ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
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dal sito Web di reclutamento di Foodora
La qualificazione del lavoro dei riders alla prova della giurisprudenza: prime note di commento alla sentenza della Corte di Cassazione sezione lavoro del 24 gennaio 2020 n. 1663.
La sentenza della Corte di Cassazione sezione lavoro del 24 gennaio 2020 n. 1663 offre l’opportunità di affrontare il tema della natura della prestazione lavorativa dei riders e della disciplina loro applicabile; ciò, attraverso l’analisi delle tradizionali categorie codicistiche (lavoro autonomo e lavoro subordinato) e di quelle di recente introduzione, finalizzate a disciplinare le nuove forme di lavoro on demand anche al fine di scongiurare il diffondersi di pratiche abusive e socialmente deplorevoli (lavoro etero - organizzato).
Sommario: 1. Il caso. 2. Le questioni giuridiche e le soluzioni della Corte di Cassazione. 3. Le conseguenze delle opzioni interpretative della Corte di Cassazione sui rapporti tra etero-organizzazione e coordinamento della prestazione. 4. Le conseguenze delle opzioni interpretative della Corte di Cassazione sui rapporti tra etero-organizzazione e subordinazione.
1. Il caso.
Per comprendere meglio la vicenda oggetto di questo veloce contributo - che sicuramente non ha la presunzione dell’esaustività, vista la complessità e la vastità della materia - vorrei brevemente ripercorrere le tappe che hanno portato la Corte di Cassazione ad intervenire per la prima volta nel contenzioso sulla qualificazione giuridica del rapporto di lavoro dei riders iniziato di fronte al Tribunale di Torino.
Con sentenza del 7 maggio 2018 il giudice di primo grado aveva respinto la domanda di alcuni lavoratori addetti alle consegne di pasti a domicilio organizzate tramite piattaforma digitale, tesa ad accertare la natura subordinata del rapporto di lavoro, ed aveva confermato la legittimità del contratto di collaborazione coordinata e continuativa sottoscritto con Foodora, escludendo l’applicabilità alla fattispecie anche dell’art. 2, comma 1, d.lgs. 81/2015.[1]
Nel giudizio di fronte al Tribunale era rimasto provato che la prestazione lavorativa dei ricorrenti si era svolta a grandi linee nel modo seguente: dopo avere compilato un formulario sul sito di Foodora i lavoratori venivano convocati in piccoli gruppi presso l'ufficio per un primo colloquio nel quale veniva loro spiegato che l'attività presupponeva il possesso di una bicicletta e la disponibilità di un telefono cellulare con funzionalità avanzate (smartphone); in un secondo momento veniva loro proposta la sottoscrizione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa e, dietro versamento di una caparra di Euro 50, venivano loro consegnati gli indumenti di lavoro, i dispositivi di sicurezza (casco, maglietta, giubbotto e luci) e l'attrezzatura per il trasporto del cibo (piastra di aggancio e box). Il contratto che veniva sottoscritto, cui era allegato un foglio contenente l’informativa sul trattamento dei dati personali e la prestazione del consenso, aveva le seguenti caratteristiche: si trattava di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa; era previsto che il lavoratore fosse libero di candidarsi o non candidarsi per una specifica corsa a seconda delle proprie disponibilità ed esigenze di vita; il lavoratore si impegnava ad eseguire le consegne avvalendosi di una propria bicicletta idonea e dotata di tutti i requisiti richiesti dalla legge per la circolazione; era previsto che il collaboratore avrebbe agito in piena autonomia, senza essere soggetto ad alcun vincolo di subordinazione, potere gerarchico o disciplinare, ovvero a vincoli di presenza o di orario di qualsiasi genere nei confronti della committente, ma era tuttavia fatto salvo il necessario coordinamento generale con l'attività della stessa committente; era prevista la possibilità di recedere liberamente dal contratto, anche prima della scadenza concordata, con comunicazione scritta da inviarsi a mezzo raccomandata a/r con trenta giorni di anticipo; il lavoratore, una volta candidatosi per una corsa, si impegnava ad effettuare la consegna tassativamente entro trenta minuti dall'orario indicato per il ritiro del cibo, con la comminatoria a suo carico di una penale di euro 15; il compenso era stabilito in euro 5,60 al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali per ciascuna ora di disponibilità; il collaboratore doveva provvedere ad inoltrare all'INPS domanda di iscrizione alla gestione separata di cui all'art. 2, comma 26, della L. 8 agosto 1995 n. 335 e la committente doveva provvedere a versare il relativo contributo; la committente doveva provvedere all'iscrizione del collaboratore all’INAIL ai sensi del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 5; il premio era a carico del collaboratore per un terzo e della committente per due terzi; la committente - come accennato - doveva affidare al collaboratore in comodato gratuito un casco da ciclista, un giubbotto e un bauletto dotato dei segni distintivi dell'azienda a fronte del versamento di una cauzione di euro 50.
Quanto alle modalità di esecuzione della prestazione, la gestione del rapporto avveniva attraverso piattaforma multimediale e un applicativo per smartphone per il cui uso venivano fornite da Foodora apposite istruzioni. L'azienda pubblicava settimanalmente le fasce orarie (slot) con l'indicazione del numero di riders necessari per coprire ciascun turno. Ciascun rider poteva dare la propria disponibilità per le varie fasce orarie in base alle proprie esigenze personali, ma non era obbligato a farlo. Raccolte le disponibilità, il responsabile della "flotta" confermava ai singoli riders l'assegnazione del turno. Ricevuta la conferma del turno, il lavoratore doveva recarsi all'orario di inizio di quest'ultimo in una delle tre zone di partenza predefinite, attivare l'applicativo inserendo le credenziali (nome dell'utilizzatore, user name, e password) per effettuare l'accesso e avviare la geolocalizzazione (GPS). Il rider riceveva quindi sull'applicazione la notifica dell'ordine con l'indicazione dell'indirizzo del ristorante. Accettato l'ordine, il rider doveva recarsi con la propria bicicletta al ristorante, prendere in consegna i prodotti, controllarne la corrispondenza con l'ordine e comunicare tramite l'apposito comando dell'applicazione il buon esito della verifica. A questo punto, posizionato il cibo nel box, il rider doveva provvedere a consegnarlo al cliente, il cui indirizzo gli era stato nel frattempo comunicato tramite l'applicazione, e doveva quindi confermare di avere regolarmente effettuato la consegna.
Con sentenza dell’11 gennaio 2019 la Corte d'Appello di Torino, nel confermare l’inesistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti aveva accolto la domanda subordinata dei lavoratori, applicando la disciplina prevista dall'art. 2, comma 1, d.lgs. 81/2015.
Conseguentemente aveva dichiarato il diritto dei lavoratori a vedersi corrispondere le differenze maturate tra le somme percepite e quanto dovuto sulla base della retribuzione prevista per i dipendenti del V livello del CCNL logistica trasporto merci, con condanna della società datrice di lavoro al pagamento delle somme richieste.
Per giungere a tale soluzione la Corte distrettuale, dopo aver accertato il carattere continuativo della prestazione e l’etero-organizzazione dell’attività di collaborazione dei riders anche con riferimento ai tempi ed ai luoghi di lavoro - condividendo sul punto la decisione del Tribunale - aveva escluso che queste fossero condizioni sufficienti a provare la subordinazione posto che i lavoratori erano liberi di scegliere se e quando lavorare.
Diversamente dal Tribunale aveva ritenuto invece la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015.
A parere dei giudici di secondo grado la fattispecie normativa prevista dall’art. 2 del d.lgs 81/2015 si collocherebbe, quale terzo genere, tra il rapporto di lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c.c. e le collaborazioni coordinate e continuative previste dall’art. 409 n. 3, c.p.c. a garanzia di una maggiore tutela delle nuove tipologie di lavoro sorte e sviluppate a seguito dell’evoluzione di nuove tecnologie.[2]
A parere della Corte torinese al lavoratore etero-organizzato deve perciò applicarsi, ai sensi del suddetto art. 2, comma 1, la disciplina del lavoro subordinato, in particolare per quel che riguarda sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita (quindi inquadramento professionale), limiti di orario, ferie e previdenza.
La Corte d’Appello ha quindi respinto ogni altro motivo tra cui in particolare quello relativo all’asserita illegittimità dei licenziamenti, non essendo in realtà mai stata espressa dal datore di lavoro una manifestazione di volontà di recedere dal contratto prima della naturale scadenza.[3]
2. Le questioni giuridiche e le soluzioni della Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione, nel richiamare la ricostruzione dei fatti contenuta nelle sentenze di merito, ha confermato il dispositivo della sentenza impugnata in quanto conforme a diritto, pur con diverso percorso argomentativo.
Innanzitutto occorre osservare che, in assenza di impugnazione del capo di sentenza relativo al rigetto dell’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro, la Corte di Cassazione ha concentrato in via esclusiva l’attenzione sull'applicazione alla fattispecie litigiosa dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. 81/2015, nel testo vigente ratione temporis, interpretato anche alla luce delle modifiche apportate dall’art. 1 del d.l. 3 settembre 2019 n. 101, convertito, con modificazioni dalla legge 2 novembre 2019, n. 128 - Disposizioni urgenti per la tutela del lavoro e per la risoluzione di crisi aziendali.[4]
La prima osservazione che la lettura della sentenza suscita concerne l'irrilevanza attribuita dalla Corte di Cassazione alla qualificazione della fattispecie delle collaborazioni etero-organizzate come un terzo genere, rispetto al lavoro subordinato e alle collaborazioni coordinate e continuative.
La Corte di legittimità giustifica l’opzione ermeneutica sottolineando il percorso normativo compiuto dal legislatore del 2015, che all’art. 52 del medesimo d.lgs. 81 ha dapprima abrogato le disposizioni relative al contratto di lavoro a progetto e contestualmente ha fatto salva la disciplina del contratto di collaborazione coordinata e continuativa contenuta nell'art. 409 c.p.c., così ripristinando una tipologia contrattuale più ampia[5] ma priva del regime sanzionatorio previsto dall’art. 69 d.lgs. 276/2003 per il contratto a progetto.
In particolare secondo la Corte il legislatore, d'un canto consapevole della complessità e varietà delle nuove forme di lavoro e della difficoltà di ricondurle ad unità tipologica, e, d'altro canto, conscio degli esiti talvolta incerti e variabili delle controversie qualificatorie ai sensi dell'art. 2094 c.c., si è limitato a valorizzare taluni indici fattuali ritenuti significativi (personalità, continuità, etero-organizzazione) e sufficienti a giustificare l'applicazione della disciplina dettata per il rapporto di lavoro subordinato, esonerando da ogni ulteriore indagine il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta e senza che questi possa trarre, nell'apprezzamento di essi, un diverso convincimento nel giudizio qualificatorio di sintesi.
In una prospettiva così delimitata non ha decisivo senso interrogarsi sul se tali forme di collaborazione, così connotate e di volta in volta offerte dalla realtà economica in rapida e costante evoluzione, siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell'autonomia, perchè ciò che conta è che per esse, in una terra di mezzo dai confini labili, l'ordinamento ha statuito espressamente l'applicazione delle norme sul lavoro subordinato, disegnando una norma di disciplina che non crea una nuova fattispecie.
Corollario di tale affermazione di principio è costituito dalla circostanza, affermata dalla Corte, per cui la disciplina applicabile dal giudice di merito alla fattispecie dedotta in giudizio può essere alternativamente l’art. 2094 c.c. ovvero l’art. 2, comma 1 d.lgs. 81/2015 a prescindere dalla qualificazione giuridica prospettata dalle parti, in quanto la norma in scrutinio non vuole, e non potrebbe neanche, introdurre alcuna limitazione rispetto al potere del giudice di qualificare la fattispecie riguardo all'effettivo tipo contrattuale che emerge dalla concreta attuazione della relazione negoziale…..trattandosi di un potere costituzionalmente necessario, alla luce della regola di effettività della tutela (cfr. Corte Cost. n. 115 del 1994) e funzionale, peraltro, a finalità di contrasto all'uso abusivo di schermi contrattuali perseguite dal legislatore anche con la disposizione esaminata (analogamente v. Cass. n. 2884 del 2012, sul D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 2, in tema di associazione in partecipazione).
Altra fondamentale conseguenza della scelta di politica legislativa - condivisa dalla Corte di Cassazione - volta ad assicurare al lavoratore etero-organizzato la stessa protezione di cui gode il lavoro subordinato è contenuta in un altro fondamentale passaggio della sentenza in commento, ove si afferma che la norma non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile, che non potrebbe essere affidata ex post alla variabile interpretazione dei singoli giudici.
Di conseguenza resta affermata l’opzione interpretativa per la quale si applica al lavoro etero-organizzato la disciplina completa del rapporto di lavoro subordinato, fatte comunque salve situazioni particolari in cui l'applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese nell'ambito dell'art. 2094 c.c..
Si tratterà per lo più di verificare la compatibilità della norma con le ipotesi di cessazione del rapporto ad opera del datore di lavoro.
Nulla quaestio in caso di rapporto di lavoro a termine, potendosi applicare, senza alcuna difficoltà, la disciplina del recesso ante tempus dal contratto di lavoro subordinato a tempo determinato.
Più complessa l’ipotesi di stipula di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa a tempo indeterminato al quale debba essere applicata la disciplina della cessazione del rapporto di lavoro subordinato.
Questo sarà sicuramente un tema di discussione nel prossimo futuro, anche in considerazione della specificazione aggiunta all’art. 2, comma 1 d.lgs. 81/2015 per cui Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalita' di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali, che a parere della decisione in commento costituisce un’affermazione rafforzativa della volontà del legislatore di utilizzare la tutela del lavoro subordinato a garanzia di una moltitudine di lavoratori, quali quelli operanti tramite piattaforme digitali, in coerenza con l'approccio generale della riforma, al fine di tutelare prestatori evidentemente ritenuti in condizione di "debolezza" economica, operanti in una "zona grigia" tra autonomia e subordinazione, ma considerati meritevoli comunque di una tutela omogenea.
3. Le conseguenze delle opzioni interpretative della Corte di Cassazione sui rapporti tra etero-organizzazione e coordinamento della prestazione.
La definitiva giustificazione interpretativa contenuta nella decisione in commento risiede pertanto nella riconduzione a sistema della legge n. 81 del 22 maggio 2017 e del d.lgs. 81/2015, con la conseguente prospettazione di un ventaglio di possibilità di inquadramento dei lavoratori autonomi, ciascuno caratterizzato da diversi profili di disciplina sostanziale e processuale.
Non si tratta di una discussione meramente teorica, ma di un approccio interpretativo con notevoli implicazioni pratiche.
La scelta operata dalla Cassazione di prescindere dal profilo qualificatorio delle collaborazioni etero-organizzate consente, sostanzialmente, di non mutarne la natura di prestazione di lavoro autonomo, mantenendo così inalterata la dicotomia lavoro subordinato - lavoro autonomo.
L’osservazione è utile a definire la modifica all’articolo 409 n.3 c.p.c. come utile elemento di specificazione della fattispecie, alla stregua di un fattore chiarificatore nella distinzione tra il coordinamento (compatibile con l’autonomia), la etero-direzione (tipica della subordinazione) e la etero-organizzazione delle modalità di esecuzione anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro (compatibile con l’autonomia).
Fatte queste premesse, alla luce dell’orientamento assunto dalla suprema Corte, oggi tracciare il confine tra etero-organizzazione e coordinamento costituisce perciò il momento determinante nella individuazione dell’autonomia della prestazione di opera (e non di lavoro) resa possibile in via non più esclusivamente personale in favore di un committente.
In sostanza, per aversi una collaborazione coordinata e continuativa genuina (non etero-organizzata) le modalità di coordinamento non devono essere imposte dal committente, ma possono essere scelte autonomamente dal collaboratore o concordate tra le parti, risultando così confermata la compatibilità tra l’autonomia organizzativa e il coordinamento, nel senso che l’attività lavorativa può essere organizzata autonomamente dal prestatore, benché sia coordinata dal committente.
Mentre nella fattispecie contemplata dall’art. 2 d.lgs. 81/2015 l’autonomia organizzativa del collaboratore risulta fortemente compressa dal potere di organizzazione in capo al committente, nella fattispecie di cui all’art. 409 n. 3, c.p.c. essa non risulta scalfita dal requisito del coordinamento, che si limita ad orientare l’esecuzione della prestazione alle condizioni definite nel programma negoziale in vista del soddisfacimento dell’interesse creditorio.
Il lavoratore coordinato di cui all’art. 409 n. 3 può in tal modo essere definito come un lavoratore munito di una micro - organizzazione di risorse, soggetto ad un potere altrui utile a garantire l’utilità della sua prestazione nell’incontro dinamico tra due organizzazioni (quella “macro” del committente e quella “micro” del prestatore), mentre il lavoratore etero-organizzato di cui all’art. 2, comma 1 d.lgs. 81/2015 è sprovvisto di risorse proprie e promette l’adempimento della prestazione soggetto ad un potere utile all’inserimento della sua attività in una organizzazione altrui.
Ma la vera novità inserita nel novellato art. 409 n. 3 c.p.c. riguarda la possibilità di concordare le modalità di coordinamento che comprendono anche i modi ed i tempi di espletamento della prestazione al fine di garantire la genuinità delle scelte ed escludere l’ipotesi di etero-organizzazione.
Si renderà perciò assolutamente necessario formulare chiari accordi contrattuali, che evitino il rischio che tali modalità vengano in sede giudiziale considerate un’imposizione del committente, con conseguente applicazione al rapporto della disciplina del lavoro subordinato.
Dovrà in ogni caso tenersi conto che l’accordo sulle modalità di coordinamento attiene alla fase genetica del negozio, la quale non dovrà essere contraddetta dal concreto svolgimento del rapporto, proprio in nome della logica protettiva insita nell’art. 2, d.lgs. 81/2015 che, certamente, impone la prevalenza della dimensione fattuale rispetto alla volontà originariamente dichiarata.
Pertanto, se le parti hanno concordato le modalità del mero coordinamento tra di esse, ma poi emerge la sottoposizione della prestazione lavorativa ad un potere unilaterale di organizzazione (o, addirittura, di direzione) della stessa da parte del committente/datore di lavoro, la presunzione alimentata dal nomen iuris cadrà di fronte al dato fattuale, nei soliti termini a cui il contenzioso sulla qualificazione del rapporto di lavoro ci ha abituati.
In conclusione, coordinando la lettura dell’art. 2094 c.c., dell’art. 409 n. 3 c.p.c. e dell’art. 2 d.lgs. 81/2015 possono perciò essere individuate quattro ipotesi di qualificazione della prestazione lavorativa, ciascuna con un differente profilo di disciplina sostanziale e processuale:
1) prestazione di lavoro subordinato ex art. 2094 e ss. c.c.;
2) contratto d’opera ex art. 2222 c.c.;
3) collaborazione prevalentemente personale, coordinata e continuativa, ove la collaborazione è prestata nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti e il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa ex art. 409, n. 3, c.p.c.;
4) collaborazione continuativa, coordinata ed etero-organizzata ex art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015.
4. Le conseguenze delle opzioni interpretative della Corte di Cassazione sui rapporti tra etero-organizzazione e subordinazione
Ancora un'ultima considerazione merita di essere svolta, rispetto al passaggio della sentenza che concerne la differenza che può essere apprezzata tra gli obblighi assunti dai lavoratori nella fase genetica del rapporto e quelli derivanti dalla sua funzionalità che, a parere della Corte, costituiscono la linea di confine utile a distinguere la subordinazione dall’etero-direzione.
Ritiene infatti la Corte che la mera facoltà del lavoratore ad obbligarsi alla prestazione costituisce utile elemento per la conferma dell’autonomia della prestazione, mentre le obbligazioni assunte nella fase funzionale di esecuzione del rapporto risultano determinanti per la sua riconduzione alla fattispecie astratta di cui all’art. 2, comma 1, d..lgs. 81/2015.
In sostanza la Corte di Cassazione ha confermato l’interpretazione accolta dai giudici di merito che non avevano ritenuto condivisibile e, tanto meno applicabile al caso in esame, l'affermazione della Cassazione - contenuta nella sentenza n. 3457 del 2018 - resa in una fattispecie relativa agli addetti alla ricezione di scommesse presso agenzie ippiche - secondo la quale il potere direttivo del datore si esprime, oltre che nel controllo da parte del personale a tanto destinato, nella predisposizione del luogo, degli orari e di ogni pur minima modalità della prestazione (che, come dal giudicante incontestatamente accertato, era "standardizzata"). Poiché la subordinazione è limitata al rapporto effettivamente svoltosi, il fatto che, nel caso in esame, il singolo lavoratore fosse libero di accettare o non accettare l'offerta, e di presentarsi o non presentarsi al lavoro e senza necessità di giustificazione, nonché, con il preventivo consenso del datore, di farsi sostituire da altri (che gli subentrava nel rapporto, per tutta o parte della relativa durata), resta irrilevante.(…). [6]
La Corte di Appello di Torino prima, e la Corte di Cassazione poi, hanno al contrario affermato che la scelta del lavoratore di accettare o meno l’offerta di presentarsi al lavoro doveva considerarsi elemento esterno al contenuto del rapporto, idoneo a incidere, quindi, sulla sua costituzione e sulla sua durata, ma non sulla forma e sul contenuto della prestazione.
In tal modo hanno confermato l'argomentazione per cui, ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, quando l'elemento dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiare struttura organizzativa del datore di lavoro e del relativo atteggiarsi del rapporto, al fine di riconoscere la sussistenza della subordinazione, valore determinante è attribuito all'accertamento dell'obbligo del lavoratore di porsi a disposizione del datore di lavoro, con continuità e nel rispetto delle direttive impartite.
Occorre a questo punto rilevare che, diversamente dalla giurisprudenza italiana, in altri ordinamenti europei sono state adottate soluzioni diverse con riferimento alle prestazioni di lavoro dei riders, pur essendo queste connotate dalle medesime modalità di esecuzione.
Pur nella consapevolezza della diversità di discipline vigenti nei diversi Paesi europei e senza voler svolgere in questa sede delle compiute valutazioni comparatistiche, è però interessante evidenziare che in alcune decisioni aventi ad oggetto la qualificazione del lavoro nelle piattaforme digitali l’argomentazione della libertà di accettare o meno il lavoro è stata ritenuta puramente formale e non sostanziale.
La Corte di Cassazione del lavoro francese, con la decisione del 28 novembre 2018, n. 1737, prescindendo dal requisito dell’obbligatorietà genetica della prestazione, ha qualificato il rapporto dei riders come subordinato, osservando sia che l’applicazione della piattaforma digitale era dotata di un sistema di geolocalizzazione che consentiva alla società il monitoraggio in tempo reale della posizione del rider e la contabilizzazione del numero totale di chilometri percorsi, di modo che il ruolo della piattaforma non si poteva considerare limitato semplicemente a mettere in contatto tra loro il ristoratore, il cliente e il rider, sia che il datore di lavoro (Take Eat Easy) aveva un potere “afflittivo” nei confronti del rider medesimo.
Nel ragionamento della Corte francese ha avuto un peso determinante la sentenza della Corte Ue Asociación Profesional Elite Taxi nella quale i giudici ricostruiscono, in assenza di una definizione normativa, la nozione di lavoratore subordinato distinto dal lavoratore autonomo. [7]
Anche nelle Corti inglesi la valutazione del modello lavorativo dei tassisti di Uber[8] o dei riders[9] ha costituito l’occasione per considerare la prestazione lavorativa svolta nella sua globalità, valorizzando in particolar modo gli aspetti legati al rischio d’impresa ed alla titolarità dei mezzi di produzione immateriali come proprietà del marchio, dati dei clienti, app, piattaforma o algoritmi.
L’apparente libertà di adesione alla potenziale chiamata (obbligatorietà genetica) è stata considerata come parte di singole e plurime disponibilità tecnologicamente organizzate ed integrate, che rendono pressoché nullo il rischio per l'impresa rispetto alla possibilità di rendere o non rendere il servizio nel caso concreto e che qualificano il lavoratore come subordinato in quanto economicamente dipendente.
Il 1 giugno 2018 anche un tribunale del lavoro di Valencia[10] ha dichiarato che uno dei riders di Deliveroo era un dipendente piuttosto che un lavoratore autonomo.
Il dibattito è appena cominciato, la giurisprudenza europea interessata ai lavoratori cc.dd. on demand avrà modo di elaborare la nozione ed approfondire la disciplina applicabile al lavoro tramite piattaforme.[11]
Ciò che preme qui rilevare è che il passaggio da una società fondata sul paradigma del lavoro industriale di tipo subordinato a tempo pieno e indeterminato ad una società caratterizzata da discontinuità e autonomia del lavoro - nella quale la disoccupazione e l’esclusione sociale hanno raggiunto una preoccupante dimensione ed hanno aumentato le divergenze sociali tra e all’interno degli Stati membri dell’U.E. - rende sempre più necessario un approccio integrato che tenga conto delle differenti tipologie di lavoro nell'era digitale, confrontandosi con le opzioni regolative emergenti per ciascuna di esse, al fine di garantire una maggiore uniformità delle tutele e di scongiurare il dilagare di forme di sfruttamento plateali.
La frantumazione dello schema tipico del lavoro subordinato ha diminuito il valore e la dignità del lavoro: è compito del legislatore e degli interpreti dare un volto umano alla protezione dei lavoratori della c.d. Gig Economy.
[1]Sentenza Tribunale di Torino del 07/05/2018 n. 778. In termini analoghi si è espresso anche il Tribunale di Milano con sentenza del 04/07/2018 n. 1853.
[2] In dottrina si sono sviluppate diverse interpretazioni della norma, tra le quali senza pretesa di esaustività si ricordano: P. TOSI, L’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015: una norma apparente?, in Arg.dir.lav., 2015, 1130 ss.; M. PALLINI, Dalla eterodirezione alla etero-organizzazione: una nuova nozione di subordinazione?, in RGL, 2016, I, 65 ss.; U. CARABELLI, Introduzione, al tema Subordinazione e autonomia dopo il d.lgs. n. 81/2015, in Riv. giur. lav., 2016, I, 5; U. CARABELLI-L. FASSINA (a cura di), Il lavoro autonomo e il lavoro agile alla luce della legge n. 81/2017, Roma, 41; P. ICHINO, Subordinazione, autonomia e protezione del lavoro nella gig economy, in RIDL, 2018, II, 294 ss; C. SPINELLI, Tecnologie digitali e lavoro agile, Bari, 2018, 105 ss.
[3] In tal senso la giurisprudenza unanime in caso di contratti a termine: cfr. per tutte Cassazione civile sez. lav. 26/03/2019, n. 8385.
[4] 1. Al decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all'articolo 2, comma 1:
1) al primo periodo, la parola: "esclusivamente" è sostituita dalla seguente: "prevalentemente" e le parole: "anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro" sono soppresse;
2) dopo il primo periodo è aggiunto il seguente: "Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali.";……
c) dopo il capo V è inserito il seguente: Capo V-bis. Tutela del lavoro tramite piattaforme digitali. (…), (v. infra § 4. nota 11).
[5] Si tenga altresì presente che l’art. 15 l. 81/2017 - c.d. Jobs Act degli autonomi - ha aggiunto, in coda alla previsione normativa contenuta nell’art. 409 n. 3 c.p.c., la precisazione che la collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l'attività lavorativa.
[6] In epoca precedente la Corte di Cassazione con la nota sentenza del 21/03/2012 n. 4476 si era già espressa in termini analoghi con riferimento ai lavoratori dei call center confermando la sentenza della Corte di Appello di Roma che aveva ritenuto non decisiva per affermare la natura autonoma del rapporto, la possibilità per la lavoratrice di recarsi o meno a lavoro e di effettuare un orario di lavoro autodeterminato pur nell'ambito delle sei ore di turno previste.
[7] Si tratta della nota sentenza C. Giust. 20 dicembre 2017, C-434/15, Asociación Profesional Elite Taxi v. Uber nella quale era precisato che il servizio d’intermediazione, come quello svolto da Uber in Spagna, avente ad oggetto la messa in contatto mediante un’applicazione per smartphone, dietro retribuzione, di conducenti non professionisti, che utilizzano il proprio veicolo, con persone che desiderano effettuare uno spostamento nell’area urbana, doveva essere considerato indissolubilmente legato a un servizio di trasporto e rientrava, pertanto, nella qualificazione di “servizi nel settore dei trasporti”, ai sensi dell’articolo 58, paragrafo 1, TFUE, con l’implicita riqualificazione del rapporto di lavoro dei conducenti non professionisti di Uber in lavoro subordinato.
[8] Employment Tribunal of London, 28 ottobre 2016, n. 2202550, in https://www.judiciary.gov.uk/wp-content/uploads/2016/10/aslam-and-farrar-v-uberemployment-judgment-20161028-2.pdf con nota di D. CABRELLI, Uber e il concetto giuridico di “worker”: la prospettiva britannica, in DRI, 2017, pp. 575-58;
[9] Il leading case è costituito da EA, GASCOIGNE v. Addison Lee Ltd, Case No: 2200436/2016, 25 July, 2017 reperibile in Mr C Gascoigne v Addison Lee Ltd: 2200436/2016 - GOV.UK
[10] TSJ Cataluña, Juzgado de lo Social nº 6 Valencia, Sentencia 244/2018, 1 jun. Rec. 633/2017. La sentenza è riportata da G. PACELLA, Alienità del risultato, alienità dell’organizzazione: ancora una sentenza spagnola qualifica come subordinati i fattorini di Deliveroo in Labour & Law Issue, vol. 4, no. 1, 2018.
[11] Si ricorda che nel nostro ordinamento è vigente la disciplina introdotta della tutela del lavoro tramite piattaforme digitali introdotta dal d.l. 3 settembre 2019 n. 101 (in Gazz. Uff., 4 settembre 2019, n. 207) convertito, con modificazioni dalla l. 2 novembre 2019, n. 128.
L’Inps e l’Inail rispettivamente con la circolare del 19/11/2019, n.141 e con la nota n. 866 del 23/01/2020 hanno fornito precise istruzioni utili per la corretta applicazione delle nuove disposizioni.
La riforma delle intercettazioni, dopo due anni, alla stretta finale con molte novità.
Claudio Gittardi
“Il Decreto Legge 30.12.2019 n. 161 ha introdotto in via di urgenza numerose e significative modifiche destinate ad avere efficacia dal 1.3.2020 su aspetti essenziali della disciplina processuale dettata dal Decreto Legislativo 29.12.2017 n° 216 con il dichiarato scopo di “perfezionare e completare la nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche ed ambientali prima che la stessa acquisti efficacia” evidenziando ”.. altresi' la straordinaria necessita' ed urgenza che le modifiche apportate entrino in vigore prima che sia applicabile la disciplina dettata dal decreto legislativo n. 216 del 2017 e che tale termine sia coordinato con le esigenze di adeguamento degli uffici requirenti dal punto di vista strutturale e organizzativo .
Il decreto 161/2019 oltre alla necessaria previsione di una diversa disciplina temporale interviene modificando punti essenziali della precedente normativa dettata dal DLVO 216/2017 in particolare quanto ai rapporti tra polizia giudiziaria e pubblico ministero nella selezione delle intercettazioni rilevanti, all'ampliamento delle facoltà di copia delle registrazioni e dei flussi di comunicazione per i difensori in caso di deposito delle intercettazioni a seguito di avviso ex articolo 415 bis e con richiesta di giudizio immediato, sulla disciplina relativa alla trascrizione peritale delle intercettazioni prevista come necessaria ed anticipata in capo al Gip/Gup in sede di formazione del fascicolo del dibattimento, su ambito ed utilizzabilità delle intercettazioni mediante captatore informatico su dispositivo mobile per i delitti di pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio contro la P.A.”
sommario: 1. Disposizioni sull’ efficacia temporale - 2. Disposizioni di modifica al codice di procedura penale in materia di riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni. - 3. Disposizioni di modifica al codice di procedura penale in materia di trasmissione al PM , deposito degli atti di intercettazione, acquisizione e trascrizione delle intercettazioni rilevanti . - 4. Il divieto di pubblicazione delle intercettazioni non rilevanti. - 5. Modifiche delle disposizioni in materia di indicazione degli elementi relativi ad operazioni di intercettazione a sostegno delle misure cautelari e dei diritti di accesso. -
6. La modifica delle disposizioni in materia di intercettazioni mediante captatore informatico su dispositivo elettronico portatile .
1. Disposizioni sull’ efficacia temporale
Il legislatore aveva introdotto all'articolo 9 del Decreto Legislativo 29.12.2017 n° 216 in sede di disciplina transitoria un meccanismo di applicazione differenziata sul piano della efficacia temporale delle disposizioni della riforma .
Risultano già applicabili al momento dell'entrata in vigore del decreto legislativo e quindi alla data del 26 gennaio 2018 soltanto le disposizioni di cui all'articolo 1 e 6 del decreto legislativo e quindi rispettivamente le disposizioni che prevedono l'introduzione della nuova figura delittuosa di cui all'articolo 617 septies CP di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente e quelle che modificano le modalità di impiego di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione estendendo alle stesse la disciplina di cui all’art. 13 del D.L 13.5.1991 n° 152.
Le restanti norme sub articoli 2 ( ad eccezione della disposizione di cui al comma 1 lettera b) in materia di divieto di pubblicazione degli atti di intercettazione) 3, 4, 5 e 7 in materia di deposito, trascrizione ed acquisizione delle comunicazioni e conversazioni oggetto di intercettazione nonché in materia di archivio informatico si sarebbero dovute applicare alle operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo il 180º giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto e quindi alle intercettazioni autorizzate provvedimenti emessi dal 26 luglio 2018 termine successivamente prorogato con successivi provvedimenti legislativi, come noto, sino al 31.12.2019 .
All’articolo 1 del DL si modifica la richiamata disposizione dell’art 9 comma 1 e 2 del DLVO 29.12.2017 n° 216 prorogando i termini dell’entrata in vigore della disciplina delle intercettazioni e stabilendone la decorrenza dal 1.3.2020 e prevedendo soprattutto che la stessa si applichi ai procedimenti penali iscritti successivamente alla data di entrata in vigore del decreto stesso e quindi ai procedimenti iscritti dopo il 29.2.2020 .
In tal modo si superano gli effetti negativi della iniziale previsione introducendo l’omogeneità della disciplina sul punto per tutte le intercettazioni disposte nell’ambito del singolo procedimento prevedendo che per i procedimenti iscritti sino al 29.2.2020 mantenga efficacia la “vecchia” disciplina antecedente al DLVO 216/2017 .
Per i procedimenti iscritti sino al 29.2.2020 deve essere pertanto applicata la normativa processuale anteriore alle modifiche del 2017 anche per le richieste e proroghe di intercettazione formulate dopo quella data.
2. Disposizioni di modifica al codice di procedura penale in materia di riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni.
Le novità introdotte in questa parte dall’articolo 2 del DL sulle disposizioni processuali a suo tempo modificate dal DLVO 216/2017 sono rilevanti e modificano in modo integrale la precedente disciplina.
Viene soppressa sia quella parte delle disposizioni del DLVO 216/2017 che prevedeva un potere di selezione originario della PG delle intercettazioni rilevanti da inserire nei brogliacci, sia la disposizione sulla comunicazione preventiva dalla PG al PM del contenuto delle comunicazioni/conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini,( per l'oggetto e per i soggetti coinvolti, e di quelle, non rilevanti, contenenti dati personali definiti sensibili dalla legge) , sia la disposizione che introduceva , in coordinamento con tale previsione, una modalità di risoluzione di eventuali contrasti tra PG e PM nella individuazione del perimetro delle conversazioni/comunicazioni rilevanti .
In primo luogo viene soppresso l’ultimo periodo dell'articolo 267, comma 4 che come visto prevedeva che l’ufficiale di Polizia Giudiziaria a norma dell'articolo 268, comma 2-bis nella formazione dei verbali delle operazioni , informasse preventivamente il Pubblico Ministero con annotazione sui contenuti delle comunicazioni e conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l'oggetto che per i soggetti coinvolti e di quelle, non rilevanti, che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge.
Viene inoltre sostituito l’art. 268 comma 2 bis come introdotto dal DLVO prevedendo in modo più generico che il PM dia indicazione e vigili al fine di evitare che si riportino(da parte della PG) nei verbali delle operazioni /brogliacci espressioni lesive della reputazione delle persone o dati personali sensibili salvo che si tratti di intercettazioni rilevanti ai fini delle indagini.
Nella nuova formulazione degli articoli indicati si attribuisce nuovamente una funzione centrale al PM nella direzione e vigilanza dell’ attività di formazione del contenuto dei brogliacci e soprattutto nella individuazione delle conversazioni rilevanti nell’ambito del suo potere di direzione delle indagini e di coordinamento della PG.
In coerenza con tali norme e con il recupero della centralità del potere/dovere del PM nella selezione delle intercettazioni rilevanti viene abrogato l’art 268 comma 2-ter che prevedeva, come visto, che il Pubblico Ministero, con decreto motivato, in caso di “contrasto” con la PG nella individuazione delle conversazioni e comunicazioni dotate di rilevanza, potesse disporre che le comunicazioni e conversazioni di cui al comma 2-bis originariamente ritenute irrilevanti dalla PG o relative a dati sensibili fossero trascritte nel verbale quando ne ritenesse la rilevanza per i fatti oggetto di prova e potesse altresi' disporre la trascrizione nel verbale, se necessarie a fini di prova, delle comunicazioni e conversazioni relative a dati personali definiti sensibili dalla legge.
Da rilevare che la disciplina del 2017 prevedeva espressamente la non trascrivibilità da parte della PG nei brogliacci delle comunicazioni e conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l'oggetto che per i soggetti coinvolti mentre la nuova formulazione dell’ art. 268 comma 2 bis prevede solo che il PM dia indicazione e vigili al fine di evitare che si riportino(da parte della PG) nei verbali delle operazioni /brogliacci con riferimento alle espressioni lesive della reputazione delle persone o dati personali sensibili se non rilevanti ai fini delle indagini.
Pure se le comunicazioni e conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini non essendo oggetto della previsione di cui sopra sarebbero astrattamente inseribili per sunto nei brogliacci/verbali delle operazioni ragioni di evidente razionalità ed economia vanno nel senso di non riportare da aprte della PG il sunto della conversazione /comunicazione stessa indicando nei verbali delle operazioni i soli estremi identificativi del progressivo e della data e dell’orario con l’indicazione “conversazione non rilevante” o “conversazione su questioni personali/familiari non rilevante” o annotazione analoga.
Le comunicazioni e conversazioni relative a dati sensibili non rilevanti ai fini di indagine non dovranno essere riportate dalla PG nel loro contenuto nei verbali delle operazioni e dovranno essere riportati nei verbali , come già avviene, i soli estremi identificativi del progressivo e della data e dell’orario con l’indicazione “conversazione non rilevante relativa a dati personali sensibili ”.
Le parti di intercettazioni sui dati personali sensibili rimangono invece , come nella precedente formulazione, trascrivibili nei brogliacci se rilevanti ai fini di indagine.
Si deve ancora sottolineare che il divieto di trascrizione presuppone appunto la non rilevanza ai fini probatori di tali conversazioni contenenti dati sensibili. E quindi se il dato sensibile assume rilevanza per l'oggetto e ai fini di indagine lo stesso stessa potrà essere legittimamente trascritto; si pensi a titolo esemplificativo il riferimento in una registrazione allo stato di tossicodipendenza di un terzo soggetto acquirente nell'ambito di un procedimento avente ad oggetto il reato cessione di cui all’art 73 aggravato ex art. 80 comma 1 lett.f) DPR 309/90.
Quanto al concetto di dato sensibile si deve fare riferimento alle previsioni di cui all'articolo 4 lettera B del decreto legislativo 30 giugno 2003 n° 196 che definisce dati sensibili i dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale
Analogamente le parti delle comunicazioni e conversazioni contenenti espressioni e o contenuti lesivi della reputazione non rilevanti ai fini di indagine non dovranno essere riportate per questa parte dalla PG nei verbali delle operazioni . Nel caso in cui la conversazione/comunicazione abbia rilevanza ai fini di indagine in passaggi residui verranno riportati nei brogliacci tali passaggi espungendo dagli stessi le parti lesive della altrui reputazione con l’indicazione per tali parti “conversazione/parte di conversazione lesiva della reputazione” o annotazione analoga .
Da ultimo si rileva che interpretando con valore generale l’ultimo inciso del nuovo comma 2 bis anche le espressioni lesive della reputazione se assumono un significato probatorio indiretto (ad esempio in ordine ai rapporti tra i soggetti di indagine o tra gli indagati e le persone offese) dovranno essere parimenti riportati nei verbali .
Alla luce delle novità introdotte con il DL 161/2019 permane l’esigenza del continuo raccordo nel corso dell’attività di intercettazione con il PM titolare delle indagine per la corretta indicazione delle conversazioni/comunicazioni dotate di rilevanza e per l’individuazione, nei casi dubbi e problematici, delle conversazioni irrilevanti per contenuto ovvero non riportabili nei brogliacci in quanto non rilevanti ed afferenti a dati sensibili ovvero perché riportanti espressioni lesive della reputazione delle persone.
3. Disposizioni di modifica al codice di procedura penale in materia di trasmissione al PM , deposito degli atti di intercettazione, acquisizione e trascrizione delle intercettazioni rilevanti .
Anche su questa parte il legislatore di urgenza interviene sempre all’articolo 2 per una parte modificando in modo significativo e per altra parte snellendo la relativa procedura.
In primo luogo il DL sostituisce il comma 4 dell’art 268 cpp modificandolo ; inoltre introduce ulteriori commi allo stesso articolo 268 cpp (i commi 5, 6, 7 e 8) e correlativamente abroga integralmente gli articoli 268 bis, 268 ter , 268 quater cpp introdotti dal DLVO 216/2017.
Tali norme vengono inserite nell’art 268 cpp che ritorna dunque ad essere norma centrale sull’attività di deposito e trascrizione delle intercettazioni e sostituiscono la complessa disciplina prevista per tali parti dagli art 268 bis, 268 ter , 268 quater cpp introdotti dal DLVO 217 /2017, articoli integralmente abrogati.
Correlativamente a tali modifica vengono modificate i richiami ai predetti articoli tra cui l’ articolo 295 comma cpp in materia di intercettazioni per ricerche di latitante.
La nuova disciplina quanto alle cadenze procedimentali in materia di trasmissione dalla PG, deposito , accesso, acquisizione e trascrizione degli atti di intercettazione rilevanti prevede :
1) in modo analogo alla previsione del DLVO 216/2017 al comma 4 dell’art 268 cpp i verbali delle operazioni e le registrazioni sono immediatamente trasmessi dalla PG al PM per la conservazione e tali atti sono depositati dal PM entro 5 giorni nell’archivio rinominato ex art. 89 bis delle Disp.Att CPP Archivio delle intercettazioni insieme ai provvedimenti autorizzativi.
Viene previsto con una prima significativa modifica che tali atti rimangano depositati in archivio per il termine disposto dal PM fatta salva la necessità di proroga del termine riconosciuta dal Giudice . E’ quindi il Pubblico Ministero che, evidentemente in relazione al numero ed alla complessità delle conversazioni depositate , alla complessità degli atti ed al numero delle parti coinvolte valuta il tempo di deposito nell’Archivio degli atti di intercettazione.
Una seconda rilevante modifica consiste nel fatto che non è prevista, a differenza dell’originaria previsione contenuta nel DLVO 216/2017 , una facoltà di differimento in capo al PM degli adempimenti nell’invio degli atti di intercettazione al PM da parte della PG, atti che dovranno essere immediatamente inviati dalla PG al PM a prescindere dal numero e dalla complessità delle intercettazioni.
Il ritardato deposito viene disciplinato dall’art. 268 comma 5 cpp , come sempre non oltre alla chiusura delle indagini, e si giustifica nel caso in cui dall’immediato deposito derivi un grave pregiudizio per le indagini come nella originaria previsione ex art 268 bis cpp.
2) i commi successivi (commi 6,7 e 8) del novellato art 268 cpp disciplinano l’avviso di deposito degli atti e delle registrazioni nell’archivio delle intercettazioni e le correlative facoltà dei difensori dell’indagato.
Nella previsione dell’art 268 comma 6 cpp DL 160/2019 a seguito del deposito delle intercettazioni da parte del PM i difensori “dell’ imputato” presso gli ambienti destinati al c.d Archivio delle intercettazioni in una prima fase possono procedere alla consultazione telematica degli atti ed all’ascolto delle registrazioni o prendere cognizione dei flussi telematici entro il termine fissato dal PM per il deposito degli atti stessi .
Da notare che il legislatore prevede all’art 268 comma 6 l’avviso di deposito e le correlative facoltà solo nei confronti dei difensori dell’ “imputato” (in realtà indagato) e non nei confronti in generale dei difensori delle parti contrariamente a quanto previsto nell’originario art 268 bis comma 2 cpp come introdotto dal DLVO 216/2017.
La previsione potrebbe essere peraltro frutto di una “svista” posto che emerge il difetto di coordinamento con l’art 89 bis Disp. Att. che parla nell’accesso all’archivio di facoltà dei “difensori delle parti”.
In questa prima fase possono quindi solo visionare telematicamente ma non estrarre copia dei verbali delle operazioni né hanno la possibilità di avere copia delle registrazioni , registrazioni che potranno essere oggetto solo di ascolto presso tale archivio.
I difensori delle parti in base al comma 4 dell’ articolo 89 bis norme di attuazione c.p.p presso l’Archivio potranno (oltre ad ascoltare le registrazioni e visionare gli atti) ottenere copia delle registrazioni e degli atti quando gli stessi vengono acquisiti a norma degli articoli 268 e 415-bis del codice.
Pertanto i difensori delle parti potranno avere copia informatica degli atti di intercettazione e copia degli atti di complessivi di intercettazione :
a)una volta emesso ex art 268 comma 6 CPP da parte del Gip il provvedimento di acquisizione delle intercettazioni valutate come non irrilevanti all’atto del deposito degli atti di intercettazione eventualmente ritardato nel corso delle indagini;
b) in alternativa come previsto dal nuovo comma 2 bis dell’art 415 bis cpp una volta intervenuto il deposito complessivo degli atti di indagine ex art 415 bis CPP con emissione da parte del PM dell’avviso di conclusione delle indagini all’atto della indicazione da parte del PM delle registrazioni e dei flussi qualificati come rilevanti ovvero dell’acquisizione da parte del Giudice in tale fase ai sensi dell’art 268 comma 6 cpp in caso di contrasto/ contestazione con le difese in ordine alla rilevanza di alcune intercettazioni.
IL DL all’articolo 2 lettera M introduce infatti una disciplina specifica sul punto aggiungendo all'articolo 415-bis il comma 2-bis.
Tale disposizione prevede che qualora non si sia proceduto ai sensi dell'articolo 268, commi 4, 5 e 6, provvedendo al deposito degli atti di intercettazione in corso di indagini preliminari, l'avviso ex art 415 bis cpp contiene inoltre l'avvertimento che l'indagato e il suo difensore hanno facolta' di esaminare per via telematica gli atti relativi ad intercettazioni ed ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche e che hanno la facolta' di estrarre copia delle registrazioni o dei flussi indicati come rilevanti dal pubblico ministero.
Il difensore puo', entro il termine di venti giorni dalla notifica dell’avviso, termine corrispondente a quello previsto per le ulteriori facoltà difensive ex art 415 bis CPP, depositare l'elenco delle ulteriori registrazioni ritenute rilevanti e di cui chiede copia. Sull'istanza provvede il pubblico ministero con decreto motivato. In caso di rigetto dell'istanza o di contestazioni sulle indicazioni relative alle registrazioni ritenute rilevanti il difensore puo' avanzare al giudice istanza per procedere nelle forme di cui all'articolo 268, comma 6.
Nel caso pertanto di ritardato deposito delle intercettazioni sino alla conclusione delle indagini e deposito delle stesse unitamente agli atti complessivi di indagine l’indagato e il suo difensore hanno una duplice facoltà:
- esaminare per via telematica presso l’Archivio delle intercettazioni telematico gli atti relativi ad intercettazioni ed ascoltare le registrazioni ovvero prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche;
- estrarre copia delle registrazioni o dei flussi indicati come rilevanti dal pubblico ministero (non è indicata espressamente la facoltà di estrarre copia atti di intercettazioni in quanto implicita nella facoltà di estrazione di copia derivante dal deposito integrale degli atti di indagine).
La norma non prevede la formazione di uno specifico elenco separato da parte del PM ma la semplice indicazione da parte dello stesso delle intercettazioni rilevanti e tale indicazione di fatto costituisce un provvedimento di acquisizione di tali registrazioni .
La soluzione più opportuna in tal senso sarà quello di inserire tale indicazione nel corpo dell’avviso ex art 415 bis cpp se le intercettazioni sono numericamente contenute o in alternativa, specie nel caso nel caso di intercettazioni rilevanti numerose, in un atto a parte allegato all’avviso ex art 415 bis CCP e richiamato come parte integrante dello stesso.
Il difensore puo', entro il termine di venti giorni dalla notifica dell’avviso , all’esito dell’ascolto degli atti nell’Archivio , depositare l'elenco delle ulteriori registrazioni ritenute rilevanti e di cui chiede copia.
Sull'istanza provvede il pubblico ministero con decreto motivato provvedimento che tiene di fatto luogo di un provvedimento di acquisizione delle registrazioni indicate dalle difese .
In caso di rigetto dell'istanza o di contestazioni sulle indicazioni relative alle registrazioni ritenute rilevanti il difensore puo' avanzare al giudice istanza affinche' si proceda nelle forme di cui all'articolo 268, comma 6 pervenendo pertanto solo in tal caso a un provvedimento formale di acquisizione da parte del Giudice.
3) IL DL all’articolo 2 lettera O introduce una disciplina specifica sul deposito ed acquisizione delle intercettazioni in caso di esercizio dell’azione penale da parte del PM con richiesta di Giudizio immediato ordinario o cautelare.
All'articolo 454, dopo il comma 2, viene aggiunto il comma 2-bis. che prevede che qualora non abbia proceduto ai sensi dell'articolo 268, commi 4, 5 e 6, e quindi mediante deposito delle intercettazioni in fase di indagine , con la richiesta di giudizio immediato il Pubblico Ministero deposita l'elenco delle intercettazioni di comunicazioni o conversazioni o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche rilevanti ai fini di prova.
Entro quindici giorni dalla notifica del decreto di giudizio immediato e della relativa richiesta prevista dall'articolo 456, comma 4 cpp, il difensore puo' depositare l'elenco delle ulteriori registrazioni ritenute rilevanti e di cui chiede copia. Si osserva per inciso che il termine appare contenuto specie in caso di procedimenti di particolare complessità oggettiva , con pluralità di imputazione ed imputati anche se, in caso di immediato cautelare, molte , se non tutte, le intercettazioni rilevanti a sostegno della richiesta risultano già depositate all’atto della esecuzione dell’ordinanza cautelare e poste a disposizione dei difensori anche nei supporti fonici.
Sull'istanza provvede il Pubblico Ministero con decreto motivato. In caso di rigetto dell'istanza o di contestazioni sulle indicazioni relative alle registrazioni ritenute come nell’ipotesi precedente rilevanti il difensore puo' avanzare al giudice istanza affinche' si proceda nelle forme di cui all'articolo 268, comma 6.
Sebbene non espressamente previsto dalla norma le facoltà dei difensori sono corrispondenti a quelle di cui alla nuova previsione ex art 415 comma 2 bis CPP , anche se esercitabili nel termine più breve di 15 giorni dalla notifica della richiesta di Giudizio Immediato, ovverosia quelle di esaminare per via telematica presso l’Archivio delle intercettazioni gli atti relativi ad intercettazioni ed ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche ed estrarre copia delle registrazioni o dei flussi indicati come rilevanti dal pubblico ministero.
Corrispondenti sempre a quanto dettato dall’ art 415 comma 2 bis CPP sono le previsioni in caso di contestazioni/contrasti tra PM e difesa sulle registrazioni rilevanti.
Come visto in questo caso il legislatore prevede espressamente la formazione di un elenco da parte del PM delle conversazioni comunicazioni rilevanti e in tal caso appare preferibile che in sede di richiesta di giudizio immediato il PM formi tale elenco in un atto a parte allegato alla richiesta ex art 454 cpp e richiamato come parte integrante della stessa.
Da rilevare che in questo caso le facoltà di accesso e copia delle intercettazioni in Archivio a seguito della richiesta di Giudizio immediato sono previste dal DL genericamente nei confronti dei “difensori” ma risulta indubbio che tali facoltà siano da attribuire anche ai difensori della persona offesa per le ragioni sopra indicate ed essendo gli stessi destinatari delle notifiche del decreto di giudizio immediato.
4) il provvedimento di acquisizione da parte del GIP delle conversazioni/comunicazioni indicate dalle parti che non appaiono irrilevanti .
Fatto salvo quanto prima illustrato sulle modalità di indicazione di rilevanza ed acquisizione delle intercettazioni in caso di deposito ex art 415 bis CPP e in caso di richiesta di giudizio immediato , si prevede che il GIP acquisisca tutte le conversazioni /comunicazioni che non appaiono irrilevanti con un vaglio tendente ad escludere solo quelle conversazioni /comunicazioni manifestamente irrilevanti ricomprendendo invece anche le registrazioni dotate comunque di una anche minima o parziale rilevanza.
In secondo luogo la norma in questa fase non specifica quanto alle modalità di individuazione delle intercettazioni rilevanti , a differenza del DLVO che parlava di formazione di “elenchi” da parte del PM e ne disciplinava la comunicazione dal PM ai difensori , come debba avvenire tale indicazione da parte del PM all’atto del deposito e dei difensori a seguito del deposito del PM delle conversazioni ritenute rilevanti.
Si ritiene che possa avvenire da parte del PM ( e dei difensori) attraverso la semplice trasmissione al GIP di un atto contenente l’indicazione delle conversazioni /comunicazioni ritenute rilevanti (con riferimenti all’utenza, al numero di RIT, al progressivo e/o agli estremi delle conversazioni /comunicazioni).
Inoltre sebbene non espressamente prevista una forma di comunicazione rispettiva tra le parti tali elenchi delle conversazioni inviati al GIP dalle parti devono essere naturalmente consultabili dalle stesse presso l’Ufficio GIP prima della successiva fase in modo in che le difese possano indicare le intercettazioni ritenute rilevanti non indicate dal PM e quest’ultimo possa interloquire sulle indicazioni delle difese.
5) il provvedimento di stralcio delle conversazioni non utilizzabili e delle intercettazioni su dati personali definiti “particolari” non rilevanti.
IL GIP procede di ufficio allo stralcio delle registrazioni e dei verbali atti di cui è vietata utilizzazione e di quelle su dati personali definiti “particolari” sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza . La dizione letterale della norma indica come oggetto del provvedimento di stralcio del GIP le conversazioni su dati personali “particolari” privi di rilevanza ( da ritenersi comprensive anche delle intercettazioni di contenuto offensivo se non rilevanti) , oltre a quelle inutilizzabili.
Tale provvedimento viene assunto dal GIP nell’ambito di una “fase camerale” di stralcio non qualificata dal legislatore , alla luce di quanto verrà di seguito detto, per cui le parti (PM e difensori delle parti ) vengono avvisati almeno ventiquattro ore prima con diritto a partecipare allo stralcio stesso. La formulazione della norma comporta la validità dello stralcio da parte del GIP anche se disposto in assenza di tutte od alcune delle parti processuali avvisate.
6) il provvedimento da parte del Giudice (GIP o GUP ) anche in sede di formazione del fascicolo del dibattimento ex art 431 cpp , in sede di udienza preliminare o a seguito di decreto di giudizio immediato ex art. 457 cpp, con cui dispone la trascrizione integrale delle registrazioni o la stampa dei flussi delle comunicazioni informatiche e telematiche , trascrizione da effettuare nella forma della perizia.
La locuzione “anche” fa ritenere possibile un tale provvedimento anche in fase anticipata nel corso della udienza preliminare ed eventualmente ancor prima nella fase incidentale di stralcio avanti al GIP ove abbiano partecipato le parti .
Si deve sottolineare che l’uso della locuzione “dispone” da parte del legislatore di urgenza non lascia dubbi in ordine al fatto che la trascrizione peritale delle conversazioni comunicazioni in fase di indagini preliminari a seguito del deposito delle intercettazioni o al più tardi in sede di udienza preliminare e/o in sede di formazione del fascicolo per il dibattimento sia prevista dal legislatore quale attività da disporre obbligatoriamente e non come quale attività eventuale nella prospettiva dello svolgimento della successiva fase dibattimentale .
Le trascrizioni peritali e le stampe sono naturalmente destinate all’inserimento nel fascicolo del dibattimento .
Tale soluzione è opposta rispetto alla previsione del DLVO 216/2017 ove si era intervenuti in primo luogo inserendo nell'ambito delle disposizioni relative agli atti introduttivi del dibattimento l'articolo 493 bis cpp per effetto del quale si prevedeva che il Giudice dibattimentale disponesse, su richiesta delle parti, la trascrizione delle registrazioni ovvero la stampa in forma intellegibile delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche acquisite osservando le forme, i modi le garanzie previsti per lo svolgimento delle perizie.
Veniva correlativamente abrogato l’originario articolo 268 comma 7 c.p. p, che prevedeva, come noto, una competenza del Giudice delle indagini preliminari in materia di trascrizione integrale delle intercettazioni o la stampa in forma intelligibile delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche sempre con l'osservanza delle forme e dei modi della perizia.
Una residuale competenza in materia di trascrizioni in capo al Gip poteva essere astrattamente individuabile in base al DLVO 216/2017 nei casi in cui il PM avesse richiesto nella forma dell’incidente probatorio la trascrizione in forma peritale delle intercettazioni in presenza dei presupposti indicati dall'articolo 393 comma 2 c.p. p ovverosia allorché l'attività di trascrizioni peritale delle intercettazioni, se fosse disposta nel dibattimento, avrebbe potuto determinare una sospensione del dibattimento superiore a 60 giorni.
A seguito dello svolgimento della trascrizione peritale i difensori hanno facoltà di estrarre copia delle trascrizioni peritali e di avere copia delle registrazioni foniche attraverso la trasposizione su idoneo supporto e di avere inoltre la copia dei flussi telematici o la copia della stampa degli stessi.
All'articolo 242 cpp in correlazione alle modifiche introdotte dal DL all’art 268 comma 7 CPP in punto di fase procedimentale in cui inserire la trascrizione delle conversazioni e comunicazioni rilevanti ed alla relativa competenza del GIP per l’emissione del provvedimento di trascrizione nelle forme peritali anche in fase di formazione del fascicolo per il dibattimento le parole: «a norma dell'articolo 493-bis, comma 2» sono sostituite dalle parole «a norma dell'articolo 268, comma 7”.
Viene inoltre modificata la rubrica dell’art 242 cpp adeguandola ai nuovi supporti tecnologici sostituendo l’indicazione della trascrizione della registrazione alla trascrizione del nastro magnetofonico e al comma 2, le parole: «acquisito un nastro magnetofonico» sono sostituite dalle seguenti: «acquisita una registrazione».
Su piano generale della disciplina delle intercettazioni sempre all’art 267 CPP si sopprime l’ultimo periodo del comma 4 in coerenza con le modifiche generali, disposizione che prevedeva che l'ufficiale di polizia giudiziaria a norma dell'articolo 268, comma 2-bis informasse preventivamente il pubblico ministero con annotazione sui contenuti delle comunicazioni e conversazioni.
Inoltre al comma 5 si prevede con opportuna e coerente specificazione organizzativa che il registro delle intercettazioni gestito, anche con modalita' informatiche, destinato a contenere le annotazioni , secondo un ordine cronologico, dei decreti che dispongono, autorizzano, convalidano o prorogano le intercettazioni e, per ciascuna intercettazione, l'inizio e il termine delle operazioni sia tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del Procuratore della Repubblica, e non come prima indicato presso “l’ufficio del Pubblico Ministero” , dizione ambigua che poteva ritenersi riferita all’ufficio del singolo Pubblico Ministero.
4. Il divieto di pubblicazione delle intercettazioni non rilevanti
La disposizione introdotta dal DLVO 216 /2017 all’articolo 2 comma 1 lettera b), modificava l’ articolo 114 comma 2 cpp escludendo l’ordinanza di applicazione della misura cautelare dal divieto di pubblicazione sino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero sino al termine dell’udienza preliminare.
Tale disposizione , non modificata dal DL 161/2019, ha acquisito efficacia differita una volta decorsi 12 mesi dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo e quindi alla data del 26 gennaio 2019.
IL DL 161/2019 all'articolo 114 ha invece aggiunto il comma 2-bis che prevede che sia sempre vietata la pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni non acquisite ai sensi degli articoli 268 e 415-bis cpp .
La disposizione prevede dunque espressamente il divieto assoluto di pubblicazione anche parziale delle altre intercettazioni non acquisite dopo il deposito ex art 268 cpp dal Giudice ovvero ex art 415 bis cpp ( più precisamente ex art 415 comma 2 bis CPP) .
Le intercettazioni valutate come non rilevanti, e come tali non acquisite su iniziativa o indicazione del PM e delle difese con le modalità previste dagli articolo indicati ( a cui si deve peraltro aggiungere l’art 454, comma 2-bis CPP in caso di deposito delle stesse con richiesta di giudizio immediato) rimangono soggette al divieto di pubblicazione in qualsiasi fase processuale.
Archivio delle intercettazioni ex art. 269 cpp e 89 bis CPP
Il DLVO 216/2017 prevedeva come noto la creazione di un archivio denominato Archivio Riservato destinato alla custodia integrale di atti di intercettazione che erano coperti dal segreto
Il DL 161 /2019 prevede ex art. 269 cpp e 89 bis CPP la creazione di un archivio telematico denominato Archivio (telematico) delle intercettazioni.
Il decreto introduce la previsione nel modificato art 269 comma 1 CPP, a fronte di un’ indicazione contenuta nella precedente normativa di un Archivio riservato “presso l’Ufficio del Pubblico Ministero”, che l’Archivio delle intercettazioni rientri nella direzione e sorveglianza diretta del Procuratore della Repubblica dell’ufficio che ha richiesto ed eseguito le intercettazioni.
L'archivio e' gestito con modalita' tali da assicurare la segretezza della documentazione relativa , segretezza che attiene peraltro solo alle intercettazioni non necessarie per il procedimento, a quelle irrilevanti o di cui é vietata l'utilizzazione ovvero riguardanti categorie particolari di dati personali come definiti dalla legge o dal regolamento in materia , sempre che le stesse , come visto, non siano rilevanti.
In tale Archivio si ricorda vanno conservati ex art 92 comma 1 bis Disp Att. anche gli atti contenenti l le comunicazioni conversazioni intercettate ritenute dal Giudice non rilevanti in sede di emissione dell’ordinanza di applicazione di misure cautelari.
Spetta al Procuratore della Repubblica impartire , con particolare riguardo alle modalita' di accesso, le prescrizioni necessarie a garantire la tutela del segreto su quanto ivi custodito.
I difensori delle parti possono ascoltare le registrazioni con apparecchio a disposizione dell'archivio e , come in precedenza analizzato. possono ottenere copia delle registrazioni e degli atti quando acquisiti a norma degli articoli 268 e 415-bis del codice.
Ogni rilascio di copia deve essere annotato in apposito registro, sempre gestito con modalita' informatiche; che deve contenere le indicazioni della data e dell’ora di rilascio e degli atti consegnati in copia.
Con disposizione corrispondente alla previsione del precedente art. 89 bis Disp. Att si prevede che all'archivio possono accedere, secondo quanto stabilito dal codice, il giudice che procede e i suoi ausiliari, il pubblico ministero e i suoi ausiliari, ivi compresi gli ufficiali di polizia giudiziaria delegati all'ascolto, i difensori delle parti (indagati e persone offese), assistiti, se necessario, da un interprete. Ogni accesso e' annotato in apposito registro, gestito con modalita' informatiche; in esso sono indicate data, ora iniziale e finale, e gli atti specificamente consultati.
Con la modifica dell'articolo 269 comma 2 cpp si prevede con riferimento alle registrazioni , salvo quelle dichiarate inutilizzabili, che in relazione alle stesse sussiste l'obbligo di conservazione fino alla sentenza non più soggetta a impugnazione. Si prevede che gli interessati quando la documentazione non è necessaria per il procedimento a tutela della riservatezza possono richiedere la distruzione delle registrazioni non acquisite al Giudice che ha autorizzato o convalidato l’intercettazione.
5. Modifiche delle disposizioni in materia di indicazione degli elementi relativi ad operazioni di intercettazione a sostegno delle misure cautelari e dei diritti di accesso.
Viene in primo luogo abrogato il comma 1 bis dell’art 269 cpp che stabiliva che non fossero coperte da segreto ( e non rientrassero pertanto negli atti custoditi nell’archivio riservato ) i verbali e le registrazioni delle intercettazioni poste alla base delle misure cautelari non essendo prevista nella normativa di urgenza alcuna disciplina differenziata tra atti di intercettazione a seconda che siano o meno posti alla base di richieste cautelari.
IL DL ha poi modificato l’art 291 comma 1 cpp in materia di procedimento applicativo delle misure cautelari sopprimendo, quanto al novero degli elementi a sostegno della richiesta, l’indicazione dei “verbali delle operazioni di cui all’art 268 comma 2 limitatamente alle conversazioni e comunicazioni rilevanti”. Indicazione evidentemente ritenuta superflua dal legislatore posto che si tratta di elementi necessariamente posti ed allegati dal PM alla base delle proprie richieste cautelari e nella misura in cui gli stessi siano ritenuti contenere elementi rilevanti ed idonei a sostenere la richiesta stessa .
Viene inoltre soppresso con l’art 2 lettera H del DL l’art 293 comma 3 cpp nella parte della disposizione che prevede espressamente il diritto dei difensori di esaminare e di avere copia dei verbali delle intercettazioni e di ottenere trasposizione su supporto idoneo delle relative intercettazioni una volta depositata nella cancelleria del Giudice l’ordinanza applicativa della misura cautelare, la richiesta del PM e gli elementi a sostegno della stessa .
Modifica che appare in realtà scarsamente comprensibile se non solo sulla base della considerazione che il legislatore si è mosso dal superamento di una disciplina specifica in materia di accesso alle intercettazioni poste alla base delle richieste cautelari e che tali diritti di esame e copia sono comunque pacificamente affermati dalla consolidata giurisprudenza di legittimità nell’ambito del generale diritto difensivo alla conoscenza ed alla estrazione di copia degli atti a sostegno della richiesta di misura e presentati dal PM con la richiesta cautelare stessa ex art 293 cpp .
La novella legislativa dell’art 293 comma 3 CPP ex DLVo 216/2017 era infatti intervenuta indicando in forma espressa, con recepimento sul punto degli arresti giurisprudenziali dopo la pronuncia della Cassazione SSUU n 27 maggio 2010 n° 20300 Lasala, conseguenti alla declaratoria di parziale incostituzionalità dell’art 268 cpp intervenuta con la sentenza Corte Cost. n° 336/2008, le facoltà e i diritti della difesa conseguenti al deposito dell'ordinanza di applicazione della misura cautelare con riferimento alla richiesta del Pubblico Ministero e agli atti presentati a fondamento della stessa statuendo che «Il difensore ha diritto di esame e di copia dei verbali delle comunicazioni e conversazioni intercettate. Ha in ogni caso diritto alla trasposizione, su supporto idoneo alla riproduzione dei dati e delle relative registrazioni».
Veniva pertanto espressamente recepito anche in sede normativa il diritto pieno di accesso dei difensori degli indagati destinatari di ordinanza di misura cautelare al materiale di intercettazione nella sua integralità posto alla base della richiesta di misura cautelare prevedendo il diritto delle difese non solo di esaminare ma di estrarre copia dei verbali delle operazioni di intercettazione nonché il pieno diritto di estrazione di copia integrale delle registrazioni stesse e non di semplice ascolto delle registrazioni a differenza di quanto previsto in caso di deposito, come visto , per le intercettazioni non collegate a misura cautelare depositate dal PM nell’ Archivio riservato.
Tale effetto sul piano delle garanzie della difesa era del resto strettamente conseguente nel DLVO 216/2017 al dato procedimentale secondo cui per le conversazioni o comunicazioni utilizzate in sede cautelare dopo il deposito in favore delle difese degli atti di intercettazione l’acquisizione di tali atti al fascicolo delle indagini costituiva un atto processuale rientrante nella sfera di attività del Pubblico Ministero e di fatto coincidente e “ fissato “ al momento dell'adozione della misura cautelare, a differenza di quanto previsto per le conversazioni non collegate a misura cautelare.
A prescindere dalla diversa opzione del legislatore del 2019 il diritto delle difese di estrazione di copia delle registrazioni delle conversazioni e comunicazioni intercettate, con riferimento alle comunicazioni e conversazioni poste dal Pubblico Ministero alla base della richiesta cautelare , costituisce un diritto non subordinato ad un provvedimento espresso da parte del Magistrato titolare delle indagini.
Deve essere attivato con una richiesta avanzata dal difensore dell’indagato destinatario della misura al Pubblico Ministero da presentare in tempo utile per l' espletamento degli incombenti conseguenti da parte delle segreterie del Pubblico Ministero. La messa a disposizione delle registrazioni da parte del Pubblico Ministero deve conseguentemente intervenire , in conformità alle pronunce giurisprudenziali richiamate e come del resto già avviene all'interno di questa Procura, attraverso opportuni meccanismi organizzativi, in termini temporali compatibili quindi con le scansioni temporali dettate dall'articolo 309 cpp per la proposizione eventuale da parte delle difese della richiesta di riesame avendo l'obbligo le segreterie del PM di provvedere in tempo utile a consentire l'esercizio del diritto di difesa nel procedimento incidentale “de libertate”.
A questo riguardo si deve aggiungere che gli atti e le intercettazioni alla base delle richieste e misure cautelari ,vista la scelta del legislatore nel DL 161/2019 e in assenza di diversa disposizione normativa , al momento della conclusione delle indagini ex art 415 bis CPP ovvero in sede di deposito di richiesta di Giudizio immediato , dovranno essere sottoposte , al pari delle ulteriori intercettazioni acquisite nel corso delle indagini e non poste alla base della richiesta cautelare , alle modalità di deposito ed acquisizione previste dalla disciplina introdotta dal Dl in parola.
Da ultimo si rileva che il DL non modifica due disposizioni introdotte dal DLVO 216/2017 in materia di tecnica di redazione delle richieste ed ordinanze cautelari, quanto al richiamo dei contenuti delle intercettazioni, limitandosi a determinare , con la modifica della disciplina temporale, l’applicazione di tali disposizioni ai procedimenti iscritti a partire dal 1.3.2020.
Con l'inserzione nel corpo dell’art.291 cpp del comma uno ter cpp, si dispone che « Quando e' necessario, nella richiesta sono riprodotti soltanto i brani essenziali delle comunicazioni e conversazioni intercettate.».
Corrispondente modifica è stata introdotta con l’art.292 comma 2 quater cpp con riferimento alla motivazione dell'ordinanza di applicazione della misura cautelare con la previsione che “quando è necessario per l'esposizione delle esigenze cautelari e degli indizi, delle comunicazioni e conversazioni intercettate sono riprodotti soltanto i brani essenziali.».
L’inserimento da parte del PM dei contenuti delle comunicazioni / conversazioni rilevanti nella motivazione della richiesta di misura cautelare in base alla novella legislativa deve pertanto rispondere in primo luogo ad una necessità espositiva degli elementi dotati di gravità indiziaria e deve essere comunque limitata ai passaggi essenziali delle comunicazioni e conversazioni essendo finalizzato alla compiuta indicazione da parte del PM degli elementi strettamente funzionali alla adeguata rappresentazione del materiale indiziario.
Evidente la finalità della riforma sul punto tesa a contenere l'esposizione indifferenziata in sede di richieste e provvedimenti cautelari di elementi non strettamente rilevanti in sede di indagine e ai fini cautelari.
Si deve osservare che nell'ambito delle indagini di maggiore complessità , specie se fondate su prolungate attività di intercettazione, risulta necessaria ai fini di una completa esposizione del materiale indiziario ed agevola in buona sostanza la conoscenza delle cadenze e del materiale complessivo dell’indagine. una riproduzione coerente e completa all'interno della richiesta di applicazione di misure cautelari delle conversazioni e comunicazioni. Ovviamente deve trattarsi di un’ esposizione non indifferenziata ma limitata ai punti essenziali e “mirata” del materiale di intercettazione unitamente alle altre risultanze di indagine.
Di converso l'esposizione in forma esclusivamente riassuntiva dei contenuti delle intercettazioni o attraverso una tecnica di semplici richiami agli estremi delle intercettazioni nei brogliacci o alle Annotazioni di PG nella maggior parte dei casi costituisce un limite oggettivo alla completezza della ricostruzione delle risultanze d'indagine e può comunque incidere sulla chiarezza e completezza espositiva in caso di sintesi eccessiva o incongrua tanto per il Giudice chiamato a pronunciarsi quanto successivamente per le parti.
Tale tecnica espositiva infatti richiede sovente per il destinatari comunque la necessità di completare l’esame delle risultanze di indagine con la lettura integrale dei verbali delle conversazioni e comunicazioni sintetizzate o richiamate.
In considerazione della novella legislativa e di quanto in precedenza osservato sul punto risulta di conseguenza necessario che anche la Polizia Giudiziaria si conformi a tale disciplina nella predisposizione delle annotazioni in vista della presentazione da parte di questo Ufficio di richieste di misure cautelari .
In tale prospettiva, anche per finalità di sintesi , la PG si limiterà a riportare nei suoi atti il contenuto necessario delle conversazioni e comunicazioni rilevanti per le finalità sottese e i passaggi essenziali delle conversazioni o comunicazioni intercettate, evitando di inserire in modo pedissequo passaggi irrilevanti a fini di indagine.
Si assicurerà tra l’altro in tal modo in via progressivo una coerenza ed un’organicità espositiva degli elementi rilevanti di indagine desunti dall'attività di intercettazione.
6. La modifica delle disposizioni in materia di intercettazioni mediante captatore informatico su dispositivo elettronico portatile .
1) In primo luogo il DL 161/2019 modifica l’art. 266 comma 2 bis CPP estendendo l’ammissibilità della intercettazione delle comunicazioni tra presenti mediante captatore informatico su dispositivo elettronico portatile oltre che per i delitti dei pubblici ufficiali anche per i delitti degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali e' prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell'articolo 4.
2)Si armonizza anche l’art 267 comma 1 CPP in materia di presupposti del provvedimento prevedendo che anche per gli indicati delitti degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione , come per delitti contro la PA dei pubblici ufficiali e e per i delitti di cui agli artt. 51 comma 3 bis e 3 quater cpp , nel decreto autorizzativo non sia necessario indicare il luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, di attivazione del microfono .
3)Con opportuna modifica a fronte di una disarmonia non comprensibile del DLVO 216 /2017 tra la disciplina ordinaria di intercettazione e quella di urgenza (che si traduceva tra l’altro in una ingiustificata limitazione dei poteri di indagine del PM in situazioni di oggettiva urgenza) si modifica l’art 267 comma 2 bis CPP.
Si prevede con la modifica introdotta all’art 2 lettera D2 del DL che nei casi di urgenza , il pubblico ministero può disporre, con decreto motivato, l'intercettazione tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile non solo nei procedimenti per i delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater ma anche per i delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali e' prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell'articolo 4.
Si era segnalata nella precedente direttiva l’ulteriore incongruità derivante dal combinato disposto del nuovo comma 2bis dell’art. 267 e dell’art. 6 c. 1 D.lvo 216/2017: infatti, mentre in base a quanto previsto dall’art. 6 c. 1, per i reati più gravi contro la p.a., applicandosi il regime dell’art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, il P.M. poteva disporre d’urgenza le proroghe delle intercettazioni (anche con riferimento a quelle con il captatore informatico installato su dispositivi mobili) non poteva disporre con decreto di urgenza tali intercettazioni, non trattandosi di reati rientranti nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p..
Appariva oggettivamente incongrua la scelta legislativa in materia dei reati più gravi contro la p.a., atteso che, in entrambi i casi il sistema prevede la successiva convalida del G.I.P. con conseguente controllo sulla sussistenza dei presupposti di legge.
4) Con il DL 160/2019 viene inoltre modificato l’art 270 comma 1 bis CPP introducendo una rilevante modifica in materia di utilizzabilità di tali intercettazioni.
Nel precedente regime i risultati di tali intercettazioni mediante captatore informatico su dispositivo elettronico portatile , come avviene per le altre tipologie di intercettazioni, non potevano essere utilizzati per la prova di reati diversi rispetto ai quali era stata emessa l’intercettazione salvo che fossero indispensabili per la prova di delitti con arresto obbligatorio in flagranza.
Con la opportuna modifica introdotta dal DL 160/ 2019 i risultati di tali intercettazioni possono essere invece utilizzati senza alcun riferimento al requisito della indispensabilità anche per la prova di reati diversi per i quali era stata emessa l’intercettazione che siano ricompresi nella previsione dell’art 266 comma 2 bis CPP ovverosia per la prova dei i delitti di cui all’art 51 comma 3 bis e 3 quater cpp e per dei delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la PA puniti con pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, ovverosia per quelle di categorie di delitti per i quali è sempre consentita l’intercettazione mediante captatore informatico su dispositivo elettronico portatile anche nei luoghi del domicilio indipendentemente dal requisito della sussistenza di un fondato motivo di svolgimento in tali luoghi dell’attività criminosa.
6) Il DL come il precedente DLVO 216/2017 è intervenuto quanto alla disciplina delle intercettazioni ambientali mediante captatore informatico su dispositivo elettronico portatile anche sul contenuto dell’art 89 Disp. Att. ,norma che (conteneva e)contiene importanti previsioni quanto alle modalità di esecuzione di tali tipologia di intercettazioni
-Si dispone in via generale che il verbale delle operazioni previsto dall'articolo 268 comma 1 del codice contenga l'indicazione degli estremi del decreto che ha disposto l'intercettazione, la descrizione delle modalita' di registrazione, l'annotazione del giorno e dell'ora di inizio e di cessazione della intercettazione nonche' i nominativi delle persone che hanno preso parte alle operazioni.
- Quando si procede ad intercettazione delle comunicazioni e conversazioni tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, il verbale indica il tipo di programma impiegato e, ove possibile, i luoghi in cui si svolgono le comunicazioni o conversazioni. Relativamente alle annotazioni previste sul verbale delle intercettazioni, l’art 89 1 comma seconda parte (come del resto il precedente il comma 1, novellato nel 2017 dell’art. 89 disp. att. cpp prevedendo il DL la sola aggiunta della locuzione ove possibile )prevede dunque che, oltre a quelle relative agli estremi del decreto che ha disposto l'intercettazione, alla descrizione delle modalità di registrazione, all'annotazione del giorno e dell'ora di inizio e di cessazione della intercettazione nonché ai nominativi delle persone che hanno preso parte alle operazioni, quando si proceda ad intercettazioni tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, il verbale debba indicare “il tipo di programma impiegato e ove possibile i luoghi in cui si svolgono le comunicazioni o conversazioni”.
La norma, in questo caso, non distingue i reati di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. e i reati contro la PA dagli altri reati . Pertanto, se è vero che, per i reati di competenza della Procura distrettuale di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p, e come visto per i più gravi delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio non è necessario che il Giudice indichi e specifichi i luoghi, anche indirettamente determinati “ex ante” dove potranno avvenire le intercettazioni (sulla base del novellato art. 267 c. 1 seconda parte, c.p.p.) nel verbale delle operazioni si dovrà sempre cercare di identificare da parte della PG (in questo caso ex post) sulla base delle conversazioni e dei dati desumibili dall’uso del captatore, il luogo e/o i luoghi dove esse sono avvenute e riportare tali luoghi nel verbale ex art. 89 disp. att. c.p.p..
Tale dato, in realtà , specie se l’attività non è accompagnata da contestuali servizi di osservazione dalla PG non sempre attivabili non è per nulla di facile acquisizione o determinazione né pare che sia aggirabile la prescrizione con un indicazione del tutto generica. Appare auspicabile, al fine di evitare controversie in sede processuale che tra i requisiti tecnici dei programmi informatici che verranno stabiliti dal Ministero della Giustizia vi siano quelli di consentire ai programmi di accedere al sistema di localizzazione GPS (ormai presente ad esempio praticamente in tutti gli smartphone) per permettere all’operatore di identificare con certezza il luogo ove avvenga la comunicazione.
- Il DL ha previsto che con decreto del Ministro della giustizia sono stabiliti i requisiti tecnici dei programmi informatici funzionali all'esecuzione delle intercettazioni mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile.
A tale proposito si deve rilevare che in base all’art. 7 del D.lvo 216/2017 contenente analoga previsione ( decreto da emanarsi entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del DLVO per fissare i requisiti tecnici dei programmi informatici funzionali all'esecuzione delle intercettazioni mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile secondo misure idonee di affidabilità, sicurezza ed efficacia al fine di garantire che i programmi informatici utilizzabili si limitino all'esecuzione delle operazioni autorizzate) il Ministro della Giustizia ha già emanato in materia il DM 20.4.2018 .
-Nei casi previsti dal comma 2 le comunicazioni intercettate sono trasferite, dopo l'acquisizione delle necessarie informazioni in merito alle condizioni tecniche di sicurezza e di affidabilita' della rete di trasmissione, esclusivamente nell'archivio digitale di cui all'articolo 269, comma 1, del codice. Durante il trasferimento dei dati sono operati controlli costanti di integrita' che assicurino l'integrale corrispondenza tra quanto intercettato, registrato e trasmesso.
Relativamente a tali disposizioni , come per quelle di analogo tenore inserite nel DLVO 216/2017 deve evidenziarsi che alcune di esse appaiono in alcuni casi formulate in modo non sufficientemente chiaro in altri casi di difficile attuazione.
In primo luogo non si comprende se , come sembra palesare il tenore letterale della disposizione , la trasmissione dei dati debba avvenire, di volta in volta per le singole trasmissioni , previa “…acquisizione delle necessarie informazioni in merito alle condizioni tecniche di sicurezza e di affidabilità della rete di trasmissione”.
Posto che la rete di trasmissione fornita dalla società che noleggia gli apparati e dalla società telefonica che fornisce la connessione dati sarà, normalmente, sempre la medesima la stessa è affidabile e tecnicamente sicura o meno dall’origine ; non si comprende, pertanto, quale controllo possa fare l’operatore e soprattutto l’utilità ad ogni trasmissione dati (quindi anche più volte in un giorno) nell’acquisire “necessarie informazioni in merito alle condizioni tecniche di sicurezza e di affidabilità della rete di trasmissione”.
La disposizione che prevede che “durante il trasferimento dei dati sono operati controlli costanti di integrità in modo da assicurare l'integrale corrispondenza tra quanto intercettato e quanto trasmesso e registrato” appare comprensibile sul piano tecnico e operativo se non riferita a controlli dell’operatore fisico (atteso che trattandosi di trasferimento di dati informatici non è possibile per un operatore “umano” effettuare un controllo durante il trasferimento).
Un simile controllo, infatti, può essere effettuato solo da un programma informatico che confronti il pacchetto dati conservato nel dispositivo “target” (che contiene la conversazione captata) con il pacchetto dati che viene ricevuto e conservato sul server della Procura e ne attesti l’assoluta identità.
Quando e' impossibile il contestuale trasferimento dei dati intercettati, il verbale di cui all'articolo 268 del codice da' atto delle ragioni impeditive e della successione cronologica degli accadimenti captati e delle conversazioni intercettate.
Si tratta a ben vedere di cautele predisposte dal legislatore finalizzate ad evitare un indiscriminato ed incontrollato utilizzo del microfono del dispositivo elettronico portatile, che tuttavia finiscono per aggravare notevolmente il lavoro della Polizia Giudiziaria delegata allo svolgimento delle operazioni e dei tecnici specializzati delle società di intercettazione, dal momento che le disposizioni in parola impongono un costante aggiornamento del verbale con dati precisi sullo svolgimento delle operazioni.
-Al termine delle operazioni si provvede, anche mediante persone idonee di cui all'articolo 348 del codice, alla disattivazione del captatore con modalita' tali da renderlo inidoneo a successivi impieghi. Dell'operazione si da' atto nel verbale.
Onde evitare modalità di gestione tecnica difficilmente compatibili con le esigenze di indagine il termine per la disattivazione non può che coincidere col termine della durata massima delle operazioni fissata dal provvedimento autorizzativo sullo specifico bersaglio (comprese le proroghe) e non certo del singolo e specifico ascolto .
“A Trento per amore ma con Palermo nel cuore” di Alessandro Clemente
La prima cosa a cui ho pensato è stata il titolo.
Era il 23 settembre 2015 e prendevo servizio alla Procura presso il Tribunale per i minorenni di Trento, come sostituto, su mia domanda di trasferimento determinata da esigenze familiari.
Solo pochi giorni prima, l’ultimo bagno nel mare di Balestrate, col carissimo Gaspare, amico e collega alla Procura di Palermo. Mia prima sede di servizio, voluta con orgoglio e determinazione, dalla quale si può dire che non sia mai andato via.
In quelle acque limpide, quel giorno, avvertivo con struggimento il peso dell’imminente distacco, che poche ore dopo sfociava in un pianto senza sosta, a poppa di quella nave ormai familiare come casa mia, dalla quale vedevo l’isola allontanarsi e sulla quale lasciavo amici che piangevano con me e che, ancora oggi, mi accolgono con gioia quando mi diventa intollerabile il mancarsi.
Di lì a poco, seduto accanto al finestrino mi facevo scorrere l’Italia davanti agli occhi, fino a quando il treno iniziò a lambire le foglie precocemente ingiallite dei vigneti di Trento, dove l’estate finisce sempre troppo presto.
Era, a suo modo, un ritorno, seppure in una nuova veste umana e professionale. Già, perché nel frattempo era spuntata fuori una famiglia con due bambini, e quel funzionario dell’Agenzia delle Entrate – il concorso da sfigati, ricordate? – era diventato magistrato e aveva salutato Trento: destinazione Palermo, appunto.
Anche nel mio addio ai monti avevo riversato la mia buona dose di lacrime. Certo, è meno dolente il distacco quando non ti porti dietro un bagaglio pieno di rimpianti, ma questo ancora non lo sapevo. O meglio, facevo affidamento sul mio senso di responsabilità, che fino ad allora non mi aveva mai tradito. Il fatto è che nel frattempo avevo letto Julian Barnes – “chiamiamo senso di responsabilità nient’altro che la nostra vigliaccheria” – e il suo avvertimento mi risuonava nelle orecchie.
Ma insomma. La vita mi aveva fatto decidere di tornare a Trento, e qui avrei continuato nell’esercizio delle funzioni di pubblico ministero, sebbene in un’altra veste e in una nuova dimensione umana e territoriale.
P.M. minorile: e dire che durante il tirocinio manco c’ero stato, alla Procura dei minori! E quando si trattò di scegliere la sede, con malcelato pregiudizio avevo snobbato tutti gli uffici, giudicanti e requirenti, che avessero dentro quella parola. Non per una visione retrograda e maschilista, intendiamoci, quanto perché volevo cimentarmi in una funzione e in una realtà in cui la repressione di alcuni fenomeni criminali – i reati economici; l’evasione fiscale; la corruzione; il malaffare in tutte le sue forme; il soggiogamento indotto da iniquità economiche e sociali, il “compromesso morale” – potesse farmi sentire utile nel contribuire a rendere questo mondo, per dirla con Eduardo, “meno rotondo, ma un poco più quadrato”.
Avendo deciso che la sede del mio nuovo ufficio sarebbe comunque stata Trento, dovetti accontentarmi dell’unico posto disponibile tra gli uffici requirenti del distretto. Sinceramente, all’epoca avrei preferito mantenere le funzioni di p.m. ordinario, e continuare ad occuparmi prettamente di affari penali, sebbene non disdegnassi puntate negli affari civili, in ossequio alle attribuzioni, troppo spesso mortificate, che anche in quell’ambito l’ordinamento riserva al pubblico ministero.
Iniziai dunque, sul campo, un percorso di formazione all’interno di un ufficio di piccolissime dimensioni: due soli magistrati, me compreso. Mi sentivo come Gulliver in balìa dei lillipuziani, io che ero cresciuto in una Procura con cinquanta e passa sostituti. Fortunatamente, i virgulti della gioventù trentina non mi parevano così animati da tentazioni di devianza criminale, e il settore penale pertanto non mi spaventava. Si trattava soltanto di prendere confidenza con quei tre o quattro istituti del rito minorile che, nel tempo, ho imparato a maneggiare. Ancora fino a poco tempo fa – in pratica, fino al 1 gennaio 2019, quando sono rimasto l’unico magistrato in servizio perché l’allora Procuratore aveva deciso di andare anzitempo a riposo – ho provato più volte l’eccitante sensazione di avere la scrivania sgombra dai fascicoli. Penali, s’intende.
E già, perché appena misi piede nel nuovo ufficio mi resi conto che la gran mole di lavoro del p.m. minorile era costituita dai procedimenti del settore degli “Affari Civili”. In pratica, tutto quel variegato mondo fatto di interventi socio-assistenziali che, sovente grazie all’intervento dell’Autorità Giudiziaria, si attivano nel superiore interesse del minore.
Dovevo in poco tempo familiarizzare con istituti e prassi che poco o per nulla conoscevo, quali il mandato di indagine psicosociale, la “presa in carico” del minore, il collocamento in comunità di accoglienza, e poi ovviamente l’adozione, l’affidamento eterofamiliare, la limitazione e la decadenza dalla responsabilità genitoriale.
Una nemesi storica, perché a suo tempo, su iniziativa di Dino Petralia – allora, mio Procuratore Aggiunto a Palermo e mio maestro – avevo affrontato la tematica del riparto di competenza tra p.m. ordinario e p.m. minorile in ordine all’interpretazione del nuovo art. 38 delle disposizioni di attuazione al codice civile, tentando vanamente di addossare sul p.m. minorile quante più competenze si potesse. Ed ecco che, di lì a pochi anni, mi ritrovavo dall’altra parte, a destreggiarmi in un settore a me sconosciuto e che ancora oggi, dopo oltre quattro anni, mi riserva sorprese.
In più, soffrivo con malcelata inquietudine la penuria di riferimenti normativi, proprio io che quando ero di turno dormivo col codice sul comodino… Spaesato in questa selva oscura, cercai di affidarmi al più presto ad un Virgilio che, con la sua esperienza e competenza, mi rendesse meno impervio l’ingresso nel misterioso mondo degli affari civili. Per fortuna, la competenza e la dedizione delle persone con cui ho lavorato fin dai primi giorni, hanno contribuito a rendere il mio lavoro meno affannoso fino al punto da riuscire a trattarlo con una discreta padronanza.
Ho dovuto riadattarmi radicalmente, passando dalle aspirazioni per un posto in D.D.A. alle audizioni di adolescenti ribelli; dall’esame di collaboratori di giustizia agli incontri “di rete” con assistenti sociali, psicologi, educatori; dagli interrogatori all’Ucciardone alle visite ispettive nelle strutture di accoglienza per l’infanzia.
Più volte, non lo nego, ho messo in discussione il senso della funzione giudiziaria – requirente e giudicante – in ambito minorile, e ancora oggi devo ammettere che ho più di un dubbio sull’utilità di questa persistente diversità. Ciononostante, ho sempre cercato di esercitare le mie funzioni con inalterato spirito di servizio e con la massima serietà, forse ancor più rigorosamente perché percepivo di muovermi in un sistema per il quale non manifestavo spiccate attitudini.
Nell’ultimo anno, e ancora in questo scorcio di 2020, ho esercitato le funzioni di Procuratore reggente, nell’attesa della nuova nomina da parte del C.S.M. e dell’ormai imminente arrivo del nuovo capo. Ho avuto modo di fronteggiare le tante e spesso spinose grane che connotano il lavoro quotidiano di un direttivo, con l’evidente surplus di carico di lavoro in assenza di applicazioni da altri uffici che, pur gentilmente offertemi dalla Procura generale, ho inteso rifiutare perché convinto di riuscire da solo e stimolato da questa nuova sfida con me stesso. In realtà, da solo non mi sono mai sentito perché il personale, di polizia giudiziaria e amministrativo, ha contribuito a rendere meno gravoso il carico di lavoro.
Ho affrontato l’esperienza dell’ispezione ministeriale, arricchente ma senza dubbio portatrice di un carico emotivo non indifferente, che ho condiviso con tutto il personale dell’ufficio e che ha sortito effetti positivi contribuendo a migliorare il lavoro di tutti. L’occasione mi ha permesso di considerare con sincero apprezzamento il ruolo del magistrato ispettore, ingrato e scomodo per molti aspetti, ma che probabilmente ciascuno di noi, quale che sia la funzione esercitata, dovrebbe prima o poi esercitare per acquisire consapevolezza piena di ciò che rappresenta il lavoro del magistrato, dagli uffici più piccoli e remoti a quelli di grandi dimensioni.
Di certo non posso negare che il già lacerante strappo dall’ambiente professionale e umano della Procura di Palermo sia stato acuito dall’assenza, qui a Trento, di un collega “della porta accanto”, col quale poter interloquire e a cui chiedere consigli, prassi operative, o anche per un semplice scambio di vedute. Quante volte mi sono sentito come il Tenente Drogo del “Deserto dei tartari”, rinchiuso nella sua fortezza nella vana attesa del suo giorno di gloria!
Ho allora deciso – o forse me ne sono accorto solo strada facendo – di cambiare pelle, fin dove la mia formazione intellettuale e il mio temperamento mi consentissero. Mi sono scoperto un abile interlocutore con i vari enti, pubblici e privati, che gravitano nel mondo della giustizia minorile; ho intrapreso una florida attività di relatore a convegni, seminari e corsi di formazione per le più disparate categorie professionali: sanitarie, scolastiche, psicopedagogiche; ho fornito pareri a disegni di legge provinciale in materia di giustizia minorile.
Resta, dunque, da chiedersi cosa ne è dell’imperativo iniziale, che forse con estrema severità mi sono imposto all’inizio di questa mia esperienza a Trento: sono riuscito a dimenticare Palermo?
In verità no. E non sarebbe neanche stato giusto: avrei fatto un torto a me stesso e alle tante persone care con cui ho condiviso affetti, gioie, esperienze, dolori privati e l’abbagliante luce di un cielo unico al mondo. Ma è innegabile che, oggi, quello stesso magistrato sia una persona più matura e consapevole del proprio ruolo e della delicata funzione che esercita, e che non ha più paura di quella sottile inquietudine che, per dirla col linguaggio del cinema, “ci fa stare bene solo in mare, in viaggio tra un’isola e l’altra”.
Svelare le simulazioni: apporti delle neuroscienze alla ricerca della verità giudiziaria
Santo Di Nuovo
È frequente in ambito forense il tentativo di falsificare le proprie condizioni psichiche, che può essere messo in atto, volontariamente o meno, per ottenerne dei vantaggi in sede giudiziale. Le tecniche d’indagine psicologiche e neuroscientifiche cercano di svelare questo tentativo, che costituisce la grande sfida della diagnosi peritale in ambito forense.
Esistono diverse forme di falsificazione. La simulazione (malingering) consiste nell’inventare sintomi che non esistono, o esagerare quelli che esistono, allo scopo di trarne vantaggi sul piano giuridico-forense: per esempio, ottenere una dichiarazione di incapacità che esime in tutto o in parte dalla responsabilità. Nel campo del diritto civile, simulare (o aggravare) una patologia può essere utile anche per ottenere benefici quali il riconoscimento di invalidità, o di un suo grado non corrispondente alle reali condizioni psichiche della persona. Al contrario, la dissimulazione serve a nascondere delle patologie e fingere la normalità, per evitare provvedimenti negativi quali interdizione o inabilitazione, o perdita della potestà genitoriale.
In questo contesto ci occuperemo soprattutto del primo aspetto, quello simulativo, che si realizza quando fingere una patologia mira a trarre dei benefici in termini di deresponsabilizzazione sul piano giudiziario.
Test psicodiagnostici come gli inventari di personalità (come il MMPI o il PAI) o proiettivi come il test di Rorschach, o le prove neuropsicologiche per l’esame cognitivo, consentono di avvalersi di alcuni indici che fanno sospettare una simulazione. Per i primi esistono punteggi derivanti da scale di ‘menzogna’ (scale L - Lie) o da altre scale di controllo, che valutano una generale disposizione alla falsificazione del test e quindi alla simulazione di “essere peggio di come si è”, per ridurre la responsabilità accertabile in termini diagnostici psicometrici. Per il test delle macchie di Rorschach, la letteratura sull’argomento riporta come elementi frequenti nella simulazione una produzione troppo bassa – in soggetti per altri versi normali – o al contrario troppo alta, con numerose risposte bizzarre o strane; risposte confabulatorie accuratamente costruite; forti incongruenze o dislivelli di rendimento, alternando risposte ‘normali’ con altre tipiche delle più gravi patologie, anche diverse tra loro.
Quanto ai test neuropsicologici, la simulazione è centrata soprattutto sugli aspetti di memoria. In generale, se le prove sono abbastanza facili, i simulatori manifestano rendimento ben più scadente rispetto ai soggetti veramente patologici, collocandosi molto al di sotto della soglia delle risposte casuali. Anche nel caso di persone che tentano di amplificare il danno, pur realmente esistente, le prestazioni risultano significativamente inferiori di quanto ci si può attendere in relazione alla tipologia del loro deficit, accertabile con altri metodi strumentali.
L’ipotesi di simulazione, formulata a partire da singoli test, va inserita in un quadro valutativo che include dati anamnestici, osservazione prolungata in situazioni di vita quotidiana, e controlli neurologici e clinici diversi.
Esistono strumenti appositamente escogitati per tentare di scoprire il malingering, utili nel settore giudiziario, tra cui la Symptom Validity Technique (test a scelta forzata su decisioni molto semplici, in cui il simulatore tende a rispondere sempre in modo strano e bizzarro), alcune prove molto facili di riconoscimento di cifre, di memoria implicita, memoria autobiografica e memoria libera; e ancora, la Structured Interview of Reported Symptoms (SIRS), che mediante una verifica incrociata sul riferimento a sintomi rari, improbabili o assurdi, e sulla incoerenza delle risposte, consente di categorizzare i soggetti in onesti, indefiniti, simulatori.
Fra i tanti modi escogitati per decifrare i tentativi di falsificazione delle riposte (faking) per eludere la responsabilità in ambito giudiziario, emergono sempre più quelli basati sulle neuroscienze.
I tentativi di ‘lettura del cervello’ per supportare l’esame giudiziario di accertamento della responsabilità e delle possibili alterazioni sono molto antichi. Risalgono infatti ai primi del ’900 i tentativi di individuare le risposte menzognere durante gli interrogatori, misurando i cambiamenti di parametri fisiologici come la pressione arteriosa. Più avanti, fra gli anni ’30 e ’50 del secolo scorso, furono messe a punto le ‘macchine della verità’: poligrafi che registrano contemporaneamente diverse tipologie di risposte fisiologiche ed elettroencefalografiche a stimoli potenzialmente perturbanti sul piano emotivo, in modo da evidenziare le differenze fra le dichiarazioni coscienti (che possono essere volontariamente alterate) e le attivazioni inconsapevoli presunte ‘veritiere’. Questi tentativi di ‘scoprire le menzogne’ (le macchine furono definite anche lie detector) e smascherare le alterazioni della responsabilità, ebbero a loro volta smascherati ben presto i propri limiti: le persone non rispondono allo stesso modo agli stimoli che dovrebbero alterare la loro reattività, per cui persone oneste, temendo di essere ingiustamente incriminate, alterano i parametri psicofisiologici e possono risultare ansiose nel rispondere ad accuse anche infondate; mentre persone abituate all’inganno possono non manifestare alcuna ansia anche davanti a stimoli potenzialmente compromettenti. Si arrivò ad utilizzare delle sostanze come il tiopental sodico (Pentothal) per facilitare la disinibizione, ma paradossalmente questo può portare a mescolare verità e fantasia più che nella risposta cosciente. Secondo l’Accademia delle Scienze statunitense questi strumenti hanno soglie di sicurezza inaccettabili in valutazioni di tipo giuridico; la Corte Federale statunitense ha dichiarato non affidabili le prove basate su questi strumenti.
Più recentemente, visti i limiti delle misurazioni psicofisiologiche ai fini giudiziari, si è tentato di rivolgersi all’esame diretto del funzionamento cerebrale registrando le risposte elettroencefalografiche – ad esempio, il potenziale P300 che si attiva in risposta a stimoli significativi per la memoria – che sarebbero peculiari del ricordo che solo chi è a conoscenza di certi specifici fatti può attivare. Ma anche in questo caso l’attendibilità dei risultati non è sufficiente. Si può essere a conoscenza di un fatto, e quindi attivare queste risposte di percezione latente, ma ciò non equivale con certezza a essere colpevoli: gli stessi potenziali possono essere attivati da chi ha sentito riferire di un evento, o ne ha visto le immagini sui media. Oppure essere stati presenti, e tacerlo per paura di essere coinvolti, non vuol dire necessariamente essere attori del reato.
Le ultime scoperte delle neuroscienze per scoprire la responsabilità al di là di ciò che una persona coscientemente dice tendono a cercare tracce delle menzogne in una sorta di “lettura diretta della mente” (Mind-reading). L’attivazione delle aree cerebrali e della rete di loro connessioni vengono registrate in un base-line, ad esempio mediate risonanza magnetica funzionale (fMRI): l’attività cerebrale precedentemente registrata relativamente a certe frasi o emozioni può predire l’attivazione di un analogo stato mentale successivo. È possibile studiare delle tracce – analoghe alle impronte digitali, e perciò denominate Brain Fingerprinting – che le menzogne lasciano nel cervello e possono essere registrate da apposite strumentazioni che valutano le variazioni dell’attività cerebrale provocate da un evento critico.
Uno studio sperimentale ha monitorato il cervello di 25 persone mentre rispondevano a una serie di domande a cui potevano mentire o rispondere con la verità. Le menzogne pare vengano elaborate soprattutto nelle regioni cerebrali frontali e pre-frontali, ma anche in un’altra area (una parte della corteccia anteriore) deputata a elaborare, anche senza consapevolezza, situazioni problematiche o pericolose. Esiste una precisa risposta registrabile – e quindi utilizzabile a fini giudiziari – che riflette il tentativo di sopprimere un’informazione vera.
Sullo stesso principio si basa il Brain Fingerprinting Lab fondato da Lawrence Farwell, che ovviamente interessò subito FBI e CIA, interessate ad avere strumenti in grado di fornire indicazioni più attendibili rispetto al tradizionale lie detector. Quando una persona sottoposta a interrogatorio o a giudizio dice una menzogna per nascondere la propria responsabilità, si attivano aree cerebrali diverse e più numerose rispetto a quando dice la verità, in quanto deve anche sopprimere attivamente le informazioni che sa essere vere. Vedendo delle immagini mentre viene registrato il funzionamento cerebrale, il cervello emette segnali più rapidi se riconosce un’immagine familiare. Questa “impronta digitale cerebrale” depositata nella memoria viene decodificata, e successivamente, di fronte a scene critiche per il soggetto sottoposto a interrogatorio, può essere usata per trarre deduzioni relativamente alla sincerità della risposta fornita verbalmente.
Anche in questo caso però la Defense Intelligence Agency statunitense ha contestato la mancanza di controllo dei possibili artefatti tecnici: basta muovere troppo la lingua, o un muscolo, perché si creino variazioni spurie che rendono inattendibile la prova. Al di là dei problemi ‘tecnici’ il famoso neuroscienziato Michael Gazzaniga ha riconosciuto che le informazioni ricavate da questo tipo di registrazioni cerebrali hanno una inattendibilità di base dovuta alla complessità delle variabili in gioco, oltre che una scarsa discriminatività, in quanto piccole imprecisioni o errori di valutazione possono essere valutati allo stesso modo di rilevanti menzogne. Considerato che in tribunale vanno prese in considerazione prove certe “al di là di ogni ragionevole dubbio”, questi modi di individuare la responsabilità personale non sembrano destinati ad avere il successo auspicato da chi presume di poter così andare oltre ciò che la persona stessa riferisce.
Una considerazione di tipo generale può farsi rispetto alla logica che sottende queste tecniche di “lettura del pensiero”, oggi applicata ad aree diverse, dalla neuro-economia al marketing alla analisi della personalità, oltre che al campo giuridico. Ci si dovrebbe affidare, per conoscere ciò che la mente veramente elabora, a tecniche che accedono direttamente ai suoi fondamenti neurobiologici, piuttosto che alle parole e ai report soggettivi su esse fondati, che potrebbero alterare (coscientemente o meno) la ‘realtà’ dei processi mentali. Questa logica è pericolosa per la psicologia e per l’approccio scientifico in generale, perché riattiva – ammantandola di nuove tecniche ‘oggettive’ – la diffidenza verso quanto la persona stessa percepisce e riferisce di sé stessa, che pareva definitivamente tramontata, o comunque ridimensionata, dopo il superamento delle remore behavioristiche, riduttive in funzione di una conoscenza adeguata delle realtà complesse. La logica giuridica è tentata di accettare queste ‘prove’, da cui è potenzialmente attratta in quanto le presume ‘oggettive’, anche se poi – come abbiamo visto – è costretta a riconoscerne l’insufficienza. La ‘verità’ scientifica nelle procedure giudiziarie, piuttosto che affidarsi a singoli indicatori, va (ri)costruita attraverso una molteplicità di essi, e la attendibilità complessiva degli strumenti usati va riferita alla integrazione della valutazione che l’organo decisorio attua in sede processuale.
Riferimenti bibliografici per approfondimenti
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S. Di Nuovo, Che cos’è la verità? È possibile trovarla scientificamente? In Siculorum Gymnasium LXXI, 2018 (4), pp. 31-54.
I. Ganguli, Watching the Brain Lie: Can fMRI replace the polygraph?, in The Scientist, 2007, 21, p. 40.
G. Iverson, M. Franzen, L. McCracken, Evaluation of an objective assessment technique for detection of malingered memory deficits, in Law and Human Behavior, 1991, 15, pp. 667-676
W. Mittenberg, C. Patton, E. M. Conyock, D. C. Condit, Base rates of malingering and symptom exaggeration, in Journal of Clinical and Experimental Neuropsychology, 2002, 24, pp. 1094-1102.
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R. Rogers (Ed.), Clinical measurement of malingering and deception, 2nd ed., Guilford, New York, 1997.
Il nuovo delitto di tortura: la Cassazione amplia l’ambito applicativo della fattispecie?
Un commento alla sentenza 8 luglio 2019 n. 47079 [1]
di Calogero Ferrara
La Corte di Cassazione con la sentenza 8 luglio 2019 n. 47079 si pronuncia, per la prima volta, sul delitto di tortura di cui all’art. 613-bis c.p. introdotto con la legge 14 luglio 2017 n. 110 all’esito di un travagliato iter parlamentare, adottando una interpretazione estensiva della fattispecie e intervenendo sugli aspetti più controversi e “oscuri” del dettato normativo, fornendo delle vere e proprie “linee guida”.
I fatti
Con sentenza dell’8 luglio 2019 n. 47079, la Corte di Cassazione ha confermato l’ordinanza del Tribunale per i Minorenni di Taranto con la quale era stata disposta l’applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti di sei minorenni in quanto indiziati, in concorso con due maggiorenni, dei delitti di tortura aggravata di cui all’art.613-bis, comma 4, c.p., così come introdotto dalla Legge n. 110 del 14 luglio 2017, oltre che dei reati di danneggiamento, violazione di domicilio e sequestro di persona. Le condotte oggetto i contestazione erano state commesse nei confronti di un uomo di sessantasei anni (poi deceduto il 23 aprile 2019, in data successiva ai fatti), affetto da disturbi psichici ed in condizioni di minorata difesa e che, anche per questo motivo, era stato individuato quale bersaglio dal gruppo di “bulli” poi sottoposti a custodia.
In particolare, dalle attività investigative si accertava che gli indagati erano soliti organizzare delle vere e proprie spedizioni punitive, principalmente durante le ore notturne, in occasione delle quali si recavano presso l’abitazione della loro vittima - dagli stessi considerato un soggetto insano di mente - per farne fonte di divertimento (calci alla porta dell’abitazione, lancio di pietre alle finestre e percosse). A seguito dell’intervento delle Forze dell’Ordine, richiesto da alcuni vicini di casa in data 5 aprile 2019, la vittima si era finalmente decisa a sporgere denuncia nella quale rappresentava che, già da diversi anni, subiva vessazioni e molestie tanto da averlo indotto a non uscire più da casa, neanche per fare la spesa minima per le proprie necessità.
L’ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere veniva impugnata per erronea valutazione degli indizi di colpevolezza[2] e, soprattutto per quel che ci riguarda, per violazione di legge in relazione alla configurazione del nuovo reato di tortura. Con riferimento a detto ultimo profilo, si riteneva che le condotte contestate non apparivano idonee ad integrare, inter alias, né l’abitualità né il trattamento disumano e degradante o crudele richiesto dall’art.613-bis c.p. e che il trauma psichico della vittima, idoneo ad integrare la fattispecie, doveva essere verificabile su base scientifica.
2. Il delitto di tortura di cui all’art.613-bis c.p. e la “terza via” seguita dal legislatore italiano
Con l’introduzione dell’art. 613-bis c.p. l’Italia ha, finalmente, adempiuto agli obblighi di criminalizzazione e repressione penale del reato di tortura derivanti dalla ratifica della Convenzione dell’ONU del 1984 e dalla Carta Europea dei Diritti dell’Uomo.
Fino all’entrata in vigore della Legge n.110/2017, infatti, la tortura era oggetto di repressione penale in quanto crimine di guerra (art. 185-bis del codice penale militare di guerra) ed entro i suoi limitati ambiti applicativi, con la conseguenza che, a seguito delle note vicende del G8 di Genova, lo Stato italiano era stato condannato numerose volte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[3] per l’inaccettabile lacuna normativa del nostro ordinamento.
Con la sentenza in commento, per la prima volta dalla sua introduzione, i giudici di legittimità forniscono (ancorché in fase cautelare) una completa e dettagliata disamina del reato di tortura, di cui suggeriscono un’interpretazione teleologica e convenzionalmente orientata, in adempimento degli obblighi di cui all’art. 117, co. 1 Cost.
Nell’iter motivazionale traspare, infatti, l’intento della Corte di ampliare l’ambito applicativo della nuova fattispecie, senza tuttavia distaccarsi dalla lettera della norma, sì da superare – quantomeno in un primo stadio applicativo - alcune criticità connesse all’infelice e farraginosa formulazione legislativa. Tale operazione viene realizzata prendendo spunto, oltre che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche da quella nazionale sviluppatasi intorno al reato di atti persecutori (c.d. stalking; sanzionato dall’art. 612 bis c.p.); fattispecie quest’ultima che mostra diverse somiglianze con il neo introdotto reato di tortura. Le affinità tra le due fattispecie di reato si colgono avendo riguardo tanto alla loro struttura (si tratta in entrambi i casi di reati abituali di evento), quanto alla descrizione dell’evento dedotto costituito, in entrambi i casi, dal turbamento psicologico subito dalla vittima (l’evento viene descritto come trauma psichico dall’art. 613-bis c.p. e come grave e perdurante stato di ansia nell’art. 612-bis c.p.).
A tale proposito non appare inopportuno segnalare che nella più recente giurisprudenza di legittimità si è aperta una strada per un’ampia interpretazione dell’art. 612-bis c.p., tanto da ritenerlo configurabile anche nelle ipotesi di bullismo scolastico[4]. Tale evoluzione, invero, non sembra sfuggire alla sentenza in commento, e ciò in considerazione della peculiarità dei fatti oggetto di giudizio che vedono implicati soggetti minori di età, dediti alla realizzazione di condotte tipiche del c.d. bullismo di branco: basti pensare che gli indagati si organizzavano tramite una chat di gruppo al fine di realizzare reiterati atti di violenza tutti diretti verso lo stesso soggetto, in quanto persona insana di mente e quindi considerata incapace di difendersi.
Ciò premesso, appare preliminarmente opportuno procedere ad una breve analisi del reato di tortura ex art. 613-bis c.p., evidenziandone tanto i punti di contatto quanto le discordanze rispetto alle fonti internazionali e convenzionali che parimenti sanciscono il divieto di tortura.
La norma ha introdotto una fattispecie a disvalore progressivo che incrimina tanto le ipotesi di tortura c.d. comune (comma 1), in cui non rileva la qualifica del soggetto agente, quanto quelle di tortura c.d. di Stato (comma 2), commesse da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio. L’art. 613-bis c.p. introduce un reato a forma vincolata (violenze o minacce gravi, crudeltà) con evento naturalistico (acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico); a condotta abituale per talune modalità della condotta (violenze o minacce), ma non per altre modalità di realizzazione (agire con crudeltà), cui si aggiungono due elementi: il reato deve essere commesso mediante più condotte, salvo che non comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
Il delitto in questione si caratterizza per essere ricco di elementi descrittivi che ne delineano la struttura e pertanto - sia per la complessità del dettato normativo sia, ancora oggi, per la mancanza di linee guida dottrinarie o giurisprudenziali uniformi e cristallizzate - si presta a dubbi interpretativi che la sentenza in commento ha cercato di diradare.
Nel dare un quadro generale d’insieme delle caratteristiche del nuovo art. 613-bis c.p. e del contesto giuridico nazionale e sovranazionale all’interno del quale si è inserito, la Cassazione ha sottolineato il carattere innovativo della fattispecie incriminatrice nazionale rispetto alle indicazioni provenienti dalle fonti internazionali e convenzionali. Infatti, se da un lato la Convenzione dell’ONU del 1984 limita la definizione di tortura alle sole ipotesi in cui viene perpetrata dalle autorità statali[5] (cd. tortura di Stato), dall’altro lato l’art. 3 della CEDU gode di una formulazione per certi aspetti più elastica, includendo nella sua definizione la tortura cd. comune ma escludendone quelle forme di trattamento ad essa non parificabili per intensità e/o gravità[6].
Pertanto, la Corte ha rimarcato come il legislatore italiano nella scelta della formulazione dell’art. 613-bis c.p. ha prediletto una terza opzione prevedendo un reato comune (comma 1) a cui si accompagna un aggravamento di pena ove “i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio”. La soluzione adottata appare in linea con la necessità di accordare al reato in esame la massima portata applicativa, anche alla luce della realtà criminologica che dimostra come la tortura, oltre a configurarsi nell’ambito dei rapporti verticali tra Stato e cittadino, possa parimenti assumere una dimensione interprivatistica. D’altronde tale interpretazione appare quella più conforme all’adempimento degli obblighi internazionali e convenzionali oltre che dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo che allarga il divieto di tortura a tutti i soggetti dell’ordinamento a prescindere dalla qualità soggettiva dell’autore della condotta.
Poste queste premesse, la sentenza in commento sembra tenere in considerazione le preoccupazioni avanzate dal Commissario per i diritti umani Nils Muiznieks[7] di un possibile indebolimento della protezione apprestata alla tortura perpetrata da autorità statali in favore della tortura comune, “considering the particularly serious nature of this human rights violation”. Come rilevato dalla Corte, invece, l’art. 613-bis c.p si caratterizza per una più ampia portata applicativa rispetto allo standard minimo di tutela fissato dall’art. 1 della Convenzione dell’ONU del 1984 con la conseguenza che deve escludersi una violazione degli obblighi di incriminazione internazionali da parte del legislatore.
Per quanto più precisamente concerne la qualificazione giuridica del secondo comma dell’art. 613-bis c.p. (“fatti commessi da pubblico ufficiale a incaricato di pubblico servizio”) la Corte ne ha confermato la natura di circostanza aggravante speciale[8]. Detta configurazione non appare, tuttavia condivisa da alcuni commentatori della fattispecie i quali suggeriscono di elevare il dettato del secondo comma a rango di fattispecie autonoma di reato[9]. A favore dell’opzione per il reato proprio si porrebbe, inter alia, la definizione di cui all’art. 1 CAT – che limita l’obbligo di incriminazione ai soli fatti commessi da un pubblico ufficiale o da persona che agisce in sua veste - insieme alla considerazione che l’aggravante sarebbe, come tale, neutralizzabile nell’ambito del giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p.
La soluzione suggerita dalla dottrina non sembra tuttavia in linea con l’intenzione del legislatore, richiamata dalla Corte, che in tal senso è chiara, dato che di “fattispecie aggravate” del reato di tortura parlano i dossier del Servizio Studi della Camera dei Deputati, né lascia dubbi l’analisi dei lavori parlamentari[10]. Il riconoscimento della natura di circostanza ai fatti di tortura commessi da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio appare, altresì, imposto dal rilievo attribuito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione al criterio strutturale per la qualificazione della fattispecie come circostanza o come reato[11]: ove infatti la descrizione dei fatti viene operata mediante rinvio ad altra figura criminosa (come, nel caso di specie, in cui si parla di “i fatti di cui al primo comma”), si deve intendere che ci si trova dinnanzi ad una circostanza.
3. Natura della fattispecie, violenze gravi e trattamento inumano e degradante.
A fronte delle doglianze relative alla mancanza del requisito della abitualità della azione, poiché le condotte contestate non solo non erano connotate da violenza grave ma dovevano altresì essere considerate singolarmente ed isolate l’una dall’altra, la Corte si è dovuta interrogare, innanzitutto, sulla natura del reato di tortura, chiedendosi nello specifico quali debbano essere le caratteristiche delle condotte che tale delitto contempla, quantomeno nella formulazione di cui al primo comma.
Il giudice di legittimità ha ritenuto che la fattispecie di cui all’art. 613-bis c.p. ha natura di reato solo eventualmente abituale, in quanto la reiterazione nel tempo di violenze o minacce gravi non è richiesta ove l’agente agisca con crudeltà ovvero ove il fatto comporti un “trattamento disumano e degradante per la dignità della persona”.
Il focus della decisione ha avuto, altresì, ad oggetto il requisito della gravità della condotta, anche in considerazione della poca chiarezza sul punto nei lavori preparatori della legge 110/2017[12], e sul punto la Corte ha fornito una duplice chiave di lettura, sia sulla interpretazione dell’aggettivo “gravi” sia sul suo riferimento alle violenze o alle sole minacce. La soluzione accolta nella sentenza in commento è stata quella di intenderlo riferito a entrambe le ipotesi, e ciò per due ordini di argomentazioni: da un lato sarebbe difficile, naturalisticamente, ricondurre le acute sofferenze e i verificabili traumi a violenze non connotate dal requisito della gravità e, dall’altro lato, il principio di proporzionalità impone una commisurazione tra l’entità della risposta sanzionatoria (nel caso di specie la reclusione da quattro a dieci anni) e la entità (rectius “gravità”) della condotta delittuosa. Alla luce di tali premesse, la Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente detta ipotesi in considerazione delle sofferenze patite dalla vittima, derivanti da una pluralità di condotte, ognuna di esse connotata da grave violenza - sia sulle cose che sulla persona - oltre che da crudeltà[13].
Altro profilo oggetto di disamina è stato quello del “trattamento inumano e degradante” subito dalla vittima, contestato in sede di impugnazione poiché ritenuto sussistente solo nel caso in cui vengano usate tecniche quale quelle del waterboarding, elettroshock, bruciature e simili.
In proposito appare necessario sottolineare che il reato di tortura previsto dall’art. 613-bis c.p. ha una maggiore portata applicativa rispetto alla formulazione dell’art. 3 CEDU. Il legislatore del 2017, infatti, non ha recepito la distinzione sviluppatasi nella giurisprudenza della Corte EDU che, da sempre, ha escluso dal concetto di tortura in senso stretto quelle condotte che comportano per la vittima “soltanto” un trattamento degradante o disumano. Secondo la ricostruzione proposta dalla Corte di Strasburgo, la differenza risiede nella intensità e nella qualità della sofferenza inflitta: molto grave e crudele nella tortura, di particolare intensità nel trattamento inumano, atta a provocare umiliazione e sofferenza morale nel trattamento degradante.
La Corte di legittimità ha, piuttosto, valutato la peculiarità della nuova fattispecie incriminatrice alla luce dell’esperienza penale internazionale in cui si inserisce e da cui si ricava che la tortura – anche secondo l’interpretazione più evoluta della giurisprudenza convenzionale - deve essere intesa anche sotto il profilo psicologico, non potendosi escludere dalla sua definizione quelle ipotesi in cui la tortura non lascia tracce visibili sul corpo. È infatti innegabile come tali forme di tortura si realizzano tramite l’uso di un sistema di tecniche particolarmente sofisticato volto ad infliggere del dolore[14] e come tale in contrasto con la tutela dell’inviolabilità della persona che l’art.613-bis c.p. intende accordare. Il problema appare assumere particolare rilievo con riguardo alla cd. tortura bianca, che viene eseguita con strumenti ricercati che non lasciano traccia nel corpo, ma che sono comunque in grado di alterare la percezione del torturato fino a procurare stati psicotici[15].
Pertanto nella sentenza in oggetto si sottolinea che il trattamento inumano e degradante risulta integrato anche in quelle ipotesi in cui si verifica una mortificazione o un annientamento di diritti fondamentali della persona che costituiscono il nucleo della sua dignità, dovendosi avere riguardo esclusivo all’esito offensivo - a cui gli aggettivi “inumano” e “degradante” si riferiscono - e non anche al comportamento dell’agente. Il disvalore della condotta, ossia la crudeltà e la gravità delle minacce e delle violenze perpetrate, tuttalpiù dovrà dedursi dalle caratteristiche del caso di specie, da valutarsi anche alla stregua dello scopo dell’atto e delle sofferenze inflitte ed alle condizioni di vulnerabilità e minorata difesa della vittima.
4. Sulla verificabilità del trauma e sulla minorata difesa della vittima
Le condotte come sopra tipizzate devono essere dirette a cagionare “acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico” ad un soggetto che si trova o in condizione di restrizione della libertà personale ovvero in condizione di minorata difesa.
Nel caso di specie sia la sussistenza dell’evento (verificabile trauma psichico) sia la condizione presupposta (minorata difesa) venivano contestate, in particolare ritenendosi che, da un lato, la vittima era già una persona che era solita chiudersi in casa senza dare segni di vita e, dall’altro lato, che la verificabilità del trauma psichico avrebbe dovuto essere compiuta su base scientifica.
Anche sotto questi due aspetti la sentenza in commento fornisce una interpretazione convenzionalmente orientata ed ampliativa della fattispecie.
In relazione alla “precondizione” di minorata difesa, invero, l’art. 613-bis c.p. eleva la condizione di minorata difesa da circostanza aggravante comune (art. 61, n. 5 c.p.) ad elemento costitutivo del reato, che viene posto in chiusura di un elenco di situazioni che, al contrario, presuppongono l’esistenza di un rapporto qualificato tra il soggetto attivo ed il soggetto passivo (“una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”).
La Cassazione, facendo leva su un’argomentazione di carattere letterale, ha constatato che la struttura del dettato legislativo, includendo la minorata difesa tra le caratteristiche del soggetto passivo, suggerisce di volervi ricomprendere anche quelle ipotesi in cui, pur difettando tanto la preventiva privazione della libertà personale quanto il rapporto qualificato tra il soggetto agente e la vittima, quest’ultima si trovi in ogni caso in una situazione di particolare vulnerabilità[16]. La valutazione di tale status, tuttavia, così come già evidenziato nelle decisioni dei giudici EDU, deve essere compiuta alla luce di una adeguata contestualizzazione del comportamento che tenga contro delle circostanze e delle peculiarità proprie, tanto soggettive quanto oggettive, del caso concreto.
La suddetta esigenza di contestualizzazione d’altronde, come notato dalla Corte, era stata già evidenziata in passato dalla giurisprudenza sviluppatasi intorno all’aggravante comune della minorata difesa di cui all’art. 61, n. 5 c.p[17]. Mutuando pertanto le indicazioni provenienti dalla suddetta elaborazione giurisprudenziale, la Corte ha ritenuto che la minorata difesa ricorra quando la vittima non possa opporre resistenza, a fronte della condotta criminosa, a causa di particolari fattori ambientali, temporali o personali, non essendo tuttavia a tal fine necessario che la difesa si presenti impossibile. In tal senso non appare casuale che la Cassazione abbia richiamato proprio quella giurisprudenza estensiva che, sulla base di tali premesse, afferma che ai fini della configurabilità dell’aggravante della minorata difesa è sufficiente che la condotta si compia in orario notturno[18].
Sulla base di tali presupposti, pertanto, la sentenza in argomento ha ritenuto sussistente la condizione della minorata difesa poiché la vittima, non solo veniva tormentato dal gruppo di bulli principalmente durante le ore notturne, ma questi era una persona già affetta da disturbi psichiatrici di cui gli stessi indagati erano consapevoli, posto che nelle loro conversazioni erano soliti chiamarlo “pazzo” e che proprio per tale ragione avevano deciso di prenderlo di mira. La decisione, pertanto, si inserisce all’interno di quel filone interpretativo, sviluppatosi nell’ambito della giurisprudenza convenzionale, che suggerisce di calare la valutazione del comportamento nel contesto circostante sì da tenere in debita considerazione tutte le circostanze del caso, tanto oggettive (orario e luogo dell’azione) quanto soggettive (condizioni fisiche e psichiche, età, sesso, stato di salute della vittima); conseguentemente la portata applicativa del nuovo reato sarà destinata ad ampliarsi o restringersi all’interno delle maglie di una valutazione delle caratteristiche tanto oggettive (orario notturno), quando soggettive (condizioni di vulnerabilità della vittima) del caso concreto.
Per quanto, invece, riguarda l’elemento della verificabilità del trauma psichico, è necessario premettere che già nel corso dell’iter parlamentare che ha condotto all’approvazione dell’art. 613-bis c.p., la Commissione Costituzionale e il Commissario per i Diritti Umani avevano manifestato forte perplessità circa la portata dell’aggettivo “verificabile”. Tale diffidenza trovava concorde anche taluni dei primi commentatori che temevano che potesse essere inteso nel senso di imporre un accertamento del trauma psichico di natura tecnica da espletarsi tramite apposita perizia[19].
La necessità di fornire una adeguata interpretazione del requisito ha spinto la Corte, in via preliminare, ad interrogarsi sul significato da attribuire alla locuzione “trauma psichico” e nella ricerca di una definizione coerente con la ratio incriminatrice della fattispecie, optando per una nozione di tipo tecnico-psicologico. In tale ottica, per i giudici di legittimità, rientra nel concetto di trauma qualsiasi evento che, per le sue caratteristiche, risulta non integrabile nel sistema psichico pregresso della persona, minacciando di frammentarne la coesione mentale. Di talché integra il trauma psichico un evento critico, sotto il profilo psicologico, che si presta ad una rapida soluzione senza che sia necessario che l’esperienza dolorosa si traduca in una sindrome di trauma psicologico strutturato necessariamente idoneo a determinare effetti duraturi.
Fatta questa premessa, come anticipato il reato di tortura presenta forti affinità con il reato di atti persecutori (art. 612-bis c.p.), non solo avuto riguardo al bene giuridico che le due fattispecie incriminatrici intendono tutelare, ma soprattutto in considerazione della struttura dell’evento. In entrambe le ipotesi, infatti, gli eventi (alternativi) previsti fanno riferimento ad un turbamento che si produce nella sfera psicologica del soggetto passivo: il verificabile trauma psichico da un lato ed il perdurante e grave stato d’ansia o di paura dell’altro[20].
Questa affinità normativa non è sfuggita alla Corte di Cassazione la quale, mutuando la giurisprudenza formatasi intorno al reato di atti persecutori, ha relativizzato - e per certi aspetti anche neutralizzato – la portata del requisito della verificabilità del trauma proprio. Sotto un profilo prettamente probatorio, trattandosi di un evento che attiene al “foro interno”, pertanto naturalisticamente insondabile, l’accertamento della ricorrenza del “trauma psichico” non deve essere oggetto di riscontro nosografico o peritale, potendo dedursi da un'accurata osservazione di segni e indizi comportamentali; e ciò in considerazione del fatto che l’evento è integrato anche da un semplice trauma temporaneo, anche non inquadrabile in una categoria predefinita. In tale ottica, assumono fondamentale rilievo “le dichiarazioni della stessa vittima del reato, i suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente, avuto altresì riguardo tanto all’astratta idoneità della condotta a cagionare l’effetto destabilizzante in una persona comune, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui la stessa è stata consumata”. Viene, in conclusione, esclusa la necessità di dovere ricorrere ad un giudizio medico per accertare la sussistenza del trauma psichico poiché una siffatta soluzione porterebbe ad inaccettabili conseguenze nei casi, come quello di specie, in cui la vittima delle violenze o delle minacce deceda nelle more delle indagini, conseguentemente o meno alle condotte lesive perpetrate nei suoi confronti.
Nel rigettare le contestazioni mosse, la Corte ha fatto leva sul precario stato psicofisico in cui era stata rinvenuta la vittima al momento dell’intervento delle forze dell’ordine, a cui era stato per l’appunto ravvisato un trauma psichico riconducibile alla c.d. sindrome da evitamento[21], per tale intendendosi quella “modalità di pensiero che non consente ad un individuo di affrontare una situazione temuta”.
5. Sul concorso di persone nel reato di tortura
Ulteriore ed ultimo passaggio di rilievo affrontato dalla sentenza in commento attiene alla valutazione del contributo concorsuale nella realizzazione della fattispecie criminosa, atteso che tra i responsabili era stato, anche, indicato un soggetto che, oltre a sostenere di essere estraneo ai fatti, non era neanche membro della chat di gruppo tramite la quale venivano coordinate le spedizioni punitive e che la sua partecipazione si era limitata ad un unico episodio.
Sul punto, la Corte non ha esitato ad aderire alla teoria della causalità agevolatrice o di rinforzo del concorso di persone nel reato non restringendo l’ambito applicativo dell’art. 110 c.p. alle sole ipotesi in cui il contributo concorsuale si pone in diretto rapporto causale con la realizzazione del reato. Ormai, infatti, per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, la configurabilità della fattispecie del concorso di persone deve necessariamente estendersi anche a quelle ipotesi in cui la condotta partecipativa realizzi un apprezzabile contributo, sia che esso si esplichi tramite il rafforzamento dell’intento criminoso o tramite l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti. La Corte ha sottolineato come in tali casi il partecipe aumenta comunque le possibilità di riuscita del reato, diminuendo il rischio di insuccesso. È sufficiente quindi che possa rinvenirsi una semplice agevolazione nella attuazione della condotta criminosa, non essendo necessario, affinché si configuri il concorso del partecipe, che il contributo concorsuale si ponga come condicio sine qua non del reato, richiedendosi solo una facilitazione della condotta delittuosa.
Nel caso di specie, la Corte ha evidenziato che la consapevole adesione ai fatti di violenza e crudeltà contestati era stata correttamente dedotta dal giudice della cautela dalla partecipazione dei ricorrenti a più episodi tra quelli in contestazione e dalla adesione degli stessi alla chat di gruppo, all’interno della quale venivano inoltre scambiati i video delle loro “imprese”. Dai suddetti video non solo si evince l’attiva partecipazione degli indagati ma anche la spirale di disperazione in cui versava la vittima e ciò vale a dedurre, altresì, la consapevolezza degli indagati di inserirsi all’interno di una serie reiterata di condotte la cui ripetizione non ha fatto altro che rafforzare l’intento criminoso di ciascuno di loro.
Sempre sulla scia di un’interpretazione ampia dell’art. 110 c.p., e per ciò che più specificatamente concerne la posizione del ricorrente che asseriva di avere preso parte ad un unico episodio dei tre in contestazione, la Cassazione non ha ritenuto che tale circostanza vale ad escluderne la responsabilità concorsuale. In particolare, posta la natura solo eventualmente abituale del reato di tortura, la Corte ha osservato che anche questo unico apporto partecipativo presentava i caratteri dell’agire crudele poiché proprio durante detta scorribanda gli indagati si erano introdotti nell’abitazione della vittima, violentandola e violandone l’unico rifugio dal mondo. Non a caso, a seguito del suddetto episodio, l’uomo si era rinchiuso in casa fino all’arrivo delle forze dell’ordine. Pertanto, anche la partecipazione ad un unico episodio era sintomatica della adesione alla condotta di tortura, collaborando per il miglior esito dell’impresa criminale.
[1] Questo articolo è stato redatto con la collaborazione della Dott.ssa Marta Durante, tirocinante ex art. 73 D.P.R. 69/2013 presso la Procura di della Repubblica di Palermo.
[2] In particolare i ricorrenti lamentavano l’erronea valutazione degli indizi e l’inattendibilità delle fonti di prova dichiarativa – costituite dalle dichiarazioni confessorie di uno dei coindagati – non raffrontate con i contrastanti elementi provenienti dai video acquisiti ed analizzati dai consulenti tecnici e dagli investigatori.
[3] Da ultimo cfr. Corte EDU, sez. I, sent. 22 giugno 2017, Bartesaghi, Gallo e altri c. Italia; Corte EDU, sez. IV, sent. 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia.
[4] Cass. Pen., sez. V, 27 aprile 2017, n. 28623. Nel caso di specie la Corte di Cassazione ha confermando le condanne ex art. 612-bis c.p. inflitte a quattro ragazzi che, all'epoca dei fatti minorenni studenti di un istituto tecnico, avevano preso di mira, per due anni, un compagno di scuola, picchiandolo e insultandolo, a turno, fino a indurlo, dopo essere finito in ospedale, a lasciare la scuola per trasferirsi in Piemonte.
[5] L’art. 1 CAT così recita: << il termine “tortura” designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o si intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad essere inerenti o da esse provocate. 2. Il presente articolo lascia impregiudicato ogni strumento internazionale e ogni legge nazionale che contiene o può contenere disposizioni di portata più ampia.>>.
[6] Ai sensi dell’art.3 CEDU "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti."
[7] Il testo integrale della lettera indirizzata dal Commissario per i diritti umani ai presidenti di Camera e Senato in data 21 giugno 2017 è reperibile sul sito del Consiglio d’Europa, all’indirizzo https://www.coe.int/it/web/commissioner/-/commissioner-muiznieks-urges-italian-parliament-to-adopt-a-law-on-torture-which-is-fully-compliant-with-international-human-rights-standards.
[8] Si specifica che tale ricostruzione è stata confermata dai giudici di legittimità che si sono pronunciati sui ricorsi presentati dagli altri due coindagati maggiorenni: cfr. Cass. Pen., Sez. V, 11 ottobre 2019, n. 50208. Così anche G. Fiandaca – E. Musco, Legge Orlando (disciplina penale). Il nuovo reato di tortura – Aggiornamento redazionale 2017, Zanichelli, Bologna, 15.
[9] Cfr. in proposito F. Viganò, Sui progetti di introduzione del delitto di tortura in discussione presso la Camera dei Deputati. Parere reso nel corso dell'audizione svoltasi presso la Commissione giustizia della Camera dei Deputati il 24 settembre 2014, pubblicato in www.dirittopenalecontemporaneo.it in data 25 settembre 2014; A. Colella, La risposta dell’ordinamento interno agli obblighi sovranazionali di criminalizzazione e persecuzione penale della tortura, in Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc. 2, 1 giugno 2019, pag. 811.
[10] Dossier n. 149/2 del 6 giugno 2017, Schede di lettura; dossier n. 285 del 21 giugno 2017, Elementi per la valutazione degli aspetti di legittimità costituzionale.
[11] Cass. SS. UU., 26 giugno 2002, n. 26351.
[12] Cfr. LL.PP., Dossier n. 149/3, Elementi per l'esame in Assemblea, 23 giugno 2017, p. 2, ove, da un lato, si afferma: «La condotta deve essere stata connotata da almeno uno dei seguenti elementi: violenze, minacce gravi, crudeltà»; dall'altro, si annovera fra i requisiti della fattispecie: «Il requisito della gravità delle violenze e delle minacce». Del resto negli stessi LL.PP. si legge in Dossier n. 285 del 21 giugno 2017, Elementi per la valutazione degli aspetti di legittimità costituzionale, p. 3: «si valuti se la locuzione utilizzata (“violenze o minacce gravi”) consenta di riferire univocamente la gravità anche alle violenze», che riprende le osservazioni formulate dalla Commissione Affari Costituzionali (in sede consultiva), il 22 giugno 2017, circa, in particolare, l'opportunità di chiarire.
[13] Invero, nella ricostruzione dell’impianto accusatorio i ricorrenti, consapevoli della debolezza psichica della loro vittima organizzavano tramite una chat di gruppo delle incursioni - principalmente in orario notturno - in cui aggredivano la loro vittima, ne violavano il domicilio o si appropriavano del suo denaro. Inoltre, come evidenziato dalla Corte, la gravità e la crudeltà dei fatti contestati non venivano meno anche di fronte alla incensuratezza ed alla giovane età degli indagati, i quali agivano senza alcuna motivazione, salvo quella di trarre piacere da azioni dirette ad infliggere sofferenza ad un essere umano approfittando del suo precario stato psico-fisico.
[14] P. Gori, Articolo 3 CEDU. Trattamenti inumani e degradanti, la giurisprudenza della Corte e il suo impatto sul diritto dei detenuti, in L'altro diritto, 2015.
[15] A.Menegatto-M.Zamperini, Violenza e democrazia. Psicologia della coercizione: torture, abusi, ingiustizie, Mimesis, 2016, p. 57: «Per esempio il metodo delle ‘cinque tecniche' è costituito da forme di tortura a distanza che compromettono gravemente le capacità sensoriali, violentando l'udito, la vista, l'orientamento spazio-temporale. Le vittime sono lasciate per lunghe ore isolate in piccole celle, talvolta al buio, in silenzio, al freddo e senza indumenti. La reclusione può essere soggetta a una rotazione in vari luoghi, per impedire al prigioniero di sviluppare una certa famigliarità ambientale. Proprio l'ambiente è sottoposto a sistematiche manipolazioni: arbitraria alternanza di silenzio/rumore, con urla improvvise oppure musica ad alto volume; controllo della luce, anche facendo ricorso all'incappucciamento. L'equilibrio psico-fisico è intaccato alterando il ritmo sonno/veglia: il prigioniero è tenuto perennemente sveglio oppure ridestato improvvisamente agli inizi della fase REM, con musica o rumori lancinanti. La stress-position (essere costretti ad assumere per tempo prolungato determinate posture) provoca dolore acuto a muscoli e articolazioni. L'emozione–arma più usata è la paura, come nel tipico caso di annuncio di esecuzioni sommarie; note a tutti sono le vicende di Abu Ghraib, carcere dove i soldati nordamericani aizzavano cani senza museruola contro prigionieri adolescenti, scommettendo su chi per primo, dal terrore, avrebbe perso il controllo di vescica e sfinteri».
[16] A. Colella, La risposta dell’ordinamento interno agli obblighi sovranazionali di criminalizzazione e persecuzione penale della tortura, in Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc. 2, 1 giugno 2019, pag. 811.
[17] «L’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa».
[18] Cass. Pen., Sez. V, 26 febbraio 2018, n. 20480. In senso parzialmente difforme Cass. Pen., Sez. III, 9 gennaio 2019, n. 733 ha ristretto l’applicazione dell’aggravante a quelle ipotesi in cui, oltre all’orario notturno, sia possibile dedurre ulteriori concrete limitazioni della capacità di difesa sia pubblica che privata.
[19] S. Preziosi, Il delitto di tortura fra codice e diritto sovranazionale, in Cassazione Penale, fasc. 4, 1 aprile 2019, pag. 1766.
[20] A. Colella, La risposta dell’ordinamento interno agli obblighi sovranazionali di criminalizzazione e persecuzione penale della tortura, in Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc. 2, 1 giugno 2019, pag. 811.
[21]Si precisa che la Cassazione fino a questo momento aveva preso in analisi la sindrome da evitamento quale elemento, tra gli altri, da cui dedurre l’incapacità di intendere e di volere dell’agente, e quindi la sua inimputabilità.
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