ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Linee guida e buone prassi per la trattazione dei procedimenti penali a carico di vittime di violenza domestica e di genere nel Tribunale di Torre Annunziata
di Ernesto Aghina
La legge n. 69/2019 (il cd. “codice rosso”), pur con alcune criticità, segnala un significativo cambio di passo per quanto concerne l’attenzione dedicata da parte del sistema giudiziario alle cd. “vittime vulnerabili”.
L’accelerazione dell’intervento di ascolto della vittima coinvolge specificamente gli uffici requirenti ma, singolarmente, alcuna previsione normativa è dedicata a garantire analoga tempestività da parte dell’ufficio giudicante, probabilmente ritenendo la valutazione di priorità di trattazione dei reati di cui agli artt. 609bis, 612bis e 572 c.p. già ricompresa nell’alveo normativo di cui all’art. 132bis disp. att. c.p.p.
Va tuttavia dedicata una specifica attenzione da parte dei Tribunali a questo tipo di reati, anche per non dilatare, laddove ne siano valutati sussistenti i presupposti a seguito del tempestivo ascolto della vittima, l’adozione di uno dei (necessari) provvedimenti che l’arsenale cautelare prevede in tali fattispecie.
Il Tribunale di Torre Annunziata, in proficua sinergia con la locale Procura della Repubblica, ha emanato delle “linee guida” (riportate di seguito), che prevedono una sorta di codice rosso cautelare, oltre ad una metodologia di trattazione sequenziale (e quindi particolarmente accelerata) del relativo giudizio dibattimentale.
Al contempo può essere utile segnalare l’adozione di un protocollo di “accoglienza” delle vittime vulnerabili (sia per le audizioni in sede di incidente probatorio sia per la fase dibattimentale) realizzato, ottemperando a prescrizioni di fonte sovranazionale, sul modello di una positiva esperienza intrapresa presso il Tribunale di Milano.
Anche nel tribunale oplontino si è potuto realizzare l’iniziativa in virtù della spontanea adesione di un ampio numero di tirocinanti ex art. 73 d.l. n. 69/2013, destinatari di una opportuna offerta formativa da parte di psicologi e criminologi.
Non sembra superfluo evidenziare come il Tribunale di Torre Annunziata, in un ambito circondariale dove i casi di violenza di genere appaiono in preoccupante incremento, consapevole del rilievo della prevenzione, ha da circa un anno intrapreso un percorso di collaborazione con le scuole medie inferiori e superiori.
Oltre a garantire la presenza di magistrati del Tribunale presso gli istituti scolastici per confrontarsi con gli studenti sul tema della violenza di genere, si è positivamente sperimentato un originale modulo formativo, che prevede l’ospitalità di intere classi di studenti in Tribunale.
Con la collaborazione di magistrati, personale amministrativo e tirocinanti, è stato realizzato un “processo simulato” per il reato di atti persecutori consumato in ambito scolastico (cd. cyberbullismo), più volte replicato per numerosi istituti scolastici che ne hanno fatto richiesta, favorendo così un confronto tematico con i giovani studenti che si è rivelato estremamente proficuo.
Il Tribunale di Torre Annunziata, con il documento che segue, intende disciplinare la trattazione giudiziale dei processi relativi alle vittime di violenza di genere, oggetto di recente intervento normativo con la legge 19 luglio 2019 n. 69, anche con riferimento al momento dell’accoglienza delle vittime vulnerabili (persone offese dei predetti reati) all’interno della struttura giudiziaria.
Si intende sostanzialmente far fronte ad esigenze di carattere processuale ed organizzativo, che sinteticamente si espongono anche con riferimento alle fonti normative che presiedono alle problematiche:
A) quanto al profilo processuale viene in rilievo come la legge n. 69/2019, prevedendo all’art. 2 un’opportuna accelerazione del contatto tra il p.m. e la persona offesa per l’assunzione di informazioni, rimarca l’esigenza di acquisire con rapidità contezza di una possibile situazione emergenziale, al fine di adottare tutti gli strumenti cautelari più opportuni per la protezione della vittima.
Al contempo però alcuna disposizione garantisce un’analoga e corrispondente celerità di intervento giudiziario da parte dell’ufficio giudicante, rischiando in qualche modo di limitare l’efficacia della corsia preferenziale da “codice rosso” che le nuove norme intendono palesemente privilegiare.
Va premesso che questo Tribunale già con le tabelle di organizzazione vigenti dal 2017, anticipando quanto indicato nella “Risoluzione sule linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica” approvata dal C.S.M. in data 9.5.2019, ha previsto una sezione di giudici specializzata per i reati di violenza di genere o maturati nell’ambito delle relazioni familiari, uniformandosi con proficuo raccordo all’ufficio di Procura (in cui la predetta specializzazione è ancora più marcata)
Tanto ha consentito, all’esito di incontri tra i magistrati (anche dell’ufficio g.i.p./g.u.p.) ed una costante interlocuzione con l’ufficio requirente, di prevedere una (opportuna) accelerazione nella trattazione dei processi anche per quanto attiene alle competenze del Tribunale.
In proposito va evidenziato come, nonostante la già dedotta assenza di specifiche indicazioni in merito da parte della legge n. 69/2019, possono comunque ricavarsi inequivoche indicazioni quanto alla necessità di riconoscere carattere prioritario alla trattazione dei processi relativi al settore di interesse.
Il riferimento è alla sentenza della Corte EDU Talpis c. Italia del 2.3.2017 e all’art. 132bis disp. att. c.p.p., che ricomprende esplicitamente i reati di violenza di genere e domestica (art. 572, 612bis, 609bis c.p.) tra quelli cui deve essere riconosciuta una trattazione prioritaria.
Da tanto consegue l’indicazione all’ufficio g.i.p. di provvedere, con assoluta precedenza rispetto alle altre richieste provenienti dall’ufficio di Procura, sulle richieste cautelari relative ai reati summenzionati, ritenendosi del resto incongruo che al “codice rosso” previsto per l’ascolto presso l’ufficio di Procura della vittima, non corrisponda una analogo e più che tempestivo intervento inteso a cautelarne l’incolumità da parte del Tribunale, che anzi si individua nel mezzo di intervento giudiziario più urgente ed opportuno laddove siano accertate situazioni di emergenza.
Analoga tempestività di intervento viene prevista anche per quanto riguarda la sede dibattimentale, anche per eludere forme di pressione e condizionamento sulla vittima denunziante intese a menomarne la genuinità e la libertà di testimonianza.
Già il sistema operativo GIADA in uso presso questo Tribunale, software predisposto per regolare l’assegnazione dei processi ai giudici della sezione dibattimentale, prevede nell’algoritmo che lo regola che sia riconosciuta trattazione prioritaria (quanto all’individuazione della data di prima udienza, da fissarsi non oltre il termine di gg. 65 dalla richiesta della Procura) per i processi in cui l’imputato sia sottoposto a misura cautelare (circostanza riscontrata nell’anno in corso per la stragrande maggioranza dei casi in esame).
Per conferire ancora maggiore rilievo all’urgenza di definizione dei processi per reati di violena domestica e di genere, viene ulteriormente previsto che laddove l’imputato per detti reati sia sottoposto ad una qualsiasi misura cautelare personale (pur se revocata a dichiarata inefficace, ex art. 132bis.1 lett. d) disp. att. c.p.p.), nella prima udienza di trattazione (cd. udienza di smistamento) il giudice provvederà ad una calendarizzazione delle udienze secondo un metodo sequenziale di trattazione, intesa ad una programmazione (concordata con le parti processuali) in modo di pervenire alla decisione definitoria in tempi estremamente contenuti, favorendo al contempo (come previsto dall’ufficio requirente) la tendenziale presenza del medesimo pubblico ministero professionale, lo stesso che abbia svolto le indagini.
La Camera penale si è del resto dichiarata concorde quanto all’esigenza di trattazione prioritaria convenendo - nel caso di astensione dalle udienze - un rinvio dei processi con vittime vulnerabili alla prima udienza utile.
B) quanto invece al profilo organizzativo, si intendono valorizzare le dinamiche dell’accoglienza delle vittime.
Viene in rilievo come prima fonte normativa di riferimento la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica dell’11.5.2011, che all’art. 56 prevede un’adeguata assistenza alle vittime (lett. e) disponendo nonché “…., ove possibile, che siano evitati i contatti tra le vittime e gli autori dei reati all’interno dei tribunali…..”(lett. g).
Peraltro anche la direttiva 2012/29/UE stabilisce all’art. 19 “..il diritto all’assenza di contatti tra la vittima e l’autore del reato….nei locali in cui si svolge il procedimento penale, a meno che non lo imponga il procedimento…”,disponendo altresì all’art. 23, l’adozione di idonee misure di protezione anche durante le deposizioni.
L’effettività delle anzidette disposizioni deve naturalmente essere contemperata con le singole strutture giudiziarie, ed in particolare con il plesso giudiziario del Tribunale di Torre Annunziata, non perfettamente adeguato rispetto alle esigenze ed il numero medio quotidiano di utenti.
Nondimeno si è individuata, per quanto di utilità, una stanza di accoglienza delle vittime vulnerabili, destinandosi a tal fine l’aula delle audizioni protette denominata “Matilde Sorrentino”, inaugurata nel gennaio 2017 e disponibile anche per chi (impegnata a vario titolo nell’attività lavorativa all’interno del Tribunale) abbia necessità di allattare la prole.
L’aula in questione, situata al piano secondo della torre del Tribunale occupata dal settore penale, ospiterà quindi le vittime vulnerabili quando saranno citate in giudizio per la loro testimonianza con metodiche concordate con l’ufficio di Procura, prevedendosi con apposito modulo dedicato alla citazione per l’udienza, anche l’indicazione della sede di accoglienza e della sua collocazione.
Analogo servizio viene previsto per le audizioni protette disposte dall’ufficio g.i.p.
L’istruttoria dibattimentale per i reati di cui all’art. 572 c.p., 609bis e 612 bis c.p. sarà inoltre calendarizzata ad orario prefissato (preferenzialmente nella seconda fascia dell’udienza, con inizio alle ore 11.30) e comunque nell’orario prescelto dall’organo giudicante in base al carico di ruolo, in modo da ridurre al minimo i tempi di attesa.
Al momento di ammissione della prova testimoniale, il giudice monocratico o il collegio giudicante avranno modo di verificare, ove richiesto, la sussistenza di esigenze specifiche di protezione individuale della vittima ed adottare le idonee misure intese ad evitare ogni contatto visivo con l’imputato (o gli imputati), ovvero a svolgere l’udienza a porte chiuse.
Sulla scorta della positiva esperienza mutuata dal Tribunale di Milano, si intende coinvolgere nell’iniziativa i tirocinanti di cui all’art. 73 d.l. n. 69/2013 assegnati alll’ufficio che hanno offerto, previo interpello, la loro disponibilità (sin qui nel numero di 50) ad essere inseriti in appositi “turni” quotidiani (prevedendosi anche una indicazione di riserva in caso di contingente indisponibilità), predisposti semestralmente da parte del magistrato referente in materia di tutela dei diritti delle vittime di reato e distribuiti sia ai tirocinanti che ai magistrati del settore penale.
Il turno verrà strutturato in modo da garantire che il tirocinante incaricato del servizio non sia assegnato per il tirocinio al giudice monocratico (o a un membro del collegio) che deve ascoltare la vittima.
Tanto consentirà loro, previo opportuno avviso sulla base dei turni di disponibilità operato mediante acquisizione a tal fine dei recapiti di telefonia mobile e di posta elettronica, di ricevere la vittima all’ingresso del Tribunale e, previa verifica dell’accettazione del servizio di assistenza, di accompagnarla presso la stanza di accoglienza e quindi (mediante opportuno raccordo) anche nell’aula di udienza quando ne riceverà l’indicazione.
Sarà cura dell’organo giudicante preposto all’ascolto di una vittima vulnerabile (cui verrà trasmesso periodicamente l’elenco del turno) di dare al tirocinante preventivo avviso (con congruo anticipo) dell’impegno eventualmente previsto.
Si provvederà inoltre a fornire tutte le informazioni necessarie anche al personale in servizio all’ingresso del Tribunale (cui veranno anche affidate le chiavi della stanza di accoglienza), per agevolare il raccordo sin qui descritto.
Il tirocinante, all’esito dell’attività istruttoria provvederà altresì ad accompagnare la vittima vulnerabile all’uscita del Tribunale, aveno cura di segnalare immediatamente al giudice qualsiasi condizione di criticità incompatibile con lo svolgimento dell’attività a lui affidata.
Le chiavi dell’aula verranno riconsegnate dal tirocinante al posto di guardia al termine dell’impegno.
Per agevolare le attività dei tirocinanti (che eviteranno qualsiasi riferimento al contenuto del processo), sono previste riunioni periodiche con psicologi, assistenti sociali e criminologi di cui si è avuto modo anticipatamente di acquisire la disponibilità, al fine di illustrare il modo migliore di assolvere all’incarico assunto e di monitorare l’andamento del servizio.
Hevrin Khalaf. Una combattente per i diritti delle donne
di Mariella De Masellis
Hevrin Khalaf, curda, segretario generale del Partito del Futuro siriano, è morta ad appena 35 anni, sabato 12 ottobre. E’ stata estratta a forza dal veicolo su cui viaggiava, picchiata, lapidata, le hanno sparato, hanno mutilato il suo corpo, un’esecuzione violenta e oltraggiosa consumata sul margine della strada che da Ras al Ayn porta a Qamishli, a sud della città siriana di Tel Abyad.
I suoi assassini sarebbero appartenenti al Free Syrian Army, un gruppo ribelle siriano, attivamente sostenuto dalla Turchia. Le sequenze raccapriccianti dell’omicidio sono state filmate con i telefoni cellulari dagli esecutori che nel video si sentono ridere, scherzare e gridare insulti mentre Hevrin Khalaf muore.
Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani è stata la nona persona tra i civili ad essere uccisa a sud della città di Tel Abyad nei primi tre giorni dell'offensiva turca nella Siria settentrionale denominata “ Operation Peace Spring”.
Secondo il Washington Post l’uccisione di Hevrin Khalaf, vittima civile e disarmata, costituisce quasi sicuramente un crimine di guerra in base al diritto internazionale.
Sulla stampa aleggia il sospetto che Hevrin Khalaf sia rimasta vittima di un omicidio mirato dell’Isis, che la considerava una pericolosa miscredente. Peraltro, cellule dello Stato islamico si sono riattivate con l’offensiva turca alla frontiera, e hanno compiuto molti attacchi con autobombe in quelle settimane.
Appartenente ad una famiglia da sempre impegnata nel movimento di liberazione curdo, laureata in ingegneria presso l’università di Aleppo, era da anni attivista sul fronte del dialogo fra curdi, cristiani e arabi per accrescere la tolleranza e l’unità.
Hevrin Khalaf era una personalità politica, dopo l’inizio della guerra in Siria nel 2011 aveva lavorato per diverse ONG prima di diventare capo del Consiglio economico nella città di Qamishli. Nel 2014, in seguito all'annuncio dell'istituzione dell'amministrazione autonoma curda del Rojava, era diventata vicepresidente della Commissione per l'energia e, quindi, capo della Commissione economica per le aree controllate dai curdi in Siria.
Nel 2018 era stata nominata segretario generale del Syrian Future Party e membro del consiglio democratico siriano, in tale veste partecipava ai negoziati con gli Stati Uniti, la Francia e altre delegazioni. Era particolarmente apprezzata proprio per le sue abilità diplomatiche.
Ahed Al Hendi ha così descritto, in un articolo pubblicato sul magazine americano “ Foreign Policy”, la sua etica del lavoro: “Si sarebbe svegliata alle cinque del mattino senza smettere di lavorare fino a mezzanotte, sia che si trattasse di un viaggio nella regione di Deir Ezzor, recentemente liberata dallo Stato Islamico, per fare da tutor ai bambini e agli adolescenti in matematica, sia che dovesse incontrare, nel suo ruolo di segretario generale del Future Syria Party (FSP), i leader tribali arabi e contribuire a risolvere le loro numerose controversie. Ha personificato il modo in cui la FSP e il Consiglio democratico siriano hanno affrontato le molte differenze tra i popoli della regione. "[1].
Secondo i media curdi Hevrin Khalaf credeva nell’unità della Siria ed era fortemente convinta della necessità di una soluzione politica per far cessare la grave e lunga crisi del popolo siriano.
Nonostante la sua giovane esperienza in campo politico è riuscita a diventare un’icona nazionale siriana, espressione di unità, speranza, libertà e democrazia.[2] Come sottolineato in un articolo pubblicato il 27 ottobre sull’Osservatorio Internazionale dei Diritti Umani (IOHR), il suo impegno per migliorare la vita di tutte le comunità della Siria nord-orientale era al di sopra della sua carriera.
L’attivista, proprio pochi giorni prima di essere uccisa, aveva rilasciato delle dichiarazioni, riportate dal Rojava Information Center, in cui criticava aspramente la repressione della Turchia contro i curdi: “Noi respingiamo le minacce turche, soprattutto perché ostacolano i nostri sforzi per trovare una soluzione alla crisi siriana. Durante il periodo in cui l’Isis era al potere vicino al confine, la Turchia non lo percepiva come un pericolo per la sua gente. Ma ora c’è un’istituzione democratica nel nordest della Siria, e loro ci minacciano con l’occupazione”.
L’istituzione democratica di cui parlava Hevrin Khalaf è il progetto di Confederalismo Democratico del Rojava, una struttura politica e sociale di autogoverno democratico che il popolo curdo sta sperimentando, fondata sulla riconciliazione tra i popoli e sull’uguaglianza di genere, così stravolgendo il ruolo delle donne nel Medio Oriente. Attività che l’ortodossia islamica su cui si poggia anche l’Akp (Adalet ve Kalkınma Partisi, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo) di Erdoğan, giudica inaccettabile. Le donne del Rojava hanno infatti combattuto e si battono per la parità di genere cercando di smantellare quel patriarcato alimentato dal fanatismo religioso. La creazione delle Ypj (Unità di Protezione delle Donne, in curdo Yekîneyên Parastina Jin) è stata fondamentale per le vittorie contro le milizie dell’Isis. [3]
Hevrin Khalaf si batteva, ormai da anni, per la difesa e la libertà delle donne in un contesto politico-culturale che, come noto, non offre protezione alle donne, ritenendole ancora, per molti aspetti, inferiori all’uomo.
Per Hevrin Khalaf, la lotta per l'uguaglianza di genere costituiva una priorità e una causa per cui si era impegnata instancabilmente.
Qualche settimana prima della sua morte, aveva partecipato e parlato al Forum of Tribal Woman Notables in Siria, sottolineando l'importanza di consentire la partecipazione femminile nei processi politici, comunitari e decisionali per il miglioramento della società. Aveva evidenziato il ruolo cruciale delle donne combattenti nella battaglia contro lo stato islamico e come, proprio le donne, avessero in tal modo concretamente dimostrato non solo al Medio Oriente, ma a tutto il mondo, che le tradizionali narrazioni patriarcali sulle donne erano false.
Hevrin Khalaf ha lottato per la parità di genere nella rappresentanza politica, facendo appello direttamente alle donne delle comunità in cui i valori patriarcali tradizionali erano ancora radicati.
La voce di Hevrin era tra le più forti, non solo per il sostegno, ma anche per la lotta attiva per l'uguaglianza delle donne in Siria.
Le modalità atroci con cui le è stata inflitta la morte appaiono deliberatamente finalizzate a degradarla e umiliarla nei suoi ultimi momenti.
Non era solo Hevrin che i suoi assassini stavano prendendo di mira, era anche tutto ciò che rappresentava: la forza, la dignità e l'uguaglianza delle donne.
Nel tributo dedicatole da IOHR il 27 ottobre scorso si afferma che Hevrin Khalaf era un faro e una voce per la resistenza delle donne, in un'epoca in cui lo spietato stato islamico era intenzionato ad azzerare i diritti delle donne nella regione.
Hevrin non si è accontentata di mantenere l'ordine politico esistente, ma si è impegnata perchè nella regione del Rojava si compisse un passo permanente e importante verso l'uguaglianza di genere.
Lei è stata straordinaria e lo è stata ancor di più perché si è battuta per le donne in un contesto in cui altre donne hanno scelto di sostenere la ripugnante ideologia dell’ISIS che in nome di un integralismo religioso uccide, violenta, viola e degrada le donne, le vende come schiave al mercato per una manciata di dollari.
La morte di Hevrin Khalaf, quella recentissima e altrettanto atroce di Daniela Carrasco, “El Mimo”, attivista e artista di strada cilena, trovata impiccata, il suo corpo esposto ed appeso ad una recinzione alla periferia di Santiago del Cile, come monito per intimidire chi, soprattutto se donna, sta partecipando alle mobilitazioni di questi giorni nel Paese, mostrano tragicamente il continuo ricorso alla violenza e allo stupro contro le donne, come strumento di guerra, e testimoniano che la vera uguaglianza di genere, espressione della pari dignità della donna, non è stata ancora raggiunta.
L’uguaglianza di genere si colloca nel novero dei nuovi diritti umani, quelli che Norberto Bobbio definisce “ i diritti umani di terza generazione” e “ uno dei principali indicatori del progresso storico dell’umanità” (L’età dei diritti, 1990).
Hevrin Khalaf rappresenta la lotta, la resistenza, la crescita politica e organizzativa delle donne curde.
I valori di Hevrin Khalaf, per cui tanto si è impegnata e ha combattuto, continueranno a vivere e cammineranno non soltanto sulle gambe delle donne curde e siriane, ma su quelle di tutte le donne, e non solo le donne, che li condividono in ogni parte del mondo. [4]
Onore ad Hevrin Khalaf dedicando a lei il mantra del movimento di resistenza delle donne curde:
JIN, JIYAN, AZADI! DONNE, VITA, LIBERAZIONE!
[1] (Hendi, Ahed Al. "The Dream of Syrian Democracy Was Killed by U.S.-Backed Jihadis". Foreign Policy. Retrieved 11 November 2019) From Wikipedia
[2] Così Jalaa Hamzawi, capo dell'ufficio relazioni pubbliche del Future Syria Party, ha parlato a 7Dnews della sua amica Hevrin Khalaf.
[3]Secondo il credo dei combattenti del Califfato quando un soldato viene ucciso da un uomo ha la possibilità di andare nel paradiso dei martiri, con numerose vergini ad attenderlo; se invece muore per mano di una donna il suo destino è segnato: niente paradiso e niente vergini. Da qui il terrore di ritrovarsi faccia a faccia con una donna armata e quando si sono trovati a dover affrontare delle donne in battaglia, hanno preferito più volte la fuga.
[4] “Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. Giovanni Falcone
di Luigi Salvato
1. «L’idea che ogni persona, in qualsiasi parte del mondo, indipendentemente dalla nazionalità, dal luogo di residenza, dalla razza, dal censo, dalla casta o dalla comunità di appartenenza, abbia alcuni diritti fondamentali che gli altri sono tenuti a rispettare ha in sé qualcosa di estremamente affascinante» (Amartya Sen, L’idea di giustizia, Milano 2010, 361). Eppure, tale idea – ha altresì osservato Amartya Sen – pressoché universalmente condivisa, almeno apparentemente, nonostante il suo fascino «è considerata da molti critici priva di qualsiasi fondamento razionale», al punto che «riaffiorano così insistentemente questi interrogativi: esistono diritti umani ? E quale ne sarebbe la fonte ?» e, «benché negli affari del mondo il ricorso alla nozione di diritti umani sia una costante, sono molti coloro che la considerano solo una formula gridata sulla carta» (op. cit., 361).
Ad onta di un diffuso convincimento della centralità ed essenzialità dei diritti dell'uomo e del fatto che sono trascorsi oltre settanta anni dall’adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani (il testo che ha segnato una svolta nella comunità internazionale in questa materia), deve dunque constatarsi, purtroppo, il permanere di dubbi finanche in ordine a profili preliminari, concernenti l’an, oltre che il quomodo, dei diritti umani; soprattutto, che in non pochi angoli del mondo ancora si assiste a violazioni dei più basilari diritti sanciti nel corso della storia, talora pure in quegli stati che si suole ritenere tra i più avanzati e democratici. Anzi, molteplici e nuove nubi sembrano addensarsi minacciose sul sistema dei diritti umani, anche in conseguenza dell’impatto della profonda crisi che, prevalentemente nell’ultimo decennio, ha investito il mondo intero, non soltanto economica, ma anche etica, psicologica, politica. Si tratta di una complessiva e generale crisi di fiducia e di sicurezza, di solidarietà e sociale, particolarmente pericolosa, in quanto può minare le radici stesse della convivenza civile e del sistema democratico, alimentare la perniciosa tendenza secondo cui i diritti umani potrebbero essere talvolta lasciati da un lato, poiché costituirebbero un lusso che non ci si può permettere in tempi di crisi, e porre a rischio la tenuta di risultati che pure sembravano pacificamente acquisiti.
Tali pericoli rendono certe la perdurante attualità delle tematiche relative ai diritti dell'uomo e l’esigenza di una fertilizzazione costante e continua del relativo dibattito, imprescindibile allo scopo di garantire che non vadano vanificati gli obiettivi acquisiti e che prosegua il lungo, complesso e faticoso, percorso verso il pieno riconoscimento e l’effettiva tutela dei diritti umani.
2. Quest’ultima considerazione è sufficiente, da sola, a dare ragione dell’opportunità della rinnovata riflessione svolta da Pasquale Gianniti e Claudio Sartea nella monografia “Diritti umani e sistemi di protezione sovranazionali” (edita per i tipi dell’Aracne). Il volume affronta la questione dei diritti umani muovendo da una sintesi del percorso che ha condotto alla progressiva affermazione dei diritti umani, che illustra con efficacia la radice della loro teorizzazione (rinvenuta nella filosofia classica e nel pensiero religioso) ed il momento dell’emersione della loro rilevanza sul piano giuridico, allorché la codificazione degli stessi dà «inizio al moderno linguaggio dei diritti» (pg. 19). Al fine di evidenziare che la questione dei diritti umani e taluni dei principali caratteri che la connotano sono risalenti nel tempo, può ricordarsi che Louis Godart, muovendo dalla premessa che la legge scritta e codificata costituisce l'unico mezzo in grado di tutelare i diritti dell'uomo, ha indicato (La libertà fragile. L'eterna lotta per i diritti umani, Milano, 2012) nel primo codice di leggi della storia (il c.d. codice di Ur-Nammu, sovrano sumerico, fondatore della terza dinastia di UR verso il 2110 a.c., riprodotto su una tavoletta di argilla conservata al museo di Istanbul) la più antica testimonianza della transizione (o, meglio, del tentativo di transizione), realizzata da una fonte normativa, dalla giustizia ferrea dell’occhio per occhio e del dente per dente ad una giurisdizione più «umana» e dell’affermazione della tutela dei diritti dei deboli (l’orfano, la vedova, il povero). Si tratta di una considerazione particolarmente significativa, in quanto pone in luce con sintesi ed efficacia sia che il tema dei diritti umani è sorto e si è imposto contestualmente all’inizio della civilizzazione – e che, dunque, la storia dei diritti umani è la storia stessa della civiltà e della progressiva attuazione della democrazia –, sia che il riconoscimento e la garanzia degli stessi dipende dalla loro consacrazione in una fonte normativa e dalla tutela assicurata mediante la giurisdizione.
Il primo di detti profili, di recente, è stato significativamente evidenziato, tra l’altro, allorché si è sottolineato, con riguardo ai diritti enunciati nella CEDU, che questi sono distinti dalla Corte di Strasburgo in due categorie: la prima, costituita dai diritti fondanti la democrazia europea; la seconda dai diritti di «importanza capitale» indirettamente costitutivi la democrazia (F.Sudre, citato da D.Tega, I diritti in crisi, Milano 2013, 6).
Tale profilo, tra le molte suggestioni offerte dalla lettura della monografia - condizionate, come è ovvio, dai convincimenti dei lettori, ciascuno dei quali sceglie la propria chiave di interpretazione – costituisce, a mio avviso, una delle idee centrali della riflessione, affrontata incisivamente dagli Autori ed opportunamente ed adeguatamente messa in rilievo, soprattutto in un momento storico quale quello attuale. La preliminare considerazione dalla quale muovono - che «i diritti umani hanno il loro fondamento nella stessa natura e dignità della persona umana» (pg. 1) - è, infatti, in seguito ulteriormente approfondita, evidenziando che «fin dai tempi dell’antichità greco-romana era chiaro che la democrazia può esistere come tale soltanto se la maggioranza rispetta certe premesse basilari dell’ordinamento sociale, tra cui i diritti inviolabili dell’uomo» (pg. 15). Tanto significa che la connotazione individualistica che caratterizza i diritti umani, in quanto rinvengono la loro matrice «nella dignità che appartiene ad ogni essere umano», comunque neppure va enfatizzata fino al punto di «contraddire la nostra natura sociale» (pg. 29), dimenticando il carattere di «alterità» che li connota, in quanto «riconosciuti, difesi, in favore di altri soggetti umani, non di se stessi» (pg. 30). In ogni caso, non esaurisce la complessiva dimensione nella quale gli stessi si collocano, in quanto devono essere calati in una vicenda che non è non può essere soltanto individuale, ma è collettiva, costituendo la fonte ed il parametro di verifica del sistema democratico. E’ stata infatti la diffusione della cultura e del rispetto dei diritti umani che ha influito sulla conformazione interna degli stati; in essi si è radicato il superamento della dimensione dell’assolutezza del potere dello stato nei confronti di quanti vivono all’interno dei confini del medesimo; grazie ad essi, attraverso un processo sviluppatosi soprattutto a partire dalla metà dello scorso secolo, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, è stata realizzata, non solo in Italia, la transizione dallo stato di diritto allo stato costituzionale, mediante le Costituzioni ‘rigide’ ed in quanto eminentemente indirizzate alla difesa dei diritti fondamentali dei cittadini, miranti quindi a garantire ognuno dallo strapotere delle maggioranze parlamentari.
La circostanza che «i diritti fondamentali nascono come diritti naturali, si sviluppano come diritti costituzionali e si dirigono verso la meta dei diritti universali» (N. Bobbio, L’Età dei diritti, Torino, 1992, XII) ha poi fatto sì che detta funzione del sistema dei diritti umani, eccedente la dimensione meramente individualistica, si è esplicata altresì oltre i confini dei singoli stati, trovando consacrazione con la firma, il 26 giugno 1945, dello Statuto delle Nazioni Unite che «individua infatti tra i fini dell’organizzazione la promozione del rispetto e dell’osservanza dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (pg. 22). Ed è ancora grazie ai diritti umani che è maturato il mutamento della concezione della sovranità dello stato, in conseguenza della trasformazione del diritto internazionale, divenuto per essi il diritto degli individui, con l’istituzione di corti internazionali cui gli individui possono rivolgersi direttamente per conseguire forme di tutela dei loro diritti fondamentali (A. Pizzorusso, E’ possibile parlare ancora di un sistema delle fonti ?, in Foro it., 2009, V, 215), ed ha subito un’accelerazione anche il processo di integrazione europea, a seguito dello sfaldamento del «rapporto biunivoco ritenuto fondamentale dalla scienza giuridica moderna, e cioè quello tra stato e diritto, emblema della sovranità statale» (A. Di Martino, Il territorio: dallo Stato-Nazione alla globalizzazione (sfide e prospettive dello Stato costituzionale aperto), Milano, 2010, 4).
Gli Autori colgono e pongono in luce con efficacia questa essenziale funzione regolatrice dei rapporti tra stati svolta dal sistema dei diritti umani, evidenziando come, appunto per questo, l’affermarsi di un nuovo ordine globale costituisca effetto del riconoscimento degli stessi «non solo “dentro” gli Stati ed in conformità alla loro azione, ma anche, ove fosse il caso, “contro” gli Stati, in base ad un sempre più riconosciuto principio di antecedenza delle persone sull’istituzione» (pg. 23); ciò vuol dire che la dimensione individuale influisce appunto su quella collettiva e sul modo di essere del potere, poiché costituisce ragione e misura dello stesso. Attraverso un’approfondita analisi viene dunque messo in chiaro quello che potrebbe essere definito il volto buono della globalizzazione, che non è soltanto quella economica, finanziaria e dei mercati, ma è altresì quella che ha realizzato la «inarrestabile affermazione di un nuovo modello del potere», sovranazionale ed incentrato sulla tutela dei diritti e delle libertà fondamentali (pg. 24). Alla globalizzazione della produzione e dei mercati fa riscontro - come osservava Francesco Galgano e ricordano gli Autori - «un’altra, nobile, forma di globalizzazione […] che possiamo definire come la globalizzazione dei diritti dell’uomo» (pg. 27).
Pasquale Gianniti e Claudio Sartea approfondiscono questa radice “buona” della globalizzazione, perché frutto dell'affermazione dell'universalità dei diritti umani, prima ancora che di spinte dell'economia. La sfida che occorre affrontare e vincere è, dunque, quella che passa attraverso la riscoperta di questo valore positivo della globalizzazione, anche con riguardo alla storia dell'UE, come gli Autori non mancano di approfondire. Occorre infatti non dimenticare che, come essi ricordano, l’UE, nata come Comunità economica, con matrice appunto essenzialmente economica e sistema nel quale «l’individuo non era tutelato come essere umano, ma in quanto centro di imputazione di interessi economici» (pg. 162), grazie alla meritoria opera della Corte di giustizia, influenzata anche dalle Corti costituzionali italiana e tedesca (in particolare, sentenza della Corte costituzionale 27 dicembre 1973, n. 183; sentenza del Bundesverfassungsgericht del 29 maggio 1974) e che sin dal 1969 ha svolto un ruolo “strutturale” incidente sullo stesso modo di essere dell’ordinamento comunitario (A. Tizzano, Qualche riflessione sul contributo della corte di giustizia allo sviluppo del sistema comunitario, in Dir.un.eur., 2009, 141), si è sviluppata con più ampio respiro, proprio ed anche a seguito dell’affermazione che «i diritti fondamentali della persona […] fanno parte dei principi generali del diritto comunitario, di cui la Corte garantisce l’osservanza» (sentenza 12 novembre 1969, C-29/69, Stauder), sia pure «entro l’ambito della struttura e delle finalità della Comunità» (sentenza 17 dicembre 1970, C-11/70, Internationale Handegesellshaft mbH).
La riflessione svolta nel volume meritoriamente rafforza il convincimento che il sistema dei diritti umani ha permesso una «progressiva affermazione di un nuovo modello del potere sovranazionale» (pg. 24, oltre che, come detto, di quello ‘interno’) e costituisce la ragione di una serie di conseguenze positive di fondamentale importanza, eccedenti la dimensione meramente individuale; tra queste, l’essere diventata la persona umana, grazie ad essi, soggetto del diritto internazionale, che non è più soltanto il diritto degli stati e delle organizzazioni internazionali, in virtù di una positiva «carica eversiva» (pg. 32), che li ha resi scudo in grado di arginare le deviazioni burocratiche ed il formalismo, divenendo fonte delle giurisdizioni internazionali, attraverso il richiamo alle priorità della persona e della dignità umana (pg. 33).
3. Il condivisibile convincimento al quale è stato sopra fatto cenno - che la positivizzazione dei diritti umani, mediante il loro riconoscimento in fonti normative, e l’apprestamento di rimedi giurisdizionali congrui ed efficaci costituiscono condizioni imprescindibili per garantirne la tutela - rende di particolare interesse la parte del volume dedicata alla ricognizione di dette fonti e strumenti di garanzia.
La dimensione internazionale dei diritti umani è all’origine delle complesse problematiche poste dal c.d. ordinamento multilivello, frutto anche (forse, soprattutto) dello sviluppo del sistema dei diritti fondamentali, che tuttavia, secondo alcuni, ha in sé insito il «pericolo di una “Babele” dei diritti (e delle loro tutele)» (C. Panzera, Il bello dell’essere diversi. Corte costituzionale e Corti europee ad una svolta, in Riv. trim.dir.pubb., 2009, 1), dovuta alla pluralità delle fonti, alla difficoltà, per alcune, di stabilirne il rango, alla concorrenza di competenze delle Corti nazionali, sovranazionali ed internazionali, alla facoltà dei singoli di rivolgersi, in taluni casi, direttamente ad esse per conseguirne la tutela ed alla differente conformazione offerta di tali diritti da dette Corti. Si tratta di difficoltà che non vanno sottovalutate, ma neppure enfatizzate (ciò grazie anche al progressivo componimento dei taluni dissidi reso possibile da un sempre più intenso dialogo tra le Corti); comunque, rendono di sicuro interesse l’attenta ricognizione operata dagli Autori dei molteplici sistemi internazionali e sovranazionali di tutela dei diritti umani. Questa ricognizione permette infatti di avere un panorama completo di detti sistemi e precisa conoscenza dei diritti umani tutelati da fonti diverse da quelle interne, della configurazione dalle stesse offertane e del se (come e quando), siano applicabili in vicende giudiziarie di diritto interno.
In disparte i profili del rapporto tra Corte costituzionale e Corte di Strasburgo (di più immediato interesse in relazione al tema dei diritti umani), sviluppatosi intorno ai principi secondo cui «il risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento» deve essere sempre di segno positivo (per tutte, Corte costituzionale, 4 dicembre 2009, n. 317) ed occorre avere riguardo alla giurisprudenza consolidata della seconda (Corte costituzionale, sentenza 26 marzo 2015, n. 49), la ricognizione svolta nel volume appare particolarmente utile.
La doverosa attenzione alle fonti diverse da quelle interne non solleva infatti dall’onere di un’attenta verifica dell’efficacia nel nostro ordinamento di quelle ‘esterne’. Quando queste ultime risultino applicabili alla fattispecie oggetto del giudizio, il giudice comune è infatti tenuto ad improntare il rapporto con le Corti sovranazionali ed internazionali ad un principio fondamentale di collaborazione, che non è lasciato alla sua sensibilità, ma costituisce oggetto di un vero e proprio obbligo previsto dall’ordinamento sovranazionale, ovvero da un accordo internazionale e, quindi, ad esso va data attuazione nei modi e nei termini espressamente stabiliti da dette fonti. Al riguardo, può anche parlarsi di “dialogo”, purchè si abbia la consapevolezza che questo termine non sempre è sufficiente per decodificare il fenomeno degli scambi degli indirizzi giurisprudenziali; a volte è criticabile per difetto, altre volte lo è per eccesso (tenuto conto dei molti significati del termine “dialogo”, G. De Vergottini, Oltre il dialogo tra le Corti. Giudici, diritto straniero, comparazione, Bologna, 2010, 1). Il riferimento alle sentenze di organi giurisdizionali stranieri, ulteriori e diversi rispetto a quelli inseriti in uno stesso ordinamento sovranazionale, va inoltre operato avendo ben chiara la diversità tra il caso in cui il diritto straniero applicato da una Corte non italiana costituisce, eventualmente, una fonte applicabile anche nel nostro ordinamento ed il caso in cui il riferimento rileva esclusivamente come un dato fattuale, non diversamente da quanto accade quando si cita un fatto storico o un’opinione dottrinale. Inoltre, occorre considerare che in un ordinamento a diritto costituzionale aperto, qual è il nostro, il fine del richiamo e del rilievo delle giurisprudenze straniere «è pur sempre quello di intendere il proprio diritto costituzionale», al punto che è quasi «come ricorrere, per risolvere un problema difficile, a “un amico ricco di esperienza”» (G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna, 2008, 405). Ed è dunque evidente l’immediato interesse di una ricognizione completa e chiara dei molteplici sistemi di tutela dei diritti umani previsti da strumenti internazionali e sovranazionali e da ordinamenti di stati diversi dal nostro.
4. L’ultima parte del volume è dedicata ad una «riflessione conclusiva», con cui gli Autori considerano i diritti umani «in chiave filosofico-critica», allo scopo di verificare se «sia possibile reperirne un ragionevole fondamento» e «per verificarne l’eventuale abuso» (pg. 231). A loro avviso, «tutte le nuove domande di giustizia tendono a riversarsi direttamente nelle aule giudiziarie […] nella forma dei diritti fondamentali» (pg. 232), esponendoli in tal modo «alla mercé delle preferenze soggettive non solo di ciascun cittadino, ma anche di ogni singolo giudice» (pg. 232), con il possibile pericolo di una loro «incontrollata e problematica proliferazione». Il rimedio a tali rischi è individuato nella valorizzazione della «dimensione relazionale» dei diritti umani e nella adeguata considerazione delle circostanze che «sono stati riconosciuti ed affermati per proteggere la persona umana dall’arbitrio e dagli abusi dei potenti» e che «trasformare ogni desiderio in diritto implica riconoscere un’enorme quantità di obblighi a carico di altri» (pg. 236).
Pregnante rilevanza assume dunque il criterio del bilanciamento, da realizzare applicando il principio di ragionevolezza, che tuttavia, osservano gli Autori, «pone in crisi il giuspositivismo e fa riemergere istanze tipiche del diritto naturale, proprie dei giusnaturalismi» (pg. 241). La loro proposta è di volgere lo sguardo al concetto della dignità dell’uomo, che riveste la «portata di principio fondamentale», «valore super costituzionale» (pg. 258), «fondante degli stessi diritti dell’individuo» (pg. 260), più volte applicato dalle Corti nazionali e sovranazionali (della cui giurisprudenza è offerto un panorama). Nondimeno, l’indeterminatezza della nozione di dignità esigerebbe che la sua traduzione in termini giuridici resti riservata «innanzitutto alla responsabilità del legislatore» e che «il necessario bilanciamento tra valori costituzionali» sia effettuato in sede legislativa ed affidato soltanto «a posteriori alla responsabilità degli interpreti e, in particolare, alla responsabilità delle Corti supreme, nazionali e sovranazionali» (pg. 270). In ogni caso, il bilanciamento va operato tenendo conto che la dignità umana: è «principio che innerva le costituzioni personaliste delle democrazie liberali contemporanee»; «si sottrae al bilanciamento e ne è anzi lo scopo»; «impone a tutti, a partire dalle autorità pubbliche, il rispetto delle singole persone» (pg. 279-280).
Una pur rapida, necessariamente incompleta, sintesi delle considerazioni svolte in quest’ultima parte della monografia rende palese che le suggestioni offerte dalla lettura del volume sono tante e così complesse da sollecitare riflessioni che eccedono questa sede, destinata esclusivamente ad ospitare brevi considerazioni a margine della stessa.
La preoccupazione della quale si fanno interpreti gli Autori non è nuova ed è stata variamente evidenziata, pur muovendo da approcci diversi, segnalando, tra l’altro, l’esigenza della rigorosa attenzione al dato di diritto positivo, onde evitare di «consegnare i diritti fondamentali alla mercé del consenso» e di alimentare la cd. juristocracy, termine utilizzato «per sottolineare la tendenza un po’ aristocratica di individuare nelle aule giudiziarie le sedi più appropriate per le decisioni sui diritti fondamentali» (M. Cartabia, La Costituzione italiana 60 anni dopo: i diritti fondamentali, 15 e 23, in Atti del Convegno dell’Accademia dei Lincei su “La Costituzione ieri e oggi”, Roma, 9-10 gennaio 2008), con il rischio (evidenziato dall’analisi di C.Salvi, Capitalismo e diritto civile. Itinerari giuridici dal Code civil ai Trattati europei, Bologna, 2015) che la preminenza assoluta della libertà personale possa scivolare in una logica mercantile, dando luogo, secondo alcuni Autori, a soluzioni «arbitrarie», appunto per questo, scarsamente tolleranti (F. Gazzoni, Cognome del figlio naturale, femminismo, lotta alla camorra e obiter dicta, in Dir. famiglia, 2006, 4, 1661).
In disparte il tema della ipotizzata crisi del giuspositivismo e della riemersione di istanze proprie del giusnaturalismo - di complessità tale da rendere impossibile farvi pur solo cenno (per una recente, efficace, sintesi dei problemi emersi proprio con riguardo al profilo del ricorso alla tecnica del bilanciamento, cfr. il dibattito svoltosi tra R. Guastini, Sostiene Baldassare, in Giur.cost., 2007, 1373, e A.Baldassarre, Una risposta a Guastini, ivi, 2007, 3251) -, la preoccupazione è meritevole di considerazione, ma esige di essere apprezzata nel quadro dell’attuale contesto storico, politico e sociale. Deve infatti darsi come dato pacifico che «la complessità della società comincia a impressionare di sé la dimensione giuridica, la quale non può che abdicare a una semplicità, suadente sì nella limpidità dei suoi contorni ma assolutamente artificiosa, senza concrete radici nella effettività storica» (P.Grossi, Introduzione al novecento giuridico, Bari, 2012, 107).
Uno dei tratti caratterizzanti la società postmoderna è quindi l’emersione di nuovi diritti, quale «conseguenza delle “pacifiche rivoluzioni del Novecento, delle donne, degli ecologisti, della scienza e della tecnica”» che hanno determinato «la più intensa esplosione di richieste di riconoscimento di diritti che mai sia stata conosciuta», che ha condotto a parlare di «“diritti riproduttivi” e di “diritto a non nascere”, di “diritto a morire” e di “diritto ad ammalarsi”, ma anche del “diritto dell’embrione” e del “diritto a non essere perfetto”» (S.Rodotà, I nuovi diritti che hanno cambiato il mondo, in La Repubblica, 26 ottobre 2004). Tali diritti sono spesso rimasti del tutto privi di disciplina in sede normativa, o l’hanno ricevuta con rilevante ritardo e non di rado in modo incompleto; il loro riconoscimento, in base alle norme della Costituzione ed alle fonti esterne, grazie alla prima applicabili nel nostro ordinamento, ha finito dunque con il rimanere affidata (quasi) esclusivamente al giudice. L’opera di ricostruzione-creazione in sede giurisprudenziale è stata dunque indispensabile e, tuttavia, incontra un preciso limite, in quanto «il potere interpretativo dei giudici […] non può spingersi oltre il confine che gli è connaturato, neppure quando ciò accade al fine di orientare l’ordinamento verso i principi costituzionali, perché di fronte a un insuperabile ostacolo che viene dalla lettera della legge, ovvero dal contesto logico-giuridico nel quale essa si inserisce compete solo alla Corte [costituzionale] intervenire» (G.Lattanzi, Relazione, Riunione straordinaria della Corte costituzionale del 21 marzo 2019, 17), risultando altresì l’operazione di bilanciamento possibile alla Corte costituzionale diversa da quella consentita al giudice comune.
Nondimeno, non sembra controvertibile la complessità dei problemi derivante dal fatto che «è difficile affrontare» questi temi «in modo astratto: forse la via di soluzioni accettabili va trovata attraverso l’elaborazione giurisprudenziale, che può tenere conto dei molteplici aspetti dei casi concreti e contemperare i diversi principi in gioco» (E.Paciotti, Diritti umani, diritti fondamentali, nuovi diritti in Europa, www.italianieuropei.it, 3/2008, richiamando S.Rodotà). La circostanza che il riconoscimento in favore di una persona di un diritto (anche di un diritto umano) richiede la ponderazione di complesse esigenze, riservata all’apprezzamento della discrezionalità del legislatore ordinario, ed implica obblighi per altre persone, deve tenere conto del fatto che la riconducibilità di date esigenze a valori essenziali della persona dipende, in larga parte dei casi, dalle circostanze della fattispecie, e così anche l’eventuale incidenza del loro soddisfacimento sui valori di altri soggetti. Tanto è sufficiente a rendere palese che l’auspicabile, precisa e completa, regolamentazione in sede legislativa resta spesso irrealizzabile; anzi può talora risultare inidonea ad assicurare la tutela di diritti fondamentali o, comunque, il corretto bilanciamento di tutti i valori in gioco.
L’obiettivo che si impone di conseguire è dunque di realizzare un ragionevole bilanciamento, spesso possibile soltanto mediante la regola del caso per caso. Tale regola non sfocia in arbitrio, come bene sottolineano gli Autori, se applicata nell’osservanza del criterio del rispetto e della realizzazione della dignità umana, correttamente identificata nel suo contenuto, in primo luogo, attraverso l’esegesi di tutte le fonti materialmente costituzionali, nel significato alla stessa attribuito dalla Corte costituzionale e dalle Corti sovranazionali. In secondo luogo, procedendo a tale operazione ermeneutica secondo una prospettiva non soltanto soggettivistica ma anche relazionale, in virtù di quell’approccio evidenziato nella prima parte della monografia, che impone di riferirla alla persona umana anche in quanto soggetto della società in cui vive, in una dimensione che eccede quella meramente individualistica.
La difficoltà - antica, ma che certo in modo peculiare connota l’attuale fase storica e l’odierna società - va affrontata, da un canto, ribadendo l’esigenza di una regolamentazione dei diritti da parte del legislatore; dall’altro, tenendo conto che - come di recente convincentemente ha dimostrato Roberto Conti (nel volume Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana? Aracne, 2019), - «la normazione si configura […] non come un atto circoscritto alla sola formazione del testo di legge, inteso come prodotto finito, ma come un procedimento che si completa nel momento dell’interpretazione, quale passaggio ineliminabile per il concretarsi della positività della norma», attraverso «un processo di concretizzazione in vivo dei diritti, che esige la valorizzazione non solo dei testi, ma dei contesti e che intercetta la giuridicità oltre la norma, ponendo la società e il contesto come referenti della giuridicità». Siffatto processo garantisce, inoltre, le esigenze di certezza, poiché deve muoversi all’interno dei «solidi punti di riferimento [rinvenibili] nella Carta fondamentale, nelle Carte sovranazionali e nella giurisprudenza delle Corti» (è questa l’efficace sintesi del pensiero di R.Conti tratteggiata da G.Luccioli, Postfazione, in questa Rivista, 2019 https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/654-scelte-di-vita-o-di-morte-il-giudice-e-garante-della-dignita-umana). L’applicazione di detti principi scongiura il possibile rischio che i giudici assurgano a «padroni del diritto», in quanto essi sono e restano «i garanti della complessità strutturale del diritto nello Stato costituzionale, cioè della necessaria, mite coesistenza di legge, diritti e giustizia» (G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino 1992, 213), coesistenza che è imprescindibile allo scopo di assicurare il pieno riconoscimento e l’effettiva tutela dei diritti umani.
L’abolizione della protezione umanitaria non ha effetto retroattivo, ma quanto rileva ancora l’integrazione sociale ( e la Costituzione)? A proposito di Cass.S.U. nn.29459,29460 e 29461/2019.
di Fulvio Vassallo Paleologo
1. Con il deposito di tre diverse decisioni a Sezioni unite (n.29459, 29460 e 29461, due per conflitto armato e l’altra per l’esistenza di legami familiari in Italia) la Corte di Cassazione respinge le ordinanze di rimessione che, in conformità a quanto ritenuto dal ministero dell’interno, sostenevano la natura retroattiva del decreto legge n.113 del 2018 ( poi convertito nella legge 132 dello stesso anno) che aboliva l’istituto della protezione umanitaria. Il decreto Salvini risulta dunque inapplicabile retroattivamente alle domande già pendenti alla data del 5 ottobre 2018 e il riconoscimento della protezione va valutata con la vecchia normativa e quindi alla stregua dei criteri che comportavano in precedenza il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione umanitaria ex art. 5.6 del Testo unico n.286/98 anche se il permesso rilasciato dovrebbe essere quello “speciale annuale rinnovabile” previsto dal Decreto n.113/2018 (articolo 9, comma 1).
Tutte e tre le sentenze della Corte, depositate il 13 novembre scorso, accolgono i ricorsi presentati dal Ministero dell’interno che aveva impugnato pronunce di diverse Corti di appello (Firenze e Trieste) favorevoli al riconoscimento dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari in tre distinti procedimenti: il primo riguardava un cittadino bengalese che aveva ottenuto un’assunzione in Italia, il secondo un gambiano che “studia e coltiva i suoi principali legami sociali” nel nostro Paese, mentre in Gambia “non ha rapporti familiari di rilievo”, e il terzo un altro gambiano per il quale i giudici di Trieste avevano riconosciuto la protezione sulla base era “situazione critica dovuta al disordine complessivo del Gambia e alle primitive strutture giudiziarie e carcerarie sotto il profilo della tutela dei diritti individuali, considerato che sarebbe stato sottoposto a procedimento penale ove fosse rientrato nel Paese di provenienza”.
Le Sezioni unite sono state costrette a pronunciarsi per una opposta interpretazione della disciplina sul diritto intertemporale derivante del Decreto 113/2018 da parte di due diverse sezioni della stessa Corte di Cassazione. A gennaio infatti la prima sezione presieduta dal giudice dott. Stefano Schirò aveva evidenziato l’irretroattività del decreto sicurezza, la stessa sezione, la prima civile, aveva poi cambiato orientamento con un diverso giudice, il dott. Genovese, che aveva chiesto alle Sezioni Unite di stabilire i criteri di applicabilità delle norme che abolivano la protezione umanitaria. Nel frattempo migliaia di casi erano stati risolti con criteri incerti che avevano indotto ad un diniego, o venivano sospesi, con migliaia di persone allo sbando, anche per la chiusura di molti progetti di accoglienza, e quindi con un ulteriore aggravamento della situazione degli uffici giudiziari.
Con la Sentenza. n. 4890/2019, depositata il 19 febbraio scorso, la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione sembrava risolvere i dubbi in tema di retroattività della nuova disciplina sulla protezione umanitaria. In quella sentenza la Corte rilevava innanzitutto che nel decreto sicurezza, poi convertito nella legge 132/2018,“non vi è una espressa disciplina legislativa di carattere intertemporale riguardante i giudizi in corso che seguano ad un accertamento positivo o ad un diniego delle Commissioni territoriali o espressamente rivolta ai procedimenti amministrativi in itinere alla data di entrata in vigore della nuova legge. L’unica regola inequivoca che si può cogliere dall’art. l, comma 9, riguarda il segmento conclusivo dell’accertamento positivo del diritto che, anche ove accertato alla stregua del parametro legislativo applicabile prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, non può che assumere la denominazione ed il contenuto indicati nella norma non essendo più legislativamente previsto il permesso di soggiorno per motivi umanitari”.
La sentenza 4890/2019 aveva quindi affermato la non retroattività della norma abolitrice della protezione umanitaria, contenuta nel decreto sicurezza 113/2018, adottando una motivazione sostanziale che si basava sulla natura della situazione soggettiva inerente la protezione umanitaria. Su questo aspetto vanno messi dei punti fermi perché le successive ordinanze della Cassazione che affermavano al contrario la natura retroattiva della nuova normativa, non richiamavano tali aspetti di diritto sostanziale, e meno che mai il fondamento costituzionale della protezione umanitaria, istituto che nel 2018 il legislatore ordinario avrebbe inteso abrogare. Secondo quella sentenza ed in conformità con la consolidata giurisprudenza della Corte,“ il diritto d’asilo costituzionale è integralmente compiuto attraverso il nostro sistema pluralistico della protezione internazionale, anche perché non limitato alle protezioni maggiori ma esteso alle ragioni di carattere umanitario, aventi carattere residuale e non predeterminato, secondo il paradigma normativo aperto dell’art. 5, c.6, d .lgs. n. 286 del 1998”.
Con tre “ordinanze interlocutorie” (relatore Lamorgese) depositate il 3 maggio 2019, sulla disciplina intertemporale del decreto sicurezza, i giudici della prima sezione civile della stessa Corte di cassazione avevano trasmesso gli atti al primo presidente Giovanni Mammone per “l’eventuale assegnazione” alle Sezioni unite della Corte. Secondo queste ordinanze le nuove norme “in materia di permessi umanitari contenute nel decreto Sicurezza entrato in vigore lo scorso 5 ottobre devono essere applicate a tutti i giudizi in corso”.
Con la sentenza n. 29459 delle Sezioni unite e con le altre due emesse in conformità e depositate il 13 novembre scorso, la Corte di Cassazione ha affermato che il decreto legge 113/2018 non si applica alle cause in corso perché il diritto alla protezione è espressione di quello di asilo tutelato dalla Costituzione e sorge al momento in cui lo straniero arriva in Italia in condizioni di vulnerabilità per il rischio che siano compromessi i diritti umani fondamentali. La protezione umanitaria “attua il diritto d’asilo costituzionale”, cioè “scaturisce direttamente dal precetto dell’art. 10 della Costituzione”: “il che vale anche per i nuovi istituti” del legislatore, che devono “rispettare Costituzione e vincoli internazionali”, che può soltanto definire i criteri di accertamento e le modalità di esercizio di quel diritto.
Ove si accedesse alla tesi della retroattività dell’abolizione della protezione umanitaria si determinerebbe, secondo quanto osservano i giudici della Cassazione, un grave vulnus costituzionale, in particolare per violazione del principio di uguaglianza ( art. 3) oltre che dell’art. 10 comma 3 della Costituzione. Persone che infatti si trovavano nella medesima situazione al momento della presentazione della domanda di asilo, e prima ancora al momento dell’ingresso in Italia, al tempo della manifestazione della volontà di chiedere protezione, potrebbero subire trattamenti diversi a seconda del tempo della decisione da parte della Commissione territoriale o del giudice, in caso di ricorso contro un eventuale diniego.
Una volta riconosciuta l’esistenza dei vecchi requisiti, il permesso di soggiorno rilasciato dalle questure sarà quello nuovo ” per casi speciali”, più breve e non convertibile. Secondo le Sezioni unite, “la permanente rilevanza della protezione umanitaria o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano discende dalla irretroattività della novella, che l’ha espunta dall’ordinamento; il concreto atteggiarsi del permesso che pur sempre risponde a quella protezione, è dettato dall’interpretazione conforme a Costituzione, che valorizza la volontà del legislatore”. Per la Corte “in tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta ad ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile”.
2. Con la sentenza n.29459 depositata il 13 novembre scorso, le Sezioni Unite della Corte di cassazione aggiungono poi, ai fini del riconoscimento della protezione, che “l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”. Quindi occorre attribuire"rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado di integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”.
Quanto adesso affermato dalle Sezioni unite della Cassazione non costituisce una novità, come alcuni commentatori vorrebbero fare credere. Già nella circolare ministeriale del 4 luglio 2018 i “parametri” per il riconoscimento della protezione umanitaria venivano ristretti in base ad un precedente giurisprudenziale che si continua a citare nelle ultime decisioni della Cassazione a Sezioni Unite ( la nota sentenza della Cassazione n.4455 del 23 febbraio 2018) in base alla quale i “seri motivi” previsti dalla normativa nazionale per il riconoscimento della protezione umanitaria ( art. 5 comma 6 del Testo Unico n.286 del 1998) sarebbero stati “tipizzati” dalla ratio di tutelare situazioni di vulnerabilità, calate in concreto nella complessiva condizione del richiedente, emergente sia da indici soggettivi che oggettivi”, senza che “nessuna singola circostanza possa di per sé, in via esclusiva, costituire il presupposto per l’attribuzione del beneficio”. Secondo la sentenza n. 4455/2018 della Cassazione, “l’accertamento della situazione oggettiva del paese di origine e della condizione soggettiva del richiedente in quel contesto, alla luce della peculiarità della sua vicenda personale costituiscono il punto di partenza ineludibile dell’accertamento da compiere”. Un criterio già adottato dai giudici di merito, che però facevano, e continueranno probabilmente in futuro, a fare richiamo ai principi costituzionali ed agli obblighi di fonte internazionale evocati dall’art. 5. 6 del T.U. n. 286 del 1998, che la circolare ministeriale del 4 luglio 2018 sembrava invece ignorare del tutto. Malgrado le numerose sentenze di annullamento adottate dai Tribunali le decisioni delle Commissioni territoriali restavano fortemente condizionate dall’indirizzo impresso dal ministro dell’interno con la sua circolare, in totale dispregio della autonomia di giudizio imposta alle Commissioni dalla normativa europea, e il calo dei casi di riconoscimento della protezione umanitaria continuava indipendentemente dalle oscillazioni della giurisprudenza della Cassazione.
3. Le ultime sentenze delle Sezioni unite della Cassazione in materia di protezione umanitaria potrebbero sembrare il classico “bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno”, e tutti potrebbero dire di avere avuto ragione, ma in realtà non è così, per due ragioni fondamentali.
a) Innanzitutto escono sconfitti dal giudizio della Cassazione a Sezioni unite coloro che avevano sostenuto una interpretazione retroattiva del Decreto Salvini, come il ministero dell’interno ed i giudici che sul punto specifico, dopo una diversa decisione della stessa sezione della Corte, avevano rimesso la questione alle Sezioni unite.
La qualificazione giuridica del diritto alla protezione umanitaria, almeno fino al 4 ottobre 2018, e la natura meramente ricognitiva del giudizio di accertamento cui esso è assoggettato nella fase amministrativa e giudiziale dell’esame dei presupposti, come adesso riconosce la stessa Cassazione, inducono dunque a ritenere che la nuova disciplina legislativa non sia applicabile ai procedimenti in corso. Rimane incontestabile, ed incontestato, il principio affermato da anni dalla prevalente giurisprudenza di merito e consolidato negli orientamenti della Cassazione, secondo cui il diritto soggettivo, anche nel caso della protezione umanitaria, e comunque in tutti i casi riconducibili all’art. 10 comma 3 della Costituzione italiana, preesiste alla verifica delle condizioni cui la legge lo sottopone, mediante il procedimento amministrativo ed eventualmente giudiziale. Il risultato positivo o negativo dell’accertamento, dipende dal quadro probatorio posto a base della domanda ma non incide sulla natura giuridica della situazione giuridica soggettiva azionata e sulla incontestata natura dichiarativa della verifica amministrativa e giudiziale
Il cittadino straniero che manifesti la volontà di chiedere una qualsiasi forma di protezione matura quindi da quel momento il diritto ad un titolo di soggiorno fondato sui motivi desumibili dal quadro degli “obblighi costituzionali ed internazionali” assunti dallo Stato. Il legislatore può anche mutare la portata del riconoscimento dei casi diversi, dall’asilo e dalla protezione sussidiaria, rientranti nell’ampia copertura dell’art. 10 della Costituzione, ma non può modificare con effetto retroattivo gli effetti maturati rispetto ai presupposti della preesistente normativa, nel caso di specie l’art. 5 comma 6 del T.U. 286 del 1998, in assenza di una specifica disposizione intertemporale, che allo stato non appare certo rinvenibile nella formulazione del decreto “sicurezza” 113 del 2018, poi convertito nella legge n.132 dello stesso anno.
b)Sul punto della ammissibilità di un terzo regime di protezione che si aggiunge al riconoscimento del diritto di asilo o della protezione sussidiaria già previsto dalla normativa dell’Unione Europea ed imposto da un preciso richiamo costituzionale, si sconfessa apertamente chi voleva “abolire” la protezione umanitaria, per lasciare in vigore solo la disciplina della cd. protezione internazionale ( termine con il quale si riassume il diritto di asilo e la protezione sussidiaria). Un tentativo che era partito con un preciso indirizzo del ministero dell’interno, poi tradotto in la Circolare del 4 luglio 2018 che aveva influenzato non poco le decisioni delle Commissioni territoriali competenti a decidere sul riconoscimento di uno status di protezione.
La Corte di cassazione, a Sezioni unite, conferma in queste tre pronunce come l’istituto della protezione umanitaria costituisca diretta attuazione del dettato costituzionale ( art. 10 comma 3) pur riconoscendo al legislatore ampi poteri per le modalità di riconoscimento, e non certo di “concessione” di tale diritto. Quanto deciso dalla Corte nelle tre decisioni depositate ieri spalanca dunque la via ad una serie di ricorsi alla Corte Costituzionale per verificare quanto il legislatore, con i decreti sicurezza che hanno “abolito” la protezione umanitaria, abbia esercitato quel potere senza violare i principi solidaristici affermati dall’art. 10 della Costituzione, e per rimando anche dalla normativa euro-unitaria, in virtù dell’art. 117 della stessa Costituzione.
Le Sezioni unite della Corte chiamate a pronunciarsi in materia di protezione umanitaria non costituiscono alcuna svolta, ma richiamano la consolidata giurisprudenza della stessa Cassazione, secondo cui “ la qualificazione giuridica di diritto soggettivo perfetto appartenente al catalogo dei diritti umani, di diretta derivazione costituzionale e convenzionale, è stata affermata e mantenuta costante dalle S.U. di questa Corte a partire dall’ordinanza n.19393 del 2009 fino alle più recenti ( ex multis S.U.5059 del 2017; 30658 del 2018; 30105 del 2018; 32045 del 2018; 32177 del 2018). Tale peculiare natura, del tutto coerente con il richiamo al rispetto degli obblighi costituzionali ed internazionali indicati nell’art. 5, c.6, del d.lgs. n. 286 del 1998, ha avuto un notevole rilievo nella ricognizione dei presupposti per l’accertamento del diritto al permesso umanitario, svolta dalla giurisprudenza di legittimità. Si è ritenuto che essi fossero diversi da quelli posti a base delle protezioni maggiori e che la protezione umanitaria avesse carattere residuale (Cass. 4131 del 2011; 15466 del 2014), dal momento che le condizioni di vulnerabilità suscettibili di integrare i “seri motivi umanitari” non possono che essere correlati al quadro costituzionale e convenzionale al quale sono ancorati (Cass. 28990 del 2018)”.
Il legislatore italiano non può dunque sottrarsi, come si vedrà meglio per altre parti del decreto legge n.113/2018, al rispetto degli “obblighi internazionali dello stato italiano”. L’art. 5 comma 6 del Testo Unico 286 del 1998 che si è voluto abrogare costituiva una sorta di clausola di salvaguardia del sistema che consentiva di valorizzare quali ‘seri motivi di protezione umanitari e\o di rilievo costituzionale e internazionale’, particolari condizioni di vulnerabilità dei soggetti, quali, ad esempio, motivi di salute (con rischio di perdita delle opportunità di cura garantite in Italia) o di età, oppure anche una grave instabilità politica e insicurezza del paese di origine, anche se non attraversato da conflitti armati di gravità tale da raggiungere i requisiti che permettevano il riconoscimento della protezione sussidiaria, oppure la diffusione nello stato di provenienza di episodi di violenza o insufficiente rispetto dei diritti umani, carestie, disastri naturali o ambientali che consentivano di concedere l’autorizzazione temporanea al soggiorno ( in passato il permesso ‘umanitario’ biennale) per far fronte alla durata, normalmente non illimitata, delle emergenze umanitarie.
Nella nuova disciplina introdotta dal decreto legge n.113/2018, poi convertito nella legge n.132/2018, si prevede con l’abrogazione del permesso di soggiorno per seri motivi umanitari un nuovo tipo di permesso di soggiorno per “protezione speciale”, legato al rischio che si verifichi un allontanamento verso il paese di origine in violazione del divieto sancito dall’art. 19 commi 1 e 1.1 del d.lgs. n. 286/98, che in particolare vieta l’espulsione o il respingimento verso paesi nei quali la persona possa essere sottoposto a rischio di morte o di tortura, ed anche in casi di “violazioni sistematiche e gravi di diritti umani”. Appare evidente, per quanto riconosciuto dalla prevalente giurisprudenza di merito e dal consolidato indirizzo della corte di Cassazione, che tali casi andranno riconosciuti con una valenza tale da corrispondere al dettato dell’art. 10 comma 3 della Costituzione, restando aperta la possibilità, ove ciò non avvenisse, di una applicazione diretta della norma costituzionale, o di una censura di costituzionalità della norma del decreto sicurezza n.113, poi convertito nella legge n.132 del 2018, che ha introdotto la protezione per casi speciali, se di questa norma si dovesse fornire una interpretazione restrittiva, tale da non corrispondere alla più ampia portata dell’art. 10 comma 3 della stessa Costituzione.
Come osserva la Corte di cassazione a Sezioni unite nella sentenza n. 29459/19, se la protezione umanitaria attuava il diritto di asilo costituzionale, come riconosciuto da ultimo anche dalla sentenza della Corte Costituzionale del 24 luglio 2019, n. 194, “nonostante l’intervenuta abrogazione dell’esplicito riferimento agli “obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” precedentemente contenuto nell’art. 5.6 del T.u. n.286 del 1998, anche i nuovi istituti relativi al riconoscimento della protezione per casi speciali devono rispettare la Costituzione ed i vincoli internazionali ( in questo specifico senso la Corte Costituzionale con sentenza n.194 del 2019).
La normativa europea peraltro prevede espressamente che in caso di rifiuto di un permesso di soggiorno e di avvio di una procedura di rimpatrio, gli stati possano “decidere di rilasciare per motivi caritatevoli, umanitari, o di altra natura, un permesso di soggiorno autonomo, o un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare”( in questo senso la Direttiva rimpatri n. 2008/115/CE all’articolo 6, paragrafo 4).
4. Toccherà adesso alla giurisdizione nel suo complesso, dunque ai singoli giudici ed avvocati, affrontare questa materia tenendo presenti i principi costituzionali e sollevando questioni di costituzionalità nei singoli casi di contrasto con l’attuazione delle norme che avrebbero ridimensionato la protezione umanitaria riducendola a “casi speciali”.
Alla stregua della sentenza della Corte di cassazione n.15466 del 2014, l’istituto della protezione umanitaria veniva riconosciuto come risolutivo del problema della applicabilità diretta dell’art. 10 comma 3 della Costituzione. Ipotesi che si ripropone immediatamente qualora si dovesse ritenere che il legislatore abbia voluto abrogare del tutto questo istituto, cancellando la dizione “salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”.
Se si dovesse accedere alla tesi dell’”abolizione” della protezione umanitaria, prima per circolare nel luglio dello scorso anno, e poi con decreto, senza attribuire una valenza ampia ai “casi speciali” di protezione, che pure il legislatore richiama nel decreto legge n.113/2018 e nella legge di conversione n.132/2018, si potrebbe verificare una espansione dell’ambito di operatività diretta dell’art. 10, comma terzo della Costituzione, che potrebbe essere immediatamente azionabile davanti al giudice ordinario, anche con riferimento alla integrazione sociale raggiunta in Italia, in relazione ala condizione soggettiva nella quale si troverebbe il richiedente in caso di rimpatrio nel paese di origine.
Quando il Presidente della Repubblica Mattarella, il 4 ottobre 2018, aveva firmato il Decreto Legge “immigrazione e sicurezza” n.113/2018, aveva allegato al provvedimento una lettera in cui si avvertiva “l’obbligo di sottolineare che, in materia», «restano ‘fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo”. Il Presidente della Repubblica ricordava in particolare “quanto direttamente disposto dall’art. 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia” . Obblighi costituzionali ed internazionali che potrebbero essere violati anche in via amministrativa se l’adozione di una “lista di paesi terzi sicuri”, prevista dal decreto sicurezza n.113 del 2018( poi convertito nella legge n.132) dovesse comportare una procedura accelerata e magari una valutazione automatica, in senso negativo, delle richieste di protezione delle persone provenienti da quei paesi.
Come osservato dalla Associazione nazionale magistrati (ANM) a tale riguardo,“venendo, infatti, in gioco diritti costituzionali, rimane fermo il potere dell’autorità giurisdizionale ordinaria di riconsiderare l’inserimento di un Paese nella lista dei Paesi sicuri mediante congrua motivazione, tanto più ove la predetta indicazione si discosti dai criteri di inserimento pure previsti dalla norma generale (così parere approvato dal CSM sul testo licenziato al Senato). Resta, fermo, in ogni caso, come anche raccomandato dalla Commissione Europea, il dovere del giudice di procedere all’esame pieno ed individualizzato della domanda di protezione internazionale, dovendosi comunque indagare a fondo le esigenze di protezione internazionale di ciascun richiedente asilo in ossequio agli obblighi costituzionali ed internazionali ed al fine di evitare il rischio di violare il divieto di trattamenti inumani e degradanti.”
Le decisioni più recenti della Cassazione, per quanto adottate a Sezioni Unite, non andranno dunque nella direzione di una riduzione della conflittualità in questa materia. Spetta ai politici, al Governo ed al Parlamento, nel suo complesso, prendere atto del fallimento, “sul campo” dell’applicazione concreta, del decreto sicurezza 132 del 2018 in materia di “abrogazione” della protezione umanitaria, e adottare quanto prima provvedimenti che ne cancellino gli effetti, che oggi si stanno traducendo in decine di migliaia di persone alle quali si nega il diritto ad esistere legalmente, se non lo stesso diritto alla vita ed alla dignità umana.
IL DIRITTO PENALE VIVENTE
Principio di stretta legalita’ e ruolo politico del giudice
Il diritto vivente è stato per molto tempo considerato l’ “altro diritto”, un diritto secondario che serviva alla risoluzione di dubbi sulla applicazione della norma. Un diritto statico, fermo secolarmente alle medesime letture delle leggi per cui quando si effettuavano le ricerche giurisprudenziali sui fascicoli spiegazzati delle riviste bastava leggere una sentenza della Cassazione per leggerle tutte.
L’ingresso nel nostro ordinamento del diritto europeo rappresentato dall’interpretazione delle Corti sovranazionali ha reso il diritto giurisprudenziale una fonte normativa di pari livello, se non superiore a quello positivo, con una funzione stimolante di attenzione ai valori sociali e di costante evoluzione del campo di applicazione delle norme.
Si sono sviluppati cosi nuovi termini come “ prevedibilità” ad indicare che nei casi di novum ermeneutico sfavorevole all’imputato questi debba essere in grado di comprendere la possibile evoluzione del campo di applicazione della norma. Tale criterio si è dimostrato di non facilissima applicazone nella realtà e la liquidità del nuovo “ diritto vivente” è sembrata a molti acuti giuristi un elemento di destabilizzazione del diritto. Al contrario esso ha destato interesse e fervore presso i giudici di legittimità che dalla nuova spinta “creativa” hanno tratto impulso per guadagnare un ruolo assai più rilevante rispetto a prima. Ne scrivono Max Oggiano e Vinicio Viol con riferimento alla ben nota, diropente sentenza Contrada.
In particolare è stata la funzione nomofilattica ad assumere un ritmo assai più accentuato ed in alcuni periodi frenetico.
In tal senso la riforma Orlando ha finito per istituzionalizzare un ruolo che nei fatti era già stato assunto dalle Sezioni Unite, specie sotto la presidenza di Giovanni Canzio.
L’interventismo della Suprema Corte ed anche i precetti provenienti dalle sedi europee ha sovente creato preoccupazione se non vera e propria diffidenza in alcuni settori dell’accademia forse legittimamente preoccupati di una possibile marginalizzazione del ruolo.
Così nell’avvocatura, anche se , per quanto ad alcuni colleghi possa sembrare strano, è l’interprete che spesso ha difeso la democrazia del diritto, a partire dai giudici Europei. Basti pensare ad esempio alla pagina delle misure di prevenzione, radicalmente rivoluzionate in un’ottica giurisdizionale. La scheda è curata da Silvia Astarita.
Nell’ambito dei produttori del diritto, un ruolo particolare è quello assunto dalla Corte Costituzionale e non solo per la posizione verticisticamente più elevata guadagnata nell’ambito di un fitto e serrato confronto con le corti sovranazionali ( vedasi la vicenda Taricco con le schede di Angela Compagnone, Andrea Codisposti , Giordano Grilli ed Alessia Martini,).
Al contrario degli altri protagonisti la Consulta ha osservato un ruolo non interventista sebbene gli evidenti ritardi ed insufficienze del legislatore potessero autorizzarla ad operare diversamente.
Ciò nondimeno il Giudice delle leggi ha deciso di far sentire la sua voce forte e chiara in uno dei settori più cruciali quanto negletti: il carcere, con pronunce ed iniziative “ politiche” di valore storico quale il tour carcerario dei suo componenti registrato in un film che ha commosso l’opinione pubblica. Anna Rita Franchi spiega il ruolo della Corte Costituzionale nel delicato tema dell’ergastolo ostativo.
Con alcuni giovani colleghi della Camera Penale abbiamo deciso di dedicare alcuni dibattiti culturali e politici ad una approfondita riflessione sul “ diritto vivente “: ai vari aspetti di ordine generale come a singole pagine significative. Abbiamo pensato di invitare alcuni dei più qualificati giuristi per una serie di dibattiti cui parteciperanno anche i soci della camera penale.
Non a caso nel primo incontro insieme a due ben noti membri della Camera, Cristiano Cupelli e Giuliano Dominici, abbiamo invitato un illustre studioso di diritto pubblico, Cesare Pinelli, ed un magistrato, Alberto Macchia che nel corso di una prestigiosa carriera ha ricoperto posti in prima linea sia come inquirente su fenomeni come il terrorismo, che come giudice del merito e di legittimità, ed oggi presta servizio presso la Corte Costituzionale.
L’idea che muove la Commissione non è quella che qualcuno ha definito di un “convegnificio” ma un luogo di confronto e scambio sulla politica del diritto di cui crediamo si senta il bisogno. Ed a tale proposito ringrazio il direttivo per il supporto e soprattutto gli amici della commissione, sempre più numerosi e partecipi. Il Foro penalista di Roma vive e vivrà della loro appassionata intelligenza.
Cataldo Intrieri
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