere qui quali creditori in qualche modo potenzialmente pregiudicati dalla diversa ripartizione auspicata dal reclamante, poiché la relativa quota di riparto potrebbe subire una variazione, ovviamente in peius.
Tuttavia, si pone il problema di affidare al curatore – il cui atto è esattamente quello oggetto del reclamo – la scelta dell’individuazione dei creditori concorrenti controinteressati; sembra allora più opportuno sottrarre una tale valutazione al medesimo reclamato, onerando il curatore di dare avviso del reclamo, ovvero in caso di più gravami, dei reclami proposti, a tutti i creditori concorrenti già destinatari del progetto di ripartizione, mettendoli così in condizione di valutare se intervenire nel procedimento per sostenere o contrastare le ragioni del reclamante.
Va rimarcato, poi, come nella giurisprudenza della S.C., già nel vigore della precedente disciplina introdotta dalla legge del ’42, non erano sorti soverchi dubbi sulla necessità di integrare il contraddittorio, nel caso di reclamo ex art. 26 l.fall. – l’unico allora disciplinato dalla legge fallimentare – avverso il provvedimento del giudice delegato che stabiliva l’esatto contenuto del piano di riparto parziale rendendolo esecutivo.
In un primo tempo, anzi, la S.C. (Cass., Sez. 1, 14 marzo 1985, n. 1983) aveva affermato che poiché la sentenza n. 42 del 1981 della Corte Costituzionale (la quale dichiarò illegittimo l’originario art. 26 l.fall. nella parte in cui assoggettava a reclamo, disciplinato nel modo ivi previsto, i provvedimenti decisori emessi dal giudice delegato in materia di piani di riparto dell'attivo), aveva caducato gli aspetti della disciplina positiva dell’istituto in contrasto con la tutela costituzionale del diritto di difesa (dovendo essere colmata la lacuna discendente dalla pronuncia di incostituzionalità, con le regole generali disciplinanti il procedimento in camera di consiglio), il tribunale, in sede di reclamo contro il provvedimento del giudice delegato che stabiliva e rendeva esecutivo il piano di riparto, fosse tenuto (a pena di nullità rilevabile d’ufficio in sede di impugnazione) all’osservanza del principio del contraddittorio e, quindi, a sentire oltre al reclamante, anche il fallito, il comitato dei creditori, il curatore ed eventualmente anche tutti gli altri controinteressati che ne avessero fatto richiesta.
Successivamente, peraltro, la medesima Corte di legittimità (Cass., Sez. 1, 1 ottobre 1997, n. 9580) aveva chiarito che in sede di reclamo al tribunale fallimentare, contro i provvedimenti resi dal giudice delegato in tema di vendita dei beni acquisiti all’attivo, ai sensi dell'art. 26 l.fall., l’osservanza del principio del contraddittorio richiedeva che il reclamo ed il provvedimento che ordinava la comparizione delle parti per la decisione in camera di consiglio, fossero notificati – spontaneamente dal reclamante o, in difetto, su ordine del tribunale, ed a pena di inammissibilità del rimedio – al curatore fallimentare ed ai soggetti che, con riferimento alla specifica materia che costituisce oggetto del giudizio, erano destinatari degli effetti della decisione; non anche al comitato dei creditori, il quale non aveva, sub Julio, nessun potere di gestione attiva o di rappresentanza del fallimento, ma solo una funzione interna, consultiva e di controllo.
4. – Le conseguenze della violazione del contraddittorio.
Per giurisprudenza costante della S.C., (Cass., Sez. 6-3, 16 marzo 2018, n. 6644; Cass., Sez. 1, 26 luglio 2013, n. 18127; Cass, Sez. 3, 13 aprile 2007, n. 8825; Cass., Sez. 3, 26 febbraio 2004, n. 3866), quando risulta integrata la violazione delle norme sul litisconsorzio necessario, non rilevata né dal giudice di primo grado, che non abbia disposto l’integrazione del contraddittorio, né da quello di appello, che non abbia provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354, primo comma, c.p.c., resta viziato l’intero processo e s’impone, in sede di giudizio di cassazione, l'annullamento, anche d’ufficio, delle pronunce emesse ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell’art. 383, terzo comma, c.p.c.
Questo principio ha trovato in passato applicazione anche nell’ambito dei procedimenti in camera di consiglio, esattamente in tema di impugnazione del piano di riparto dell’attivo.
E invero già la S.C. (Cass., Sez. L, 9 luglio 1991, n. 7555) ebbe modo espressamente di affermare la nullità per violazione del principio del contraddittorio – rilevabile di ufficio anche in sede di legittimità – del provvedimento del tribunale che decida sul reclamo avverso il decreto, col quale il giudice delegato aveva dichiarato l'esecutività del piano di ripartizione dell’attivo, allorché tale decisione era stata adottata senza che il reclamo sia stato notificato ai creditori non reclamanti o, comunque, senza che gli stessi siano stati posti in condizione di conoscere l’esistenza del relativo procedimento e di comparirvi, spiegandovi le proprie difese, al fine di non vedere modificata in peius la loro collocazione o compromessa la possibilità di soddisfacimento totale o parziale del loro credito, non rilevando in contrario né che l’esito di detto procedimento fosse stato, in concreto, favorevole a tali creditori, né che questi non avessero proposto, nella fase anteriore di accertamento del passivo, ritualmente la domanda di ammissione.
Di recente, sempre nell’ambito di procedimenti camerale endofallimentari e precisamente in tema di esdebitazione del fallito, la S.C. (Cass., Sez. 1, 9 giugno 2014, n. 12950; Cass., Sez. 1, 25 ottobre 2010, n. 21864) ha cassato, con rinvio al tribunale, il decreto della corte d’appello confermativo del rigetto dell'istanza volta a ottenere il beneficio richiesto dal fallito, perché la domanda con cui il debitore chiedeva di essere ammesso all’esdebitazione non era stata notificata a tutti i creditori concorrenti non integralmente soddisfatti (in applicazione di Corte Cost. 30 maggio 2008, n. 181), ritenendo che la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di tali creditori determini l’inesistenza della pronuncia e la necessità di rimettere la controversia al primo giudice ex art. 354 c.p.c..
E ancora in tema di procedimento camerale di esdebitazione, la medesima S.C. (Cass., Sez. 1, 13 novembre 2015, n. 23303) ha ribadito che i creditori non integralmente soddisfatti, in quanto litisconsorti necessari, non possono essere pretermessi neppure nella fase di reclamo, dovendosi escludere, a pena di nullità rilevabile d'ufficio della decisione assunta, che il contraddittorio possa essere circoscritto a coloro che si siano costituiti innanzi al primo giudice, sicché, in tal caso, la decisione va cassata con rinvio al giudice del reclamo per l’integrazione del contraddittorio.
5. – La decisione delle Sezioni Unite del 2019.
Orbene, nella vicenda all’esame delle Sezioni Unite, come abbiamo visto in precedenza, è risultato incontroverso che il reclamo proposto dai Ministeri avverso il progetto di riparto parziale del commissario straordinario, non venne comunicato da quest’ultimo a nessuno tra i creditori concorrenti, né venne loro notificato su iniziativa dei medesimi reclamanti. E ciò nonostante in seno al reclamo le amministrazioni chiedessero, in sostanza, di accantonare integralmente tutte le somme destinate dal piano di riparto impugnato ai creditori ammessi al riparto, così pregiudicando concretamente il soddisfacimento delle loro ragioni di credito.
Peraltro, lo si è già ricordato sopra, taluni tra i creditori controinteressati ammessi al progetto di riparto parziale, depositarono un atto di intervento volontario – addirittura giudicato inammissibile dal giudice delegato –, mentre si è visto che tutti gli altri creditori concorrenti, pure destinatari delle somme previste nel riparto in base al progetto reclamato e, quindi, certamente controinteressati rispetto ai Ministeri, non spiegarono difese di sorta (è il caso dei creditori in prededuzione, di quelli ipotecari e pignoratizi, dei creditori muniti di privilegio generale ex art. 2751-bis n. 1) e 2) c.c. e degli altri creditori privilegiati generali, tutti ammessi al riparto parziale impugnato).
Quanto al secondo reclamo, quello proposto avanti al tribunale da uno solo tra i professionisti intervenuti nel primo reclamo celebrato davanti al giudice delegato, è sicuro che il ricorso venne notificato – a cura del medesimo reclamante – soltanto ai Ministeri, nonché alla società in amministrazione straordinaria e al suo commissario straordinario; nessuno degli altri creditori concorrenti, compresi quelli già intervenuti spontaneamente nel giudizio di prime cure, ricevettero notizia dell’impugnazione proposta da un loro sodale innanzi al collegio.
Né il tribunale, pure ritenuto ammissibile l’intervento volontario nel giudizio spiegato dal professionista, come quindi dagli altri creditori concorrenti intervenuti solo in prime cure, ritenne di disporre alcuna integrazione del contraddittorio, né nei confronti di questi ultimi, comunque parti processuali in prime cure – e però neppure destinatari della notifica del reclamo da parte del loro originale sodale –, né tantomeno nei confronti degli altri creditori controinteressati rimasti all’oscuro dell’intero procedimento, sia nella fase celebrata innanzi al giudice delegato che in quella davanti al collegio.
Le Sezioni Unite, allora, non possono che prendere atto delle plurime violazioni del contraddittorio che si erano consumate – nel singolare silenzio serbato da tutti i partecipanti al procedimento – nel corso dell’intero giudizio; e la S.C, in continuità con i suoi precedenti arresti, afferma il seguente principio di diritto: «In tema di riparto fallimentare, ai sensi dell'art. 110 l.fall. (nel testo applicabile ratione temporis come modificato dal d.lgs. n. 169 del 2007), sia il reclamo ex art. 36 l.fall. avverso il progetto – predisposto dal curatore - di riparto, anche parziale, delle somme disponibili, sia quello ex art. 26 l.fall. contro il decreto del giudice delegato che abbia deciso il primo reclamo, possono essere proposti da qualunque controinteressato, inteso quale creditore che, in qualche modo, sarebbe potenzialmente pregiudicato dalla diversa ripartizione auspicata dal reclamante, ed in entrambe le impugnazioni il ricorso va notificato a tutti i restanti creditori ammessi al riparto anche parziale».
In sostanza, quale che sia il tipo di impugnazione promosso dalla parte interessata, cioè sia che si tratti di reclamo davanti al giudice delegato, ex art. 36 l.fall., avverso il progetto presentato dal curatore (ovvero dal commissario straordinario), sia che si discuta di quello innanzi al collegio, ex art. 26 l.fall., contro il decreto del giudice delegato, è sempre necessario integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i controinteressati, id est i creditori concorrenti che siano risultati ammessi al riparto anche parziale e che, dall’accoglimento del reclamo, potrebbero subire un concreto pregiudizio discendente dalla diversa ripartizione dell’attivo auspicata dalla parte che abbia promosso il reclamo.
E nella vicenda processuale all’esame della Suprema Corte, plateale si mostra la violazione delle norme sul contraddittorio, non rilevata né dal giudice delegato, il quale non aveva infatti disposto la notifica dell’originario reclamo nei confronti di tutti i creditori ammessi a partecipare al riparto, né dal giudice del reclamo, visto che il tribunale non aveva rimesso la causa al primo giudice, ai sensi dell'art. 354, primo comma, c.p.c., né comunque disposto la necessaria integrazione; l’unica conclusione possibile, allora, è che risulta viziato l'intero procedimento camerale fin dalla sua prima fase celebrata innanzi al giudice delegato.
E infatti, la decisione in commento, a conclusione – ahimè ancora soltanto parziale – di un procedimento teso all’approvazione di un piano di riparto dell’attivo fallimentare, che si era già articolato attraverso ben tre distinte tappe processuali (davanti al giudice delegato, al tribunale fallimentare e ad una sezione semplice della Corte di Cassazione), decidono di cassare d’ufficio il provvedimento impugnato, riportando tutto l’iter direttamente innanzi al primo giudice, id est quel giudice delegato alla procedura concorsuale, che avrebbe dovuto disporre l’integrazione del contradditorio nei confronti di tutti i creditori ammessi al piano di riparto parziale e, quindi, controinteressati rispetto agli originari reclamanti.
Ruolo del giudice, soggetti vulnerabili e soft skills*
di Rita Russo
Sommario. 1. Utilità delle competenze trasversali . 2.- Soggetti vulnerabili e processo civile. 3.- Conclusioni.
1.- Utilità delle competenze trasversali
Le soft skills, dette anche competenze trasversali, sono abilità personali diverse dalle competenze tecnico scientifiche (hard skills) e che variano da individuo a individuo: tra queste, le capacità comunicative, gestionali, di risoluzione dei problemi, di adattamento, etiche.
Queste competenze sono dette anche life skills o interpersonal skills e sono tratti del comportamento, che definiscono la personale capacità di essere – ad esempio- un leader, un listener, un mediatore di conflitti[1].
Valorizzate specialmente nella cultura aziendalistica e utilizzate come criteri di selezione del personale, perché consentono di essere più efficienti ed efficaci nel raggiungimento degli obiettivi, non sono del tutto sconosciute nell’ambito dell’ordinamento giudiziario.
Sebbene non siano richieste per l’accesso in magistratura, giocano un ruolo più o meno importante, secondo i casi, per la progressione in carriera: nei pareri che i capi degli uffici e i consigli giudiziari rendono sui magistrati vi è sempre un riferimento, più o meno articolato, alla capacità del soggetto di organizzarsi e di rispettare gli impegni prefissati, al senso del dovere, alla disponibilità ad adattarsi alle esigenze dell’ufficio, alla capacità di interloquire correttamente con i colleghi, con il foro e con il personale amministrativo. Nelle procedure di nomina e conferma dei dirigenti, inoltre, si valorizzano le capacità organizzative e gestionali; anzi, sono previsti corsi di formazione obbligatori per aspiranti dirigenti, ove però una larga parte della offerta formativa si concentra sulle hard skills (ad esempio come elaborare correttamente un programma di gestione).
In verità, sembra che la magistratura non abbia ancora deciso se le soft skills (e quali) costituiscono competenze professionali su cui è doveroso che ogni magistrato -e non solo chi aspira ad incarichi dirigenziali- concentri la sua attenzione, oppure una dote in più, di cui taluni magistrati sono maggiormente provvisti ed altri meno, per ragioni insondabili ed insondate.
Ciononostante, può essere utile avviare una riflessione su queste competenze e chiedersi se esse possono essere impiegate in maniera strutturata nell’ordinario esercizio della giurisdizione e in quali aree della giurisdizione possono essere maggiormente utili.
Questa riflessione non può avviarsi senza muovere da una definizione, sia pure correndo il rischio di assumere a base del ragionamento definizioni non unanimemente condivise, non universalmente valide e non necessariamente esaustive. Un punto di partenza, ai fini che possono interessare un magistrato, potrebbe essere la definizione di cui sopra si è detto: le soft skills come capacità del soggetto di essere leader, listener, negotiator, ovvero conflict mediator.
Abbastanza ovvia appare l’utilità di avere dirigenti degli uffici capaci di essere leader, e cioè di avere quel carisma e quella credibility che induce gli altri a fidarsi; si potrebbe però dire che questa capacità dovrebbe armonizzarsi anche con altre, e cioè con la capacità di ascoltare e –di conseguenza- e di mediare i conflitti[2].
La capacità di essere un buon listener è però utile anche al singolo giudice o pubblico ministero, specialmente nella giurisdizione di primo grado, dove la corretta attenzione a ciò che comunicano le parti, gli avvocati, gli ausiliari e la conseguente adeguata selezione delle informazioni utili, è essenziale al fine di trasformare la magmatica realtà dei fatti in un buon processo e di giungere ad un giudizio equo.
In particolare, le competenze trasversali possono – e forse devono- essere utilizzate quando il processo riguarda i soggetti vulnerabili.
L’attività di interlocuzione del giudice e del P.M. con i soggetti vulnerabili ha conquistato negli ultimi anni sempre maggiore spazio nel processo, di pari passo con la sempre maggiore attenzione che la legislazione nazionale ed europea e le Convenzioni internazionali riservano a queste persone e alle loro specifiche esigenze[3].
Per i soggetti vulnerabili si deve assicurare non solo la tutela di merito, cioè rendere correttamente il provvedimento che attui i loro diritti, ma anche la tutela procedimentale: ciò vuol dire assicurare la loro partecipazione al processo rispettandone la condizione di vulnerabilità, in modo da evitare che detta partecipazione, anziché il momento in cui si esercita un diritto, divenga per il soggetto fonte di trauma e di danno.
Per questa ragione il magistrato ha necessità di acquisire delle competenze che gli consentano di interloquire con il soggetto vulnerabile in maniera da ridurre al minimo il disagio della partecipazione al processo; al tempo stesso sono necessarie le competenze che consentano di percepire correttamente le informazioni, istanze ed esigenze che il soggetto debole, a causa della propria condizione, talora stenta ad esprimere correttamente.
Con il soggetto vulnerabile, infatti, spesso si pone il problema della sua credibilità o attendibilità, ovvero ancora della sua idoneità ad esprimere una volontà libera e consapevole e giudizi critici fondati su una adeguata analisi dei fatti. Rispetto alla tipica interlocuzione del giudice con le parti e i testimoni, ragionata sullo schema dell’interrogatorio per capitoli, o comunque su circostanze predefinite, la interlocuzione con il soggetto debole richiede tempi più lunghi, capacità di ascoltare e di indirizzare le domande non solo al fine di ricostruire il fatto (come si fa con i testimoni) ma anche il contesto di vita in cui i fatti sono avvenuti.
Senza pretesa di completezza possiamo individuare quattro gruppi di soggetti vulnerabili con i quali, sia in sede civile che in sede penale, il magistrato può trovarsi ad interloquire: i minorenni; i soggetti in tutto o in parte privi della capacità di agire; le vittime di violenza domestica o di genere; gli immigrati non regolari e i richiedenti asilo.
L’attività di interlocuzione è poi ancora più complessa per il giudice civile: l’obiettivo del pubblico ministero e del giudice penale, quando si trova di fronte ad una vittima vulnerabile, e pur nella necessità di evitare la c.d. vittimizzazione secondaria, è quello di giungere alla punizione del colpevole, mentre il giudice civile deve non solo ridurre il disagio della partecipazione al processo per il soggetto debole, ma anche riconoscere ed attribuire (o negare) un bene della vita richiesto, e quindi deve fare sì che in quel processo egli riesca adeguatamente a rappresentare le proprie istanze ed esigenze e -in ultima analisi- riesca ad ottenere la tutela appropriata alla sue condizioni.
2.- Soggetti vulnerabili e processo civile.
Un soggetto vulnerabile che il processo civile conosce da tempo relativamente breve è il minorenne. Prima infatti della legge sull’affidamento condiviso (l.n.54/2006) si evitava accuratamente di coinvolgerlo nelle controversie che riguardavano i suoi genitori. Molto raramente i bambini e gli adolescenti entravano nelle aule di udienza, al più il giudice disponeva che il minore fosse esaminato, in talune circostanze, da uno psicologo o un neuropsichiatra infantile in veste di consulente tecnico. La legge sull’affidamento condiviso segna invece l’inizio di una rivoluzione copernicana, perché introduce l’ascolto del minore come adempimento doveroso e diretto da parte del giudice.[4] Nonostante qualche inziale perplessità è infatti questa l’interpretazione che prevale e la giurisprudenza italiana, in accordo con la dottrina più avveduta, individua la ratio della norma sull’ ascolto nel perseguimento delle finalità volute dalle Convenzioni di New York sui diritti del fanciullo e di Strasburgo sull’esercizio dei diritti dei minori, vale a dire di consentire al minore l’esercizio dei suoi diritti all’interno di un procedimento che lo concerne, senza tuttavia sottovalutare il valore cognitivo della audizione[5].
A distanza di sette anni dalla legge sull’affidamento condiviso, il D.lgs. n. 154/2013 (riforma della filiazione), recependo molte delle indicazioni già emerse nella prassi giudiziale, introduce nell'ordinamento l'art. 336 bis c.c., ove sono contenute indicazioni utili per eseguire un ascolto del minore rispettoso dei suoi diritti e della sua serenità. Si dispone ad esempio che l’ascolto è condotto dal giudice, anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari; che i genitori, anche quando parti processuali del procedimento, i difensori delle parti, il curatore speciale del minore, se già nominato, ed il pubblico ministero, sono ammessi a partecipare all’ascolto se autorizzati dal giudice, al quale possono proporre argomenti e temi di approfondimento prima dell’inizio dell’adempimento. Inoltre con l’introduzione nel codice civile dell’art. 315 bis (ad opera della legge n. 219/2012) l’ascolto è definitivamente consacrato quale diritto fondamentale del minore, da esercitare in primo luogo in famiglia e, comunque, in ogni procedura che lo riguarda.
Ciò che dal minore si deve raccogliere, nel corso dell’audizione, non è (soltanto) il racconto di fatti, ma anche e principalmente le sue opinioni ed esigenze, in quanto siano effettivamente sue e cioè frutto di una elaborazione personale; ciò non significa tuttavia che il giudice diventi un mero recettore della volontà del minore cui deve poi uniformare il provvedimento. E’ quindi importante avere tempo, informare il minore dei suoi diritti e non interrogare con domande troppo esplicite o stringenti, ma ricostruire il suo contesto di vita; se il caso farsi assistere da un ausiliario esperto di infanzia e adolescenza ex art. 68 c.p.c., il che consente, oltre che di eseguire un buon ascolto, anche di apprendere per via esperienziale un modus operandi adeguato. La giurisprudenza ha spesso avuto modo di evidenziare l’importanza del rapporto tra informazione ed opinione poiché non ogni opinione e segnatamente quelle velleitarie o che derivano da una rappresentazione dei fatti distorta dagli adulti, meritano considerazione; ma se correttamente informato, il minore può esprimere delle opinioni libere, scevre cioè dal condizionamento che gli adulti autorevoli (genitori, nonni) possono operare sulla sua psiche[6]. Per ottenere questi risultati il giudice deve necessariamente attrezzarsi per poter eseguire l’ascolto del minore in modo rispettoso ma anche utile, e la giustizia deve adattare le sue procedure per divenire child friendly, come suggeriscono le linee guida del Consiglio di Europa[7].
Non molto diverso è il caso in cui il giudice si trovi di fronte la persona incapace di provvedere ai propri interessi perché totalmente o parzialmente incapace di intendere e di volere o per altra condizione di fragilità psicofisica. La persona non compos sui è un soggetto processuale noto da sempre al nostro sistema, ma il cui esame, prima della emanazione della legge n. 6/2004 che introduce la misura di protezione dell’amministrazione di sostegno, avveniva essenzialmente in una ottica valutativa. Il giudice doveva verificare se il soggetto era totalmente incapace o solo parzialmente incapace e da ciò discendeva l’applicazione di misure rigide, quali l’interdizione o l’inabilitazione, con una disciplina legale predeterminata. Scarsa o nulla importanza in quest’ottica si attribuiva all’ascolto attivo, inteso come momento per capire i bisogni e le aspirazioni del soggetto e, soprattutto, per consentirgli di esercitare, nei limiti del possibile, i suoi diritti. Ciò non era necessario perché –una volta verificato che il soggetto non era capace- se ne decretava la morte civile e si conferivano i poteri di rappresentanza al tutore.
La prospettiva si è capovolta con l’introduzione dell’ordinamento dell’amministrazione di sostegno che è un “vestito su misura” ed è la misura principale di protezione, avendo ormai l’interdizione solo carattere residuale.[8] E’ il giudice che decide se, come e in che misura estendere al beneficiario le incapacità proprie del regime di interdizione o di inabilitazione, e quindi deve capire quali sono i suoi punti di forza e i suoi punti di debolezza, cosa è capace di fare da solo e per cosa invece è necessaria l’assistenza o la rappresentanza. Inoltre la volontà del soggetto incapace rileva nelle scelte dei trattamenti terapeutici e sanitari, anche quando all’amministratore o al tutore si attribuisce il potere di rappresentanza in questa materia; queste scelte si fanno tenendo conto della volontà del soggetto e se possibile rispettandola. Così la legge n. 219/2017 (DAT) dispone che il consenso informato ai trattamenti sanitari è prestato: dal genitore o dal tutore sentito il minore o l’interdetto; “anche” dall’amministratore se investito delle funzioni di assistenza necessaria in materia; solo dall’amministratore sentito il beneficiario se investito della rappresentanza esclusiva in materia[9].
Pertanto, non diversamente da quanto avviene con il minore, anche con il soggetto non compos il giudice deve porsi in posizione di ascolto e non eseguire un interrogatorio tradizionale, fondato su capitolati preconfezionati.
Vi è poi un altro protagonista processuale alla cui condizione si deve riservare una speciale attenzione e cioè la vittima di violenza domestica o di genere, la cui tutela non si non si realizza solo nel processo penale, ma anche nel processo civile. Di questo l’ordinamento italiano ha preso piena consapevolezza con la sentenza CEDU del 2 marzo 2017 (Talpis vs. Italia), che ha condannato lo Stato italiano per violazione degli art. 2 (diritto alla vita) 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti) della Convenzione EDU, nonché dell'art. 14 (trattamenti discriminatori). Da questa sentenza emerge che la tutela penale, sia pure attivata, non ha avuto effetto dissuasivo; la Corte EDU osserva che la tutela per essere effettiva deve prevenire il comportamento lesivo. Da ciò consegue che la tutela penale deve essere integrata con altre forme di tutela, opportunamente potenziate e rese anch'esse più efficienti, al fine di intervenire prima che il delitto sia consumato ed evitare la c.d. escalation della violenza. Tocca dunque al giudice civile prestare una speciale attenzione a questi casi e ogniqualvolta esamina una persona che deduce di essere vittima di violenza domestica, sia in un procedimento ex art. 342 bis c.c. che in procedimento di separazione, divorzio, affidamento di figli minori, deve essere capace di valutare sia il rischio di escalation che l’attendibilità del soggetto; nel processo civile la parte, contrariamente a quanto avviene nel processo penale, non acquista la qualità di testimone, ma ciononostante è sul racconto della persona offesa che ruota l’istruttoria e su quel racconto vanno cercati i riscontri.
Anche in questo caso la capacità del giudice si misura sulla capacità di ascolto, di valutazione e nel saper ricostruire non solo i fatti ma anche i contesti[10]. Ad esempio, è importante ottenere informazioni oltre che sul fatto materiale (la violenza agita) anche sui fattori di rischio (alcolismo, tossicodipendenza, licenziamento dal lavoro etc.). Il giudice deve quindi porsi in un’ottica di ascolto della parte, rispettandone anche le difficoltà nella narrazione, le incertezze, i tempi lunghi, elementi che data la qualità di soggetto vulnerabile non sono necessariamente indici di reticenza o inattendibilità.
Infine, deve farsi cenno ad un altro gruppo di soggetti vulnerabili, protagonisti di un fenomeno esploso statisticamente negli ultimi anni, quello dei flussi migratori, composti da aventi diritto all’asilo e migranti economici e tra i quali è spesso difficile distinguere, posto che la maggior parte di loro presenta comunque domanda di protezione internazionale.
Il richiedente la protezione internazionale è un soggetto vulnerabile, non di rado vittima di violenze e sfruttamento economico, che spesso rende il suo racconto in condizioni in cui è ancora provato dal trauma del viaggio.
È vero che non è il magistrato il primo ad ascoltare il richiedente asilo, perché l’intervista è eseguita dai componenti della Commissione territoriale, organo decisorio amministrativo, tuttavia il giudice deve essere in grado di valutare se essa sia stata eseguita correttamente o meno -ed in tal caso reiterala- e soprattutto cosa realmente emerge da questa intervista[11]. Qui vi è una difficoltà in più e cioè che il soggetto si esprime non solo in lingua straniera, spesso in dialetti locali, e per questo bisogna fare molta attenzione alla professionalità degli interpreti, ma secondo parametri culturali e modelli sociali difformi dai nostri[12].
Il richiedente la protezione, inoltre, è in una posizione peculiare perché ha l’onere di specifica allegazione dei fatti per i quali essa si richiede, e il racconto, se circostanziato e credibile può essere considerato prova dei fatti dedotti, se compatibile con le informazioni sui paesi di origine (COI) [13]. In questa materia i principi che regolano l'onere della prova devono infatti essere interpretati secondo le norme di diritto comunitario contenute nella Direttiva 2004/83/CE, recepita con il D.lgs. n. 251/2007. L'autorità amministrativa esaminante ed il giudice devono svolgere un ruolo attivo nell'istruzione della domanda, sussistendo un dovere di cooperazione del giudice nell'accertamento dei fatti rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione. In questo dovere di cooperazione rientra anche il dovere di porre attenzione alla vulnerabilità del richiedete asilo, quando lo si ascolta, e consentirgli di circostanziare il racconto perché è su questo che si fonda il giudizio di credibilità e quindi, in ultima analisi, l’accoglimento o il rigetto della domanda[14]. Ciò vuol dire che se il modus operandi del giudice è quello – magari divenuto un riflesso automatico dopo anni di interrogatori dei testimoni- di interrompere il narrante quando riferisce circostanze irrilevanti –o presunte tali – o esprime valutazioni, sarà stata preclusa al richiedente la possibilità di offrire la prova a sostegno della sua richiesta e cioè un racconto cui i dettagli, le valutazioni espresse, e talora persino le emozioni narrate, conferiscono attendibilità.
Il migrante, peraltro, non sempre è in condizione di esprimere una volontà libera, informata e consapevole: la sua volontà può essere viziata da ignoranza, da stati transitori di incapacità, spesso legati al trauma del viaggio, dalle altrui minacce o pressioni. Si pensi alle donne vittime di tratta, che sono molto restie a rivelare di essere state trattate per paura di ritorsioni -anche sulla famiglia rimasta in patria- o per superstiziosa soggezione a riti magici e che ignorano che esistono percorsi di speciale tutela per la loro situazione[15]. In questi casi è particolarmente importante prestare attenzione agli indicatori di una situazione di speciale vulnerabilità, ma anche dare tempo, per elaborare la decisione di svincolarsi dai trafficanti.
3.- Conclusioni
L’interlocuzione con i soggetti vulnerabili richiede al giudice di uscire dalla rigidità degli schemi del processo civile tradizionale, che vuole il giudice terzo non solo imparziale, requisito questo irrinunciabile, ma anche immobile, che analizza criticamente solo ciò che le parti gli mettono sul tappeto. Questa regola può essere valida – e non in termini assoluti – per i diritti disponibili, ma è di scarsa utilità nel settore della tutela dei diritti umani e in particolare della tutela dei soggetti vulnerabili, dove è richiesto un ruolo più attivo. Ciò non significa dismettere il ruolo del giudice o peggio non fare percepire al soggetto vulnerabile che la persona con cui interloquisce è il giudice, perché ciò costituirebbe un’inaccettabile mistificazione, ma aprirsi alla comprensione piena – cui poi deve seguire la valutazione critica – delle istanze, delle ragioni e delle fragilità del soggetto vulnerabile, per offrire la risposta di giustizia più adeguata.
La buona interlocuzione con i soggetti vulnerabili è una esperienza impegnativa, ma dovuta, e che ci insegna a ripensare il ruolo del giudice come soggetto che deve essere dotato non solo di competenze giuridiche, ma anche di altre competenze, prima fra tutte la capacità di essere un buon ascoltatore. Queste capacità, una volta apprese, possono essere utilmente impiegate anche in altri settori: non sfugge, ad esempio, come la capacità di ascoltare e di negoziare può rivelarsi utile nel processo civile ordinario, per favorire la conciliazione delle parti, con il conseguente effetto deflativo sui ruoli.
Se così è, i programmi di formazione dei magistrati dovrebbero concentrarsi anche sullo sviluppo delle predette competenze, pur se si tratta di abilità che difficilmente possono essere apprese con l’insegnamento tradizionale: questo tipo di apprendimento è infatti essenzialmente esperienziale. Inoltre, trattandosi di attitudini del soggetto che possono essere sviluppate così come mortificate, molto dipende dalla storia di ciascuno, dalla personalità e dagli studi compiuti prima dell’accesso alla attività lavorativa. Qui forse si dovrebbe aprire un capitolo sulle modalità di accesso in magistratura, perché il concorso pubblico è una modalità di selezione che richiede solo hard skills e ciò orienta i giovani a scelte formative e didattiche che trascurano completamente le soft skills, per poi accedere alla magistratura sprovvisti di queste ultime o comunque inconsapevoli della loro importanza.
E’ difficile pensare ad una modifica della prova d’esame che valorizzi le competenze trasversali, tranne forse che per la prova orale, dove, almeno in parte, queste abilità possono valutarsi; ma non è impossibile immaginare dei correttivi nei percorsi formativi dei laureati in giurisprudenza. Uno di questi correttivi è ad esempio il tirocinio formativo ex art. 73 del DL 69/2013 (convertito in legge n. 98/2013), percorso che consente di completare la formazione teorica con quella pratica, tramite un apprendimento esperienziale che trametta non solo il sapere, ma anche il saper fare.
Si tratta di aprirsi ad un modo nuovo e diverso di vedere il ruolo del giudice, che si costruisce anche attraverso la varietà delle esperienze.
*Lo scritto è fondato sul testo, riveduto e integrato, dell’intervento tenuto alla Suola Superiore della Magistratura – Scandicci, nella settimana di formazione dei MOT, 29 giugno 2019.
[1]BALARAM BORA, The essence of soft skills, in International Journal of Innovative Research and Practices Vol.3, 2015, così si esprime: “Soft skills are non-technical, intangible, personality specific skills which determines an individual's strength as a leader, listener and negotiator, or as a conflict mediator. Soft skills are the traits and abilities of attitude and behaviour rather than of knowledge or technical aptitude” Si veda anche la definizione del dizionario Collins: interpersonal skills, such as the ability to communicate well with other people and to work in team.
[2] Good leaders tend to be extremely good listeners, able to listen actively and elicit information by good questioning, BORA The essence , cit.
[3] Solo per citare alcune delle principali Convenzioni a tutela dei soggetti vulnerabili: la Convenzione di New York del 20.11.1989 sui diritti del fanciullo, ratificata con legge del 27.5.1991 n. 176; La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 13.12.2006 ratificata in Italia con legge del 3.3.2009 n. 18; La Convenzione di Istanbul, sulla prevenzione della violenza domestica dell’11.5.2011 ratificata in Italia con legge del 27.6.2013 n. 77; Convenzione di Strasburgo del 25.1.1996, sull’esercizio dei diritti dei minori, ratificata in Italia con legge del 20.3. 2003, n. 77
[4]LOVATI, Affidamento condiviso dei figli: luci ed ombre della nuova legge, in Riv. Crit. Dir. Priv 2006 165 ss; TOMMASEO, Rappresentanza e difesa del minore nel processo civile, in Fam. e dir. 4, 2007 412.
[5] Cass., sez. un., 21.10.2009, n. 22238; Cass. civ. sez. I 07.5. 2019, n. 12018
[6]Cfr. Cass. civ. 27.7.2007 n. 16753; Cass. civ. sez. I 15.2. 2008 n. 3798 Cass. civ. Sez. I , 15.05.2013, n. 11687
[7] Linee guida per una giustizia adatta ai bambini, (child-friendly) adottate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 17 novembre 2010; in www.coe.int/en/web/children/ita
[8] “vestito su misura” è l’ormai nota definizione data da CENDON, 2006, in www.personaedanno.it
[9] Sul punto si veda anche CONTI, Scelte di vita o di morte: Il giudice è garante della dignità umana?, 2019, 109 e ss. L’A. sottolinea come in questi casi viene in rilevo la capacità del giudice di essere “guardiano” degli interessi dei soggetti deboli.
[10] E’ questa la tecnica usata nel formulario Spousal Assault Risk Assessment Guide (S.A.R.A.). Sebbene non sia un formulario scientificamente validato, è molto usato nelle questure, e serve a ricostruire il contesto in cui è agita la violenza, anche con riferimento alla storia personale dell’individuo.
[11] Cass. civ. 5.7.2018 n. 17717; CGUE 26.7. 2017 nella causa C- 348/16.
[12] Per un approfondimento BREGGIA L’audizione del richiedente asilo dinanzi al giudice: la lingua del diritto oltre i criteri di sintesi e chiarezza, in Questione Giustizia n. 2/2018, www.questionegiustizia.it
[13] Cass. civ. 11.11.2019 n. 29056
[14] Si veda Cass. sez. un 17.11.2008 n. 27310; Cass. 14.11.2017 n. 26921.
[15] Report EASO ottobre 2015, Country of Origin Information. Nigeria, sex trafficking of women
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