ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Sebastiano Finocchiaro
Sommario: 1. La scelta. - 2. La struttura. - 4. Un ufficio “particolare”. - 3. L’organizzazione e la sfera di intervento. - 5. Riflessioni conclusive.
1. La scelta.
La scelta di svolgere le funzioni giudicanti presso il Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, con la correlativa presentazione di domanda nell’estate del 2011, non trovava, ad onor del vero, originarie radici in sublimi moti dell’animo, dettati dal sacro fuoco di un’idealizzata azione salvifica in favore dei minori deviati e/o disagiati, bensì, molto più prosaicamente, nell’esigenza personale di sperimentare contesti nuovi alla ricerca di diverse, stimolanti, esperienze.
Tale interesse collimava, altresì, con l’opportunità di poter condividere compiti ed attività con chi stimavo professionalmente già dai tempi della comune - per sede ma non per funzioni - esperienza lavorativa in Palmi e che mi aveva reso edotto della intervenuta vacanza di un posto in quell’Ufficio, decantandomi il percorso lavorativo intrapreso con il nuovo Presidente.
E così, dopo aver migrato, sino ad allora, da un settore all’altro del tribunale palmese, ricoprendo di fatto tutte le funzioni dello “scibile” civile (fuorché il fallimentare riservato ai soli turni feriali) nonché quelle del monocratico penale, mi ritrovavo, nel marzo del 2012, insediato nel mio nuovo incarico di magistrato “tuttofare” minorile, ovvero Gip, presidente del Collegio Gup, giudice di sorveglianza e addetto agli affari civili.
Reggio Calabria la conoscevo già per avervi qui svolto le funzioni di (allora si chiamava così) uditore giudiziario nel civile nell’anno di grazia 1998, di transito da Messina, originario mio distretto di appartenenza, prima di convolare a nozze.
Scherzando (ma non troppo) con i colleghi autoctoni, ne esaltavo la bellezza paesaggistica … riflessa “per così dire”... affacciandosi il suddetto capoluogo sul meraviglioso colpo d’occhio offerto dalla lussureggiante vegetazione della costa ionica sicula incastonata tra le pendici del maestoso vulcano “Mongibello” (appellativo meno noto dell’Etna), tanto da condurre alla definizione di “chilometro più bello d’Italia” di dannunziana memoria.
Il mio amore per la terra d’origine non poteva, in ogni caso, far sì che disconoscessi lo struggente e malinconico splendore di alcuni posti incantati del territorio reggino e la feroce bellezza di quella assolata natura così simile alla mia, tanto da farmi sentire a casa.
Sulla peculiare “caratura” caratteriale del comprensorio umano di riferimento nutrivo, invero, qualche riserva (derivante dall’essere soliti, nel messinese, appellare, in senso bonario, con l’epiteto di “testa di calabrese” tutti coloro che presentavano evidenti tratti di ostinata cocciutaggine) anche se già avevo avuto modo di sperimentare il carattere fiero e risoluto di tanti residenti dall’animo sincero e franco, capaci di slanci e gesti di grande umanità e solidarietà; certo, le reazioni registrate nel corso degli anni a fronte di provvedimenti incidenti sulle responsabilità genitoriali non sono state sempre contenute nel legittimo ambito della critica trasmodando a volte in espressioni per così dire colorite e velatamente intrise dell’augurio di ogni male ma tant’è… credo veramente possa valere in tali casi il famoso detto per cui “tutto il mondo è paese”.
Avamposto di una cultura di legalità, baluardo di un’incessante e difficile azione di sostegno per quella particolare fetta di popolazione di età ricompresa tra zero e diciotto anni (con punte fino ai venticinque), il mio nuovo Ufficio si è palesato, da subito, trasudante sentori di vita reale, di un vissuto spesso crudo e sofferto, altre volte coraggioso e speranzoso persino … “contro ogni speranza”, indissolubilmente fuso e confuso - quasi con quel medesimo andamento del moto ondoso che ritmicamente ne lambisce le coste del territorio di appartenenza - a quello dei suoi stessi operatori, tutti invero dotati di una speciale sensibilità che solo l’interazione con un simile contesto poteva quasi magicamente creare.
Forgiato, pertanto, temprato, oserei dire, ad una simile scuola, mi sono scoperto nel tempo profondamente cambiato, anche nell’approccio al diritto, non più, come dapprima, vissuto quasi da esteta della materia ma come magistrato a tutto tondo, arricchito umanamente e professionalmente di una esperienza pregna dell’apporto di altri saperi, pian piano acquisiti, pur nella consapevolezza di un segmento di operatività in cui proprio per la ontologica, magmatica, cointeressenza dell’agire più facile poteva risultare l’errore e più complesso disvelare il discrimine tra apparente e reale, tra veritiero e suo simulacro.
2. La struttura.
Il Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria è fisicamente collocato in un edificio sì grande ma con ambienti poco spaziosi, strutturalmente obsoleto e poco funzionale alle sue crescenti esigenze ed a quelle dell’utenza di rifermento, pur con tutti gli interventi di ammodernamento effettuati nel tempo.
La sua sede, separata da quella di tutti gli altri uffici giudiziari della città, insiste vicino la locale Stazione ferroviaria ed è dotata di un piccolo parco/giardino ad esso prospiciente, curato dai ragazzi ospiti della Comunità Ministeriale, i cui alloggi insistono nella medesima struttura.
A pian terreno, oltre ai predetti locali e quelli destinati al personale di cancelleria dell’area penale ed al magistrato dell’ufficio Gip-Gup, vi è l’unica aula destinata alla celebrazione dei giudizi penali, utilizzata anche dai colleghi dell’Ordinario per gli incidenti probatori da svolgere “in forma protetta”.
Al primo piano fuori terra, invece, fruibile solo mediante una non agevole rampa di scala, si trovano gli uffici della Procura, le stanze del personale di cancelleria dell’area civile, degli altri magistrati del Tribunale e quella dei giudici onorari.
Mancano, invero, spazi adeguati e sufficienti per la trattazione delle udienze civili, a fronte del considerevole numero di utenti, mentre le camere di consiglio per i procedimenti civili, per le medesime ragioni, sono svolte all’interno della stanza presidenziale.
3. L’organizzazione e la sfera di intervento.
L’ufficio si trova oggi nella situazione di completo organico, dato da parametrarsi tuttavia alla consistenza della pianta correlativa, risalente nel tempo e prevedente una dotazione di appena 4 giudici togati, compreso il Presidente, e due soli magistrati requirenti, il Procuratore ed il suo sostituto.
Si avvale, altresì, allo stato, dell’insostituibile e preziosa opera di 11 giudici onorari – ovvero una sola unità in meno di quante contemplate – ed ha una sfera di competenza territoriale coincidente con quello del distretto di Corte d’Appello, tale cioè da comprendere, per una superficie pari a 3.183 km², ben 97 comuni metropolitani, con una popolazione di oltre 500.000 residenti.
Il contesto territoriale di riferimento, com’è noto, risulta particolarmente problematico e ciò sia per l’endemica presenza di una criminalità organizzata di stampo mafioso particolarmente efferata e violenta (connotata dalla presenza di numerose famiglie di “ndrangheta” che si assicurano potere e rispetto negli ambiti di operatività grazie all’acclarata continuità generazionale, fenomeno che coinvolge i deteriori modelli educativi dei figli minori a tali nuclei appartenenti), sia per le ampie e diffuse sacche di arretratezza culturale e di povertà socio-economica che ivi si ritrovano, quanto, ancora, per l’emersione di casi sempre più frequenti ed allarmanti di disgregazione familiare, contraddistinti dall’uso ricorrente della violenza fisica e /o psicologica degli adulti, direttamente perpetrata in danno dei minori ovvero dagli stessi subita nella declinazione della forma assistita.
L’oggetto degli interventi spiegati dal tribunale afferisce, quindi, a situazioni sì eterogenee ma tutte estremamente delicate e complesse per la sorte di soggetti in tenera età coinvolti, che richiedono perciò un approfondito esame e un’attenta ponderazione degli interessi in gioco, attività che si estende anche alla delicata fase esecutiva del giudizio, offrendo peraltro la materia sempre nuovi e diversi spunti di confronto, anche dialetticamente vivace, tra tutti gli operatori coinvolti.
4. Un ufficio “particolare”.
Il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria svolge un ruolo profondamente incidente sul tessuto sociale, essendosi distinto in questi ultimi anni per le numerose azioni a tutela di minori figli di testimoni/collaboratori di giustizia in casi che hanno avuto clamore per le cruente dinamiche familiari connesse, riuscendo a dare, a fronte di risorse umane e materiali davvero esigue, un segnale importante, offrendo speranza concreta e possibilità di scelta di vita diversa a chi quella speranza e quella possibilità sembrava averle perse quasi irrimediabilmente.
L’azione posta in essere dall’ufficio afferisce, come detto, ad un vasto ed articolato ambito, coinvolgendo sia il settore civile, comprensivo in primis della volontaria giurisdizione e delle procedure adottive, che quello penale, articolato nelle diverse sezioni GIP-GUP, del Riesame e del Dibattimento, che, ancora, la Sorveglianza, in cui la competenza si estende ratione materiae sino al compimento del 25° anno di età del condannato, ricomprendendo i cd giovani adulti, con gli spunti interessanti da ultimo offerti dalla recente normativa in materia di esecuzione penale per i minorenni del D.lgs n. 121/2018, con precipuo riguardo alle misure penali di comunità.
Ancora, devesi evidenziare come il peculiare carattere dei procedimenti civili rientranti nella competenza funzionale del Tribunale per i minorenni, non omologabili a quelli pendenti presso altre autorità giudiziarie, la promiscuità delle funzioni e il ristrettissimo numero di giudici presenti in organico determinano il non poter essere l’effettiva tempestività degli interventi commisurata ai tempi di definizione del procedimento quanto piuttosto ai tempi di prima risposta.
In tale ottica il T.M. di Reggio si è dotato di uno schema procedimentale condiviso tale da assicurare la pronta convocazione delle parti ovvero l’adozione di provvedimenti urgenti emessi inaudita altera parte; inoltre, risolvendosi gran parte dei procedimenti civili ivi pendenti in cause di volontaria giurisdizione, che per loro struttura non si prestano ad essere concluse con sentenza o comunque con provvedimento destinato a divenire immodificabile (giudicato), si è optato per una scelta di tutela attraverso il tendenziale “mantenimento della procedura aperta” sotto il costante monitoraggio dei servizi per un apprezzabile arco temporale.
Ancor più complessa è risultata, poi, la gestione dei procedimenti de potestate relativi a minori appartenenti a contesti familiari mafiosi, stante la delicatezza delle situazioni psicologiche, personali e familiari inevitabilmente in essi coinvolte; a riprova delle difficoltà evidenziate i provvedimenti citati sono stati adottati a seguito di un proficuo circuito comunicativo tra i diversi uffici giudiziari interessati (Procura della Repubblica e Tribunale ordinario per i procedimenti penali, Procura della Repubblica per i Minorenni e Tribunale per i Minorenni per il connesso procedimento civile di volontaria giurisdizione), consacrato in un importante protocollo di intesa siglato in data 21.3.2013 tra tutti gli Uffici Giudiziari del Distretto della Corte di Appello di Reggio Calabria, che ha impegnato i giudici designati alla loro trattazione in un’attività particolarmente dispendiosa, nell’obiettivo di contemperare le esigenze di tutela delle indagini penali e quelle, di valenza non inferiore, di una tempestiva protezione dei minori coinvolti.
Tali procedimenti hanno implicato un notevole impegno per ogni singolo magistrato, per la complessa attività istruttoria, per le argomentazioni motivazionali particolarmente articolate a corredo dei provvedimenti relativi e per le problematiche connesse alla loro esecuzione, costituendo tuttavia, ormai, una prassi operativa dell’ufficio, sussunta nel protocollo “Liberi di scegliere”,
Tale protocollo, siglato a Reggio Calabria nel luglio del 2017, è stato appena rinnovato a Roma, il 5 novembre 2019, con l’intervento della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento delle Pari Opportunità, del Ministero della Giustizia, del MIUR, della CEI, della Direzione Nazionale Antimafia e della rete di associazioni “Libera”, oltre ai massimi rappresentanti degli uffici giudiziari reggini, consacrando quella innovativa pratica di interventi che, dopo iniziali ed aspre critiche, ha anche trovato riconoscimento ed avallo da parte del CSM mediante la risoluzione del 31 ottobre 2017.
Parimenti, in ambito penale in questi anni l’Ufficio ha trattato numerosi procedimenti per vicende di notevole allarme sociale, in ragione della particolarità della criminalità minorile del distretto, che costituisce frequentemente un naturale complemento della criminalità organizzata presente sul territorio, strutturata su base prevalentemente familiare.
5. Riflessioni conclusive.
E’ chiaro che per assicurare una maggiore incisività all’azione del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria sarebbe auspicabile, oltre ad implementare il personale amministrativo, appena sufficiente a condizione di assenza di defezioni, un potenziamento della dotazione della componente togata, tentando, altresì, di porre rimedio alle carenze organizzative dei servizi socio-sanitari del territorio, risultando allo stato determinate aree del distretto di giurisdizione prive di assistenti sociali. La ricorrenza di siffatte condizioni determina, infatti, un’inevitabile – e spesso non prevedibile – dilatazione dei tempi necessari per ottenere le informazioni indispensabili per l’adozione dei provvedimenti di competenza.
Il turn over, che caratterizza altre realtà giudiziarie periferiche, per di più meridionali, invero non è un fenomeno quivi così incidente, stante l’esiguità dei giudici assegnati all’ufficio, il quale, per altro verso, sconta tuttavia un pregiudizio ancora diffuso nei riguardi della giurisdizione esercitata, spesso considerata di rango e grado inferiore a quella ordinaria, perché ritenuta tecnicamente modesta e/o poco impegnativa, come se i giudici minorili in quanto tali fossero etimologicamente e tautologicamente “figli di un dio minore”.
Ne sono comprova i reiterati tentativi, anche recenti, di soppressione/incorporazione degli uffici minorili, frutto di un approccio politico/culturale al sistema francamente superficiale, risultando, a mio avviso e in senso opposto, auspicabile un potenziamento degli stessi ed un ampliamento delle aree di intervento sino all’istituzione di quel Tribunale della Famiglia quale unico e specializzato ufficio preposto alla trattazione di tutti i correlativi affari.
In conclusione, posso affermare che la scelta a suo tempo operata ha permesso di disvelarmi una realtà del tutto nuova, particolare e complessa, insegnandomi ad affrontare sfide, non previamente immaginabili, anche ardue e, al contempo, mi ha consentito di conoscere ed apprezzare non solo un manipolo di colleghi seri e scrupolosi ma anche professionisti di altre scienze validi e motivati, che quotidianamente si spendono tra mille difficoltà e ostacoli.
Questo peculiare modus operandi, frutto di un’azione autenticamente sinergica, mi consente, perciò, di poter parlare oggi di un’esperienza giudiziaria certamente unica ed irripetibile, tale anche perché maturata in un lembo di terra del profondo e martoriato Sud, vero e proprio luogo dell’anima ancor prima che - e non solo geograficamente - “estrema periferia dell’impero”.
Quando la magistratura temeva mafia e politica
di Andrea Apollonio
In aereo, tornando dal 34° congresso dell'Associazione nazionale magistrati tenutosi a Genova, riflettevo sull'importanza di ritrovarsi, tutti, in una "casa comune": di guardarsi in faccia almeno una volta l'anno, di individuare assieme i problemi e gli obiettivi, di provare ad uscire dal pantano della crisi di legittimazione; ma anche sulla necessità di riaffermare i principi faticosamente conquistati. E quest'anno, giunti al termine di una pessima annata, nella relazione del Presidente si mostrava ancor più necessario e doveroso ricordare la conquista costituzionale dell'indipendenza (e, per questa via: della terzietà e dell'imparzialità) della magistratura, sia giudicante che requirente. Una conquista che, storicamente, è condensata nel dettato costituzionale sebbene elaborata quarant'anni prima, nell'atto fondativo dell'ANM del 13 giugno 1909. Poi c'è stato il fascismo e lo scioglimento coatto dell'Associazione, ma il germe dell'indipendenza era stato già inoculato: proprio su questa rivista, tempo fa, ricordavamo l'esempio straordinario di Mauro Del Giudice, il magistrato istruttore dell'inchiesta sull'omicidio di Matteotti, che ha difeso con intransigenza l'imparzialità di giudizio, nonostante tutte le indebite pressioni del governo fascista https://www.giustiziainsieme.it/it/il-magistrato/579-il-delitto-matteotti-e-quel-giudice-che-voleva-essere-indipendente-nel-1924.
Va ricordato perché prima di quella fatidica data di primo Novecento la consapevolezza della funzione giudiziaria era declinata in maniera molto diversa. Può apparire strano a noi che oggi ricordiamo le "28 rose spezzate": Falcone, Borsellino, e tutti i colleghi caduti nell'adempimento del dovere, sempre rifiutandosi di arretrare davanti ad altre forme di potere: ma c'è stato un tempo in cui la magistratura temeva la mafia e la politica, un tempo in cui la giustizia era in parte amministrata servendo l'una e l'altra, anche perché l'una (la mafia) non si distingueva dall'altra (la politica). Ed è singolare che a ricordarcelo interviene oggi il più importante storico delle mafie, Enzo Ciconte, che con il suo "Chi ha ucciso Emanuele Notarbartolo" (Salerno editore) non solo rivanga l'origine del fenomeno mafioso ma ci racconta una storia che è e deve essere raccontata ai magistrati di oggi, in specie ai più giovani.
La vicenda è nota ai più: Emanuele Notarbartolo, rispettato esponente della Destra storica nonché direttore del Banco di Sicilia, nel febbraio 1893 viene ucciso su un treno con venti colpi di pugnale, a poca distanza da Palermo. Gravano pesanti sospetti su Raffaele Palizzolo: parlamentare vicino a Francesco Crispi e noto capomafia locale, contro la cui rete familistica e clientelare l'intransigente Notarbartolo si era scagliato più volte. Il suo, fin da subito appare il primo delitto politico-mafioso della storia nazionale.
Meno noto, invece, l'aspetto giudiziario, raccontato da Ciconte tramite un'accurata ricostruzione documentale ed archivistica: le indagini partono in ritardo, vengono condotte malamente dalla magistratura inquirente palermitana, con voluta superficialità intessuta da clamorosi depistaggi. "Tante opzioni, tante piste false e tanta perdita di tempo; più i giorni passavano, più sfumava la possibilità di individuare con certezza responsabili e mandanti anche perché magistrati, poliziotti e carabinieri, non tutti ma molti di loro, erano o inadeguati o guardinghi o complici oppure in forti relazioni con Palizzolo. I casi sono davvero tanti e delineano un quadro fosco entro il quale si muovono personaggi politici ambigui che a volte fanno due parti in commedia", scrive Enzo Ciconte - ma, a ben vedere, potrebbe essere la cronaca dei depistaggi seguiti all'eccidio di Paolo Borsellino e della sua scorta, perché la storia della mafia in Sicilia conosce cicli pressoché identici.
Ma torniamo a Notarbartolo. Ancor più disastroso il processo che segue, rimpallato da un tribunale all'altro per una presunta "legittima suspicione": prima sarà Milano, poi Bologna, infine Firenze. Raffaele Palizzolo, alla sbarra, è consapevole di avere valide protezioni politiche, dunque ottimi intercessori presso i giudici. Così, la sentenza di condanna a 30 anni faticosamente pronunciata a Bologna nel 1902 viene annullata l'anno dopo dalla Corte di Cassazione per un inspiegabile vizio di forma relativo, soltanto, ad una delle numerose testimonianze accusatorie; vizio che travolge l'intero dibattimento: "apertamente si vede che il giuramento è di essenza per la validità della testimonianza, e che la disposizione imperativa della legge è di ordine pubblico, talché la inosservanza del precetto induce nullità che colpisce il dibattimento, ed è assoluta, per cui non è sanabile coll’acquiescenza e neppure coll’esplicito consenso delle parti. Ora è indubitabile che in ordine ad un testimone l’accennata nullità venne commessa alla corte di assise di Bologna" affermano i giudici a Roma, strappando un amaro sorriso all'odierno processualista. Palizzolo sarà quindi prosciolto da ogni accusa con grande sollievo della politica governativa, da più parti definita contigua e collusa con Palizzolo e la sua cosca mafiosa.
Una storia che, per quanto mi riguarda, stilla i suoi insegnamenti proprio nei giorni congressuali appena trascorsi; giorni in cui, per la verità, ho visto meno colleghi di quanto mi aspettassi. Forse proprio da questo dato si può trarre il messaggio più prezioso: e cioè che ritrovarsi tutti a ribadire strenuamente l'indipendenza da ogni altro potere ed a rendere omaggio alle "rose spezzate" (e quindi anche a quei colleghi caduti per mano della mafia siciliana che, come è stato storicamente accertato, l'inerzia della magistratura del primo novecento ha aiutato a sviluppare) non è - come molti pensano in maniera snobistica e autoreferenziale - un gioco di retorica o una sfilata di vuoti propositi. Perché c'è stato un tempo in cui la magistratura si mostrava timorosa, pavida quando non proprio servente di altri poteri: opachi, affaristici, criminali. Un tempo rispetto al quale la data del 13 giugno 1909 rappresenta uno spartiacque ideale, tra interpretazioni diverse e opposte della funzione giudiziaria.
Nella sua relazione, Luca Poniz ha testualmente tratteggiato la figura di "un magistrato consapevole della funzione servente del diritto, innamorato della Legge, e non del Potere". Ribadirlo, tutti assieme guardandoci in faccia, non è affatto retorico: perché non sempre è stato così, ieri, perché non sempre è così, oggi; perché, sopratutto, tanti colleghi hanno pagato con la vita l'attaccamento a quest'idea semplice e al tempo stesso rivoluzionaria.
Una donna Presidente della Corte Costituzionale
Gabriella Luccioli
1.Quando ho appreso la notizia, peraltro ampiamente attesa, che Marta Cartabia era stata eletta Presidente della Corte Costituzionale mi è immediatamente riaffiorato alla memoria l’ animato dibattito dei Padri Costituenti sulla questione delle donne in magistratura. Ho quasi per effetto automatico ricordato, tra le altre, le parole dell’onorevole Cappi, secondo il quale nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento, o quelle dell’onorevole Codacci, che affermò che soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare.
La mancanza da parte delle donne di razionalità e di senso logico, il difetto insito nella loro natura di un sapere tecnico-giuridico, costituivano opinioni ricorrenti e convinte, che delineavano un quadro ed un clima sconcertante di arretratezza culturale. Si manifestò con chiarezza in quel dibattito, nonostante gli appassionati interventi di Teresa Mattei, Maria Federici e Maria Maddalena Rossi, l’ indisponibilità dei nostri Costituenti a liberarsi di modelli e di prigioni concettuali, o piuttosto la loro incapacità di avere finanche la percezione dei pregiudizi sul ruolo e sulle capacità delle donne e di comprendere che solo il diritto di accesso a tutte le professioni avrebbe consentito loro di acquistare quella indipendenza che dà fondamento alla compiuta personalità di ciascun cittadino.
Pregiudizi che certamente traevano alimento da un quadro normativo che schiacciava le donne in uno stato di inferiorità in tutti i campi della vita sociale, un sistema che aveva loro concesso per la prima volta di esercitare il diritto di voto nel 1946, che prevedeva nel codice civile l’ assoluta dipendenza della donna dall’ uomo, disponendo che il marito era il capo della famiglia, la moglie ne seguiva la condizione civile, ne assumeva il cognome ed era obbligata a seguirlo dovunque egli credesse opportuno fissare la propria residenza, e indicando, tra i doveri del marito, quello di proteggere la moglie e di tenerla presso di sé.
Si scelse infine all’esito del dibattito assembleare di non prendere posizione sulla questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali e di rimettere la relativa opzione al legislatore, stabilendo all’ art. 51 che tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.
Ma nel 1960 fu proprio la Corte Costituzionale, con la nota sentenza n. 33 del 1960, ad affermare che una norma, come quella contenuta nell’ art. 7 della legge n. 1176 del 1919, che escludeva le donne in via generale da una vasta categoria di impieghi pubblici doveva essere dichiarata incostituzionale per l’ irrimediabile contrasto in cui si poneva con l’ art. 51 Cost., così enunciando il principio che la diversità di sesso, in sé considerata, non può mai costituire ragione di discriminazione legislativa.
Tale decisione, pur non riguardando specificamente l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, dette certamente una forte spinta per l’approvazione della legge n. 66 del 1963, che finalmente consentì alle donne l’accesso a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura.
Ora finalmente la storia si è presa una grande rivincita, in quanto una donna è stata chiamata a presiedere l’ istituzione cui spetta controllare la conformità delle leggi a quella Carta fondamentale che i Padri costituenti ci hanno consegnato.
Per ottenere questo risultato sono stati necessari 63 anni dall’ inizio del funzionamento della Corte e sono stati eletti 40 presidenti uomini.
Va peraltro dato atto alla Corte Costituzionale di aver raggiunto un obiettivo che né la Corte di Cassazione, né il Consiglio di Stato né la Corte dei Conti sono stati capaci di conseguire, in quanto mai nessuna donna è stata nominata al vertice di dette giurisdizioni.
Eppure la vita ormai lunga della Consulta non è stata caratterizzata da una forte impronta femminile: la prima donna fu Fernanda Contri, nominata dal Presidente Scalfaro nel 1996, ossia ben 40 anni dopo la prima udienza tenuta dalla Corte, nel 1956; seguì Maria Rita Saulle, nominata dal Presidente Ciampi nel 2005, che non potè terminare il suo mandato per la malattia che la colpì; attualmente, oltre Marta Cartabia, nominata dal Presidente Napolitano nel 2011, vi sono due donne, Silvana Sciarra, eletta dal Parlamento nel 2014, e Daria de Petris, nominata anch’ essa dal Presidente Napolitano nello stesso 2014.
Ed è significativo rilevare che, fatta eccezione per la professoressa Sciarra, il Parlamento non ha mai eletto una donna tra i giudici costituzionali di sua competenza. Analogamente, le magistrature superiori ordinaria, amministrativa e contabile non hanno mai espresso una donna. E’ di pochi giorni fa la competizione elettorale in Cassazione che ha visto il meritatissimo successo di Stefano Petitti; per la prima volta erano candidate due consigliere e nessuna delle due è entrata in ballottaggio.
2. Ha dichiarato la Presidente Cartabia nella sua prima intervista dopo l’elezione, richiamando le parole della giovanissima premier finlandese Sanna Marin appena nominata, che in Italia età e sesso ancora un po' contano e che si augura che in un prossimo futuro non contino più.
Do per scontata l’esattezza del rilievo relativo all’ età come elemento discriminante. Per quanto concerne il sesso, sono da tempo convinta che il mezzo più serio ed efficace per superare gli ostacoli che rendono più difficile nel nostro Paese il percorso professionale delle donne è quello di mettere in campo una professionalità elevatissima, di livello anche superiore a quello degli uomini, senza il minimo cedimento, perché è ancora purtroppo vero che le donne devono fare di più per essere percepite come uguali.
Ed allora questa elezione all’ unanimità di Marta Cartabia può considerarsi come un atto dovuto, come l’ineludibile riconoscimento di una professionalità eccellente, che non poteva non essere valorizzata e premiata da parte di un collegio pur declinato prevalentemente al maschile.
Quel di più che Marta Cartabia ha dato nel suo percorso professionale e che l’ha resa così autorevole è scritto nella sua storia. Si tratta di un percorso di costituzionalista con un respiro europeo e internazionale, sin dalla scelta della tesi di laurea sul diritto costituzionale europeo, a testimonianza di una precoce intuizione e di una lucida attenzione verso un processo politico e culturale sempre più orientato verso l’integrazione dei sistemi, che poneva e pone lo studioso nella necessità di confrontarsi con un universo giuridico globale.
Il suo impegno di studio sui temi della giustizia costituzionale comparata, le esperienze di ricerca negli Stati Uniti e in Francia, la direzione di riviste nazionali e internazionali, l’ attività accademica in Italia e in vari Stati esteri, gli incarichi istituzionali presso l’Unione Europea, di recente quello di componente della Commissione europea per la Democrazia attraverso il Diritto, l’ ampia produzione scientifica, delineano un profilo di giurista di eccezionale livello, forte di un’ esperienza priva di confini geografici.
Nel citare le sentenze più importanti che recano la firma di Marta Cartabia si fa generalmente riferimento, a dimostrazione della sua attenzione per la tutela dei diritti umani, alla pronunzia sui vaccini e a quella sull’ IlVA: sentenze certamente di grande rilievo e di forte impatto sociale, per aver stabilito la prima ( n. 186 del 2019) che le disposizioni della legislazione statale in materia di vaccinazione obbligatoria dei minori ai fini dell’ accesso ai servizi scolastici si configurano come norme generali sull’ istruzione che appartengono alla competenza esclusiva del legislatore statale e mirano a garantire che la frequenza scolastica avvenga in condizioni di sicurezza per la salute di ogni alunno, o non avvenga affatto in assenza della prescritta documentazione; per aver affermato la seconda (n. 58 del 2018), nel dichiarare l’ incostituzionalità delle disposizioni censurate, che il legislatore ha privilegiato in modo eccessivo l’ interesse alla prosecuzione dell’ attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze afferenti a diritti costituzionalmente inviolabili legati alla tutela della salute e della vita, cui è inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in un ambiente sicuro.
Mi piace richiamare ancora, tra le più recenti a sua firma, la sentenza n. 114 del 2019 che ha dichiarato non fondata la questione di costituzionalità dell’ art. 774, comma 1, c.c., escludendo che possa ravvisarsi nella disposizione censurata o all’ interno del codice civile alcun divieto di donare rivolto ai beneficiari di amministrazione di sostegno, atteso che detto istituto è connotato da un consapevole e ponderato bilanciamento tra esigenze protettive e rispetto dell’ autonomia individuale, non alterato dalla possibilità di fare donazioni.
E’ infine doveroso il riferimento alla nota sentenza n. 269 del 2018, che ha costituito una tappa importante del lungo percorso volto alla definizione dei rapporti tra Corte Costituzionale e Corte di Giustizia, nella trama dei collegamenti tra diritto dell’ Unione e diritto nazionale: un percorso non ancora concluso, in ordine al quale il Presidente Giorgio Lattanzi nella sua ultima Relazione sull’ attività della Corte ha parlato di un cantiere con lavori perennemente in corso. Le enunciazioni contenute nel famoso obiter di detta pronunzia circa la direzione da prendere dal giudice comune nei casi di doppia pregiudizialità - in cui egli dubiti della congiunta violazione, ad opera di una norma interna, della Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione e della Costituzione - hanno suscitato un accesissimo dibattito che ne ha evidenziato gli aspetti problematici, dando luogo ad una riflessione di sistema che ha incalzato ed incalzerà il giudice delle leggi ad ulteriori puntualizzazioni.
3. In occasione dell’8 marzo, nel cennare alle sue responsabilità familiari, Marta Cartabia ha detto: “Penso che questo duplice aspetto della mia vita mi aiuti a mantenere un pizzico di equilibrio”. Sappiamo che la Presidente è sposata ed ha tre figli ancora molto giovani, poco più che adolescenti: ed allora è agevole cogliere dietro quelle parole, oltre che un estremo riserbo, una realtà inevitabilmente densa di sacrifici e di compiti di cura, di delicati equilibri da raggiungere, tanto più a fronte di scelte molto impegnative, alimentata da una volontà indomita e da un rigore straordinario. Da quelle parole lievi e segnate da un filo di ironia, per chi sa decifrarle, emerge un messaggio di incoraggiamento a tutte le donne a non tirarsi fuori, a valorizzare i loro talenti e a vivere l’impegno familiare non come un limite o una gabbia, ma come una fonte di arricchimento e di equilibrio.
Il conseguimento da parte di Marta Cartabia di un traguardo così alto, che evoca la sua passione per la montagna e per le scalate, è un motivo di speranza per tutti in un momento in cui sembra essersi perso il senso delle istituzioni, in cui il Paese appare rattrappito nelle sue paure, bloccato dall’emergere di nuove diseguaglianze, fuorviato dal proliferare di messaggi semplificatori, grossolani e discriminatori, in cui troppo spesso il successo non premia i migliori, ma i più abili e disinvolti.
L’ auspicio è che quel concetto di laicità positiva che Marta Cartabia ha in più occasioni richiamato, definendone il significato non in termini di indifferenza, ma di equidistanza dalle religioni, da tutte le religioni, a tutela di un valore spirituale che appartiene ad ogni cittadino, si dispieghi nelle sue nuove funzioni nel senso di una assoluta e autentica laicità e costituisca saldo punto di riferimento nell’ affrontare le questioni che verranno all’ esame della Corte sui grandi temi che hanno a che fare con la filosofia, con l’ etica, con la religione, oltre che con il diritto, e che sono rese più delicate e complesse dalla perdurante latitanza del legislatore e dalla conseguente responsabilità dei giudici di contribuire in via giurisprudenziale alla costruzione dell’ ordinamento. La vicenda del suicidio assistito, sulla quale la Corte si è recentemente espressa con una decisione molto coraggiosa, ne fornisce significativa testimonianza.
L’ augurio è che Marta Cartabia non interrompa quel percorso di dialogo e di ascolto nelle scuole e nelle carceri tracciato da Giorgio Lattanzi e vissuto con molta umanità dai giudici della Corte, portando la carica del suo entusiasmo e della sua energia; che all’ interno della camera di consiglio continui ad offrire al dibattito ed alla riflessione di tutti i colleghi, con maggior efficacia nel suo ruolo di Presidente, la diversità e la ricchezza del punto di vista femminile; che sia infine veramente un’ apripista, come si è definita, nel lungo cammino delle donne nelle istituzioni.
di Lorenzo Miazzi
Sommario: Paragrafo zero; 1. Il mutamento del giudice del dibattimento da SS.UU. Iannasso a SS.UU. Bajrami; 3. I principi affermati dalla sentenza Bajrami e l’unicità del giudice ex art. 525 comma 2 c.p.p.; - 2. L’intervento della Corte costituzionale 4. Il principio di conservazione della validità degli atti non espressamente revocati e le questioni preliminari ex art. 591 c.p.p.; - 5. La richiesta di riti alternativi; -6. Principio di conservazione della validità degli atti non espressamente revocati, apertura del dibattimento e richiesta di prove; - 7. L’ordinanza ammissiva delle prove; - 8. Utilizzabilità delle dichiarazioni già assunte; - 9. Valore del consenso delle parti; - Appendice: Istruzioni per la sopravvivenza in udienza
Paragrafo zero
In principio era il vecchio codice.
Il giudice del dibattimento non partecipava alla formazione della prova, che era raccolta nella fase che si chiamava dell’istruzione, formale o sommaria, svolta dal giudice istruttore o dal pubblico ministero secondo regole assimilabili a quelle del dibattimento. Poi il testimone veniva chiamato al processo e il giudice - perché le domande le faceva solo il giudice - per prima cosa gli chiedeva se confermava le dichiarazioni rese. E il testimone, ovviamente, rispondeva di sì.
Poteva bastare, ma anche no. Perché se invece c’era da chiarire, gli si faceva anche la pelle al testimone, che se sospettato di falsa testimonianza in ogni caso (“in ogni caso”!) era posto in stato di arresto in aula. L’immutabilità del giudice in quel sistema era un accessorio, previsto ma non a pena di nullità. Era un sistema imperfetto, ma non era la barbarie, era un processo che durava il tempo che serviva, che si adeguava alla complessità del caso e alla qualità di quanto raccolto in istruttoria. Con l’aiuto delle ricorrenti amnistie, era un sistema che reggeva.
Poi arrivarono i professori; che andavano poco in udienza, e sui libri si innamorano del rito accusatorio, della parità delle parti, del duello fra accusa e difesa.
E i professori incrociarono i parlamentari degli anni ‘80, che neppure loro erano stati in udienza, ma avevano visto molta tv e avevano negli occhi i legal thriller americani. Con la giustizia che trionfa e emerge oralmente in udienza, davanti al popolo.
Perché noi no, dissero i professori, incuranti del sistema concreto in cui quel processo doveva innestarsi.
Perché noi no, si chiesero i parlamentari, incuranti di fornire le risorse e le norme per farlo funzionare.
Così nacque il codice di procedura penale del 1988, quello che qualcuno chiama ancora il nuovo rito, anche se per quasi tutti è l’unico rito mai conosciuto. Un processo in cui quasi tutti noi abbiamo creduto e abbiamo difeso. Un processo in cui l’immutabilità del giudice è corollario, premessa e conseguenza, dei principi portanti: immediatezza e oralità. Il giudice che non cambia è il meccanismo imprescindibile del suo funzionamento, per questo previsto a pena di nullità. Nel 1989 siamo partiti da qui, da questo modello: fare tutto il processo oralmente, farlo subito, farlo davanti allo stesso giudice.
Immediatezza, oralità, immutabilità. Com’è andata?
L’immediatezza si perde subito. Senza riti alternativi, senza amnistie, l’arretrato cresce, in modo geometrico; i rinvii istruttori diventano sempre più lunghi e oggi mediamente le sentenze di primo grado arrivano dopo 4 anni, ma anche molto più tardi se il caso è complesso. Se il processo non è ancora più lungo è solo perché, a un certo punto, scatta la prescrizione…
Persa l’immediatezza, si perde di conseguenza l’oralità: cosa può ricordare il teste dopo tre, cinque, sette anni anni? L’audizione di un teste è diventata uno strazio. La contestazione, nata per mettere in crisi il teste, è diventata (con solenne ipocrisia) “contestazione in aiuto alla memoria” per rimediare alla mancanza di memoria. La famosa tecnica del dibattimento accusatorio è ridotta al penoso “contestare” riga per riga al teste quello che aveva detto anni prima alla polizia giudiziaria.
Era rimasta l’immutabilità. Un simulacro vuoto in queste condizioni. Come i testimoni anche i giudici perdono la memoria, non possono ricordare anni dopo cosa è stato dichiarato, e rileggono quello che il teste, anni prima, già non si ricordava più ma grazie alle contestazioni ha confermato di avere detto, anni prima ancora, alla polizia giudiziaria…
Eppure l’immutabilità è stata difesa fino a ieri. Dagli avvocati, ed è comprensibile, che vi vedevano un formidabile veicolo di nullità e di dilazione del processo; dalla Cassazione, ed è meno comprensibile, che difendeva un principio che, nelle condizioni di fatto del nostro sistema penale, non è un presidio di legalità ma solo un fastidio.
Poi è arrivata Corte costituzionale n. 132/2019; poi è arrivata Sezioni Unite n. 41736/19, Bajrami. Che dicono che il processo si può fare a puntate, che può durare anni e anni, che il giudice non dovrebbe cambiare ma se cambia va bene lo stesso. La storia è finita.
1. Il mutamento del giudice del dibattimento da SS.UU. Iannasso a SS.UU. Bajrami
L’applicazione pratica del principio di immutabilità del giudice - un tema di vitale importanza soprattutto nei tribunali medio-piccoli, data la frequente alternanza dei giudici - va radicalmente riconsiderato alla luce delle recenti Sezioni Unite n. 41736/19, Bajrami.
Il comma secondo dell’art. 525 c.p.p. dispone che “alla deliberazione [della sentenza] concorrono, a pena di nullità assoluta, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento…”, ma sin da subito si sono creati in giurisprudenza orientamenti contrapposti fra chi ritenne che la rinnovazione era assicurata dalla lettura dei verbali delle prove assunte avanti al giudice mutato e coloro invece che ritenevano necessario, se vi era richiesta delle parti, che la prova dichiarativa venisse riassunta.
Nel 1999, si pervenne a una prima composizione del conflitto con l’importante sentenza c.d. “Iannasso”[1] , la quale, in sintesi, afferma che:
- il principio di immutabilità del giudice posto dall'art. 525 comma 2 c.p.p. a pena di nullità assoluta, impone che quando muti la persona fisica del giudice monocratico o la composizione del giudice collegiale il dibattimento sia integralmente rinnovato, fin dalla dichiarazione di apertura dello stesso, con la ripetizione delle richieste di prova immediatamente successive e dell’ammissione e dell’assunzione delle prove;
- i verbali delle prove acquisite avanti il diverso giudice possono essere legittimamente inclusi nel fascicolo per il dibattimento in quanto prove assunte nel contraddittorio delle parti;
- una volta disposta la rinnovazione del dibattimento, il giudice può disporre (ai sensi dell’ultimo inciso del secondo comma dell’art. 511 c.p.p.), la lettura delle prove raccolte nel dibattimento solo in assenza di richiesta proveniente dalle parti di riassunzione delle prove precedentemente acquisite.
L’applicazione pratica dei principi della sentenza “Iannasso” però non fu omogenea, e anzi su alcuni argomenti fu molto osclillante (forse anche perché la motivazione è insolitamente stringata). Nella giurisprudenza di merito - timorosa della “nullità assoluta” minacciata dall’art. 525 - si ritenne impossibile per il giudice (fuori delle ipotesi disciplinate dall’art. 190 bis c.p.p.), disporre la lettura delle precedenti dichiarazioni rese da un testimone, perito o altro dichiarante senza procedere alla nuova audizione dello stesso, se una - basta una - delle parti avesse fatto richiesta di riammissione e riacquisizione delle prove, indipendentemente dalla formulazione di nuove domande.
In pratica, dopo la sentenza delle SS.UU. si formò (con poche eccezioni) una prassi “difensiva” che conferiva importanza decisiva al consenso delle parti - consenso che doveva essere espresso - senza il quale non era possibile utilizzare i verbali senza ri-assumere il dichiarante.
Difformi orientamenti si crearono relativamente alla necessità o meno, in caso di mutamento della composizione del giudice, di procedere a nuova apertura del dibattimento e di rinnovare formalmente anche il provvedimento ammissivo delle prove reso ex art. 495 cod. proc. pen.; ed in ordine alla possibile rilevanza del consenso prestato dalle parti alla lettura degli atti assunti dal collegio quando vi sia successivo mutamento del giudice, o del difensore; oltre che eventualmente, in caso affermativo, le modalità di prestazione di detto consenso.
Altri due punti infine- come rileva la stessa Sentenza Bajrami - erano rimasti non esplicitamente chiariti dalla sentenza Iannasso:
- se, a seguito della rinnovazione del dibattimento, fosse legittimata a formulare la richiesta di nuova assunzione dell'esame già assunto dal giudice diversamente composto soltanto la parte che ne aveva inizialmente chiesto ed ottenuto l'ammissione, od anche la controparte;
- se, investito della predetta richiesta, il nuovo giudice potesse valutarla secondo i parametri ordinari (artt. 495 e 190, comma 1, cod. proc. pen.), ed in ipotesi motivatamente non accoglierla, ovvero fosse vincolato ad ammetterla.
Questi conflitti interpretativi si sono radicalizzati sino a rendere inevitabile una nuova remissione alle SS.UU.
2. L’intervento della Corte costituzionale
L’insoddisfazione della giurisprudenza di merito rispetto ai principi della sentenza Iannasso - interpretata nel modo più restrittivo come si è detto per timore della nullità - nel frattempo ha trovato sfogo anche nel ricorso alla Corte costituzionale. Così al giudice delle leggi è stato richiesto di valutare “se gli artt. 511, 525, comma 2, e 526, comma 1, del codice di procedura penale, siano costituzionalmente illegittimi in relazione all’art. 111 della Costituzione, se interpretati nel senso che ad ogni mutamento della persona fisica di un giudice, la prova possa ritenersi legittimamente assunta solo se i testimoni già sentiti nel dibattimento, depongano nuovamente in aula davanti al giudice-persona fisica che deve deliberare sulle medesime circostanze o se invece ciò debba avvenire solo allorquando non siano violati i principi costituzionali della effettività e della ragionevole durata del processo».
Con la sentenza n. 132 del 2019 la Corte[2], pur dichiarando inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, ha ritenuto - se si ritenga obbligato il giudice a disporre la ripetizione dell’assunzione della prova dichiarativa ad ogni mutamento del Giudice - “assai dubbia (l’)idoneità complessiva di tale meccanismo a garantire, in maniera effettiva e non solo declamatoria, i diritti fondamentali dell’imputato, e in particolare quello a una decisione giudiziale corretta sull’imputazione che lo riguarda”.
Non vi è dubbio che questa pronuncia abbia riaperto il conflitto che è sullo sfondo del contrasto giurisprudenziale: quello fra rispetto dei principi fondativi del “nuovo” codice di procedura (in particolare, quello dell’oralità) e l’esigenza di funzionamento effettivo del processo (anche per il principio della ragionevole durata del processo) nel contesto di reale disponibilità di risorse e di concreto atteggiamento delle parti[3]. Non vi è dubbio infatti che il fantasma della prescrizione - temuta o desiderata dalle parti - aleggi su molte delle motivazioni pro e contro le soluzioni “tecniche” consentite dalla normativa. Parlando esplicitamente di una contrapposizione fra “nobili ideali e distorsioni della prassi”, si era commentato che “il dibattito rappresenta, in maniera evidente, la risposta ad un generale “malessere” per le distorsioni patologiche che la regola della rinnovazione del dibattimento, per quanto ispirata a nobili principi, vive quotidianamente nella prassi. Il carico elevato di processi, unito ai frequenti avvicendamenti nei ruoli giurisdizionali (soprattutto nei tribunali periferici), l’assenza di un contemperamento sui termini di prescrizione e di un vaglio del giudice sull’istanza di rinnovazione, idoneo a neutralizzare eventuali richieste dilatorie delle parti, rappresentano indici del malfunzionamento concreto del meccanismo della rinnovazione”[4].
3. I principi affermati dalla sentenza Bajrami e l’unicità del giudice ex art. 525 comma 2 c.p.p.
Pochi mesi dopo anche la Cassazione si è trovata a decidere sulle questioni sollevate ([5]).
E’ utile premettere i principi di diritto enunciati dalla sentenza n. 41736/19, Bajrami, depositata il 10.10.2019:
«il principio d'immutabilità del giudice, previsto dall'art. 525, comma 2, prima parte, cod. proc. pen., impone che il giudice che provvede alla deliberazione della sentenza sia non solo lo stesso giudice davanti al quale la prova è assunta, ma anche quello che ha disposto l'ammissione della prova, fermo restando che i provvedimenti sull'ammissione della prova emessi dal giudice diversamente composto devono intendersi confermati, se non espressamente modificati o revocati»;
«l'avvenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere, ai sensi degli artt. 468 e 493 cod. proc. pen., sia prove nuove sia la rinnovazione di quelle assunte dal giudice diversamente composto, in quest'ultimo caso indicando specificamente le ragioni che impongano tale rinnovazione, ferma restando la valutazione del giudice, ai sensi degli artt. 190 e 495 cod. proc. pen., anche sulla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa»;
«il consenso delle parti alla lettura ex art. 511, comma 2, cod. proc. pen. degli atti assunti dal collegio in diversa composizione, a seguito della rinnovazione del dibattimento, non è necessario con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non chiesta, non ammessa o non più possibile».
Le massime enunciate rispondono in effetti ai quesiti posti. Tuttavia la parte motiva della sentenza affronta anche altri aspetti della procedura che precede e segue l’avvenuto mutamento del giudice e proprio la descrizione di tale procedura pone una serie di problemi pratici che il giudice si trova a dover risolvere.
In merito, la sentenza afferma (p. 10) che a seguito del mutamento della persona del giudice monocratico o della composizione del giudice collegiale, il dibattimento deve essere integralmente rinnovato, il che comporta la necessità della ripetizione della sequenza procedimentale costituita:
Il principio d'immutabilità del giudice non è, quindi, violato (p. 11) allorché il giudice diversamente composto si sia limitato al compimento di attività od all'emissione di provvedimenti destinati ad aver luogo prima del dibattimento, quali, ad esempio:
4. Il principio di conservazione della validità degli atti non espressamente revocati e le questioni preliminari ex art. 591 c.p.p.
SS.UU. Bajrami afferma (p. 12) che “non è necessario che il giudice, nella diversa composizione sopravvenuta, rinnovi formalmente l'ordinanza ammissiva delle prove chieste dalle parti, perché i provvedimenti in precedenza emessi dal giudice diversamente composto e non espressamente revocati o modificati conservano efficacia.”
Viene quindi affermato un principio di conservazione dell’efficacia dei provvedimenti emessi dal giudice “diverso” (da quello che poi decide emettendo sentenza) che non è previsto normativamente, ma che la Corte fa discendere dall'art. 525, comma 2, ultima parte, cod. proc. pen., ([6]) riguardante il giudizio d'assise (l'unico nell'ambito del quale sia normativamente prevista la presenza di giudici supplenti), ritenuto applicabile per analogia; e dall'art. 42, comma 2, cod. proc. pen., ([7]) in materia di astensione, anch’essa ritenuta “disciplina analoga”.
Nella sentenza si afferma (p. 12) che “nella nozione di "dibattimento" ex art. 525, comma 2, prima parte, rientra, pertanto, anche la dichiarazione della sua apertura ex art. 492 cod. proc. pen.” Si afferma inoltre, in applicazione analogica dell’art. 525 comma 2 ultima parte c.p.p., che “i provvedimenti già emessi conservano efficacia se non sono espressamente revocati”.
Pertanto non è più riproponibile lo schema che si era ormai consolidato secondo cui a seguito del mutamento del giudice si riparte (automaticamente e inevitabilmente) dall’apertura del dibattimento e dalla rinnovazione delle richieste di prova.
Nella sentenza si afferma infatti che “a seguito del mutamento della composizione del collegio giudicante, il procedimento regredisce nella fase degli atti preliminari al dibattimento (che precede la nuova dichiarazione di apertura del dibattimento ex art. 492 cod. proc. pen.)” e che il giudice, nella composizione sopravvenuta, “ha il potere di valutare ex novo le questioni tempestivamente proposte dalle parti e decise dal giudice diversamente composto”, citando due precedenti: Sez. 6, n. 3746 del 24/11/1998, dep. 1999, De Mita, Rv. 213343, e Sez. 1, n. 36032 del 05/07/2018, Conti, Rv. 274382, entrambe in tema di competenza per territorio. Le due pronunce non sono però esattamente sovrapponibili.
Nella sentenza de Mita del 1998 ([8]) si afferma che il mutamento intervenuto nella composizione del collegio riporta il procedimento nella fase prevista dalla norma (art. 491 c.p.p.) e rende quindi ammissibile la proposizione di tutte le questioni da essa previste.
Nello specifico (questione di competenza per territorio riproposta avanti al nuovo giudice) si afferma che la questione era proponibile e poteva essere decisa in modo difforme “non potendo la preclusione alla ulteriore deducibilità essere impeditiva del potere del giudice di apprezzare liberamente tutti gli elementi necessari alla propria decisione, ivi comprese le questioni attinenti alla competenza.”
Nella sentenza Conti ([9]), nella parte motiva si afferma, in maniera parzialmente difforme dalla sentenza De Mita, che “in caso di mutamento del giudice, quel che è oggetto di rinnovazione è il dibattimento… Il dibattimento ha inizio, secondo quanto previsto dall'articolo 492 cod. proc. pen., con la dichiarazione di apertura, una volta compiute le attività che compongono la fase degli atti introduttivi in cui si collocano le questioni preliminari e fra esse la questione di competenza per territorio.” La conclusione della Suprema Corte è che “la Corte di assise ha errato nell'affermare in sentenza che l'eccezione, riproposta in sede di discussione, fosse tardiva, perché ha omesso di considerare quanto avvenuto durante gli atti introduttivi al dibattimento innanzi al giudice dibattimentale nella primigenia composizione, sul presupposto, non conforme a legge, di una sopravvenuta inefficacia in ragione della rinnovazione del dibattimento”.
Sorge quindi il problema di individuare il momento processuale cui retroagisce il mutamento del giudice, in particolare se siano riproponibili le questioni preliminari: se è indiscutibile che - secondo la sentenza De Mita - il processo ritorna alla fase precedente l’apertura del dibattimento, cioè nella fase ex art. 491 c.p.p., è anche vero che - secondo la sentenza Conti - gli atti introduttivi conservano efficacia anche nel caso della rinnovazione del dibattimento.
La sintesi può essere trovata distinguendo la fase della verifica della costituzione delle parti e quella delle attività da compiersi successivamente. In pratica:
5. La richiesta di riti alternativi
La sentenza Bajrami non affronta direttamente la questione dei poteri del “nuovo” giudice riguardo l’ammissibilità dei riti alternativi, che, si ricorda, nel procedimento davanti al Tribunale in composizione monocratica possono essere richiesti anche nella fase dibattimentale. La questione però esiste, in quanto non è dubitabile che la sentenza riassegna poteri di intervento del giudice in una fase - quella delle questioni preliminari - che logicamente precede quella della richiesta dei riti alternativi, lasciando pensare che al giudice vengano riassegnati anche i poteri relativi, riconsiderando le ordinanze già rese dal primo giudice.
Tuttavia la tematica è richiamata esplicitamente nella sentenza (par. 5.2, pp. 13 e 14), nella parte in cui enuncia il principio di conservazione della validità degli atti non espressamente revocati (di cui si è parlato al paragrafo che precede), sia pure a soli fini esemplificativi. Anche in questo caso la sentenza richiama alcuni precedenti: interessano qui Sez. 3, n. 30416 del 01/07/2016, Bianco, Rv. 267353, che ha ritenuto, in tema di ammissibilità di un rito alternativo, che il mutamento della persona del giudice non priva di efficacia il precedente provvedimento di ammissione al rito abbreviato, dovendo quindi ritenersi preclusa, dinanzi al nuovo giudice, la possibilità di chiedere l'applicazione di pena concordata; e Sez. 3, n. 37100 del 18/06/2015, Benassi, Rv. 264584, che ha ritenuto, in tema di giudizio abbreviato subordinato ad un'integrazione probatoria, che il provvedimento inerente alla decisione incidentale sull'ammissione del rito e delle sue modalità di svolgimento non perda efficacia in caso di successivo mutamento della persona del giudice.
Il primo richiamo merita un approfondimento: se il procedimento retrocede alla fase delle questioni preliminari, tanto è vero che può essere riproposta e diversamente decisa la questione per competenza territoriale, si può legittimamente dedurre che un’attività sicuramente successiva come la richiesta di rito alternativo possa essere oggetto di nuova considerazione da parte del giudice.
Più specificamente, il limite posto dalla legge per la richiesta dei riti alternativi è quello dell’art. 555 co.2 c.p.p. per il quale la parte decade dalla richiesta se non la formula “prima della dichiarazione di apertura del dibattimento”; e il nuovo giudice - nella sequenza procedimentale descritta dalla Bajrami - deve procedere ad una nuova apertura. Poiché non si prevede - come avviene invece per l’art. 491 comma 1 c.p.p. - che la richiesta possa essere avanzata solo in occasione della prima apertura del dibattimento, la stessa sembra ri-proponibile avanti al nuovo giudice prima che egli ri-apra il dibattimento. Tuttavia va considerato che la giurisprudenza - prima della sentenza Bajrami ovviamente - si era pronunciata negativamente, ritenendo che la richiesta di rito abbreviato, ove non venga formulata in limine al dibattimento, rimane preclusa anche nel caso in cui muti la persona fisica del giudice, poichè le fasi anteriori all'apertura del dibattimento non sono interessate alla rinnovazione degli atti[10].
Non è chiaro quindi se l’imputato che non abbia chiesto nulla al primo giudice possa, dopo il mutamento, richiedere un rito alternativo e se il nuovo giudice abbia il potere di ammetterlo. Per la soluzione affermativa può farsi richiamo al principio di favore alla celebrazione di riti alternativi e l’assenza di un divieto normativo; contrariamente si può valorizzare, per il principio di conservazione degli atti, il silenzio prima serbato ritenendo che esso abbia “consumato” il relativo potere di richiesta; nonché un’esigenza di logica di sistema (si arriverebbe al punto che l’imputato che non aveva richiesto l’abbreviato, effettuata una parte dell’istruzione dibattimentale in modo a lui sfavorevole, potrebbe “approfittare” del mutamento del giudice per chiedere l’abbreviato vanificando l’attività processuale fatta sino a quel momento).
Questione collegata è se l’imputato che abbia avanzato richiesta di rito abbreviato condizionato o di patteggiamento, non accolti, possa riproporre la richiesta al nuovo giudice.
Come si è detto, la sentenza Bajrami non prende posizione. Come regolarsi, perciò? Si deve ritenere che rispetto a quella che si può definire una “apertura incidentale” enunciata nella sola parte motiva, prevalgano le regole speciali dettate dalle norme e precisate dalla giurisprudenza di questi anni, che escludono la possibilità di nuove richieste di riti alternativi in conseguenza del mutamento del giudice.
Un punto fermo è che nell’ipotesi in cui fosse stata avanzata la richiesta di rito alternativo, nel caso di mutamento del giudice la richiesta conserva efficacia, secondo un principio già affermato in passato ([11]).
In particolare poi, in tema di rito abbreviato, è stato affermato che il mutamento della persona del giudicante non ha rilevo riguardo la decisione incidentale sulla ammissibilità del rito alternativo [12] ; e che nel caso di rigetto della richiesta del c.d. abbreviato condizionato da parte del giudice dibattimentale, il rimedio è l’applicazione anche d'ufficio della riduzione di un terzo prevista dall'art. 442 co. 2 cod. proc. pen. (come applicabile ai sensi di Corte costituzionale 15.2.1991 n. 81), se il giudice riconosca alla luce dell'istruttoria espletata che quel rito si sarebbe dovuto invece celebrare[13] (e purché la richiesta sia stata coltivata e rinnovata dal difensore)[14].
Riguardo il patteggiamento, la giurisprudenza ha affermato che “la richiesta di patteggiamento, già respinta dal giudice del dibattimento che abbia conseguentemente dichiarato la propria incompatibilità, non può essere rinnovata davanti ad altro giudice”[15]; e non vi sono motivi per derogare nel caso in cui nel frattempo il giudice sia mutato (anche) per altri motivi.
Queste regole deve ritenersi debbano valere anche nel caso in cui l’imputato abbia richiesto un rito, respinto, e intenda chiederne un altro. La richiesta deve essere coltivata tempestivamente, nei termini di legge davanti al primo giudice[16]; diversamente il mutamento del giudice non fa rivivere tale facoltà.
6. Principio di conservazione della validità degli atti non espressamente revocati, apertura del dibattimento e richiesta di prove
Come si è detto, la sentenza Iannasso enunciava la necessità della ripetizione della sequenza procedimentale costituita dalla dichiarazione di apertura del dibattimento (art. 492), dalle richieste di ammissione delle prove (art. 493), dai provvedimenti relativi all'ammissione (art. 495), dall’assunzione delle prove. Ma nella sentenza Bajrami, in forza del principio di conservazione dei provvedimenti, si afferma (p. 14) che “La disposizione di cui all'art. 525, comma 2, prima parte, cod. proc. pen. non comporta, quindi, la necessità, a pena di nullità assoluta, di rinnovare formalmente tutte le attività previste dagli artt. 492, 493 e 495 cod. proc. pen., poiché i relativi provvedimenti in precedenza emessi dal giudice diversamente composto conservano efficacia se non espressamente modificati o revocati.”
Prosegue la sentenza affermando che la garanzia dell'immutabilità del giudice non attribuisce alle parti il diritto di reiterare senza alcun beneficio processuale attività già svolte e provvedimenti già emessi, bensì il diritto di poter nuovamente esercitare, a seguito del mutamento della composizione del giudice, le facoltà previste dalle predette disposizioni.
Spetta però alle parti rilevare il sopravvenuto mutamento della composizione del giudice ed attivarsi con la formulazione delle eventuali, conseguenti richieste, se ne abbiano, chiedendo altresì, ove necessario, la concessione di un breve termine. Inteso che se le parti non esercitano tale facoltà il giudice può ignorare l’avvenuto mutamento e proseguire, come se nulla fosse, dal punto cui era arrivato il giudice precedente. Salvo (p. 15) ritenere necessaria, d'ufficio, la ripetizione, anche pedissequa, delle predette attività (cioè cagionando egli stesso quella “immotivata dilazione dei tempi di definizione del processo” che si impedisce alle parti)…
Ora, non si creano problemi con la dichiarazione di apertura del dibattimento, che il giudice dovrebbe rinnovare; tuttavia se nessuna delle parti osserva alcunché in ordine al mutamento del giudice, non è necessario disporla espressamente e conserva efficacia quella del primo giudice.
Assai più complesso conciliare la procedura sopra descritta con la facoltà delle parti di richiedere termine per presentare una nuova lista ai sensi dell’art. 468 c.p.p. richiamata dalle SS.UU.[17].
Secondo una interpretazione letterale della motivazione (confortata dalla massima enunciata formalmente a p. 27: «l'avvenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere, ai sensi degli artt. 468 e 493 cod. proc. pen., sia prove nuove sia la rinnovazione di quelle assunte dal giudice diversamente composto…”) si dovrebbe ritenere che in caso di mutamento del giudice comunque per la parte - per qualunque parte - si riapra la possibilità di ampliare la propria lista testi, o di proporla se ne era decaduta.
Inutile osservare che questo significa andare in palese contraddizione col dichiarato (sempre nella sentenza) intento di evitare immotivate perdite di tempo; e con principio consolidato in giurisprudenza secondo cui la parte che non abbia depositato la lista testi nei termini di cui all’art. 468 c.p.p. decade dalla possibilità di farlo. E non pare ci sia una ragionevole necessità di differenziare la posizione processuale di chi, perso il termine ne decade per sempre se il giudice non muta, e chi invece viene rimesso in termini se il giudice muta.
Appare perciò necessario proporre una diversa interpretazione che vada oltre quella letterale, basata su una valutazione olistica del dettato normativo e dei principi del codice.
Si evidenzia perciò che la sentenza - in modo forse non troppo chiaro - definisce le richieste formulabili dalle parti come “conseguenti”; ma il collegamento non è con il semplice sopravvenuto mutamento della composizione del giudice, ma con il mutamento da cui deriva la rinnovazione del dibattimento; cioè con il mutamento del giudice che avvenga dopo che una attività istruttoria era stata espletata, con esiti da cui può derivare la necessità di un’integrazione probatoria prima non prevista (e che magari il giudice diversamente potrebbe effettuare ex art. 507 c.p.p.). Solo in questo caso si giustifica la disparità di trattamento rispetto a chi era semplicemente decaduto dal termine.[18]
Ciò significa che la parte ha il diritto di poter nuovamente esercitare, a seguito del mutamento della composizione del giudice, le facoltà previste dalle predette disposizioni (cioè, come dice la sentenza, chiedere sia prove nuove sia la rinnovazione di quelle assunte dal giudice diversamente composto) con la eventuale formulazione delle richieste conseguenti al mutamento del giudice a fronte di istruttoria già svolta. Il deposito della lista serve cioè a individuare quali dichiaranti già sentiti riesaminare e su quali circostanze, al fine di porre il giudice nella condizione di valutarne la necessità (ex 495 c.p.p.), chiedendo altresì, ove necessario, la concessione di un breve termine anche ai fini di presentazione di nuova lista ex 468 c.p.p., necessaria per la formulazione delle richieste di prova ex 493 c.p.p. (par.5.4).
In una interpretazione coerente della motivazione della sentenza, la facoltà della parte di presentazione di nuova lista ex 468 c.p.p. con nuove richieste di prova risulta essere lo strumento con cui la parte – che non aveva indicato il dichiarante nella propria lista - può chiedere di ri-esaminare il dichiarante già sentito su specifiche circostanze, anche laddove si tratti di soggetto inizialmente non indicato in lista dalla parte, che, altrimenti, non avrebbe facoltà di richiederne la rinnovazione ([19]); oppure può chiedere prove nuove conseguenti alle dichiarazioni rese.
Quanto alle modalità con cui richiedere la ri-assunzione del teste, la sentenza non pare fare obbligo di presentare nuova lista a chi aveva già inserito il dichiarante nella propria lista testi: quindi la parte potrà più agevolmente presentare le proprie richieste oralmente in udienza nella fase ex art. 493 c.p.p. Diversamente, chi non avendolo indicato prima vuole ri-sentire il dichiarante, deve depositare nuova lista testi ex art. 468, eventualmente chiedendo allo scopo un breve termine. Chi, infine, non aveva chiesto l’audizione del dichiarante nella originaria lista testi e non ha depositato nuova lista, può sollecitare il potere del giudice, ai sensi dell’art. 507 c.p.p., di disporre la nuova assunzione.
Ulteriore problema riguarda la concessione del “breve termine”. La sentenza cita come esempio la situazione in cui la necessità della rinnovazione del dibattimento non sia stata prevista ed anticipata, ma si sia palesata soltanto in udienza, senza preavviso alcuno: cioè, deve ritenersi, quando il mutamento del giudice sia stato improvviso e non preavvisato. Il che significa che se il mutamento è annunciato, la parte che vuole avvalersi delle facoltà sopra descritte dovrà farsi diligente e presentare, entro i termini del 468 c.p.p., una nuova lista prima dell’udienza in cui compare il giudice nuovo.
7. L’ordinanza ammissiva delle prove
L’ordinanza ex art. 495 c.p.p. va emessa dallo stesso giudice che assume le prove e che decide il processo: il principio già stabilito dalla sentenza Iannasso è ribadito dalla sentenza Bajrami. Tuttavia la nuova pronuncia introduce alcune rilevanti novità:
Il giudice può accogliere o meno la richiesta di nuova assunzione. La Suprema Corte detta le regole per la decisione (p. 18): le uniche prove dichiarative da riassumere sono quelle che il giudice «ammetta ai sensi degli articoli 190 e 495 cod. proc. pen.», con ciò implicitamente evidenziando che dal nuovo giudice devono essere riassunte soltanto le prove da lui ritenute: a) non vietate dalla legge; b) non manifestamente superflue; c) non irrilevanti.
Quali sono dunque le prove che invece non possono essere ammesse? La Suprema Corte detta qualche indicazione, non esaustiva ma importante.
Prove vietate: il nuovo giudice può ritenere che la prova già ammessa ed assunta dinanzi al giudice precedente sia vietata dalla legge (ipotesi che la stessa SS.UU riconoscono essere, nella prassi applicativa, residuali, ma non da escludere in modo assoluto).
Prove superflue: secondo la Suprema Corte (p. 20) sono le prove che vertono sulle stesse circostanze già compiutamente oggetto del precedente esame; la richiesta di reiterazione dell'esame di un verbalizzante che già nel corso del precedente esame aveva chiesto di consultare in aiuto alla memoria gli atti a sua firma (dato che non potrà che riportarsi nuovamente ai verbali); la richiesta di risentire un dichiarante che già nel corso del precedente esame aveva palesato cattivo ricordo dei fatti, o che comunque debba essere riesaminato dopo ampio lasso di tempo dal verificarsi dei fatti in ipotesi a sua conoscenza (dato che il nuovo esame non potrà apportare alcun elemento di novità attendibile).
Prove irrilevanti: sono le prove che non influiscono sul giudizio. Si tratta di una prognosi ostica, dato che il nuovo giudice difficilmente, in questa fase, può prevedere con certezza che le circostanze siano del tutto inutili: ma non si può escludere in modo assoluto. La rilevanza dei predetti esami, rileva la Suprema Corte, non sembra poter essere messa in discussione, ove s'intenda procedere alla successiva declaratoria di utilizzabilità degli stessi previa lettura dei relativi verbali, ai sensi dell'art. 511 cod. proc. pen..
Al contrario la Suprema Corte indica, fra le prove da ammettere in quanto non superflue, il caso in cui le parti si siano avvalse del potere di indicare nuove circostanze o circostanze in precedenza riferite in modo insoddisfacente/incompleto in ordine alle quali esaminare nuovamente il dichiarante; o abbiano allegato elementi dai quali desumere la sua inattendibilità (anche se limitatamente ad alcuni punti della deposizione resa), e la conseguente necessità che egli venga nuovamente esaminato; o quando il nuovo giudice - anche prescindendo dall'interesse delle parti - ritenga necessario attivare i poteri di cui all'art. 506 cod. proc. pen. per rivolgere nuove domande al teste.
La Suprema Corte detta anche il criterio con cui effettuare le valutazioni di rilevanza e superfluità: quello di cui all’art. 238 comma 5 c.p.p. secondo il quale le parti hanno il diritto di ottenere l'ammissione dell'esame delle persone le cui dichiarazioni (confluite in verbali di prove di altro procedimento penale, assunte in incidente probatorio od in dibattimento) siano state acquisite, e risultino utilizzabili contro l'imputato (ovvero se il suo difensore ha partecipato all'assunzione della prova).
Quando ritenga rilevanti e non superflue le nuove circostanze il giudice accoglie la richiesta con ordinanza e fissa l’udienza per la nuova audizione; che deve ritenersi in un’ottica di sistema, dovrebbe vertere esclusivamente o principalmente sulle nuove circostanze. Il dichiarante, in quanto inserito nella (nuova) lista ex art. 468 c.p.p., diventa teste della parte che ne chiede la ri-audizione e che pertanto dovrà citarlo.
8. Utilizzabilità delle dichiarazioni già assunte
La Suprema Corte afferma (p. 23) che “resta ferma l'utilizzabilità, ai fini della decisione, anche delle dichiarazioni già assunte dinanzi al giudice diversamente composto, previa lettura ex art. 511 cod. proc. pen.” col seguente regime:
le dichiarazioni verbalizzate “permangono” nel fascicolo del dibattimento (p. 24);
esse sono utilizzabili dopo la ripetizione dell'esame dinanzi al giudice nella nuova composizione, se la ripetizione è stata chiesta, ammessa ed è tuttora possibile;
esse sono utilizzabili senza la ripetizione dell’esame, se la ripetizione non è stata chiesta, o non è stata ammessa o non è più possibile, ai sensi dell’art. 511 comma 2 (che consente la lettura e la conseguente utilizzazione ai fini della decisione dei verbali di dichiarazioni rese dinanzi a giudice diversamente composto, anche in difetto del consenso delle parti, se, per qualsiasi ragione, «l'esame non abbia luogo»);
dei verbali di dichiarazioni deve essere data lettura secondo quanto previsto dall’art. 511: se vi è richiesta di parte, il giudice dispone la lettura integrale o parziale delle dichiarazioni; senza richiesta, il giudice può limitarsi a indicare le dichiarazioni fra gli atti utilizzabili ai fini della decisione.
9 . Valore del consenso delle parti
Se prima della sentenza Bajrami , come si è detto, era prassi diffusa considerare il consenso delle parti il perno del sistema della rinnovazione dibattimentale, oggi la Suprema Corte svuota di ogni contenuto il consenso, che nel sistema da essa disegnato non ha alcun ruolo.
La parte non può prestare consenso al mutamento del giudice: “Ferma l'irrilevanza (ai sensi del combinato disposto degli artt. 525, comma 2, prima parte, e 179 cod. proc. pen.) del consenso eventualmente prestato alla violazione del principio d'immutabilità del giudice, sanzionata a pena di nullità assoluta, e quindi insanabile…” (p. 18).
Il consenso neppure influenza il regime di utilizzabilità delle dichiarazioni precedentemente rese dinanzi al vecchio giudice. Il consenso infatti (p. 25):
non è necessario, se la parte che ne aveva chiesto l’ammissione non ha chiesto la ripetizione, oppure la ripetizione non è stata ammessa o non è possibile;
è irrilevante, se il giudice ha ammesso la ripetizione ma il nuovo esame non è stato assunto (pur essendo possibile) ed è stata disposta lettura delle dichiarazioni; in tal caso si applica l’art. 179 c.p.p. che commina la nullità assoluta.
Appendice: Istruzioni per la sopravvivenza in udienza
Per tenere presenti le molte questioni che la sentenza Bajrami solleva, senza dovere ogni volta riapprofondire gli argomenti studiati, ho elaborato un riassunto, dal taglio operativo, che ho diffuso nella mia Sezione penale. Un piccolo manuale per la sopravvivenza in udienza. Lo propongo se può essere utile.
Mutamento del giudice dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento ma prima dell’ammissione delle prove.
· Attività di verifica della costituzione delle parti (art. 484 c.p.p.): rimangono efficaci le ordinanze del primo giudice, che non possono essere oggetto di richieste delle parti o di provvedimenti del nuovo giudice.
· Questioni preliminari (art. 491 c.p.p.): le parti possono chiedere al nuovo giudice di riconsiderare le ordinanze emesse dal primo giudice, in particolare quelle che riguardano la propria competenza. Il nuovo giudice può riportarsi alle ordinanza già rese. In caso di mancata riproposizione delle questioni, le ordinanze precedenti rimangono efficaci senza necessità di riconferma. Le parti non possono sollevare questioni nuove.
· Richiesta di riti alternativi (per i soli procedimenti a citazione diretta): se è già stato richiesto e ammesso un rito alternativo, l’ordinanza ammissiva rimane valida e non può essere modificata; se era stato richiesto un abbreviato condizionato e il giudice non lo aveva ammesso, o se era stato rigettato un patteggiamento, il nuovo giudice non può revocare la precedente ordinanza; se la parte non aveva effettuato richieste, non può farlo avanti il nuovo giudice.
· Apertura del dibattimento (art. 492 c.p.p.): il giudice dovrebbe rinnovarla; tuttavia se nessuna delle parti osserva alcunché in ordine al mutamento del giudice, non è necessario disporla espressamente e conserva efficacia quella del primo giudice.
Si suggerisce pertanto al nuovo giudice, in mancanza di specifiche richieste delle parti, di far precedere ad ogni attività dibattimentale la seguente ordinanza:
“Il giudice, confermate le ordinanze precedentemente emesse nel processo, rinnova l’apertura del dibattimento e invita le parti a formulare le richieste di prova.”
Mutamento del giudice dopo l’ammissione delle prove e lo svolgimento di attività istruttoria
· Rinnovazione delle richieste di prova (art. 493 c.p.p.) e ordinanza ammissiva (art. 495 c.p.p.): il giudice dovrebbe far rinnovare le richieste di prova e pronunciare nuova ordinanza ex art. 495 c.p.p.; tuttavia se nessuna delle parti osserva alcunché in ordine al mutamento del giudice, non è necessario disporla espressamente e conserva efficacia quella del primo giudice.
· Richiesta di ripetizione di attività istruttoria: se vi è stata attività istruttoria, la parte (sia quella che ha chiesto a suo tempo l’audizione del dichiarante, sia quella che non lo inserì fra i propri testi) può chiedere che il dichiarante venga risentito, ma dovrà dimostrare la rilevanza e non superfluità della richiesta. Se la parte aveva già inserito il dichiarante nella propria lista testi originaria, sarà sufficiente che ne faccia richiesta in udienza ex art. 493 c.p.p. Se la parte non aveva prima inserito il dichiarante in lista testi, dovrà formulare la richiesta con il deposito di nuova lista testi ex art. 468 c.p.p., nei seguenti termini:
a) se il mutamento del giudice era conosciuto (ad esempio dopo la filtro del giudice togato quando si indica che il processo passerà ad altro giudice; oppure quando emerga una causa di astensione, o una possibile riunione; o se il mutamento era stato comunicato etc.) la parte deve presentare la nuova lista con richiesta di risentire il dichiarante prima della nuova udienza, nei termini di legge;
b) se il mutamento del giudice non era previsto (ad esempio per trasferimento del primo giudice, o nel caso di subentro di altro giudice nel ruolo, etc.) la parte può chiedere alla nuova udienza un breve termine, che il giudice deve concedere.
a) ritenere superfluo o irrilevante l’esame del dichiarante già sentito; in tal caso rigetta la richiesta e utilizzerà la deposizione già resa ex art. 511 c.p.p.:
b) ritenere rilevanti e non superflue le nuove circostanze; in tal caso accoglie la richiesta con ordinanza e fissa l’udienza per la nuova audizione (sulle nuove circostanze). Il dichiarante, in quanto inserito nella (nuova) lista ex art. 468 c.p.p., diventa teste della parte che ne chiede la ri-audizione e che pertanto dovrà citarlo.
In ogni caso è superfluo o irrilevante il consenso o dissenso delle parti rispetto a questi provvedimenti.
Si suggerisce, dopo l’apertura del dibattimento, se nessuna parte fa richieste specifiche, di pronunciare la seguente ordinanza:
“Il giudice conferma le ordinanze rese ex artt. 493 e 495 c.p.p. e dichiara utilizzabili gli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento; ai sensi dell’art. 511 comma 5 c.p.p., indica specificamente, in luogo della lettura, i verbali contenenti le dichiarazioni dei testimoni, periti, consulenti e imputati precedentemente rese.”
[1] Sez. U, Sentenza n. 2 del 15/01/1999 Ud. (dep. 17/02/1999 ); questa la massima ufficiale: “Nel caso di rinnovazione del dibattimento a causa del mutamento della persona del giudice monocratico o della composizione del giudice collegiale, la testimonianza raccolta dal primo giudice non è utilizzabile per la decisione mediante semplice lettura, senza ripetere l'esame del dichiarante, quando questo possa avere luogo e sia stato richiesto da una delle parti.”
[2] Corte costituzionale, sentenza n. 132 del 20 maggio 2019, che dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 525, comma 2, 526, comma 1, e 511 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento all’art. 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Siracusa.
[3] Esigenza che è ben focalizzata nell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale emessa il 12 marzo 2018 dal Tribunale di Siracusa, che così argomenta: “Orbene nelle realtà periferiche del Paese come la presente, la persona fisica del giudice cambia continuamente specie se si fa riferimento alla composizione del collegio; il fatto che i giudici siano solitamente di prima nomina e, maturato il termine, vengano trasferiti altrove, la circostanza che vi siano continuamente vuoti da coprire e dunque spostamenti interni per fare fronte alle diverse emergenze, le maternità che giocano un ruolo determinante nelle piccole sedi con giudici di prima nomina; sono tutte circostanze che fanno sì che sia sostanzialmente impossibile che un processo complesso possa essere iniziato e portato a termine dagli stessi giudici; il rispetto formale e categorico del principio dell’oralità in queste realtà determina la oggettiva impossibilità che il processo venga portato a termine, con inevitabile pregiudizio delle ragioni delle persone offese e con inutile enorme dispendio di attività processuali.”
[4] Raffaele Muzzica, “La rinnovazione del dibattimento per mutamento del giudice: un impulso della corte costituzionale per una regola da rimeditare”, commento a Corte cost., sent. 29 maggio 2019, n. 132, in Diritto penale contemporaneo, editato il 3 giugno 2019.
[5] Le questioni di diritto in ordine alle quali il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite sono le seguenti:
"se il principio d'immutabilità di cui all'art. 525, comma 2, cod. proc. pen. richieda la corrispondenza, rispetto al giudice che abbia proceduto alla deliberazione finale, del solo giudice dinanzi al quale la prova sia stata assunta, ovvero anche del giudice che abbia disposto l'ammissione della prova stessa";
"se, ai fini di ritenere la sussistenza del consenso delle parti alla lettura degli atti assunti dal collegio che sia poi mutato nella sua composizione, sia sufficiente la mancata opposizione delle stesse, ovvero sia invece necessario verificare la presenza di ulteriori circostanze che la rendano univoca".
[6] A norma del quale, «se alla deliberazione devono concorrere i giudici supplenti in sostituzione dei titolari impediti, i provvedimenti già emessi conservano efficacia se non sono espressamente revocati».
[7] A norma del quale «il provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione dichiara se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi o ricusato conservano efficacia».
[8] Cass. Sez. 6, sentenza n. 3746 del 24.11.1998, imp. De Mita: “Non è abnorme la sentenza che dichiari l'incompetenza territoriale del giudice per essere stata adottata la decisione oltre il termine di cui all'art. 491 cod. proc. pen. dopo che la relativa eccezione sia stata già sollevata e disattesa dal collegio in diversa composizione, in sede di atti preliminari al dibattimento. … l'eccezione non può ritenersi tardiva in quanto, dopo il mutamento della composizione del collegio giudicante, il procedimento regredisce nella fase degli atti preliminari al dibattimento, sia perché, infine, il limite temporale di cui all'art. 491 cod. proc. pen. riguarderebbe, semmai, la proponibilità della questione ma non il potere del giudice di apprezzare liberamente i presupposti del suo potere decisionale, tra i quali quello della competenza.”
[9] Sez. 1 - , Sentenza n. 36032 del 05/07/2018, imp. Conti: “In caso di rinnovazione del dibattimento per mutamento del giudice, non è tardiva l'eccezione di incompetenza territoriale ritualmente formulata dinanzi al primo giudice e riproposta in sede di discussione, in quanto la regressione del procedimento conseguente alla rinnovazione del dibattimento fa pienamente salva l'efficacia degli atti introduttivi al medesimo”.
Il caso è il seguente: nel procedimento di primo grado la difesa dell'imputato aveva formulato l'eccezione dinnanzi al giudice dell'udienza preliminare e poi, dopo il rigetto, l'aveva riproposta entro il termine preclusivo di cui all'articolo 491 cod. proc. pen. dinnanzi al giudice del dibattimento che l'aveva rigettata con ordinanza pronunciata fuori udienza. Non ebbe però a reiterarla, dopo che la Corte di primo grado dispose la rinnovazione del dibattimento, ai sensi dell'articolo 525 cod. proc. pen., per mutamento della composizione del collegio.
[10] (Cass., Sez. 5, n. 36764 del 24.5.2006; Cass. sez. IV, n.46410 del 22/06/2018.
[11] Sez. 6, Sentenza n. 397 del 01/10/1998 Ud. (dep. 14/01/1999 ) Rv. 213437: “Ove le parti abbiano formulato richiesta di trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato, a norma dell'art. 452, comma secondo, cod. proc. pen., e, rinviatosi il dibattimento ad altra udienza senza che il giudice abbia ancora provveduto su tale richiesta, intervenga un mutamento dell'organo giudicante, la richiesta non deve essere reiterata dinanzi al nuovo giudice. Infatti, la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, conseguente al mutamento del giudice, non investe affatto la richiesta di giudizio abbreviato, che è atto del predibattimento, e che ovviamente prescinde dalla composizione fisica dell'organo giudicante.”
[12] Sez. 3, Sentenza n. 30416 del 01/07/2016 “Il principio di immutabilità del giudice ha riguardo alla identità fisica del giudice che assume la prova e decide, e non entra in considerazione allorchè il mutamento della persona del giudicante intervenga esclusivamente per la decisione incidentale sulla ammissibilità di un rito alternativo; ne consegue che, qualora detto mutamento si verifichi dopo che sia stata accolta una richiesta di giudizio abbreviato, deve ritenersi preclusa, dinanzi al nuovo giudice, una richiesta di applicazione di pena concordata.”
[13] Sez. U, Sentenza n. 44711 del 27/10/2004 “Il rigetto della richiesta di giudizio abbreviato subordinata dall'imputato all'assunzione di prove integrative, quando deliberato sull'erroneo presupposto che si tratti di prove non necessarie ai fini della decisione, inficia la legalità del procedimento di quantificazione della pena da infliggere qualora si pervenga, in esito al dibattimento, ad una sentenza di condanna. Ne consegue che il giudice dibattimentale il quale abbia respinto "in limine litis" la richiesta di accesso al rito abbreviato - "rinnovata" dopo il precedente rigetto del giudice per le indagini preliminari ovvero proposta per la prima volta, in caso di giudizio direttissimo o per citazione diretta - deve applicare anche d'ufficio la riduzione di un terzo prevista dall'art. 442 cod. proc. pen., se riconosca (pure alla luce dell'istruttoria espletata) che quel rito si sarebbe dovuto invece celebrare.”
[14] Sez. 6, Sentenza n. 27505 del 28/04/2009 “Nell'ipotesi in cui la richiesta di giudizio abbreviato subordinata all'assunzione di prove integrative sia rigettata dal giudice prima dell'apertura del dibattimento, il riesame di merito del provvedimento negativo può essere sollecitato dall'imputato al fine di ottenere la riduzione di pena di cui all'art. 442, comma secondo, cod. proc. pen., dinanzi allo stesso giudice, all'esito del dibattimento di primo grado, ovvero al giudice dell'impugnazione, in forza di specifico motivo di gravame.”
[15] Sez. 1, Sentenza n. 16889 del 22/04/2010.
[16] Sez. 2, Sentenza n. 10462 del 08/01/2016 “Qualora la richiesta di patteggiamento, formulata in via ordinaria e non a seguito di giudizio immediato, venga rigettata, non è preclusa all'imputato la possibilità che si proceda con giudizio abbreviato, sempre che la relativa istanza venga formulata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento.”
[17] Cass. SS.UU. n. 41736/19, p. 15: “peraltro, a seguito del mutamento della composizione del giudice, le parti possono esercitare nuovamente le facoltà attribuite loro dagli artt. 468 e 493 cod. proc. pen., ovvero presentare nuove richieste di prova, che andranno ordinariamente valutate dal nuovo giudice.”
[18] Come se la massima sopra riportata fosse preceduta da un inciso che richiami l’ambito decisionale in cui la sentenza opera, che è quello delimitato già dalla sentenza Iannasso, della rinnovazione del dibattimento; quindi la si dovrebbe leggere così: “nel caso di rinnovazione dell’istruttoria, l'avvenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere, ai sensi degli artt. 468 e 493 cod. proc. pen., sia prove nuove sia la rinnovazione di quelle assunte dal giudice diversamente composto…”
[19] Par. 6, in particolare pag. 17: “Come anticipato, la prevista necessità di legittimare le parti, a seguito del mutamento della composizione del giudice, ad esercitare nuovamente le facoltà ad esse attribuite dagli artt. 468 e 493 c.p.p., comporta la facoltà di presentare nuove richieste di prova, il che può rendere necessario concedere, se la parte interessata ne faccia richiesta, un breve termine per consentire l'eventuale presentazione di una nuova lista nei tempi e nei modi indicati dall'art. 468 c.p.p. Ne consegue che la parte che non abbia indicato il nominativo del dichiarante da esaminare nuovamente e le circostanze sulle quali il nuovo esame deve vertere in una lista tempestivamente depositata ex art. 468, non ha diritto all'ammissione”.
Ciò che si temeva è avvenuto. La nota dominante della pronunzia in commento è la conferma da essa resa della signoria che la Corte rivendica per sé nei riguardi di quella che fino ad oggi si chiamava la sfera riservata agli apprezzamenti discrezionali (o, diciamo pure, politici tout court) del legislatore.
Si badi. La Consulta aveva dato l’impressione nella decisione preparatoria di quella odierna, la discussa (e discutibile) ord. 207 del 2018, di voler preservare la sfera stessa, più e più volte avendovi fatto rimando, allo stesso tempo nondimeno lasciando intendere essere comunque indispensabile l’intervento delle Camere per far luogo ai “delicati bilanciamenti” richiesti dal caso (p. 10 del cons. in dir.).
Di contro, il messaggio che oggi ci viene indirizzato dal giudice delle leggi è che, laddove una disciplina normativa giudicata costituzionalmente necessaria non dovesse venire alla luce per mano del legislatore, sarà il giudice costituzionale a farsene carico, senza limite di sorta. Non si dà più, insomma, alcun confine sicuro ed invalicabile entro il quale la volontà del legislatore, e solo essa, potrà affermarsi e farsi valere; sarà, di contro, la Consulta a stabilire d’ora innanzi fin dove far espandere e dove invece contrarre la sfera rimessa alla regolazione da parte delle Camere, fino ad azzerarne del tutto il campo materiale da essa ricoperto.
Certo, deve pur trattarsi di vicende in cui siano in gioco beni della vita di cruciale rilievo, quale appunto quello di dar modo all’autodeterminazione del soggetto di spegnere (rectius, far spegnere da terzi) la propria vita: insomma, delle situazioni oggettivamente eccezionali, quelle al ricorrere delle quali la Corte caricherà su di sé l’onere, per vero gravosissimo, di riscrivere, inventandosela di sana pianta, una disciplina dallo stesso giudice dapprima giudicata non discendente “a rime obbligate” dalla Carta, desumendo da non meglio precisate “coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari” (p. 4 del cons. in dir. della pronunzia in commento). Viene, dunque, da pensare che, laddove in futuro dovesse nuovamente assistersi all’adozione, in prima battuta, di una ordinanza di rinvio, analoga alla 207, nella quale peraltro saranno ridisegnati i lineamenti della futura normativa ovvero prefigurate alcune sue possibili soluzioni, allo scadere del termine al riguardo concesso al legislatore e perdurando la colpevole inerzia di quest’ultimo senza che peraltro si diano segni concreti di una possibile resipiscenza, sarà il giudice ad occupare il campo.
Si annida qui – come si è tentato di mostrare già in sede di primo commento della 207 – una contraddizione di fondo. Delle due, infatti, l’una: o è vero quanto dichiarato la prima volta dal giudice costituzionale, vale a dire che spetta davvero al legislatore (e solo ad esso) far luogo alla scelta tra le varie soluzioni normative astrattamente immaginabili, da compiersi entro un certo termine (del quale, peraltro, è oscuro il titolo in nome del quale è dal giudice fissato), ed allora non è chiaro cosa mai legittimi in un tempo successivo la Corte a sostituirsi al legislatore stesso; oppure il giudice può (e, anzi, deve) far luogo alla disciplina dalla stessa prefigurata, ed in tal caso non è chiaro perché non vi si possa (e debba) porre subito mano, senza indugio alcuno, tanto più che è poi pur sempre consentito al legislatore di apportarvi le innovazioni giudicate opportune, una volta che abbia deciso di tornare a rioccupare il campo di sua spettanza, sia pure nel rispetto dei “principi e criteri direttivi” somministratigli dal giudice costituzionale.
La contraddizione – come si viene dicendo – è insita nella nuova tecnica decisoria forgiata l’anno scorso: è un suo limite insuperabile, un vizio congenito (e non occulto…) della cosa, insomma. Né giova opporre – come fa la Corte nella decisione in commento (p. 4 del cons. in dir.) – che “decorso un congruo periodo di tempo, l’esigenza di garantire la legalità costituzionale deve, comunque sia, prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia, alla quale spetta la priorità”. A portare fino ai suoi ultimi e conseguenti svolgimenti il ragionamento ora fatto, sarebbe come dire che il modello disegnato nella Carta in ordine alla tipizzazione dei ruoli istituzionali ha una forza non già autenticamente prescrittiva bensì meramente persuasiva e che gli stessi operatori possono factis discostarsene. Sarebbe, perciò, come sancire definitivamente il primato della politica, anche quella dei massimi garanti del sistema, sul primato della Costituzione.
Misterioso è poi il sortilegio che porta a commutare quelli che in un primo tempo sono, con studiata cautela, prospettati quali contenuti eventuali della disciplina sollecitata dalla Corte (eventuali, appunto, perché rimessi al discrezionale apprezzamento del legislatore) nei tratti caratterizzanti la stessa.
Così, ad es., per ciò che attiene al riconoscimento dell’obiezione di coscienza del personale sanitario chiamato a prestare la propria opera al fine di determinare la morte del soggetto: dapprima (p. 10 del cons. in dir. della 207) qualificato come meramente possibile ed ora (p. 6 del cons. in dir. della 242) invece ritenuto (per fortuna…) necessario. O, ancora, per ciò che concerne i luoghi nei quali potrà essere causata la morte, oggi individuati, “in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore”, nelle strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale e con la garanzia dell’intervento di un organo collegiale terzo “munito delle adeguate competenze”, individuato nel comitato etico competente per territorio (p. 5).
Si dà, nondimeno, una differenza di non poco conto tra i due esempi appena fatti; ed è che, quanto al primo, non è più rimesso – perlomeno esplicitamente – alla scelta discrezionale del legislatore il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza del personale coinvolto nelle “procedure” in questione (come sono – per vero, con una certa indelicatezza e freddezza di linguaggio, ripetutamente etichettate le azioni che causano la morte di esseri umani), mentre – come si è veduto – quanto alle sedi nelle quali le “procedure” stesse dovrebbero perfezionarsi la loro individuazione rimane nella disponibilità del legislatore. Viene perciò da pensare che, ove quest’ultimo dovesse un domani intervenire, non potrebbe non far luogo alla previsione del diritto suddetto (e, ove così dovesse invece essere, potrebbe, ancora una volta, rimediare la Corte avvalendosi della inusuale tecnica decisoria inaugurata lo scorso anno e perfezionata oggi).
Apparentemente, ad ogni buon conto, i margini di manovra del legislatore rimangono non poco estesi ma la Kompetenz-Kompetenz – come si viene dicendo – si appunta in capo alla Corte, e solo su di essa: sarà quest’ultima, dunque, a decidere se prendere la penna in mano e riscrivere ovvero scrivere per la prima volta la regolazione normativa di fattispecie nelle quali siano in gioco beni della vita meritevoli della massima considerazione; e sarà ancora la Corte a decidere in quale “luogo” normativo ciò potrà aversi. Nella 207, alle Camere si è indirizzato il “suggerimento” di operare non già sull’art. 580 c.p., sottoposto al giudizio della Consulta, bensì sulla legge 219 del 2017, al fine di riportare la futura regolamentazione alla “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico”. Oggi, di contro, la Corte non se l’è sentita di spingersi fino al punto di far luogo ad una sì rilevante modifica del quadro legislativo in vigore e si è perciò “limitata” (si fa per dire, ovviamente…) ad avvalersi del solo materiale disponibile, quello portato alla sua cognizione, fatto oggetto di una corposa manipolazione. È comunque chiaro che un domani, qualora il legislatore dovesse decidersi finalmente ad intervenire, bene potrebbe (e a giudizio della Corte farebbe a) spostare il tiro mirando sulla 219.
Sta di fatto che, pur laddove la disciplina sottoposta al vaglio della Consulta dovesse in sé e per sé valutarsi come inadeguata all’intervento in parola, nulla farebbe da ostacolo a che esso possa ugualmente aversi per mano dello stesso giudice. Al tirar delle somme, quest’ultimo reputa di avere carta bianca praticamente su tutto: sul se, sul dove, su come intervenire.
È questa, a mio modo di vedere, la lezione che si ricava dalla complessiva manovra avviata lo scorso anno ed oggi portata a compimento: una lezione rilevante (e preoccupante) non soltanto – come si vede – al piano processuale, per ciò che attiene cioè all’ampliamento dell’area ricopribile dalle tecniche decisorie di cui la Corte dispone e per l’uso disinvolto che se ne fa, a mezzo di innaturali mescolamenti dei profili di ammissibilità con quelli di merito delle questioni portate alla cognizione della Corte, ma anche (e più ancora) al piano istituzionale, laddove si definiscono (e ridefiniscono) senza sosta, iussu iudicis, gli equilibri (e squilibri…) tra la stessa Corte e il legislatore.
Che dire, dunque, del principio della separazione dei poteri? Funere mersit acerbo… Non sono, dunque, solo i politici – come paventa R. Bin in un suo commento su www.laCostituzione.info del 22 novembre scorso – a lamentarsi della invasione di campo operata a loro danno ma anche qualche (forse ed auspicabilmente, non isolato) giurista.
Non consola, poi, la circostanza per cui anche nella decisione odierna insistito è l’appello al legislatore ad intervenire una buona volta sul campo facendo luogo a quei “delicati bilanciamenti” che sono sollecitati dal caso, dei quali si diceva. Il vero è che la regolazione oggi ope juris prudentiae prodotta e praticamente presa di peso (o quasi) dalla decisione interlocutoria dello scorso anno (a conferma dello scarto vistoso da essa esibito tra la forma e la sua sostanza) è comunque autosufficiente e si connota per un elevato tasso d’innovatività: è, cioè, una vera e propria legislazione rivestita delle candide forme della sentenza, che – come si diceva – fa luogo, in più punti, alla selezione di opzioni dapprima dallo stesso giudice presentate come meramente possibili e reciprocamente alternative. Si pensi solo, in aggiunta a quanto sopra detto, alla sorte dei casi analoghi a Cappato insorti prima della decisione di oggi, da quest’ultima parimenti riportati sotto l’“ombrello” protettivo della non punibilità dell’aiuto prestato al suicidio, sempre che siano allo scopo utilizzate modalità idonee “a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti”; ed è facile previsione che non poche controversie al riguardo insorgeranno, tali da mettere a dura prova gli operatori chiamati a risolverle.
Particolarmente sottolineato – come si vede – è qui pure il ruolo dei medici cui sono rimesse verifiche di primario rilievo: un ruolo che – si tiene a precisare anche nella odierna decisione – dovrà essere comunque salvaguardato anche dalla futura disciplina legislativa (sempre che riuscirà finalmente a vedere la luce…).
Insomma, la “delega” è duplice: al legislatore, cui competono decisioni politiche nondimeno fortemente orientate dalla odierna “sentenza-legge” (e, risalendo, dalla “ordinanza-legge” dell’anno scorso), ed agli operatori sanitari. Nel frattempo, nondimeno, avrà pieno vigore la disciplina “sussidiariamente” prodotta dal giudice, dopo aver scientemente messo da canto il canone, pure connotato da strutturale vaghezza ed ambiguità, costituito dal rispetto della discrezionalità del legislatore, il cui vigore non era stato dalla stessa 207 revocato in dubbio.
La conversione di un giudice, sia pure del tutto peculiare, qual è la Corte, in un legislatore allo stato puro perviene così a compiuta maturazione, senza alcun mascheramento. Non si tratta più – come pure gli studiosi più prudenti ed avveduti hanno da tempo rilevato – di una mera prevalenza (o, diciamo pure, dominanza) della c.d. “anima” politica su quella giurisdizionale, nel mix cui esse danno vita in forza di una opportuna opzione operata già al tempo della Costituente; di più (e peggio), si tratta puramente e semplicemente dell’affermazione dell’una al posto dell’altra, svilita nella sua stessa essenza e risolutamente messa da parte.
Sia chiaro. Nessuno è così ingenuo e sprovveduto da non averne colto i segni premonitori, non soltanto nella pronunzia dello scorso anno su Cappato ma in molte altre adottate nei campi più varî di esperienza e con riguardo a vicende processuali pure assai diverse tra di loro: da quelle relative alle leggi elettorali ad altre ancora (come quella sulla Robin tax) in cui la Consulta si è parimenti discostata dai canoni stabiliti per l’esercizio della giurisdizione costituzionale (in ispecie, come si sa, da quelli relativi alla rilevanza ed agli effetti delle decisioni, specie di quelle ablative). In Cappato, tuttavia, si è forse raggiunto il punto più alto di questo trend che inquieta fortemente circa i suoi possibili sviluppi e gli esiti ad essi conseguenti. Ritardi e carenze dei decisori politici vanno – fin dove possibile e con gli strumenti al riguardo apprestati – combattuti con decisione e senza risparmio di energie. Il rimedio giusto non è tuttavia – a me pare – quello degli eccessi dei garanti che, non meno dei primi, concorrono a mettere sotto stress la Costituzione e lo Stato che da essa prende il nome.
Non vale obiettare – come pure talvolta si è fatto (e si fa) – che ciò che solo importa è che i diritti costituzionali ne abbiano, al tirar delle somme, un guadagno o, come che sia, quel pur parziale appagamento che senza l’intervento dei garanti stessi non potrebbe comunque aversi.
Ad un siffatto modo di vedere le cose possono, a mia opinione, opporsi almeno due argomenti, già in altri luoghi rappresentati, di metodo e di merito.
Per l’un verso, se il prezzo da pagare per vedere finalmente riconosciuto ed effettivamente salvaguardato un diritto costituzionale è quello riportabile alla inesorabile “logica” machiavellica del fine che giustifica il mezzo, si può obiettare che lo snaturamento dei ruoli istituzionali è un prezzo che l’ordinamento costituzionale non è in grado di pagare, dal momento che ne sarebbero fatalmente contagiati gli stessi diritti, secondo la ispirata intuizione dei rivoluzionari francesi, mirabilmente scolpita nell’art. 16 della Dichiarazione del 1789. Zoppo di una delle due gambe su cui si regge e con le quali soltanto può portarsi avanti nel suo non lineare, comunque sofferto, cammino, lo Stato costituzionale sarebbe infatti condannato a dissolversi e con esso, perciò, ad essere sacrificati proprio quei diritti per la cui salvaguardia è venuto ad esistenza.
Per l’altro verso, poi, è tutto da vedere se, in una vicenda processuale data, siano davvero in gioco diritti costituzionali pretermessi e bisognosi pertanto di essere finalmente protetti. Una questione che torna imperiosa a porsi proprio in merito al caso nostro, del quale nulla ora voglio dire dopo aver già manifestato in altri luoghi il mio punto di vista. Possiamo chiamare le cose come vogliamo, darne una edulcorata (e, in buona sostanza, deformata) rappresentazione ma resta il fatto che la Consulta, pur avendo in premessa (già nella 207) ribadito la insussistenza di un diritto a morire, in conclusione della vicenda approda alla sponda opposta, dandone il riconoscimento, sia pure a condizioni dalla stessa poste e – va detto senza infingimenti – non discendenti “a rime obbligate” dalla Carta costituzionale. Su ciò, desidero qui in chiusura ribadire il mio fermo, convinto dissenso e sollecitare un supplemento di severa, critica riflessione.
Un’ultima notazione che, per vero, meriterebbe una meno affrettata attenzione.
Ancora una volta, è qui lasciata in ombra la CEDU, la cui violazione pure era stata denunziata nell’atto introduttivo del giudizio di costituzionalità. Per vero, la decisione odierna (e già la 207 cui questa – come si diceva – largamente attinge avvalendosi della funzione “copia e incolla”) non trascura di fare richiami alla giurisprudenza convenzionale; e però, dal momento che si è fatto luogo all’accoglimento della questione (seppur nei limiti “normativamente” stabiliti dalla decisione stessa), si è ancora una volta fatto utilizzo della tecnica dell’assorbimento dei vizi, senza alcun riguardo per i parametri convenzionali (v. p. 8 del cons. in dir.). Insomma, ancora una testimonianza, quella oggi resa, del ruolo sostanzialmente ancillare e subalterno delle Carte dei diritti diverse dalla nostra legge fondamentale, alle quali perlopiù si fanno richiami ad pompam, senza davvero mettere in atto quella mutua integrazione delle stesse nei fatti interpretativi che è già da tempo predicata dalla Consulta (spec. sent. n. 388 del 1999) ma, a conti fatti, tranne qualche sporadica ed apprezzabile eccezione, non praticata. È un vero peccato che tardi a maturare la consapevolezza dei benefici che potrebbero averne i diritti ove quest’autentico metodo di giudizio, ispirato alla sostanziale parità delle Carte ed all’apporto risultante dal loro fecondarsi a vicenda, divenisse pratica quotidiana di amministrare giustizia, costituzionale e non. L’auspicio è che, anche grazie all’ingresso presso le Corti di studiosi ed operatori di provata sensibilità ed apertura culturale, anche questo passo prima o poi sia, in modo risoluto, fatto.
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