Aspromonte, la terra degli ultimi
Recensione di Dino Petralia
Arroccata sull’Aspromonte, popolata di miseria e calore, agli albori degli anni cinquanta, Africo vive l’agonia che la condurrà all’abbandono di case e cose per un’incontenibile alluvione d’acqua e di disincanto.
Uomini, donne e bambini, schiacciati dalla torchiante pressione di un’Autorità che non tollera rigurgiti sociali e da una altrettanto oppressiva malavita pronta a sedare impennate contestatrici, officiano uniti il loro riscatto esistenziale chiedendo quel poco che serve a non morire o anche a morire ma nella dignità del minimo: un medico condotto che salvi i nascituri e preservi i pochi abitanti del borgo da strenue e inutili discese giù al mare in cerca di ausilio sanitario.
Tra le orgogliose condotte di sfida - la discesa a piedi nudi in città per ottenere dalla viva voce e su carta scritta del Prefetto la promessa della condotta medica; la deliberata e rischiosa indifferenza alle minacciose ingiunzioni del capoccia locale (un Sergio Rubini in versione quasi caricaturale del mafioso don Totò); la costruzione di una strada di pietre e fango in grado di collegare il monte al piano - si consuma una storia semplice e vera, intrecciata al giusto e all’ingiusto, colorita di sofferenze, sogni e delicatezze rurali.
Promesse violate e odiose rappresaglie mafiose piegheranno gli sforzi ma non i cuori. Ed è così che Africo, umiliata dall’isolamento e martoriata dalle ostilità si trasforma in luogo ideale di lotta armonica e solidale, di sedizione pacifica, di competizione esistenziale, dove la povertà fiera degli africoti giganteggia sull’imperiosità dei potenti, istituzionali e non, assumendo un ruolo dominante e fascinoso dipinto da Calopresti con la maestria del semplice ricorso all’autenticità.
Autentica la suggestione rurale del paesaggio; autentico il lessico degli interpreti calabresi e dei due leader contadini Peppe (Francesco Colella) e Cosimo (Marco Leonardi); credibile il binomio bellezza e povertà, celebrato nella nobile dignità di un’umiliazione che diventa risorsa vitale di lotta all’ingiustizia; autentica la sapienza didascalica, rustica ed emozionale del poeta e pittore Ciccio (un incisivo Marcello Fonte neo attore da Archi) che fa da sottofondo narrante ad una storia che mescola geografia del cuore e aneliti di una civiltà immaginata ma non per questo meno reale; una civiltà lontana ma diventata ingegnosamente coeva sulle scene con l’arrivo di una maestra comasca - una naturalissima e sempre efficace Valeria Bruni Tedeschi - stupita e quasi disgustata sulle prime dei disagi della terra degli ultimi e tuttavia gradatamente conquistata dalla più sublime civiltà della giusta ribellione dei contadini del luogo, dalla seduzione dell’onesta determinazione degli ultimi a volercela fare, giungendo così a ribaltare il suo ruolo di insegnante con quello di consapevole apprendista del senso del margine sociale, promosso al rango di valore primario da tutelare.
Dallo Jonio di Africo e Bianco al Mediterraneo dal sole invincibile di Albert Camus corre idealmente l’intero Aspromonte, fatto di altezze e voragini, superficie e abisso, corse e frenate, potenze e miserie, antichità sontuose e cocenti attualità. Un Aspromonte che dal racconto di Pietro Criaco (“Via dall’Aspromonte”), cui il film si ispira, entra nel sogno nostalgico di Calopresti e Lucisano (il produttore) invitando entrambi alla costruzione di una storia sognata e agognata di ritorno alle origini comuni e, al tempo stesso, di riscatto di un’intera regione.
“Sognare non costa nulla” predica Ciccio disegnando il sogno accanto al suo animale; e il sogno degli africoti ha intatta e potente l’energia rivoluzionaria degli ultimi sprigionando nello spettatore, all’unisono con le note di Nicola Piovani, la seduzione di un gratificante contagio emozionale.