ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il mare dei diritti umani. Relazioni introduttive
(atti del Convegno di Milano 4 ottobre 2019)
Il 4 ottobre 2019 la Commissione per i diritti umani del Consiglio dell'ordine degli Avvocati di Milano ha organizzato il convegno Il mare dei diritti umani. Uno sguardo tecnico-giuridico sulle vicende del Mediterraneo.
Una giornata di studi di straordinario interesse che ha visto la partecipazione di personalità del mondo forense ed accademico, tutte rivolte a testimoniare il ruolo svolto nella protezione dei diritti che ruotano attorno al “mare”. Testimonianze, esperienze e riflessioni che Giustizia insieme ha considerato di grande rilevanza, tanto da farsi promotrice della pubblicazione dei lavori dell’incontro. L’Avvocata Paola Regina ha con caparbietà reso possibile questa spes, che finalmente si realizza raccogliendo la gran parte degli interventi da destinare ai lettori della Rivista che saranno pubblicati i prossimi lunedì, sulla Rivista.
La sensazione che emerge dalla lettura dei singoli interventi è quella di un nocciolo duro di professionisti forensi votati alla tutela dei diritti fondamentali delle persone più vulnerabili. Anche nelle relazioni introduttive che saranno pubblicate in apertura emerge in modo marcato la centralità della figura dell’Avvocato come garante dei diritti della persona. Un ruolo propulsivo rispetto ai diritti protetti dalle Costituzioni e dalle Carte dei diritti fondamentali che rende il professionista legale artefice e garante dei diritti da reclamare e fare valere dinanzi al giudice, insieme al quale coltiva il desiderio di rendere effettivi, reali e concreti quei diritti “non di carta”.
Gli interventi del Prof. Tullio Scovazzi, ordinario di diritto internazionale presso l'Università degli Studi di Milano-Bicocca, dell’Avvocata Tani, professore in "International Law of the Sea" presso l'Università di Milano-Bicocca, del professore Yasha Maccanico, rappresentate di STATEWATCH, ricercatore presso l'Università di Bristol (UK), cofondatore dell’Osservatorio solidarietà della Carta di Milano, di Daniela Padoan, scrittrice, componente dell'associazione Laudato, dell' avv. Rosa Lo Faro, avvocata di Open Arms e di Sea Eye, unitamente alla Comunicazione inviata al Procuratore della Corte penale internazionale da Omar Schatz, avvocato specializzato in controversie internazionali, contenente elementi di prova relativi ai crimini contro l’umanità commessi da pubblici ufficiali della Unione Europea e degli Stati Membri come parte di un progetto premeditato finalizzato a contenere il flusso migratorio dall’Africa sulla rotta del Mediterraneo centrale danno il senso e la misura di quanto sia stato profondo l’impegno profuso da NGO, difensori delle NGO e dei migranti nella protezione di diritti spesso considerati non diritti.
Oggi vengono pubblicate le relazioni introduttive di Paola Regina, Ileana Alesso e Simona Giannetti.
La Direzione scientifica
IL MARE DEI DIRITTI UMANI
Paola Regina, avvocato internazionalista, componente della Commissione diritti umani del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano, difensore della vittime di violazioni di diritti umani nell’ambito del sistema giuridico internazionale, rappresentante dell’Unione forense per i diritti umani e dell’Osservatorio solidarietà - Carta di Milano.
Ileana Alesso, avvocato amministrativista, componente della Commissione diritti umani del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano, impegnata nei processi a tutela dei Diritti Civili e Politici, già Consigliera di Fiducia dell’Università di Milano-Bicocca e Consigliera Ordine Avvocati Milano, Fondatrice e Presidente di FronteVerso Network.
Simona Giannetti, avvocato penalista, componente della Commissione diritti umani, difensore dei Diritti Fondamentali, membro del Direttivo di Nessuno tocchi Caino, Presidente dell’associazione Sixweeks per il Diritto alla Conoscenza.
Relazione introduttiva di Paola Regina
Da tempo assistiamo alla distorsione degli istituti giuridici nazionali ed internazionali e delle verità processuali relative ad ogni questione giuridica insorgente nell’area del mare Mediterraneo. L’idea di organizzare un convegno scientifico, promosso dalla Commissione diritti umani del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano, sorge dall’esigenza di ribadire il ruolo del diritto nell’ambito della società civile, chiarendo istituti giuridici e verità processuali. Riteniamo che i giuristi abbiano il dovere di assicurare quello standard minimo di garanzie relative all’esercizio da parte di ogni persona dei propri diritti e delle libertà, a presidio dello Stato di Diritto e della Democrazia.
SOMMARIO: 1. Diritto Internazionale del mare. 2. Ambito di applicazione nello spazio dei trattati a tutela dei diritti umani - nozione di giurisdizione in conformità della giurisprudenza CEDU. 3. Principi cardine del diritto internazionale nella recente giurisprudenza. 4. Conclusioni.
1. Diritto Internazionale del mare.
Il mare Mediterraneo, culla antichissima di cultura e civiltà, per via della sua posizione geografica, è al centro, da molto tempo, di un dibattito dilaniante, che ha stravolto, nel linguaggio collettivo, le categorie fondamentali del diritto internazionale.
Il diritto internazionale del mare, infatti, riveste da sempre enorme importanza, non solo per la specifica disciplina degli spazi marini nazionali ed internazionali, ma perché costituisce, da sempre, l’esempio principe di applicazione del diritto internazionale consuetudinario e pattizio. Com’è noto, il diritto internazionale entra nella sfera giuridica nazionale attraverso l’art. 10 e l’art. 117 della Costituzione italiana. Dunque, mentre la norma internazionale consuetudinaria, al momento dell’immissione nell’ordinamento interno assume rango costituzionale, la norma internazionale pattizia assume il rango della norma d’immissione nell’ordinamento italiano. Gli ultimi dati raccolti dalla Organizzazione Internazionale per le Migrazioni mostrano che il numero dei morti nel Mediterraneo, nell’arco del 2019, corrisponde alla metà dei migranti morti in tutto il mondo[1].
Al fine d’inquadrare in modo tecnico e scientifico le tematiche oggetto del presente convegno, è necessario tracciare un quadro sintetico ed esaustivo della normativa vigente nell’ambito del diritto internazionale del mare.
Lo strumento normativo di riferimento è la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS)[2], adottata a Montego Bay il 10 dicembre 1982 ed entrata in vigore sul piano internazionale il 16 novembre 1994, ratificata dall’Italia con Legge 2 dicembre 1994, n. 689.
Com’è noto, la Convenzione di Montego Bay:
1) delimita l’estensione della sovranità territoriale dello Stato sino a 12 miglia dalla costa, chiarendo il regime giuridico applicabile. In particolare, l’art. 2 prescrive letteralmente che “la sovranità dello Stato costiero si estende, al di là del suo territorio e delle sue acque interne e, nel caso di uno Stato-arcipelago, delle sue acque arcipelagiche, a una fascia adiacente di mare, denominata mare territoriale. Tale sovranità si estende allo spazio aereo soprastante il mare territoriale come pure al relativo fondo marino e al suo sottosuolo. La sovranità sul mare territoriale si esercita alle condizioni della presente Convenzione e delle altre norme del diritto internazionale; mentre l’art. 3 delimita l’estensione del mare territoriale, riconoscendo il diritto di ogni Stato di fissare la larghezza del proprio mare territoriale fino a un limite massimo di 12 miglia marine, misurate a partire dalle linee di base determinate conformemente alla presente Convenzione.
2) definisce la c.d. “zona contigua” all’art. 33, disponendo che “in una zona contigua al suo mare territoriale, denominata "zona contigua", lo Stato costiero può esercitare il controllo necessario al fine di: a) prevenire le violazioni delle proprie leggi e regolamenti doganali, fiscali, sanitari e di immigrazione entro il suo territorio o mare territoriale; b) punire le violazioni delle leggi e regolamenti di cui sopra, commesse nel proprio territorio o mare territoriale. La zona contigua non può estendersi oltre 24 miglia marine dalla linea di base da cui si misura la larghezza del mare territoriale.
3) regolamenta il passaggio inoffensivo delle navi all’art. 19, chiarendo che “il passaggio è inoffensivo fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero. Tale passaggio deve essere eseguito conformemente alla presente Convenzione e alle altre norme del diritto internazionale. Il passaggio di una nave straniera è considerato pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero se, nel mare territoriale, la nave è impegnata in una qualsiasi delle seguenti attività: a) minaccia o impiego della forza contro la sovranità, l'integrità territoriale o l'indipendenza politica dello Stato costiero, o contro qualsiasi altro principio del diritto internazionale enunciato nella Carta delle Nazioni Unite; b) ogni esercitazione o manovra con armi di qualunque tipo; c) ogni atto inteso alla raccolta di informazioni a danno della difesa o della sicurezza dello Stato costiero”. Tale disposizione è venuta in rilievo nel recente caso, noto alla cronaca, relativo al passaggio della nave Sea Watch 3, al fine di valutare il carattere “inoffensivo” del passaggio di una nave che trasporta persone soccorse in mare in adempimento degli obblighi internazionali[3].
4) infine, all’art. 98, la Convenzione di Montego Bay statuisce l’obbligo di soccorso in mare, così recitando: “ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più velocemente possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa; c) presti soccorso, in caso di abbordo, all’altra nave, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri e, quando è possibile, comunichi all’altra nave il nome della propria e il porto presso cui essa e immatricolata, e qual è il porto più vicino presso cui farà scalo.” Il secondo comma dell’art. 98 della Convezione di Montego Bay continua, sancendo per ogni Stato costiero l’obbligo di promuovere la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali.
L’obbligo di soccorso in mare è sancito altresì dalla Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione SOLAS)[4], richiede agli Stati parte “…di garantire che vengano presi gli accordi necessari per le comunicazioni di pericolo e per il coordinamento nella propria area di responsabilità e per il soccorso di persone in pericolo in mare lungo le loro coste”. Tali accordi dovranno comprendere l’istituzione, l’attivazione ed il mantenimento di tali strutture di ricerca e soccorso, quando esse vengano ritenute praticabili e necessarie”. Infine, la Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979 (Convenzione SAR)[5] prescrive l’obbligo di “…garantire che sia prestata assistenza ad ogni persona in pericolo in mare… senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze nelle quali tale persona viene trovata” ed a “[…] fornirle le prime cure mediche o di altro genere ed a trasferirla in un luogo sicuro”.
Nell’ambito di questo sintetico quadro giuridico, è necessario inserire il divieto di respingimento sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra[6], nonché i divieti d’espulsione collettiva, sanciti dall’art. 4 del Quarto Protocollo annesso alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo[7] e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che recita letteralmente: “nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene inumane e degradanti”[8].
La Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale[9] ricorda la superiorità gerarchica delle norme di diritto internazionale a protezione dei diritti fondamentali, prescrivendo, all’art. 19, par. 1, che “nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica gli altri diritti, obblighi e responsabilità degli Stati e degli individui derivanti dal diritto internazionale, compreso il diritto umanitario e il diritto internazionale relativo ai diritti dell’uomo, in particolare, laddove applicabili, la Convenzione del 1951e il Protocollo del 1967relativo allo status dei rifugiati e i principio di non respingimento ivi enunciato”.
All’esito di questo sintetico quadro normativo, è utile ricordare che, sulla base dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati[10], titolato «Trattati in contrasto con una norma imperativa del diritto internazionale generale (jus cogens)», è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale, dove, per norma imperativa di diritto internazionale generale si intende una norma che sia stata accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale degli Stati nel suo insieme in quanto norma alla quale non è permessa alcuna deroga e che non può essere modificata che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente lo stesso carattere. Dunque, non vi è dubbio sul fatto il quadro normativo esposto assuma il carattere di norma imperativa inderogabile nell’ambito del sistema giuridico internazionale.
Nella primavera 2018, all’indomani del sequestro della motonave nave della ONG spagnola Proactiva Open Arms, 29 accademici europei hanno sottoscritto un documento scientifico, ponendo in evidenza le violazioni di diritto internazionale che si stavano perpetuando nell’area del Mediterraneo e suggerendo, al contempo, i rimedi internazionalistici da adottare[11].
Si ricorda, altresì, la lettera aperta pubblicata dal gruppo d’interesse di diritto internazionale del mare in data 12 giugno 2018, ove la società scientifica italiana, partendo dai fondamenti giuridici del diritto internazionale del mare e di diritto europeo, si esprime, fornendo un parere tecnico sulle questioni di maggiore interesse, che coinvolgono l’area del Mediterraneo ed il nostro Paese.[12]
2.Ambito di applicazione nello spazio dei trattati a tutela dei diritti umani - nozione di giurisdizione in conformità della giurisprudenza CEDU.
In conformità dell'articolo 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, gli Stati contraenti riconoscono (in inglese “garantiscono") a tutte le persone che ricadano sotto la propria "giurisdizione" i diritti e le libertà elencati nella presente convenzione. Gli Stati contraenti sono obbligati a riconoscere o garantire diritti già propri, già insiti in ogni essere umano, in ogni persona (non in ogni cittadino e quindi a prescindere dallo status della persona). Il requisito della "giurisdizione", in conformità dell'articolo 1, è dunque una condizione sine qua non affinché possa dirsi applicabile la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In mare, è pacifica l’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nelle acque territoriali, ove lo Stato contraente esercita la propria sovranità. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto sussistente la giurisdizione di uno Stato anche nell’ipotesi in cui la nave voglia entrare nelle acque territoriali. Nel caso Women on Waves a altri c. Portogallo[13], la Corte ha ritenuto sussistente la giurisdizione del Portogallo e quindi ha potuto esaminare il caso solo perché il Portogallo aveva impedito, tramite il blocco al limite esterno al mare territoriale, l’esercizio di diritti garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Cosa accade in alto mare, nelle acque internazionali? sulla base di quali criteri si può ritenere applicabile la Convenzione europea dei diritti dell’uomo? Non vi sono dubbi circa la sussistenza della giurisdizione qualora i fatti avvengano su una nave battente bandiera di uno Stato, che ha ratificato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Infatti, nel caso Bakanova c. Lithuania[14], la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto sussistente la giurisdizione lituana per fatti avvenuti su una nave battente bandiera lituana. Data la complessità del tema, si rende necessaria una breve premessa sulla nozione di giurisdizione, alla luce della giurisprudenza della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La nozione di giurisdizione, in conformità della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, deve essere intesa, in senso anglosassone ovvero in senso più ampio, con una valutazione caso per caso[15]. Ciò si comprende agevolmente dalla nota pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo Loizidou c. Turchia, ove la Turchia è stata ritenuta responsabile per gli atti commessi nell’area di Cipro del nord in forza dell’effettivo controllo che esercitava in quella zona[16]. Si tratta, dunque, di un effettivo controllo de iure e de facto, esercitato in un’area geografica al momento della commissione delle violazioni dei diritti fondamentali, sanciti nella CEDU.
A tal proposito, si ricorda il noto Xhavara e altri c. Italia e Albania[17], che aveva ad oggetto un incidente in acque internazionali, in cui la nave italiana ha costretto una nave albanese, carica di persone ad una manovra che l’ha poi portata a ribaltarsi. La condizione di esercizio di effettivo controllo da parte dell’Italia, ha condotto la Corte a ritenere sussistente la giurisdizione ed a ritenere sussistente una responsabilità da parte dell’Italia.
Nel noto caso Medvedyev e altri c. Francia[18], una imbarcazione francese si era impossessata del controllo di una nave per motivi di sicurezza nazionale in acque internazionali, conducendola sino a Brest. In questo caso, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha concluso per la sussistenza della giurisdizione francese, poiché i francesi erano saliti a bordo ed avevano preso il controllo della nave.
A seguito di tale percorso giurisprudenziale, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ampliato lo spazio di applicazione della tutela delle più gravi violazioni dei diritti umani, attuando la cosiddetta “protection par ricochet”, protezione “di riflesso” dei diritti fondamentali. Basti ricordare la sentenza storica Soering c. Regno Unito[19], mediante la quale è stato impedita l’estradizione verso gli Stati Uniti del Sig. Soering, poiché sarebbe andato incontro alla detenzione nel braccio della morte in Virginia, subendo dunque una clamorosa violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il Regno Unito, dunque, consegnando il Sig. Soering agli Stati Uniti avrebbe compiuto una violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che vieta i trattamenti inumani e degradanti.
Nel caso Saadi c. Italia[20], un cittadino tunisino era stato colpito da provvedimento di espulsione da parte delle autorità italiane, poiché sospettato di affiliazione ad organizzazioni terroristiche, nonostante quest’ultimo fosse esposto al rischio di trattamenti inumani e degradanti in Tunisia, in violazione dell’art. 3 CEDU. La Corte ritenne che il rischio di subire trattamenti inumani e degradanti fosse fondato ed attuale, tenendo conto, peraltro, che la Tunisia non aveva fornito garanzie all’Italia in senso contrario. Si ritenne che il provvedimento di espulsione avesse, dunque violato l’art. 3 CEDU.
In questa sede è doveroso ricordare che, mediante la nota sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia del 23 febbraio 2012[21], la Corte europea dei dritti dell’uomo ha condannato all’unanimità l’Italia per la violazione del divieto di sottoporre a tortura e trattamenti disumani e degradanti (art. 3 CEDU), per l’impossibilità di ricorso (art.13 CEDU) e per il divieto di espulsioni collettive (art. 4 IV Protocollo aggiuntivo CEDU). Si tratta del noto caso in cui sulla base degli allora vigenti accordi Italia-Libia, la marina italiana intervenne, riportando le persone in Libia. Secondo la Corte, a partire dal momento in cui sono saliti sulla nave italiana sono stati sottoposti al controllo interrotto de iure e de facto delle autorità italiane che hanno violato il divieto di respingimento in alto mare. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che, sulla base dei Report dei più accreditati Enti internazionali a tutela dei diritti umani (Human rights watch, Amnesty international, Comitato di prevenzione della tortura), le persone riportate in Libia sarebbero state sottoposte a trattamenti inumani e degradanti, in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In mare, dunque, la Convenzione europea dei diritti umani si applica ogniqualvolta la vittima si trovi in uno spazio nel quale lo Stato eserciti, di fatto, diritti sovrani, rilevanti ai fini della CEDU, in conformità del diritto internazionale del mare. Da questa breve disamina della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla sussistenza della giurisdizione degli Stati firmatari della CEDU, si evince in modo molto chiaro uno dei principi cardine della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, consistente nell’obbligo per gli Stati di garantire UNA EFFETTIVA TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI, senza utilizzare lo spazio internazionale, come luogo dove cercare di eludere l’obbligo di rispetto dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione.
3. Principi cardine del diritto internazionale nella recente giurisprudenza.
In questa sede, appare doveroso ricordare il noto caso Cap Anamure, mediante il quale il Tribunale di Agrigento, con sentenza n. 954 del 7 ottobre 2009, ha assolto alcuni pescatori tunisini dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, in applicazione delle norme imperative di soccorso in mare[22]. Le motivazioni della sentenza sono fondate sul divieto respingimento e sull’obbligo di condurre i naufraghi in un “place of safety”, in un luogo sicuro, non nel porto più vicino, sulla base della Convezione SAR. la Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979 (Convenzione SAR).
Si rinviene l’applicazione degli stessi principi di diritto internazionale in diverse recenti pronunce ed in particolare, si ricorda il noto Decreto di rigetto di richiesta di sequestro preventivo della nave Proattiva Open Arms emesso dal Tribunale di Ragusa il 16 aprile 2018[23]. In quella sede, il giudice per le indagini preliminari aveva ricordato che le operazioni di soccorso non si esauriscono con il recupero in mare dei migranti, ma devono completarsi e concludersi con lo sbarco in un luogo SICURO. Per luogo sicuro deve intendersi un luogo dove la vita delle persone non è più minacciata e dove è possibile fare fronte ai bisogni ai loro bisogni fondamentali come acqua, cibo, riparo e cure sanitarie. Il Tribunale di Ragusa continua osservando che a fronte delle informazioni disponibili, la Libia NON è un luogo sicuro in quanto avvengono gravi violazioni dei diritti umani su persone trattenute in centri di detenzione, sottoposte a maltrattamenti, stupri o a lavori forzati. L’esercizio del diritto, in conformità dell’articolo 51 c.p. appare, dunque, di frequente scriminare le ipotesi accusatorie nei confronti delle ONG. Infatti, com’è noto, la disumana realtà dei numerosi centri di raccolta migranti in Libia è stata molto ben descritta dal Report on human rights situation of migrants and refugees in Lybia “Desperate and Dangerous”[24], pubblicato lo scorso 18 dicembre 2018 dall’Alto Commissariato per i diritti umani con il supporto della missione ONU in Libia.Gli orrori dei centri di raccolta e transito dei migranti in Libia sono stati oggetto della nota sentenza della Corte d’Assise del Tribunale di Milano del 10 ottobre 2017, mediante la quale, è stato condannato un torturatore di nazionalità somala, operante nei campi di detenzione libici, riconosciuto da alcune parti offese e consegnato all’autorità giudiziaria italiana. L’imputato, di soli ventiquattro anni, è risultato essere membro di un’organizzazione criminale dedita al traffico di migranti avente carattere transnazionale, tra il 2015 e il 2016 avrebbe concorso a gestire almeno due “campi di transito” situati in Libia, in cui i migranti (in questo caso tutti cittadini somali) venivano imprigionati, torturati e minacciati in attesa del pagamento del prezzo richiesto per raggiungere l’Europa. Il processo si è concluso con la condanna all’ergastolo, con tre anni di isolamento diurno, oltre che alle pene accessorie e al risarcimento dei danni nei confronti delle undici parti civili costituitesi nel giudizio. I gravi delitti che si assumono commessi in danno di centinaia di vittime dal giovane imputato sono: sequestro di persona a scopo d’estorsione aggravato dalla morte di alcuni sequestrati, violenza sessuale e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La sentenza emessa in primo grado è attualmente oggetto d’impugnazione in sede d’appello. Tuttavia, la ben documentata condizione dei campi di detenzione libici appare delineata e definita ormai in modo molto chiaro ed inequivocabile dagli atti processuali. Si ricorda che, in data 3 giugno 2019, è stata presentata una comunicazione alla Corte Penale Interazionale, attestante crimini contro l’umanità commessi dal 2014 al 2019 nell’area del Mediterraneo. In particolare, si deduce la responsabilità penale diretta e indiretta in capo ad alcuni Stati Europei e ad alcuni funzionari o agenti dell’Unione Europea per: 1)Morte per annegamento di oltre 19.000 civili, richiedenti asilo, in fuga da un conflitto armato, 2) Respingimento di 50.000 civili in fuga da zone di conflitto armato, 3) Responsabilità concorsuale per crimini contro l’umanità ed in particolare per deportazione, omicidio, reclusione forzata, riduzione in schiavitù, tortura, stupro, persecuzione di massa[25].
Da ultimo, la recente sentenza del Tribunale di Trapani, resa il 23 maggio 2019 e depositata il 3 giugno 2019 attesta il divieto di respingimenti collettivi e l’inefficacia degli accordi con la Libia in quanto contrari a norme imperative[26]. In particolare, l’attenzione del Tribunale si è concentrata, in particolare, sulla compatibilità con il diritto internazionale del mare, ed in particolare con la Convenzione di Amburgo, del memorandum d’intesa tra Italia e Libia del febbraio 2017. La sentenza fornisce un’ampia ricostruzione del fondamento nel diritto internazionale (consuetudinario e pattizio) del principio di non refoulement e del divieto di tortura, concludendo che “il memorandum Italia-Libia risulta essere privo di validità, in conformità dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, poiché in contrasto con norme imperative di diritto internazionale.
4. Conclusioni
L’esame di parte della giurisprudenza evidenzia una crescente criminalizzazione delle condotte di solidarietà, condotte che, in realtà sarebbero prescritte come obbligatorie sia dal diritto internazionale, che da quello europeo. Infatti, i procedimenti giudiziari avviati nei confronti di associazioni o singole persone solidali, si sono conclusi con l’assoluzione degli stessi, poiché la condotta incriminata risulta sempre scriminata dall’esercizio del diritto. La solidarietà, prevista dall’art. 2 della Costituzione italiana, assume il carattere di principio fondamentale dell’Unione europea, codificato all’art. 80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea[27]. In Francia si è giunti persino a codificare le delit de solidarieté, figura giuridica che è stata di recente oggetto di una pronuncia riformatrice del Conseil Costitutionel[28]. La crescente compressione dei diritti fondamentali in Europa è davvero allarmante. La Commissione diritti umani del Consiglio dell’ordine di Milano si è assunta l’onere di sottolineare e sostenere il potere/dovere di denuncia delle violazioni dei diritti fondamentali da parte dell’avvocatura innanzi alle Corti competenti. A seguito dello studio del fenomeno crescente di criminalizzazione della solidarietà, a Milano è stato creato un Osservatorio sulla criminalizzazione degli atti di solidarietà[29]. Infine, colgo l’occasione per ribadire, in questa sede, l’importanza fondamentale dell’educazione scolastica ed universitaria. Mai come in questo momento storico posso mai smettere di ringraziare la scuola e l’Università, non solo perché mi ha fornito gli strumenti per comprendere la realtà e lavorare, ma soprattutto perché mi consentito di sopravvivere all’orrore davanti alle torture, agli stupri, ai naufragi, alle violenze sui bambini, alla riduzione in schiavitù, senza sentire la necessità di voltarmi dall’altra parte.
Relazione introduttiva di Ileana Alesso
Poche preliminari considerazioni sul senso del convegno a cui molto teniamo come Commissione diritti umani dell’Ordine degli Avvocati di Milano.
Il nostro intento è di rendere un servizio alla verità processuale e storica, in adempimento della funzione sociale della Avvocatura. Non esistono solo avamposti geografici, ci sono anche avamposti professionali. Lo è il nostro, a cui vogliamo fare onore poiché noi non facciamo gli avvocati, siamo avvocati e la frontiera dei diritti passa anche da noi, dal nostro impegno, dalla nostra responsabilità.
Ed è con riferimento alle risultanze processuali, all’accertamento dei fatti e alla responsabilità degli stessi, che preme ricordare una sentenza molto importante, pronunciata dalla Corte di Assise di Milano, Prima Sezione, Presidente dott.ssa Giovanna Ichino. Si tratta della sentenza n. 10, depositata nel dicembre del 2017, che ha svelato attraverso un puntuale accertamento dei fatti, l’orrore della realtà libica dei campi di detenzione e ha portato la stessa magistratura, a paragonarli ai noti lager scoperti con orrore alla fine della seconda guerra mondiale.
“Abbiamo una Auschwitz a 120 miglia dalle coste italiane” ha dichiarato, in una intervista a Rai News 24 lo scorso agosto, il dott. Massimo Del Bene, chirurgo che opera nel reparto chiamato “chirurgia della tortura” dell’Ospedale San Gerardo di Monza dove cercano di porre rimedio agli effetti permanenti della efferatezza subita dai migranti affinché qualcuno di loro possa, forse, recuperare l’uso degli arti. “Noi siamo l’oggettività, noi siamo dei tecnici, non facciamo politica, questi ragazzi devono avere voce, li torturano per anni … E quando si dice ‘li riportiamo indietro’”, conclude il medico, “è come se uno che scappa da Auschwitz tu lo prendi e lo riporti indietro”
E se nel corso della seconda guerra mondiale pochi sapevano dei lager, ora, grazie a questa sentenza recentemente confermata dalla Corte di Assise d’Appello, noi sappiamo, possiamo far sapere, dobbiamo far sapere.
Già abbiamo detto e scritto che ci siamo sempre chiesti come si potessero non notare tutti quei treni che finivano ad Auschwitz, macinando chilometri e chilometri attraverso tutti quei ciechi e laboriosi villaggi. Se oggi ci si vergogna delle leggi razziali –qui nel Palazzo di Giustizia di Milano su lodevole iniziativa del nostro Ordine è stata messa una targa a ricordo dei 106 colleghi ebrei espulsi dalla professione – e oggi (oltre al 27 gennaio di ogni anno che ricorda ciò che è accaduto e che non si può cambiare), abbiamo sentenze come quelle fin qui citate e siamo, quindi, in un’altra situazione.
Noi non siamo a “dopo”, siamo “durante” e quindi anche “prima” dei prossimi imminenti orrori, ed è anche partendo da questa sentenza, e dal libro “L’attualità del male” (*) che ad essa è dedicato, che in questo convegno ci interroghiamo sulla dinamiche a 360° che “attraversano” il Mediterraneo e che debbono interessare la applicazione corretta delle norme nazionali e internazionali secondo quel noto paradigma giuridico che, come giuristi, abbiamo appreso fin dalla primi anni di Università: il principio della gerarchia delle fonti, richiamato fortemente dai giudici di merito in occasione dei noti fatti della scorsa estate “calda”.
Una battuta finale sul senso del convegno, attingendo a quelle norme che fanno parte costitutiva della nostra professione e del nostro essere nel mondo. Mi riferisco alla Dichiarazione universale dei diritti umani non solo nel suo, importante, articolato normativo bensì, al suo meno valorizzato preambolo: laddove, in relazione al “riconoscimento della dignità” degli esseri umani specifica trattarsi “della dignità inerente tutti i membri della famiglia umana”.
Quel riferimento alla “famiglia umana” continua a colpirci e a rincuorarci per l’orizzonte e la limpidezza del pensiero che l’accompagna e che consente di porlo al vertice delle norme, di diritto positivo, nella gerarchia delle fonti.
* Libro collettaneo a cura di Maurizio Veglio, ASGI -Associazione per gli studi giuridici sulla immigrazione- EdizioniSEB27
Relazione introduttiva di Simona Giannetti
Il contributo, passando attraverso la Costituzione come Carta dei Diritti Fondamentali e dunque viva nello Stato di Diritto, entra nel tema del ruolo del difensore dei Diritti Umani come riconosciuto dalle Nazioni anche nella Carta dei Diritti Umani del 9 dicembre 1998, quella che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato per consensu,“Dichiarazione sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi delle società di promuovere e proteggere le libertà fondamentali e i diritti umani universalmente riconosciuti”. Nel dare spazio al singolo come difensore dei Diritti Umani, si affronta la figura del Relatore Speciale che l’ONU ha istituito: è di questa figura e dell’attenzione che ha dato alle donne che si occupano della difesa dei diritti umani, che si tratta anche con riguardo alle categorie e ai rischi che sono certamente maggiori di quelli corsi dagli uomini per diverse ragion. E a partire dal singolo, che si fa protettore dei diritti fondamentali, si giunge a discutere ed a riconoscere quanto la figura dell’avvocato non possa abdicare da questo ruolo, almeno perché ne ha gli strumenti e le occasioni.
Il Convegno di oggi parla di Costituzione. Quando si parla di Costituzione occorre anche ricordarsi che qualcuno, della nostra Costituzione, dovrà pure occuparsi: perché, la nostra Costituzione non è solo la “Costituzione di carta”, la Costituzione vive e lo fa nei Diritti e nelle garanzie degli individui. E questo poi altro non è che l’espressione dello Stato di Diritto. Se vogliamo essere uno Stato di Diritto, dobbiamo fare in modo che questo sia effettivo. A questo proposito mi è venuta in mente una risoluzione del 9 dicembre 1998, che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato per consensu. Si intitola : “Dichiarazione sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi delle società di promuovere e proteggere le libertà fondamentali e i diritti umani universalmente riconosciuti”; è anche detta la Carta dei Diritti Umani. Quello che ci dice questa Carta è che ognuno di noi, in quanto individuo e parte dello Stato di Diritto, ha la responsabilità di promuovere e proteggere le libertà fondamentali e i diritti umani. E allora mi sorge una domanda: ma forse l’avvocato non ha una responsabilità maggiore nella protezione dei diritti fondamentali, nel momento in cui è colui che ha a disposizione gli strumenti, ma anche ha l’occasione di poter esercitare questa protezione? L’occasione è proprio quella, in cui noi avvocati ci presentiamo dinnanzi alle giurisdizioni: è quella in cui possiamo non fare, ma essere un avvocato, se vogliamo essere i difensori dei diritti fondamentali della nostra Costituzione, e ancora prima della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Le Nazioni Unite tengono cosi tanto a questo aspetto, di riconoscere coloro che si fanno parte attiva come individui singoli o come gruppi nella società civile per la protezione dei diritti umani, che hanno previsto un Relatore Speciale. Si tratta di un membro a sé, indipendente ed esperto su un tema, che lavora in gruppo su procedure speciali dietro mandato del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite: ha il compito di occuparsi di coloro che hanno agito nella difesa dei Diritti Umani, con un mandato “ per indagare, monitorare e riferire su questioni relative a diritti umani”. Nel marzo 2019, in occasione della quarantesima sessione del Consiglio Diritti Umani della Nazioni Unite, lo Special Rapporteur sulla situazione dei difensori dei diritti umani, allora Michael Forst, ha presentato il suo rapporto annuale dedicandolo alle donne difensori dei diritti umani: il Relatore Speciale, analizzando il periodo successivo al 2011 – dopo l’ultimo rapporto – si è concentrato sui rischi e gli ostacoli di genere che le donne difensori dei diritti umani affrontano in più rispetto agli uomini, anche considerando l’impatto che hanno con le ideologie, i fondamentalismi, la militarizzazione. Ha segnalato il Relatore speciale che, tra le altre, ci sono avvocatesse per i diritti umani che rappresentano le vittime in tribunale, giornaliste che espongono questioni di interesse pubblico, donne nelle organizzazioni senza scopo di lucro o in quelle intergovernative : tutte sono molto più esposte degli uomini e le prime ad essere generalmente attaccate. E allora come non ricordare, in questa Aula Magna a proposito di donne impegnate nella difesa dei diritti umani, l’avvocata Nasrin Sotoudeh, oggi incarcerata e condannata alla pena di 38 anni di carcere e 148 frustate in Iran per aver difeso il diritto al dissenso. Io vorrei concludere con questo auspicio per tutti, qui oggi avvocati: che ogni di noi voglia essere guardiano dei Diritti, voglia essere uno di quei singoli individui che, secondo la Carta dei Diritti Umani si occupa di proteggerli, perché questo è un compito da cui non possiamo abdicare, avendone gli strumenti e le occasioni. Del resto se non avessimo adito le giurisdizioni nazionali e sovranazionali non avremmo mai avuto l’introduzione di reati come la tortura in Italia o non avremmo ottenuto sentenze della Cedu, che solo grazie all’intervento di singoli avvocati, tutori dei diritti fondamentali, sono approdate con le questioni rilevanti davanti alla giurisdizioni superiori, che hanno potuto proteggere le nostre garanzie costituzionali. E oggi allora parliamo di alcuni di questi Diritti Umani, che sono quelli che coinvolgono le persone nel mare. E anche di chi li protegge e se ne occupa.
[1] https://missingmigrants.iom.int
[2] https://www.un.org/depts/los/convention_agreements/texts/unclos/UNCLOS-TOC.htm
[3] http://www.sidiblog.org/2019/06/26/tutela-della-sicurezza-o-violazione-del-diritto-del-mare/
[4] http://www.imo.org/en/About/conventions/listofconventions/pages/international-convention-for-the-safety-of-life-at-sea-(solas),-1974.aspx
[5] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2001/05/25/001A5029/sg
[6] https://www.unhcr.it/wp-content/uploads/2016/01/Convenzione_Ginevra_1951.pdf
[7] https://www.echr.coe.int/Documents/Convention_ITA.pdf
[8] https://www.europarl.europa.eu/charter/pdf/text_it.pdf
[9] https://www.unodc.org/pdf/crime/a_res_55/res5525e.pdf
[10] http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=20041101120858
[11] https://rwi.lu.se/app/uploads/2018/03/Open-Arms-statement-def.pdf
[12] https://sidigimare.wordpress.com
[13] Women on Waves c. Portogallo (ric. n. 31276/05 – sentenza del 3 febbraio 2009); http://www.sidi-isil.org/wp-content/uploads/2010/02/DUDI-1.2010-Papanicolopulu.pdf
[14] Bakanova v. Lithuania (ric. n 11167/12 – sentenza del 31 maggio 2016), http://en.efhr.eu/2017/01/18/case-bakanova-v-lithuania-no-1116712-2016/.
[15] Cfr. De Sena - La nozione di giurisdizione statale nei trattati sui diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore -Torino.
[16] Loizidou c. Turchia (questioni preliminari) (ric. n. 15318/89)
[17] Xhavara e altri c. Italia e Albania (ric. n. 39473/98)
[18] Medvedyev e a. c. Francia ([GC], ric. n. 3394/03);
http://www.sidi-isil.org/wp-content/uploads/2010/02/DUDI-1_2009-Trevisanut.pdf
[19] Soering c. Regno Unito (sentenza resa il 7 luglio 1989)
[20] Saadi c. Italia [GC], ric. n. 37201/06
[21]https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.wp?facetNode_1=0_8_1_60&previsiousPage=mg_1_20&contentId=SDU743291
[22] Vassallo Paleologo, Il caso Cap Anamour, assolto l’intervento umanitario e oggi? in https://www.a-dif.org/2018/03/19/il-caso-cap-anamur-assolto-lintervento-umanitario-e-oggi/
[23] http://questionegiustizia.it/articolo/dissequestrata-la-nave-open-arms-soccorrere-i-migranti-non-e-reato_19-04-2018.php
[24] https://www.ohchr.org/Documents/Countries/LY/LibyaMigrationReport.pdf
[25] https://www.statewatch.org/news/2019/jun/eu-icc-case-EU-Migration-Policies.pdf
[26] https://www.penalecontemporaneo.it/d/6754-la-legittima-difesa-dei-migranti-e-lillegittimita-dei-respingimenti-verso-la-libia-caso-vos-thalassa
[27] http://www.europarl.europa.eu/thinktank/it/document.html?reference=IPOL-LIBE_ET%282011%29453167
[28] http://www.questionegiustizia.it/articolo/il-conseil-constitutionnel-cancella-il-delit-de-so_07-09-2018.php
[29] https://www.amnesty.it/nasce-losservatorio-carta-milano-la-solidarieta-non-reato/
Il regime della “circolazione” delle intercettazioni dopo la riforma
Gaetano De Amicis
Sommario: 1. Il recente intervento nomofilattico delle Sezioni Unite. – 2. Il contrasto giurisprudenziale: i tre diversi orientamenti della giurisprudenza di legittimità. - 3. Le critiche mosse dalle SS.UU. ai diversi indirizzi giurisprudenziali. – 4. Il contenuto del decisum delle Sezioni Unite. – 5. Le tre regole connesse all’affermazione del principio. – 6. Il fondamento “costituzionale” della soluzione indicata dalla Suprema Corte. – 7. Le implicazioni del confronto con la giurisprudenza convenzionale. – 8. La diversa disciplina della utilizzabilità dei risultati acquisiti con il captatore informatico: problemi e prospettive.
1. Il recente intervento nomofilattico delle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. n. 51 del 28 novembre 2019, ric. Cavallo) hanno risolto un risalente contrasto giurisprudenziale, fissando alcuni punti fermi in materia di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni per i reati non rientranti fra quelli indicati nel decreto di autorizzazione del giudice.
La questione sottoposta all’esame della Suprema Corte atteneva alla corretta interpretazione dell’art. 270, c. 1, c.p.p., il quale esclude l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni «in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza».
Occorreva, in particolare, determinare l’esatta portata della nozione di «procedimenti diversi», al fine di stabilire se ed entro quali limiti, come sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità prevalente e dalle stesse Sezioni Unite in una precedente pronuncia (Sez. Un., 26 giugno 2014, n. 32695, Floris), essa si riferisse ai reati non oggetto della intercettazione ab origine disposta e che, privi di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con quelli invece già oggetto di essa, fossero emersi dalle stesse operazioni di intercettazione.
La questione di diritto in relazione alla quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è stata così sintetizzata: «se il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le intercettazioni siano state disposte, di cui all'art. 270 cod. proc. pen., riguardi anche i reati non oggetto della intercettazione ab origine disposta e che, privi di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con quelli invece già oggetto di essa, siano emersi dalle stesse operazioni di intercettazione.»[1].
2.Il contrasto giurisprudenziale: i tre diversi orientamenti della giurisprudenza di legittimità
A) Il primo orientamento, maggioritario, faceva leva, nella definizione della nozione di "procedimento diverso" di cui all'art. 270, comma 1, cod. proc. pen., su un criterio di natura - almeno tendenzialmente - sostanzialistica. Sin dalle pronunce più risalenti, i profili essenziali dell'orientamento sono stati messi a fuoco dalla giurisprudenza di legittimità: la nozione di "procedimento diverso" non coincide con quella di "diverso reato" (ex plurimis v. Sez. 6, n. 1972 del 16/05/1997, Pacini Battaglia, Rv. 210044 e, più di recente, Sez. 3, n. 52503 del 23/09/2014, Sarantsev, Rv. 261971; Sez. 2, n. 43434 del 05/07/2013, Bianco, Rv. 257834), essendo la prima più ampia della seconda; né la nozione di "procedimento diverso" può essere ricollegata a un dato di ordine meramente formale, quale il numero di iscrizione nell'apposito registro della notizia di reato (cfr. Sez. 6, n. 1972 del 1997, Pacini Battaglia, e, più di recente, Sez. 2, n. 27473 del 29/05/2014, Lo Re), posto che la formale unità dei procedimenti, sotto un unico numero di registro generale, non può fungere da schermo per l'utilizzabilità indiscriminata delle intercettazioni, facendo convivere tra di loro procedimenti privi di collegamento reale (Sez. 3, n. 33598 del 08/04/2015, Vasilas); decisivo, invece, è il riferimento al contenuto della notizia di reato, ossia al fatto-reato in relazione al quale il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale (Sez. 6, n. 5192 del 25/02/1997, Gunnella, Rv. 209306; Sez. 3, n. 29856 del 24/04/2018, La Volla, Rv. 275389).
Il legame tra la notizia di reato in relazione alla quale è stata autorizzata l'intercettazione e quella emersa dai risultati dell'intercettazione che, se riconosciuto, esclude la diversità dei procedimenti e, con essa, il divieto di utilizzazione di cui all'art. 270, comma 1, cod. proc. pen., è delineato facendo riferimento ad indagini strettamente connesse e collegate sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico al reato alla cui definizione il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato (v., ad es., Sez. 6, n. 2135 del 10/05/1994, Rizzo, Rv. 199917 e, più di recente, Sez. 5, n. 26693 del 20/01/2015, Catanzaro, Rv. 264001; Sez. 3, n. 28516 del 28/02/2018, Marotta, Rv. 273226, nonché Sez. 2, n. 19730 del 01/04/2015, Vassallo, Rv. 263527), non potendosi risolvere nell'esistenza di un collegamento meramente fattuale ed occasionale (Sez. 3, n. 2608 del 05/11/2015, dep. 2016, Pulvirenti, Rv. 266423), ma essendo necessaria la sussistenza di una connessione ex art. 12 cod. proc. pen. ovvero di un collegamento ex art. 371, comma 2, lett. b) e c), sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico (Sez. 6, n. 6702 del 16/12/2014, dep. 2015, La Volla, Rv. 262496; Sez. 3, n. 33598 del 08/04/2015, Vasilas).
A questo primo orientamento ha in precedenza aderito anche Sez. U, n. 32697 del 26/06/2014, Floris (che affrontò il tema qui di interesse in via solo pregiudiziale rispetto alla questione relativa alle condizioni per ritenere l'intercettazione utilizzabile in quanto corpo del reato, ma non esaminò i vari indirizzi formatisi sulla questione controversa oggi in esame, né collocò la stessa nel quadro costituzionale di riferimento).
B) Il secondo orientamento, invece, valorizzava l'inerenza delle risultanze relative a reati diversi da quelli oggetto del provvedimento autorizzativo al medesimo procedimento in cui il mezzo di ricerca della prova fosse stato disposto: in questa prospettiva si è affermato che, qualora l'intercettazione sia legittimamente autorizzata all'interno di un determinato procedimento concernente uno dei reati di cui all'art. 266 cod. proc. pen., i suoi esiti sono utilizzabili anche per gli altri reati di cui emerga la conoscenza dall'attività di captazione, mentre, nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso ab origine, l'utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri indicati espressamente dall'art. 270 cod. proc. pen., e, cioè, all'indispensabilità ed all'obbligatorietà dell'arresto in flagranza (in tal senso v. Sez. 2, n. 9500 del 23/02/2016, De Angelis, Rv. 267784; Sez. 5, n. 26817 del 04/03/2016, Iodice, Rv. 267889; Sez. 6, n. 41317 del 15/07/2015, Rosatelli, Rv. 265004; Sez. 4, n. 29907 del 08/04/2015, Della Rocca, Rv. 264382). Il dato dell'unitarietà iniziale del procedimento segna, dunque, nella prospettiva del secondo orientamento, il limite dell'operatività del divieto di utilizzazione ex art. 270, comma 1, cod. proc. pen.: infatti, «sia la lettera che il contesto sistematico in cui si collocano gli artt. 266 e 270 cod. proc. pen. dimostrano che il legislatore si è posto il problema della utilizzazione dei risultati di intercettazioni legittimamente disposte per uno dei reati indicati nell'art. 266 c.p.p., trattando esplicitamente solo il caso dell'utilizzazione extra-procedimento e tuttavia riconoscendo in quel caso la possibilità di utilizzazione secondo parametri diversi da quelli indicati nell'art. 266 c.p.p.» (Sez. 6, n. 49745 del 04/10/2012, Sarra Fiore, Rv. 254056), sicché «ove le notitiae criminis riferite alle diverse figure di reato abbiano origine nell'ambito dello stesso procedimento, ancorché diano luogo a distinte iscrizioni nel registro di cui all'art. 335 cod. proc. pen. ed alla germinazione di altri procedimenti, il richiamo all'art. 270 cod. proc. pen. è del tutto fuorviante» (Sez. 6, n. 21740 del 01/03/2016, Masciotta, Rv. 266921).
C) Secondo un terzo orientamento interpretativo, più risalente nel tempo e più restrittivo nel legittimare l'utilizzazione probatoria dei risultati dell'intercettazione, al di fuori dei casi tassativamente indicati nell'art. 270 cod. proc. pen. non è consentita l'utilizzazione in un procedimento penale delle risultanze emerse da intercettazioni telefoniche disposte in altro procedimento, neppure quando i due procedimenti siano strettamente connessi sotto il profilo oggettivo e probatorio (Sez. 3, n. 9993 del 03/07/1991, Cerra, Rv. 188356): in contrapposizione al primo orientamento, si è osservato che la nozione di "diverso procedimento" ex art. 270, comma 1, cod. proc. pen. va ricollegata «al dato della alterità o non uguaglianza del procedimento, in quanto instaurato in relazione ad una notizia di reato che deriva da un fatto storicamente diverso da quelli fatto oggetto delle indagini relativi ad altro, differente, anche se connesso, procedimento», sicché ricomprendere in essa la connessione o il collegamento dei procedimenti comporterebbe «la sostanziale elusione del divieto in detta disposizione sancito dal legislatore» (Sez. 4, n. 4169 del 11/12/2008, dep. 2009, Mucciarone, Rv. 242836).
D) Comune al primo e al secondo orientamento è la registrata divaricazione sul punto relativo alla necessità o meno che il reato emerso nel corso dell'intercettazione rientri nei limiti di ammissibilità dettati, in particolare, dall'art. 266 cod. proc. pen.
Proprio in tale prospettiva le SS.UU. hanno ritenuto di affrontare preliminarmente siffatto nodo problematico, evidenziando come la soluzione del relativo quesito contribuisse a definire la stessa portata della questione controversa rimessa alla cognizione delle Sezioni Unite.
Al quesito è stata data risposta affermativa sul rilievo che “l'indiscriminato, in quanto svincolato dall'osservanza dei limiti di ammissibilità previsti dalla legge, allargamento dell'area dei reati per i quali – in presenza delle condizioni delineate, rispettivamente, dal primo e dal secondo orientamento - sarebbero utilizzabili i risultati delle intercettazioni incrinerebbe il bilanciamento tra i valori costituzionali contrastanti (il diritto dei singoli individui alla libertà e alla segretezza delle loro comunicazioni, da una parte; dall'altra, l'interesse pubblico a reprimere i reati e a perseguire i loro autori) che è assicurato dall'art. 270 cod. proc. pen.: bilanciamento garantito, prima di tutto, dalla riserva assoluta di legge, che, da un lato, comporta la fissazione di limiti di ammissibilità per l'autorizzazione del mezzo di ricerca della prova e, dall'altro, impone al legislatore di individuare i reati "ulteriori" rispetto ai quali riconoscere l'utilizzabilità probatoria dei risultati dell'intercettazione in un ambito ben definito, ossia «limitatamente all'accertamento di una categoria predeterminata di reati presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale» (Corte cost., sent. n. 63 del 1994).”.
3.Le critiche mosse dalle SS.UU. ai diversi indirizzi giurisprudenziali
3.1 Nella prospettiva seguita dalle SS.UU., il secondo orientamento non può essere condiviso poichè finisce per ancorare la nozione di “diverso procedimento” a un dato formalistico, ossia l’originaria iscrizione del reato all’interno dello stesso numero di registro generale delle notizie di reato.
Questa soluzione, da un lato, non trova riscontro nel codice di rito (che non fornisce una nozione univoca di “procedimento” tale per cui si possa con certezza identificarlo nel c.d. “fascicolo”) e, dall’altro, non è idonea a garantire il rispetto dei principi costituzionali che governano la disciplina delle intercettazioni (cfr. punto 9 del considerato in diritto).
Si evidenzia, infatti, che, «svincolata da qualsiasi legame sostanziale tra il reato per il quale il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato e l’ulteriore reato emerso dai risultati della intercettazione, la definizione della portata del divieto probatorio ex art. 270 co. 1, cod. proc. pen. viene, in buona sostanza, schiacciata sul “contenitore dell’attività di indagine” e, di conseguenza, delineata sulla base di fattori relativi alla “sede” procedimentale (unitaria o separata) del tutto casuali» e si presenta, dunque, incompatibile «con la portata dell’autorizzazione giudiziale delineata dall’art. 15 Cost.» (punto 9 del considerato in diritto).
3.2.Il terzo orientamento, che fa leva sulla nozione di “procedimento” come sinonimo di “reato”, inteso quale fatto storicamente determinato (ossia, tanti procedimenti quante sono le iscrizioni ex art. 335 c.p.p.), delinea una equiparazione che, oltre a non essere suffragata dal codice di rito (che da par suo non accoglie una definizione univoca di “procedimento”), porterebbe a conseguenze paradossali, come quella di ritenere “diverso procedimento” «quello iscritto nei confronti di una persona nota per un certo reato a seguito delle intercettazioni disposte in un procedimento contro ignoti per quel medesimo fatto-reato», oppure «quello nuovamente iscritto a seguito di riapertura delle indagini ex art. 414, comma 2, cod. proc. pen.» (punto 10 del considerato in diritto).
D’altro canto, è lo stesso legislatore ad avere distinto, all’interno dell’art. 270 c.p.p., le nozioni di “procedimento” e “reato”: infatti, quando con l’introduzione del comma 1-bis, ad opera del d.lgs. n. 216/2017, ha voluto ulteriormente limitare l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, giustificata dalla particolare intrusività del mezzo utilizzato (il «captatore informatico su dispositivo elettronico portatile»), ha fatto espresso riferimento a «reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione» e non a «procedimenti diversi» da quelli in cui sono state autorizzate.
È quindi evidente che le due nozioni non possono coincidere.
3.3. Le Sezioni Unite, invece, condividono sostanzialmente «l’impostazione di fondo del primo orientamento», che valorizza una nozione sostanziale di “diverso procedimento”, ancorata alla sussistenza o meno di un nesso fra i reati successivamente emersi e quello (o quelli) oggetto di originaria autorizzazione (cfr. punto 11 del considerato in diritto).
Tuttavia se ne discostano perché – secondo le ragioni più avanti illustrate - ritengono che tale nesso non possa essere integrato, senza violare i principi e le garanzie costituzionali alla base dell’istituto, nelle ipotesi di collegamento investigativo previste dall’art. 371, comma 2, lett. b) e c), c.p.p.
Le ipotesi ivi previste, infatti, rispondono a, del tutto occasionali, «esigenze di efficace conduzione delle indagini» e non «presuppongono quel necessario legame originario e sostanziale» che consentirebbe di ricondurre anche il reato oggetto di collegamento investigativo all’originaria autorizzazione (punto 11.2 del considerato in diritto).
3.4.Va infine osservato che la Corte non dà rilievo nelle sue argomentazioni al profilo della pretesa equazione procedimento/reato, sia in ragione delle non univoche indicazioni codicistiche, sia, soprattutto, in quanto la ritiene smentita, proprio sullo specifico terreno della disciplina delle intercettazioni, dal comma 1-bis dell'art. 270 cod. proc. pen. (introdotto dall'art. 4, d. Igs. 29 dicembre 2017, n. 216), lì dove stabilisce che i risultati delle intercettazioni operate con un captatore informatico su dispositivo elettronico portatile «non possono essere utilizzati come prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione» (salvo, anche qui, che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza).
Il significato normativo del riferimento al "reato" e non già al "procedimento" è volto a distinguere il regime di utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni. Solo per il captatore informatico - e, dunque, non per le intercettazioni, per così dire, "tradizionali" - tale regime viene (a parte i casi di reati per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza) delineato con riguardo al "reato" per il quale è intervenuto il provvedimento autorizzatorio: distinzione, questa, che, smentisce il presupposto sul quale si basa il terzo orientamento.
4. Il contenuto del decisum delle Sezioni Unite
La soluzione ermeneutica individuata dalle Sezioni Unite con la richiamata sentenza restringe l’ambito di operatività del divieto di utilizzazione di cui all’art. 270, c. 1, c.p.p.
Secondo la Corte, infatti, quest’ultimo non opera «con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 cod. proc. pen. a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge».
Con riguardo a tali reati, pertanto, non sarà necessaria la verifica del carattere “indispensabile” dei risultati delle intercettazioni ai fini dell’accertamento di delitti per i quali l’arresto in flagranza di reato è previsto come obbligatorio.
Le Sezioni Unite, aderendo all’orientamento maggioritario, hanno privilegiato una nozione sostanziale e strutturale di “diverso procedimento”, rispetto alla quale risulta privo di rilevanza l’aspetto estrinseco e formale del numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato (ritenuto invece decisivo dall’opposto filone interpretativo). Diversamente dalla giurisprudenza prevalente, tuttavia, la Suprema Corte non ha inteso valorizzare qualunque tipo di nesso sul piano oggettivo, probatorio o finalistico, ma esclusivamente la connessione stricto sensu intesa tra procedimenti, la quale ricorre nelle ipotesi tipizzate dall’art. 12 c.p.p.
Soltanto in quest’ultimo caso, infatti, può essere ravvisato quel “legame sostanziale” tra il reato in relazione al quale il provvedimento autorizzativo all’intercettazione è stato emesso ed il reato emerso grazie ai risultati di tale operazione captativa che rende «quest’ultimo reato riconducibile al provvedimento autorizzatorio e, dunque, in linea con i principii ricavabili dall’art. 15 Cost.», che a sua volta, come affermato dalla stessa Corte costituzionale (Corte cost., 4 aprile 1973, n. 34; Corte cost., 11 luglio 1991, n. 361), vieta la possibilità di rilasciare “autorizzazioni in bianco”.
Il nesso che lega i procedimenti fra i quali è ravvisabile la connessione ex art. 12 c.p.p. si fonda infatti sull’identità, totale o parziale, della regiudicanda oggetto di ciascuno di essi: un nesso, questo, che consente di riscontrare un «legame oggettivo tra due o più reati», del tutto indipendente dalla vicenda procedimentale.
La connessione ex art. 12 cod. proc. pen. costituisce un riflesso della connessione sostanziale dei reati: con specifico riferimento all’ipotesi di connessione di cui alla lett. c) dell'art. 12 cit., in particolare, si è rilevato come essa si fondi su un «legame oggettivo tra due o più reati» (Sez. U, n. 53390 del 26/10/2017, Patroni Griffi, Rv. 271223), un legame, dunque, indipendente dalla vicenda procedimentale. Analoga connessione sostanziale - prima ancora che processuale - sussiste in presenza, oltre che di un concorso formale di reati, di un reato continuato (lett. b), in considerazione del requisito del medesimo disegno criminoso, per la cui integrazione è necessario «che, al momento della commissione del primo reato della serie, i successivi fossero stati realmente già programmati almeno nelle loro linee essenziali» (Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074).
Non è possibile, al contrario, giungere alle medesime conclusioni con riguardo alle ipotesi di collegamento investigativo di cui all’art. 371, c. 2, lett. b), c.p.p., ove il nesso è di carattere meramente “occasionale”, intercorrendo «non già tra il reato in riferimento al quale è stata emessa l'autorizzazione e quello messo in luce dall'intercettazione, ma tra le "conseguenze" del primo e il secondo». Con riferimento a tali diverse evenienze procedimentali, dunque, i risultati delle intercettazioni potranno essere impiegati soltanto al fine di desumere notizie di reato e di procedere alla raccolta di nuovi ed autonomi elementi di prova da porre a fondamento dell’azione penale: tale modalità di impiego, infatti, non rientra nella sfera di operatività del divieto posto dall’art. 270, c. 1, c.p.p.
La linea ermeneutica tracciata dalla Corte con questo importante arresto giurisprudenziale segna indubbiamente un punto di svolta là dove sottolinea l’esigenza che i risultati delle intercettazioni possono essere utilizzati solo per i reati connessi per i quali la legge consente l’attività di captazione, ossia per quei reati che figurano nel catalogo previsto dall’art. 266 c.p.p., incidendo significativamente, in tal modo, sull’impostazione delle attività d’indagine relative all’accertamento di fattispecie associative, nelle ipotesi in cui i reati-fine non siano ricompresi nella norma generale (art. 266, co. 1, cit.) che individua i limiti normativi di ammissibilità della captazione[2].
Entro tale prospettiva è evidente che potranno essere valorizzate sul piano applicativo, ad es., le implicazioni logicamente sottese al quadro di principii delineato dalla Corte di legittimità in ordine ai presupposti di configurabilità della continuazione tra reato associativo e reati fine, individuati esclusivamente nell’ipotesi in cui questi ultimi siano stati programmati nelle loro linee essenziali sin dal momento della costituzione del sodalizio criminoso, sempre che il giudice ne verifichi puntualmente la ricorrenza dandone conto nella motivazione[3].
Occorre peraltro considerare che il rispetto dei limiti di ammissibilità costituisce una precondizione di legittimità nell’utilizzo del mezzo di ricerca della prova in esame, il cui ineludibile rispetto deriva, come si è visto, direttamente dalla sostanza dei richiamati principi costituzionali, secondo la traduzione che il legislatore ne ha fatto incrociando i dati testuali delle disposizioni normative – oggettivamente inscindibili sul piano logico-sistematico e fra loro strettamente collegate nella dinamica applicativa – di cui agli art. 266, co.1, 267, co.1, 270, co. 1, che ne prevedono i presupposti e le condizioni d’impiego in relazione con la norma di chiusura delineata dall’art. 271, co.1, c.p.p., là dove in linea generale si stabilisce, nella sua prima parte, che i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati “qualora le stesse siano state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge”.
5. Le tre regole connesse all’affermazione del principio
5.1 In primo luogo, le Sezioni Unite hanno sottolineato che, in ogni caso, i risultati ottenuti sulla base dell'intercettazione autorizzata in relazione ad un diverso reato, nell’ambito di un procedimento connesso ex art. 12 c.p.p., possono essere utilizzati unicamente al fine di accertare un reato rispetto al quale ricorrano i requisiti di ammissibilità di cui agli artt. 266 e 267 c.p.p., i quali sono «espressione diretta e indefettibile della riserva assoluta di legge ex art. 15 Cost. (…) e dell'istanza di rigorosa - e inderogabile - tassatività che da essa discende».
I limiti di ammissibilità definiscono il perimetro legale all'interno del quale il giudice deve operare le valutazioni relative alla sussistenza, nella fattispecie concreta, dei presupposti dell'autorizzazione (in ordine, ad esempio, al presupposto indiziario di cui all'art. 267 cod. proc. pen.). Pertanto, la previsione di limiti di ammissibilità delle intercettazioni (delineati in particolare per le intercettazioni "ordinarie" dall'art. 266 cod. proc. pen. attraverso il riferimento alla comminatoria edittale del reato e/o l'indicazione di tipologie generali o specifiche di fattispecie incriminatrici in relazione alle quali viene chiesta l'autorizzazione) costituisce espressione diretta e indefettibile della riserva assoluta di legge ex art. 15 Cost., che governa la materia delle intercettazioni e dell'istanza di rigorosa - e inderogabile - tassatività che da essa discende (cfr. Corte cost., sent. n. 63 del 1994), riconnettendosi alla «natura indubbiamente eccezionale dei limiti apponibili a un diritto personale di carattere inviolabile, quale la libertà e la segretezza delle comunicazioni (art. 15 della Costituzione)» (Corte cost., sent. n. 366 del 1991). Consentire, in caso di connessione dei reati (primo orientamento) o di emersione del nuovo reato nel procedimento ab origine iscritto (secondo orientamento), l'utilizzazione probatoria dell'intercettazione in relazione a reati che non rientrano nei limiti di ammissibilità fissati dalla legge si tradurrebbe, come la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di rimarcare, nel surrettizio, inevitabile aggiramento di tali limiti, «con grave pregiudizio per gli interessi sostanziali tutelati dall'art. 266 cod. proc. pen. che intende porre un limite alla interferenza nella libertà e segretezza delle comunicazioni in conformità all'art. 15 della Costituzione» (Sez. 6, n. 4942 del 2004, Kolakowska Bozena, Rv. 229999).
5.2 Non è in discussione poi, l'orientamento, del tutto consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi da quelli nei quali sono state disposte, attiene solo alla valutazione di tali risultati come elementi di prova, ma non preclude la possibilità di dedurre dagli stessi notizie di nuovi reati, quale punto di partenza di nuove indagini (Sez. 2, n. 17759 del 13/12/2016, dep. 2017, Cante, Rv. 270219; Sez. 4, n. 2596 del 03/10/2006, dep. 2007, Abate, Rv. 236115; Sez. 5, n. 23894 del 02/05/2003, Luciani, Rv. 225946; Sez. 6, n. 31 del 26/11/2002, dep. 2003, Chiarenza, Rv. 225709): orientamento, questo, del tutto in linea con le indicazioni del giudice delle leggi, secondo cui «il divieto disposto dall'art. 270 cod. proc. pen. è estraneo al tema della possibilità di dedurre "notizie di reato" dalle intercettazioni legittimamente disposte nell'ambito di altro procedimento» (Corte cost., sent. n. 366 del 1991).
5.3. D'altra parte, non viene in rilievo, nel caso in esame, l'ipotesi della conversazione intercettata che costituisca corpo del reato: al riguardo, le Sezioni unite di questa Corte hanno affermato che, in tema di intercettazioni, «la conversazione o comunicazione intercettata costituisce corpo del reato allorché essa integra di per sé la fattispecie criminosa, e, in quanto tale, è utilizzabile nel processo penale» (Sez. U, n. 32697 del 26/06/2014, Floris, Rv. 259776).
6.Il fondamento “costituzionale” della soluzione indicata dalla Suprema Corte
6.1. La risoluzione del contrasto giurisprudenziale nei termini sopra indicati è stata dalla Suprema Corte individuata facendo riferimento alla ratio giustificativa del divieto di utilizzazione.
Lo statuto costituzionale delle intercettazioni richiede, infatti, la predeterminazione tassativa dei presupposti di legge e un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, nonché ulteriori “garanzie” volte a ridurre al minimo la lesione oggettivamente recata ad un diritto fondamentale della persona.
Circoscrivere l’utilizzabilità dei risultati è una garanzia destinata ad evitare che gli effetti dell’interferenza si moltiplichino al di là di quanto strettamente necessario per la efficacia delle attività d’indagine.
Entro questa prospettiva, in particolare, si sottolinea che il divieto di cui all’art. 270, comma 1, c.p.p. mira a mantenere costante il collegamento con le circostanze di fatto che giustificano la violazione della riservatezza e con i motivi indicati nell’autorizzazione del giudice: motivi che includono, oltre all’accertamento degli indizi di un reato ricompreso fra quelli previsti dalla legge, anche la valutazione in merito all’assoluta indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini. La rottura di tale legame consentirebbe in definitiva l’utilizzazione dei risultati di intercettazioni che nessuno ha realmente autorizzato[4].
E’ opportuno rilevare, inoltre, che il controllo sulla persistenza dei presupposti (art. 267 comma 3 c.p.p.) è previsto come necessario anche per ogni proroga dell’intercettazione già autorizzata per un determinato reato: ciò sembra confermare la tesi dell’inutilizzabilità delle intercettazioni in assenza di un’autorizzazione specifica da parte del giudice.
Il divieto di utilizzazione, tuttavia, viene meno quando si scoprono delitti diversi per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza. Si tratta di un’ipotesi eccezionale, poichè attraverso il rinvio ad una norma dettata ad altri fini ci si riferisce sinteticamente ad un catalogo di reati considerati di maggiore allarme sociale. La scelta non ha altra logica se non quella dettata da esigenze di politica criminale, che il legislatore ha ritenuto eccessivamente sacrificate qualora dall’intercettazione si ricavi la prova di un reato particolarmente grave senza che se ne possa fare uso se non come notitia criminis.
La presenza di limiti edittali, peraltro, costituisce di per sé una garanzia contro eventuali eccessi, ed è intrinseca alla disciplina stessa delle intercettazioni, che infatti sono del tutto vietate per i reati che non superano una certa soglia di gravità.
6.2Nella prospettiva delineata dal Giudice delle leggi l'autorizzazione giudiziale non si limita a legittimare il ricorso al mezzo di ricerca della prova, ma circoscrive l'utilizzazione dei suoi risultati ai fatti-reato che all'autorizzazione stessa risultino riconducibili: essa, infatti, deve dar conto dei «soggetti da sottoporre al controllo» e dei «fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede» (Corte cost., sent. n. 366 del 1991); riferimento, quest'ultimo, che rende ragione della delimitazione dell'utilizzabilità probatoria dei risultati dell'intercettazione ai reati riconducibili all'autorizzazione giudiziale, delimitazione che, a sua volta, è condizione essenziale affinché l'intervento giudiziale abilitativo non si trasformi, come si è visto, in una "autorizzazione in bianco".
Già con riguardo al previgente codice di rito, peraltro, la giurisprudenza costituzionale aveva chiarito che «nel processo può essere utilizzato solo il materiale rilevante per l'imputazione di cui si discute» (Corte cost., sent. n. 34 del 1973).
Eccezione a tale regola è rappresentata dall'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per l'accertamento di reati diversi da quelli riconducibili al provvedimento autorizzatorio motivato, ossia per l'accertamento dei reati per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza (ovvero, sotto il previgente codice di rito, il mandato di arresto obbligatorio): infatti, pur inviolabile, il diritto alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni può essere oggetto di bilanciamento e, dunque, conoscere restrizioni o limitazioni in relazione all'«inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante», quale, nei limiti di seguito indicati, la necessità di repressione dei reati. La giurisprudenza della Consulta ha ritenuto costituzionalmente valida la deroga a due condizioni, espressione, entrambe, dell'«eccezionalità» del regime di utilizzazione per reati non riconducibili all'autorizzazione giudiziale: come si è visto, i casi eccezionali devono essere «tassativamente indicati dalla legge» e l'utilizzazione deve essere circoscritta «all'accertamento di una categoria predeterminata di reati presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale», ossia per l'accertamento di «reati di maggiore gravità» (Corte cost., sent. n. 63 del 1994).
Fuori da tali eccezionali casi, tassativamente previsti dalla legge ed afferenti all'accertamento di reati di maggiore gravità, l'autorizzazione del giudice si connota per una piena portata abilitativa e costituisce non solo il fondamento di legittimazione del ricorso all'intercettazione, ma anche il limite all'utilizzabilità probatoria dei relativi risultati ai soli reati riconducibili alla stessa autorizzazione: senza tale limitazione, il provvedimento autorizzatorio si trasformerebbe, come si si è detto, in un'inammissibile "autorizzazione in bianco", secondo l'icastica espressione ricorrente nella giurisprudenza costituzionale.
7.Le implicazioni del confronto con la giurisprudenza convenzionale
7.1 La Corte di Strasburgo ha in più occasioni affrontato il tema dei presupposti in base ai quali può ritenersi legittima l’ingerenza nella vita privata per mezzo delle operazioni di intercettazione.
Il parametro convenzionale di riferimento è rappresentato dall’art. 8 Cedu, secondo cui l’intrusione della pubblica autorità nella vita privata e familiare nonché nel domicilio e nella corrispondenza della persona deve essere prevista dalla legge e deve costituire “una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Nell’ordinamento nazionale, dunque, deve essere prevista una base normativa, chiara e dettagliata, accessibile e prevedibile per i consociati, in forza della quale sia determinata la natura dei reati che possono dare luogo ad una intercettazione. Occorre, poi: a) che siano delimitate le categorie delle persone che possono essere sottoposte a questo strumento investigativo; b) che siano fissati i limiti di durata del mezzo di ricerca della prova; c) che sia stabilita una procedura per esaminare, utilizzare e conservare i dati ottenuti[5].
Dalla norma convenzionale, inoltre, si desume che il mezzo di ricerca della prova non solo deve perseguire uno dei fini indicati dall'art. 8, § 2, della Convenzione, ma deve essere necessario, nell'ambito di una società democratica, per il conseguimento dei predetti obiettivi. Tale ultima indicazione rimanda alla esigenza di una certa proporzionalità tra l’entità dell’ingerenza nella sfera di riservatezza, necessaria, in una società democratica, per le specifiche finalità enunciate dalla norma convenzionale, e la giustificazione addotta dai pubblici poteri.
La proporzionalità e la determinazione degli obiettivi, infine, impongono che sia attribuita ad un’autorità giudiziaria o, quantomeno, ad un organo indipendente la competenza ad autorizzare captazioni e il controllo sul ricorso a questo strumento da parte dei pubblici poteri.
In questo contesto, inoltre, la Corte EDU ha affrontato il profilo problematico dell’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in un procedimento diverso da quello in cui il mezzo di ricerca della prova è stato disposto, ma lo ha declinato in una prospettiva diversa da quella che è stata sviluppata dalla giurisprudenza di legittimità.
Nella logica della giurisprudenza europea, infatti, l’aspetto centrale è rappresentato dalle garanzie che l’ordinamento interno deve assicurare alla persona nei cui confronti gli esiti delle intercettazioni sono usate e che ben potrebbe essere rimasta estranea al procedimento nel quale esse sono state disposte.
In una decisione relativa al ricorso di un cittadino francese, imputato di traffico di stupefacenti e condannato a seguito dell’utilizzo di intercettazioni telefoniche acquisite in un distinto procedimento, ad esempio, la Corte EDU, pur ribadendo che la legge francese del 1991 che disciplina le intercettazioni è conforme all’art. 8 Cedu, ha riscontrato la violazione della disposizione di cui all’art. 6, par. 3, della Convenzione, censurando l’orientamento seguito dalla Cassazione francese che avrebbe privato il ricorrente della possibilità di contestare la validità delle intercettazioni acquisite in un procedimento penale diverso da quello riguardante l'imputato[6].
Secondo la giurisprudenza europea, infatti, l’interessato deve poter usufruire di un “controllo efficace” sugli atti intrusivi, idoneo a limitare l’ingerenza nella vita privata a quanto “necessario in una società democratica”. Tale possibilità di esame va riconosciuta anche nel caso in cui si utilizzino intercettazioni compiute in un processo diverso, al quale l’interessato, necessariamente, sia rimasto estraneo. In ogni caso, ai fini della valutazione dell’eventuale violazione del parametro dell’art. 6 CEDU, è necessario verificare se il procedimento, nel suo insieme, sia stato “ingiusto”.
7.2 Questo aspetto, che peraltro esula dalla questione posta al vaglio delle Sezioni unite, deve essere opportunamente considerato alla luce della disciplina italiana delle intercettazioni.
L’art. 270 cod. proc. pen., infatti, circoscrive le categorie di reati nei cui confronti possono essere utilizzate le intercettazioni compiute in un altro procedimento e consente il controllo della parte interessata, che la Corte europea generalmente individua come uno dei parametri che assicurano la legittimità dell’intrusione nella sfera privata del cittadino.
Ai sensi dell’art. 270, comma 2, cit., tuttavia, nel caso di utilizzazione di intercettazioni in procedimento diverso da quello nel quale sono state disposte, allo stato, tra gli atti che devono essere depositati presso l’autorità competente per il diverso procedimento non devono essere compresi i decreti autorizzativi, ma solo i verbali e le registrazioni (cfr. Sez. U, n. 45189 del 17/11/2004, P.M in proc. Esposito, Rv. 229244; Sez. 1, n. 38626 del 21/10/2010, Romeo, Rv. 248665; Sez. 1, n. 19791 del 6/02/2015, Alberti, Rv. 263571).
La norma citata, infatti, non richiama il disposto di cui all’art. 268, comma 4, c.p.p., che a sua volta prevede il deposito anche dei decreti autorizzativi.
La giurisprudenza, al riguardo, non esclude che l’eventuale mancanza o illegittimità dell’autorizzazione a compiere l’intercettazione possa rilevare anche nell’ambito del procedimento ad quem, ma devolve alla parte interessata sia il compito di dedurre il vizio, sia di allegare la documentazione necessaria (il decreto autorizzativo chiedendone il rilascio in copia ex art. 116 cod. proc. pen) per permettere al giudice di accertare se vi sia stato l’esercizio del potere di controllo giurisdizionale richiesto dall’art. 15 Cost. e di riconoscere l’eventuale sussistenza di una causa di illegittimità (cfr., di recente, Sez. 6, n. 41515 del 18/09/2015, Lusha, Rv. 264741).
Questo profilo di frizione tra la normativa nazionale e i parametri di legittimità fissati dalla giurisprudenza europea sembrava destinato ad essere superato, poiché l’art. 3, comma 1, lett. d), d. lgs. n. 216 del 2017, che ha riformato la disciplina delle intercettazioni, aveva sostituito nell’art. 270, comma 2, secondo periodo, c.p.p. le parole “dell’articolo 268 commi 6, 7 e 8” con le parole “degli articoli 268-bis, 268-ter e 268-quater”. Per effetto del richiamo all’art. 268-bis cod. proc. pen., dunque, ai fini dell’utilizzazione delle intercettazioni eseguite aliunde dovevano essere depositati non solo i verbali e le registrazioni, ma anche i decreti autorizzativi.
In questo modo, anche se la parte interessata non dovesse attivarsi, producendo i decreti autorizzativi, il giudice viene comunque messo in grado di valutare l’utilizzabilità della prova.
Senonchè, l’applicazione di questa norma è stata più volte differita nel succedersi dei diversi interventi normativi operati sulla materia, sino a quando, per effetto della ulteriore modifica apportata dall’art. 2, comma 1, lett. g), n. 2, del recente d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, vi è stato ripristinato l’originario rinvio all’art. 268, commi 6, 7 e 8, da intendersi, pertanto, come tuttora efficace, anche se soggetto alla disciplina transitoria, come più volte successivamente modificata, di cui all’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 216/17.
8.La diversa disciplina della utilizzabilità dei risultati acquisiti con il captatore informatico: problemi e prospettive
8.1 La complessiva rimodulazione della disciplina del captatore informatico ha trovato un momento di sintesi attraverso la sostituzione, nel corpo dell’art. 270 c.p.p., del comma 1-bis, a suo tempo introdotto dal d.lgs. n. 216/2017 e relativo alla utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni tra presenti operate con tale strumento d’indagine per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione.
La riforma del 2017 ne aveva escluso l’utilizzabilità, fatta eccezione per la sola ipotesi in cui quei risultati fossero «indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza».
Il d.l. n. 161/2019 ha seguito invece una soluzione di tutt’altro genere, prevedendo l’utilizzabilità dei risultati anche per la prova di reati diversi, purché «compresi tra quelli indicati dall’articolo 266, comma 2-bis» c.p.p.
Si tratta dei delitti di criminalità organizzata (art. 51, c. 1-bis e 1-quater c.p.p.) e di quei delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione che siano puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.
La mancata previsione del requisito della “indispensabilità” per l’accertamento del fatto alleggerisce l’onere di motivazione imposto al giudice e sembra consentire l’utilizzo dei risultati delle intercettazioni in un numero ben più ampio di casi.
La scelta di legittimare l’utilizzo “esterno” del cd. trojan è stata probabilmente influenzata dalla richiamata pronuncia delle Sezioni Unite in tema di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi rispetto a quello nell’ambito del quale sono state autorizzate le attività di captazione. Tuttavia, occorre tenere in considerazione che il giudizio de quo aveva ad oggetto operazioni di intercettazione telefonica, e non conversazioni tra presenti intercettate mediante captatore informatico[7].
Il riconoscimento dell’utilizzabilità dei risultati delle attività di intercettazione in procedimenti differenti, già idoneo a produrre effetti particolarmente invasivi, in ordine all’esercizio dei diritti di difesa, con riguardo alle intercettazioni “tradizionali”, sembra suscitare perplessità ancor maggiori per le operazioni di intercettazione ambientale effettuate mediante captatore informatico, in ragione del carattere particolarmente penetrante di questa peculiare modalità di captazione delle comunicazioni e, conseguentemente, del più elevato rischio di lesione del diritto alla riservatezza non soltanto nei confronti di soggetti terzi, estranei al procedimento e solo occasionalmente coinvolti dall’attività di ascolto, ma anche dello stesso indagato.
Occorre inoltre considerare che la proroga dell’entrata in vigore sia del d.lgs. n. 216/2017 che del d.l. n. 161/19 fa sì che l’utilizzo di questo invasivo strumento d’indagine continui ad essere impiegato facendo leva «sulle maglie larghe della prova atipica», a fronte, peraltro, di un sensibile ampliamento normativo della sua potenziale area di impiego (le modifiche apportate dalla legge n. 3/2019, infatti, sono state interpolate dal recente decreto legge con la specificazione che i delitti contro la pubblica amministrazione sono quelli commessi, oltre che dai pubblici ufficiali, anche dagli incaricati di pubblico servizio).
8.2 Il rigore con cui la riforma del 2017 aveva inteso disciplinare le intercettazioni effettuate mediante trojan horse si era tradotto anche nella previsione che i risultati non potessero essere utilizzati per la prova di reati diversi, salvo che fossero indispensabili per la prova di reati particolarmente gravi, come quelli per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza.
Il riferimento ai “reati diversi” invece che ai “procedimenti diversi”, che serve a regolare la stessa vicenda al di fuori dell’uso del malware su dispositivo portatile, aveva il fine di restringere l’ambito di operatività, sia pure indiretta, del trojan horse, perché non avrebbe consentito l’utilizzazione per altri reati oggetto dello stesso procedimento se non alle medesime condizioni di indispensabilità probatoria e sempre che per tali altri reati fosse previsto l’arresto obbligatorio.
La precedente, restrittiva, formulazione normativa, tuttavia, non è stata mantenuta dal recente d.l. n. 161/19, che ha ribaltato la struttura della disposizione trasformandola da norma di divieto (…i risultati …non possono essere utilizzati per la prova di reati diversi…) a norma di autorizzazione (i risultati … possono essere utilizzati anche per la prova di reati diversi…) – ex art. 270, comma 1-bis, cod. proc. pen. –, con l’unica condizione che i reati da provare rientrino nelle categorie di quelli per i quali il ricorso al trojan horse è ammesso.
Il venir meno del requisito dell’indispensabilità probatoria comporterà inevitabilmente una dilatazione della possibilità di utilizzazione dei risultati per l’accertamento di reati non indicati nella richiesta di autorizzazione, che deve comunque contenere l’indicazione delle “ragioni che rendono necessaria tale modalità di intercettazione, ossia tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, per lo svolgimento delle indagini”[8].
Ai sensi della nuova normativa, dunque, fermo restando il divieto di impiego del prodotto delle captazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali le stesse sono state disposte, «[…] i risultati delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile possono essere utilizzati anche per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, se compresi tra quelli indicati dall’articolo 266, comma 2 bis» c.p.p.
Secondo la precedente disposizione il divieto di utilizzo dei dati appresi trovava una deroga nel solo caso in cui essi risultassero indispensabili per l’accertamento di reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza (art. 380 c.p.p.), laddove l’attuale quadro normativo consente di utilizzare queste risultanze per la prova di reati diversi da quelli contemplati dal decreto autorizzativo, purchè ricompresi tra i gravi crimini di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p. e quelli commessi dai pubblici ufficiali o dagli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione.
La novella, in tal modo, sembra aprire la strada alla “libera” circolazione probatoria delle risultanze della captazione digitale determinando una sostanziale violazione della garanzia della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 15 Cost., con riferimento all’intercettazione confluita nel “procedimento diverso”, in assenza di qualsivoglia controllo da parte del giudice procedente[9].
Si paventa, in sostanza, il rischio che, una volta ottenuta l’autorizzazione all’impiego del malware con riferimento ad un certo reato all’interno di un determinato procedimento – e quindi anche sulla base di motivi concernenti la posizione dell’indagato in quel procedimento e per quella specifica fattispecie delittuosa – le informazioni ottenute possano essere utilizzate anche in indagini diverse e per la prova di reati differenti, benché in essi non sussistano o comunque non siano stati verificati i presupposti per l’emissione di analogo provvedimento autorizzativo.
Sulla base della formulazione letterale della nuova disposizione normativa, peraltro, deve ritenersi la inutilizzabilità degli esiti captativi per i reati – non ricompresi tra quelli indicati nell’articolo 266, comma 2-bis, c.p.p. – diversi da quello per cui è stato autorizzato l’inserimento del captatore informatico, pur quando si tratti di reati per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza[10].
E’ altresì evidente che l’esplicito riferimento al “reato”, anziché al “procedimento”, porta con sé la ulteriore problematica relativa alla individuazione dei limiti di applicabilità al captatore informatico del quadro di principii di recente stabiliti dalle Sezioni Unite sul disposto normativo di cui all’art. 270 c.p.p. Ne deriva, di conseguenza, che la previsione contenuta nel comma 1-bis dell’art. 270 c.p.p. dovrebbe correttamente intendersi nel senso che le intercettazioni tramite captatore sono utilizzabili anche per reati diversi, purché non solo siano ricompresi tra quelli indicati dall’art. 266, comma 2-bis, c.p.p., ma siano anche connessi ex art. 12 c.p.p. con quello oggetto della intercettazione[11].
Entro tale prospettiva, dunque, è opportuno che il legislatore provveda, in sede di conversione del d.l. n. 161 del 2019, ad armonizzare la nuova previsione del comma 1-bis con il quadro di principii stabiliti dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 51/2020, tenendo conto: a) del fatto che l’art. 270, co. 2, c.p.p. - che disciplina, a sua volta, le modalità di acquisizione delle intercettazioni in un “diverso procedimento” - richiama la sola disposizione del primo comma e non quella, di nuovo conio, contenuta nel comma 1-bis, con la conseguente possibilità di utilizzare i risultati delle relative intercettazioni solo nell’ambito dello stesso procedimento; b) del fatto che la clausola di riserva con la quale si apre la nuova disposizione del comma 1-bis (Fermo restando……) sta a significare che il legislatore ha inteso stabilire in linea generale nel comma 1 dell’art. 270 il regime di utilizzabilità di ogni forma di intercettazione (ivi compresa quella disposta con il cd. trojan horse), laddove la successiva disposizione racchiusa nel comma 1-bis è volta a rendere utilizzabili, nell’ambito dello stesso procedimento, i risultati delle intercettazioni operate fra presenti con lo strumento del captatore informatico per la prova di reati “diversi” da quelli oggetto del relativo decreto di autorizzazione, purchè, ovviamente, ricompresi nei limiti fissati dall’art. 266, co. 2-bis, c.p.p.
[1] L’ordinanza di rimessione così si pronunciava: “Si impone dunque la devoluzione dei ricorsi alle Sezioni Unite, perché risolvano il segnalato contrasto e stabiliscano «se a seguito di autorizzazione allo svolgimento di operazioni di intercettazione per uno dei reati di cui all'art. 266 cod. proc. pen., le conversazioni intercettate siano comunque utilizzabili per tutti i reati oggetto del procedimento e se dunque la nozione di "diverso procedimento" di cui all'art. 270 cod. proc. pen. sia applicabile solo nel caso di procedimento ab origine diverso e non anche nel caso di reato basato su notizia di reato emergente dalle stesse operazioni di intercettazione, ma priva di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con il reato o i reati per i quali le intercettazioni sono state autorizzate».”. Deve prendersi atto, afferma significativamente l’ordinanza di rimessione, “della compresenza dei due diversi orientamenti, ciascuno suffragato da plurime conferme e fondati entrambi su presupposti di ordine sia semantico-letterale sia sistematico. In tale prospettiva non possono sottacersi neppure gli ulteriori, in parte connessi, ma sotterranei profili di divergenza, in rapporto alla necessità o meno di una verifica della riconducibilità dei reati venuti in evidenza al catalogo di cui all'art. 266 cod. proc. pen.”
[2] Cfr. C. PARODI, Il nuovo decreto intercettazioni: le indicazioni sulla riservatezza, in Il Penalista, 13 gennaio 2020, p. 12.
[3] Cfr., ex multis, Sez. 1, n. 8451 del 21/01/2009, Vitale, Rv. 243199; Sez. 1, n. 40318 del 04/07/2013, Corigliano, Rv. 257253.
[4] Cfr. i rilievi di G. ILLUMINATI, Utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi: le Sezioni Unite ristabiliscono la legalità costituzionale, in www.sistemapenale.it, 30 gennaio 2020, p. 3 ss.
[5] Da ultimo cfr., ex multis, Corte EDU del 15/05/2000, Khan c. Regno Unito; Corte EDU del 29/06/2006, Weber and Saravia c. Germania; Corte EDU del 26/04/2007, Dumitru Popescu c. Romania; Corte EDU del 10/04/2007, Paranisi c. Italia; Corte EDU del 10/02/2009, Iordachi c. Moldavia.
[6] Cfr. Corte EDU, Sez. 4, del 29/03/2005, n. 57752/00, Matheron C. Francia, in Dir. pen. proc., 2005, p. 649.
[7] C. LARINNI, La (contro)riforma delle intercettazioni: il D.L. n. 161 del 2019, in www.discrimen.it, 21 gennaio 2020, p. 7.
[8] G. SANTALUCIA, Il diritto alla riservatezza nella nuova disciplina delle intercettazioni, in sistemapenale.it, n. 1/2020, p. 59.
[9] W. NOCERINO, Prime riflessioni a margine del nuovo decreto legge in materia di intercettazioni, in sistemapenale.it, n. 1/2020, p. 78.
[10] Al riguardo cfr. G. AMATO, Trojan applicabile ai reati degli incaricati di pubblico servizio, in Guida dir., 2020, n. 6, p. 68 ss.
[11] M. GRIFFO, Il trojan e le derive del terzo binario, in sistemapenale.it, n. 2/2020, p. 70.
La richiesta di autorizzazione a procedere sul caso Open Arms (1-20 agosto 2019). Nota a Tribunale di Palermo. Collegio per i reati ministeriali, 30 gennaio 2020*.
di Fulvio Vassallo Paleologo
Sommario: 1. Il blocco della Open Arms davanti al porto di Lampedusa. - 2. I fatti contestati dal Tribunale dei ministri di Palermo. - 3. Il sistema gerarchico delle fonti ed il ruolo delle norme internazionali ed europee. - 4. Il falso problema dello stato di bandiera della nave soccorritrice. - 5. Diritto di accesso al territorio per i richiedenti asilo e divieto di respingimento. 6. Doverosità degli interventi di soccorso in acque internazionali in caso di distress. - 7. Conclusioni.
Mentre nei casi Diciotti e Gregoretti il dibattito sull’autorizzazione a procedere contro il senatore Salvini si basava sulla natura politica degli atti con i quali l’ex ministro dell’interno aveva bloccato lo sbarco dei naufraghi da navi militari italiane, nel caso Open Arms, per la quale il TAR del Lazio aveva sospeso il primo divieto di ingresso nelle acque territoriali, la difesa dell’ex ministro cerca di criminalizzare l’operato dei componenti dell’equipaggio della nave, adducendo che l’indicazione del Porto sicuro di sbarco (Pos) spettava alla Spagna o a Malta (e non all’Italia) e che il comandante della nave avrebbe deliberatamente rifiutato il porto sicuro, indicato successivamente da Madrid, perdendo tempo prezioso al solo scopo di far sbarcare gli immigrati in Sicilia ricorrendo dunque un caso di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. I fatti accertati e le argomentazioni giuridiche formulate dal Tribunale dei ministri di Palermo, sulla base del richiamo alle norme internazionali contenuto negli art. 10, 11 e 117 della Costituzione, che “non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica”, capovolgono la prospettiva sulla base della quale l’ex Ministro dell’interno, prima e dopo il decreto sicurezza bis, ha adottato divieti di ingresso nei porti italiani. Non è illecita l’attività di soccorso operata dalle ONG in acque internazionali, ma ricorre un illecito in ordine alla mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro, conseguenza del divieto di ingresso nelle acque territoriali ed al trattenimento prolungato dei naufraghi a bordo della nave soccorritrice, sia pure allo scopo di ottenere una redistribuzione degli stessi in diversi paesi europei.
1. Il blocco della Open Arms davanti al porto di Lampedusa
La decisione del Senato che, su richiesta del Tribunale dei ministri di Palermo,si pronuncerà sul caso Open Arms, assume un rilievo particolare alla vigilia della probabile modifica delle norme del decreto sicurezza bis (D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019) che riguardano i soccorsi inalto mare operati dalle Organizzazioni non governative. La nave della omonima ONG,spagnola, tra il 14 ed il 20 agosto dello scorso anno, era stata bloccata all’ancora davanti al porto dell’isola di Lampedusa, prima che intervenisse il sequestro da parte della Procura di Agrigento, che finalmente permetteva lo sbarco a terra dei naufraghi, alcuni dei quali, in preda alla disperazione, si erano già lanciati in mare per raggiungere a nuoto la costa.
Il capo di imputazione formulato a carico del senatore Salvini è ancora una volta per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio, per la mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro (POS) e per aver trattenuto indebitamente a bordo della Open Arms, ormeggiata a poche centinaia di metri da Lampedusa, le 164 persone soccorse dalla nave umanitaria in tre distinti eventi SAR a partire dal primo agosto 2019. Sulla nave si trovavano numerosi minori stranieri non accompagnati, per i quali l’art. 19 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98 dispone il divieto di respingimento [1].
Già il primo agosto 2019, giorno nel quale veniva effettuato il primo soccorso di decine di naufraghi nella cosiddetta zona SAR (Ricerca e salvataggio) “ libica”, il Ministro dell’Interno pro-tempore, di concerto con i Ministri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti, disponeva nei confronti della Open Arms il “divieto di ingresso, transito e sosta nel mare territoriale nazionale”, con decreto emesso ai sensi dell’art. 11 comma 1-ter D. lgs. N. 286/98, come modificato dal D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019. Successivamente la Open Arms operava altri due interventi di soccorso, uno in acque internazionali rientranti nella cd. zona SAR “libica”, l’altro nella zona SAR maltese, salvando la vita di decine di persone tra cui donne in stato di gravidanza e minori non accompagnati. Tutte le competenti autorità venivano tempestivamente informate dei soccorsi. I libici non rispondevano, le autorità spagnole invitavano il comandante a rivolgersi alla centrale operativa della Guardia costiera maltese (MRCC Malta) che però rifiutava di assumere la responsabilità dei primi due eventi occorsi al di fuori della zona SAR di propria competenza, salvo ad offrire la propria disponibilità per i naufraghi soccorsi nel terzo intervento, quando la Open Arms si trovava vicino l’’isola di Lampedusa, in condizioni meteo tanto critiche che anche la guardia costiera italiana ne escludeva la possibilità di allontanamento verso Malta. Per questa ragione appare privo di fondamento l’assunto difensivo del senatore Salvini che continua ad accusare la Open Arms di avere intenzionalmente introdotto “clandestini” in territorio italiano e di non avere accettato il porto di sbarco sicuro (POS) tardivamente offerto dalle autorità spagnole. Come rilevano i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo,“va anzitutto evidenziato l’indiscutibile ruolo di primo piano svolto e, per certi versi, rivendicato dal Ministro Salvini sin da quando, apprendendo dell’intervento di soccorso posto in essere in zona Sar libica dalla Open Arms, coerentemente con la politica inaugurata all’inizio del 2019, adottava nei confronti di Open Arms, d’intesa con i Ministri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti, il decreto interdittivo dell’ingresso o del transito in acque territoriali italiane, qualificando l’evento come episodio di immigrazione clandestina, a dispetto del riferimento alla situazione di distress del natante su cui i soggetti recuperati stavano viaggiando”.
Durante il periodo, nel corso del quale stazionava in acque internazionali a sud-ovest di Lampedusa in attesa di assegnazione di un POS, ed anche successivamente, quando si trovava nelle acque territoriali, in diverse occasioni la Open Arms richiedeva (congiuntamente a RCC Malta ed a I.M.R.C.C.) di effettuare delle evacuazioni mediche di migranti in precarie condizioni di salute(MEDEVAC), che alla fine venivano eseguite. Dopo l’ennesimo rifiuto delle autorità maltesi che impedivano persino l’avvicinamento della Open Arms all’isola di Malta per cercare ridosso a fronte di un progressivo peggioramento delle condizioni meteo, il 14 agosto il comandante della nave faceva rotta verso l’isola di Lampedusa.In quello stesso giorno, il Presidente del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (terza sezione)”[2]. Sospendeva l’efficacia del divieto di ingresso, transito e sosta nel mare territoriale nazionale, “al fine di consentire l’ingresso della Nave Open Arms in acque territoriali italiane (e quindi di prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli)[3].
Dopo la decisione del giudice amministrativo, l’ex Ministro dell’interno, il 14 agosto 2019,reiterava il divieto di ingresso nelle acque territoriali, che però non veniva sottoscritto come atto di concerto da parte di altri ministri, annunciando ricorso urgente al Consiglio di Stato (del quale non si hanno altre notizie) sostenendo che “Open Arms si è trattenuta in acque Sar libiche e maltesi, ha anticipato altre operazioni di soccorso e ha fatto sistematica raccolta di persone con l’obiettivo politico di portarle in Italia”.Come ricorda il Tribunale dei ministri di Palermo, invece,” Open Arms aveva inviato (alle autorità maltesi, n.d.a.) in data 13 agosto 2019 una richiesta urgente di indicazione di un riparo dal mal tempo, alla luce delle avverse condizioni meteo previste per le ore successive, che avrebbero esposto le persone a bordo, tutte ricoverate sul ponte della nave, a seri pericoli. La centrale operativa della Guardia costiera (RCC) di Malta, con messaggio delle ore 21,17 dello stesso giorno, rispondeva a tale richiesta con un ennesimo rifiuto, limitandosi ad indicare la sussistenza di “migliori opzioni disponibili e più vicine”, ossia Lampedusa e la Tunisia”.
Il nuovo decreto adottato dall’ex ministro dell’interno il 14 agosto, dopo la pronuncia di sospensiva da parte del TAR Lazio sul precedente decreto che vietava l’ingresso nelle acque territoriali, non otteneva il “concerto” del ministro della difesa e del ministro delle infrastrutture. Senza la firma di “concerto”degli altri due ministri competenti, Elisabetta Trenta[4] e Danilo Toninelli[5], che la rifiutavano, il secondo divieto di ingresso nelle acque territoriali adottato da Salvini ai sensi del decreto sicurezza bis non aveva alcuna validità.
2. I fatti contestati dal Tribunale dei ministri di Palermo
Nella notte tra il 14 ed il 15agosto la nave Open Arms ,con la scorta di due mezzi della Marina italiana, mentre il mare si ingrossava fino a burrasca, faceva ingresso nelle acque territoriali ormeggiandosi di fronte al porto di Lampedusa, come convenuto con le autorità marittime locali. Dopo una successiva richiesta pervenuta da Open Arms, ormai a ridosso di Lampedusa, che sollecitava la indicazione di un porto di sbarco sicuro, il 15 agosto lo stesso ministro dell’interno sottoscriveva una nota di risposta ad una precedente missiva del 14 agosto del Presidente del Consiglio Conte, con cui lo si era invitato “ad adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori presenti sull’imbarcazione”. Salvini escludeva che i migranti a bordo della nave fossero sotto la giurisdizione italiana, sostenendo invece che dovevano ritenersi soggetti alla giurisdizione dello stato di bandiera, dunque la Spagna, affermando anche di avere dato mandato all’Avvocatura dello Stato per impugnare il decreto di sospensiva del Tar Lazio, impugnativa di cui però non risulta alcuna traccia. Nello stesso giorno, in risposta al Presidente del Tribunale per i Minori di Palermo e al Procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale, con riferimento ai minori non accompagnati a bordo della Open Arms: ribadiva la giurisdizione spagnola in materia, e reiterava il suo rifiuto di compiere gli atti di ufficio richiesti per la indicazione di un porto di sbarco sicuro.
Il 16 agosto il Presidente del Consiglio rispondeva ad una ennesima nota del ministro dell’interno, sollecitando lo sbarco immediato dei minori presenti a bordo della Open Arms, che ormai si trovava in acque territoriali italiane e prospettando la possibilità di configurare l’eventuale rifiuto come un’ipotesi di illegittimo respingimento, comunicando anche la disponibilità già offerta da altri paesi europei di accogliere parte dei migranti della Open Arms, “indipendentemente dalla loro età”.
A quel punto l’ex ministro dell’interno autorizzava lo sbarco dei minori non accompagnati che, soltanto il 18 agosto, su decisione della Prefettura di Agrigento e dietro comunicazione dell’Ufficio di Gabinetto del Ministro dell’Interno, venivano fatti sbarcare. Nella stessa giornata diversi naufraghi si gettavano in mare nel tentativo di raggiungere a nuoto la costa di Lampedusa, e venivano recuperati da membri dell’equipaggio della stessa Open Arms.
Una successiva ispezione del Procuratore della Repubblica di Agrigento a bordo della nave accertava “condizioni emozionali estreme in un clima di altissima espressione” ove “il vissuto di morte collegato a un eventuale rimpatrio e la percezione di vita affrontando a nuoto lo specchio di mare” che li separava dall’Isola di Lampedusa “comportavano una marginalizzazione del rischio individuale e collettivo che si inseriva in un contesto di scarso controllo critico – cognitivo, con conseguente pericolo di agiti comportamentali inappropriati (mettere a repentaglio l’incolumità fisica e la vita medesima) senza possibilità, da parte di terzi, di contenere dette condotte né di arginare un ulteriore sviluppo di gravi situazioni psicopatologiche”.Lo sbarco definitivo dei naufraghi riconosciuti come maggiorenni avveniva soltanto il 20 agosto dopo l’ingresso della nave nel porto di Lampedusa, in conseguenza del provvedimento di sequestro adottato dalla Procura di Agrigento[6].
Secondo i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo, la condotta riferibile personalmente al ministro Salvini, consistente nella mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro (POS) alla Open Arms, nel periodo intercorrente tra il 14 ed il 20 agosto 2019, sarebbe risultata “illegittima per la violazione delle convenzioni internazionali e dei principi che regolano il soccorso in mare, e, più in generale, la tutela della vita umana, universalmente riconosciuti come ius cogens”. Gli stessi giudici rilevano come, “durante il primo segmento della vicenda, protrattosi sino al 14.8.2019, si delineasse già un obbligo esclusivo per lo Stato italiano di indicare un POS, quanto meno in relazione al concomitante obbligo gravante, in virtù delle medesime norme, sulle autorità maltesi. In effetti, in capo a queste si profilava anche il più stringente criterio di collegamento della titolarità della zona in cui era avvenuto almeno il secondo soccorso, circostanza questa strenuamente contestata da Malta e, specularmente, sostenuta dal comandante della Open Arms; alla luce di questo criterio, le richieste di sbarco e di ridosso immediatamente successive vennero, infatti, indirizzate dal comandante della Open Arms esclusivamente a Malta”.
A seguito dei reiterati rifiuti frapposti dalle autorità maltesi, che si dichiaravano tardivamente disponibili soltanto ad accettare lo sbarco dei 39 naufraghi soccorsi dalla Open Arms in zona SAR di competenza maltese nel terzo evento di salvataggio, secondo i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo, “si ritiene che l’obbligo di indicare un POS, a partire dal 14.8.2019, si sia venuto definitivamente a concentrare in capo alle autorità italiane“.
La vicenda della Open Arms appare dunque assai diversa rispetto ai casi Diciotti[7]e Gregoretti[8], già esaminati dal Senato con esiti opposti, perché si trattava di una nave appartenente ad una ONG e il divieto di sbarco imposto dall’ex ministro dell’interno, relativo al periodo tra il 14 ed il 20 agosto 2019, non era stato condiviso dalle altre autorità di governo, pure richiamate dal decreto sicurezza n. 53/2019, che veniva convertito in legge proprio negli stessi giorni nei quali la nave spagnola soccorreva i naufraghi in zona SAR “libica”. Anche nel caso della Open Arms erano però presenti tra i naufraghi minori non accompagnati, per i quali il Tribunale dei minori di Palermo aveva adottato un ordine di sbarco immediato, sbarco che di fatto venne ritardato per diversi giorni, senza alcuna giustificazione per questa grave limitazione della loro libertà personale, in contrasto con tutte le norme internazionali e di diritto interno ( Legge Zampa n.47 del 2017) a tutela del “superiore interesse del minore”.
Nelle sue difese più recenti il senatore Salvini, a differenza di quanto gli era stato possibile nei casi Diciotti e Gregoretti, tenta di criminalizzare l’intervento di soccorso operato dalla Open Arms, giungendo a ricordare il precedente sequestro della stessa nave giunta nel porto di Pozzallo, nel marzo del 2018, ed il relativo procedimento penale ancora in corso presso il Tribunale di Ragusa, senza però fare riferimento al provvedimento di dissequestro[9] pure adottato dallo stesso Tribunale. Anche nel caso Open Arms dell’agosto 2019, dopo lo sbarco dei naufraghi a Lampedusa, conseguente al sequestro della nave, il GIP del Tribunale di Agrigento disponeva la restituzione (dissequestro) della nave della Ong spagnola. osservando che “non sussistono, dopo l’evacuazione e il soccorso dei migranti, esigenze probatorie anche in considerazione del fatto che non si ascrive all’organizzazione e all’equipaggio alcuna responsabilità”. Secondo lo stesso magistrato, piuttosto, si potevano invece configurare gravi reati, allo stato a carico di ignoti, che avrebbero impedito l’ingresso della nave nelle acque territoriali e lo sbarco dei naufraghi nel porto sicuro più vicino. Il GIP di Agrigento scrive infatti che “sussiste il fumus del reato di sequestro di persona da parte dei pubblici ufficiali in corso di identificazione sulla base del fatto che il Tar aveva sospeso il divieto di ingresso in acque territoriali e i migranti sono, quindi, stati trattenuti indebitamente dal 14 agosto”. Il magistrato rilevava “analogie con la cosiddetta vicenda Diciotti” in quanto, anche in questo caso, “è stato omesso il preciso obbligo di individuare un porto sicuro spettante all’Italia in quanto primo porto di approdo in base al trattato di Dublino”.
La prospettiva sulla base della quale il Viminale, prima e dopo il decreto sicurezza bis, ha adottato divieti di ingresso in porto non solo nei confronti delle ONG, ma anche nei casi di soccorsi operati da imbarcazioni militari italiane, viene così completamente ribaltata: non è illecita l’attività di soccorso in acque internazionali, ma, in via di ipotesi, ricorre un illecito in ordine alla mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro, conseguenza del divieto di ingresso nelle acque territoriali.
3. Il sistema gerarchico delle fonti ed il ruolo delle norme internazionali ed europee.
Occorre ricordare che dal momento del suo insediamento al Viminale l’ex ministro Salvini aveva disposto nei confronti delle navi private appartenenti alle Organizzazioni non governative numerosi divieti di ingresso nei porti italiani, a partire dal caso Aquarius nel giugno del 2018. In una prima fase si era trattato di provvedimenti informali, comunicati attraverso i social, poi si erano adottate “direttive” specifiche, rivolte espressamente alle singole navi private che avevano eseguito interventi di soccorso in acque internazionali, contenenti divieti di ingresso nelle acque territoriali, quindi, dopo il decreto sicurezza bis, si era provveduto con decreti, previsti dalla nuova normativa approvata definitivamente proprio nei giorni del caso Open Arms qui in esame. Nell’estate del 2019 veniva infatti emanato il cd. “decreto sicurezza bis” (Decreto legge n. 53 del 14 giugno del 2019) poi convertito in legge (Legge n. 77 dell’8 agosto 2019),
Secondo il Tribunale dei ministri di Palermo, il senatore Salvini, con il rifiuto di concedere un porto sicuro alla nave Open Arms nell’agosto 2019 avrebbe violato le convenzioni internazionali. Come affermano i giudici palermitani “l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati che non si esaurisce nel primo intervento di salvataggio e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica (…), assumendo un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna (l’art. 117 Cost. prevede infatti che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Le Convenzioni internazionali ed i Regolamenti europei[10] assumono quindi immediato rilievo nell’ambito della giurisdizione interna anche in materia di soccorsi in mare. Sotto il vaglio del giudice finiscono le norme interne e le prassi applicate che costituiscono una violazione di norme cogenti di rilievo internazionale. Nessuna norma di diritto internazionale del mare[11] autorizza uno Stato ad esercitare poteri d’interdizione su imbarcazioni sospettate di trasportare migranti irregolari nelle acque internazionali. In base alla sentenza del Tribunale di Agrigento sul caso Cap Anamur[12], “le violazioni delle norme sull’immigrazione possono costituire illeciti rilevanti per gli ordinamenti nazionali degli Stati che ne sono coinvolti (Stato di partenza o Stato di arrivo o entrambi). Ma è ovvio che qualsiasi illecito d’immigrazione clandestina si consuma soltanto dopo che le persone coinvolte sono entrate nel mare territoriale dello Stato di destinazione ( o di uno Stato di transito), e non già prima, e cioè quando la nave che li trasporta si trova ancora in alto mare”.
L’art. 19 della Convenzione Unclos prevede la libertà di navigazione in acque internazionali, ed anche nel mare territoriale (passaggio inoffensivo), ma al secondo comma della norma si prevede una deroga che in Italia è stata utilizzata capovolgendo il rapporto regola eccezione. In base all’art. 19 comma 2 della stessa Convenzione Unclos“il passaggio di una nave nelle acque territoriali di uno Stato” è permesso “fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”. Per il ministro dell’interno l’ingresso delle navi delle ONG cariche di naufraghi avrebbero arrecato pregiudizio alla sicurezza dello Stato.
La Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione Solas) impone poi gli interventi di soccorso al comandante di una nave “ che si trovi nella posizione, di essere in grado di prestare assistenza”. In altri termini chi si trovi più vicino al mezzo in difficoltà, per il quale è giunta una chiamata di soccorso, ha l’obbligo di avvertire le competenti autorità SAR e di attivarsi immediatamente seguendo le istruzioni fornite dal Comando centrale della Guardia Costiera (IMRCC.
La Convenzione di Amburgo SAR (1979) impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare “…senza distinguere a seconda della nazionalità o dello stato giuridico, stabilendo altresì, oltre l’obbligo della prima assistenza anche il dovere di sbarcare i naufraghi in un “luogo sicuro”. L’art. 10, par 1, della Convenzione di Amburgo del 1979(SAR) prevede che ogni comandante è obbligato, nella misura in cui lo possa fare senza serio pericolo per la propria nave e le persone a bordo, a rendere assistenza a qualsiasi persona che rischia di perire in mare[13].Le Convenzioni internazionali sono specificate dalle Risoluzioni dell’IMO, Organizzazione internazionale del mare, agenzia delle Nazioni Unite [14].
I giudici del Tribunale dei ministri di Palermo rilevano come “la Risoluzione MSC 167-78 ha quindi individuato delle “linee guida” che costituiscono la cornice entro cui i singoli Stati possono disciplinare la materia: esse, in particolare, prevedono che ciascuno Stato dovrebbe disporre di piani operativi che disciplinino in dettaglio le modalità con cui deve effettuarsi l’azione di coordinamento, per affrontare tutti i tipi di situazioni SAR. Come ricordano gli stessi giudici, “la Risoluzione citata individua altresì il principio del centro di coordinamento di “primo contatto” stabilendo che (punto6.7) “Se del caso, il primo RCC contattato dovrebbe iniziare immediatamente gli sforzi per il trasferimento del caso al RCC responsabile della regione in cui l’assistenza viene prestata. Quando il RCC responsabile della regione SAR in cui è necessaria assistenza è informato della situazione dovrebbe immediatamente assumersi la responsabilità di coordinare gli sforzi di salvataggio,poiché le responsabilità correlate, comprese le disposizioni relative a un luogo sicuro per i sopravvissuti, cadono principalmente sul governo responsabile di quella regione. Il primo RCC, tuttavia, è responsabile per aver coordinato il caso fino a quando l’RCC o altra autorità competente non ne assumerà la responsabilità.”
Nessuna disposizione di diritto internazionale autorizza dunque gli stati a considerare le persone “al sicuro” su una nave tenuta a tempo indeterminato al di fuori delle acque territoriali. La nave soccorritrice può essere considerata soltanto come un luogo sicuro temporaneo[15].In base a quanto espressamente previsto dalle Convenzioni UNCLOS e SAR, il primo MRCC che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza S.A.R. ha la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Ciò almeno fino a quando tale responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR – Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78 del 20/5/2004)[16].
I dubbi sulla valenza normativa cogente di quanto previsto dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare e dalle Risoluzioni dell’IMO possono essere superati richiamando la natura di ius cogens dei Regolamenti europei che hanno efficacia vincolante diretta nell’ordinamento interno degli stati dell’Unione europea. Si deve infatti considerare come i Regolamenti europei n.656/2014 e n.1624/2016 prevedano espressamente un richiamo a tutte le Convenzioni internazionali di diritto del mare, congiuntamente alla Convenzione di Ginevra del 1951 sulla protezione dei rifugiati. L’art. 4 del Regolamento europeo 2016/1624 (costitutivo della nuova Agenzia per la guardia di frontiera e costiera europea) prevede espressamente che, nel corso delle operazioni di controllo delle frontiere marittime, le attività S.A.R. continuano comunque ad essere avviate e condotte in conformità a quanto previsto dal Reg. EU2014/656, ovverosia in conformità alle norme di diritto internazionale sulle attività di ricerca e soccorso in mare(SAR).
4. Il falso problema dello stato di bandiera della nave soccorritrice
Ai fini della individuazione del porto di sbarco sicuro non può assumere rilievo la bandiera che batte la nave soccorritrice, argomento che ricorre ancora adesso alla base delle considerazioni difensive prodotte dal senatore Salvini davanti alla Giunta per le autorizzazioni a procedere, soprattutto quando si tratta di una nave che ha già fatto ingresso nelle acque territoriali sulla base di un autorizzazione concessa dalle autorità marittime, dopo la sospensione, per effetto della ordinanza del giudice amministrativo, del divieto di ingresso adottato in precedenza dall’ex ministro dell’interno .
I giudici del Tribunale dei ministri di Palermo ricordano in proposito come “deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto 6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato”, esigendo, dunque che il “contatto” sia realizzato con il centro di coordinamento per le attività di ricerca e soccorso costituito, in ottemperanza alle linee guida IMO, presso ogni Stato aderente alle convenzioni in materia; essa, poi, appare incoerente con lo scopo perseguito dalle richiamate linee guida (criterio ermeneutico, questo, di primaria rilevanza nell’applicazione dei trattati e delle convenzioni internazionali), scopo che, come s’è detto, consiste nel far sì che la collaborazione degli Stati converga verso il risultato di consentire alle persone soccorse di raggiungere quanto prima un posto sicuro, arrecando alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile”.
Dalle indagini svolte dal Tribunale dei ministri di Palermo emergeva che “il POS (indicato ad Algeciras ovvero, successivamente alle osservazioni trasmesse dalla Guardia Costiera italiana, presso le Isole Baleari) offerto dalla Spagna – peraltro solo in data 18.8.2019, quando la nave si trovava già da tre giorni alla fonda in prossimità delle coste di Lampedusa – non rispondeva, già in astratto, alle esigenze tutelate dalla normativa internazionale; in base al par. 6.18 della Risoluzione MSC 167-78, infatti, la nave soccorritrice ha diritto di ottenere l’autorizzazione allo sbarco dei migranti in un luogo che implichi il minimo disagio per la nave stessa, gravando specularmente sui responsabili l’obbligo di tentare di organizzare delle alternative ragionevoli per questo scopo (v. par. 6.13 ris. cit, secondo cui la nave deve essere comunque sollevata da questa responsabilità non appena possono essere presi accordi alternativi”); sotto questo profilo, sia il porto di Algeciras, ubicato addirittura sullo stretto di Gibilterra, che quello di Palma di Maiorca, nelle Isole Baleari, distante circa 590 miglia nautiche da Lampedusa, erano entrambi troppo lontani dalla posizione della nave per poter essere considerati idonei a salvaguardare le esigenze in rilievo”.
5. Diritto di accesso al territorio per i richiedenti asilo e divieto di respingimento
Non si può infine dimenticare che la maggior parte dei naufraghi presenti a bordo della Open Arms aveva manifestato l’intenzione di chiedere asilo in Italia In base al “Considerando 26” della Direttiva 2013/32/UE, qualora i richiedenti asilo si trovino nelle acque territoriali di uno Stato membro, è opportuno che siano trasferiti sulla terra ferma e che ne sia esaminata la domanda ai sensi della stessa direttiva[17].
Per effetto del Regolamento UE Dublino III n.604/2013, attualmente in vigore, tutti i naufraghi della Open Arms dovevano essere sbarcati al più presto al fine di presentare in Italia una richiesta di protezione internazionale, anche se intendevano poi trasferirsi in un altro paese, o se un accordo europeo ne avesse previsto un ricollocamento. In base all’art. 3 del Regolamento n.604/2013/UE, gli Stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide sul territorio di qualunque Stato membro, compreso alla frontiera e nelle zone di transito. Quanto previsto da direttive e regolamenti europei lo impone anche l’art.10 ter del Testo Unico 286/1998 in materia di immigrazione, in base al quale “lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi.” (cd. approccio Hotspot).
Il rifiuto, aprioristico e indistinto, di un governo, peggio di un singolo ministro, di fare approdare in porto una nave, che ha soccorso naufraghi in acque internazionali, comporta l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, e viola il divieto di espulsioni collettive previsto dall’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU. L’invito a rivolgere la prua verso un altro stato (ad esempio Malta o la Tunisia) rivolto ad una nave che ha effettuato un soccorso in alto mare e che si trova all’interno della zona contigua o nelle acque territoriali di un determinato paese, per quanto osservato in precedenza, viola il diritto internazionale[18]. L’articolo 10 del Testo Unico sull’immigrazione 256/98 prevede peraltro la possibilità di applicare il respingimento differito (comma 2) alle persone straniere che sono state “temporaneamente ammesse nel territorio per necessità di pubblico soccorso”. Il prolungato trattenimento di naufraghi a bordo della nave soccorritrice non può essere utilizzato come arma di pressione sugli stati europei in vista di una possibile redistribuzione dei richiedenti asilo.
Il principio di non refoulement sancito dall’art.33 della Convenzione di Ginevra implica “no rejection at frontiers without access to fair and effective procedures for determining status and protection needs”. Come ha ribadito l’UNHCR ciò dovrebbe comportare in linea generale che la persona intercettata in prossimità della zona contigua alle acque territoriali abbia accesso alle procedure nello Stato che ha effettuato l’intercettazione, poiché questo di solito consente sia l’accesso alle strutture di accoglienza, sia eque ed efficienti procedure d’asilo, nel rispetto degli standards garantiti dal diritto internazionale. Secondo l’UNHCR, «il soccorso in mare è una tradizione secolare e un obbligo che non si esaurisce tirandole persone fuori dall’acqua. Un salvataggio può essere considerato completo una volta che i passeggeri hanno raggiunto la terraferma in un porto sicuro». Come afferma l’UNHCR, nel determinare se gli obblighi di uno Stato sui diritti umani sussistono nei confronti di una determinata persona, il criterio decisivo non è se quella persona si trovi sul territorio nazionale di quello Stato, o all’interno di un territorio che sia de jure sotto il controllo sovrano dello Stato, quanto piuttosto se egli o ella sia o meno soggetto all’effettiva autorità di quello Stato. Nei suoi documenti ” l’UNHCR chiede nuovi sforzi per limitare la perdita di vite in mare, tra cui il ritorno delle navi di ricerca e soccorso degli Stati Membri dell’UE. Le restrizioni legali e logistiche alle operazioni di ricerca e soccorso delle ONG, sia in mare che per via aerea, devono essere eliminate. Gli Stati costieri dovrebbero facilitare, non ostacolare, gli sforzi volontari per evitare le morti in mare”.
6. Doverosità degli interventi di soccorso in acque internazionali in caso di distress.
Si deve altresì escludere qualsiasi intento elusivo del comandante e dell’equipaggio della Open Arms che, secondo l’ex ministro dell’interno, avrebbero tentato in sostanza di agevolare l’ingresso irregolare di migranti nel territorio italiano. I soccorsi in alto mare non sono atti discrezionali ma costituiscono comportamenti dovuti. Le imbarcazioni che trasportano i migranti poi soccorsi da navi private delle ONG, nella maggior parte dei casi sono unsafe, cioè prive dei requisiti di navigabilità richiesti secondo la Convenzione SOLAS. La nozione di “distress” è stabilita dalla Convenzione di Amburgo del 1979 (Annex, ch. 1, para. 1.3.11) “a)situation wherein there is a reasonable certainty that a vessel or a per-son is threatened by grave and imminent danger and requires immediate assistance”.Se ricorre una situazione di distress in alto mare il comandante di qualsiasi nave, è obbligato ad intervenire con la massima rapidità, anche senza attendere indicazione da parte delle competenti autorità marittime o politiche.
La nozione di “distress” generalmente adottata in diritto internazionale demolisce la ricostruzione dell’ingresso irregolare camuffato da soccorso, o delle “consegne concordate”, perché se è vero che la presenza della nave soccorritrice ai limiti delle acque territoriali libiche è largamente prevedibile dai trafficanti, questa tende ad impedire che, come purtroppo continua a verificarsi in troppi casi, l’assenza delle imbarcazioni di soccorso o il loro ritardato arrivo producano l’annegamento di tutti o parte dei migranti. Che una volta abbandonati in alto mare dai trafficanti, o affidati a “scafisti per necessità”, sono soltanto naufraghi da soccorrere e non certo “clandestini”, che potrebbero sbarcare in territorio europeo in violazione delle leggi vigenti. Che invece prevedono espressamente l’ipotesi dell’ingresso per ragioni di soccorso di migranti privi di valido titolo di ingresso, per stabilire che, in assenza di una richiesta di protezione internazionale, o di specifici divieti di respingimento ( previsti dall’art. 19 del T.U. n.286/98) può essere disposto il respingimento ( art. 10 del T.U. n.286/1998) o l’espulsione ( art. 13 dello stesso Testo Unico). Ma solo dopo il loro sbarco a terra nel porto sicuro più vicino[19].
Non si possono dunque adottare provvedimenti amministrativi che intaccano i diritti fondamentali della persona sulla base del mero sospetto che le Ong siano colluse con trafficanti o scafisti, oppure che compiano attività dolosamente preordinate alla introduzione di immigrati irregolari in Italia. I divieti di ingresso nelle acque territoriali fin qui adottati sono illegittimi perché contrastano con le Convenzioni internazionali di diritto del mare e con la Convenzione di Ginevra sui rifugiati che non consentono di qualificare come comportamenti illegali le attività di ricerca e soccorso in acque internazionali ed il successivo ingresso nel mare territoriale per lo sbarco dei naufraghi in un place of safety[20]. Una prospettiva questa che dovrebbe essere tenuta presente sia nel procedimento penale e nel procedimento di autorizzazione a procedere sul caso Open Arms, che in sede di revisione del decreto sicurezza bis.
7. Conclusioni
Appare incontrovertibile come la decisione di vietare l’ingresso nel porto di Lampedusa alla nave Open Arms, non abbia contribuito alla sicurezza dei cittadini o alla difesa delle frontiere, ma abbia prodotto in modo diretto e immediato, effetti pregiudizievoli alla sfera giuridica individuale dei migranti soccorsi da settimane e ristretti a bordo della stessa nave, come non si sarebbe verificato se il ministro dell’interno si fosse limitato ad una scelta politica di carattere generale senza violare la normativa interna ed internazionale che stabilisce procedure vincolate per lo sbarco dei naufraghi soccorsi in alto mare. Come rileva il Tribunale dei ministri di Palermo, le condotte riferite al senatore Salvini risultano rientrare “nell’esercizio delle funzioni e dei poteri del Ministro dell’Interno”, come “espressione dell’attività amministrativa rimessa a quella autorità, e non invece di quella di indirizzo politico e di attuazione generale dell’azione amministrativa del governo che, nella fattispecie, fa da sfondo allo svolgersi della vicenda, apparendo confinata nell’ambito dei motivi che hanno ispirato la condotta medesima”.
Il prolungato trattenimento dei naufraghi rimasti a bordo della nave Open Arms che da Lampedusa non poteva più salpare a quel punto per il porto di Malta, come pure prospettato dal Viminale, appare riconducibile esclusivamente alle scelte del ministro dell’interno, che in quello stesso periodo, a fronte dei dinieghi frapposti da altri ministri alla reiterazione del divieto di ingresso nelle acque territoriali, sospeso dal TAR Lazio, invocava i “pieni poteri”.
Non entriamo qui nel merito dei successivi sviluppi del processo penale per i reati di rifiuto di atti di ufficio e sequestro di persona, che potrebbe seguire al voto favorevole del Senato sulla autorizzazione a procedere richiesta dal Tribunale dei ministri di Palermo sul caso Open Arms qui in esame. Non si può tuttavia delegare esclusivamente alla magistratura la soluzione dei problemi posti dagli ampi poteri discrezionali assegnati con il decreto sicurezza bis al ministero dell’interno. Malgrado la ventilata riforma del decreto n.53/2019, ed il possibile intervento della Corte costituzionale, il rischio che si ritorni a divieti di ingresso nelle acque territoriali, e dunque dei soccorsi operati in acque internazionali da parre delle Organizzazioni non governative, rimane assai alto. Vanno accertate tutte le responsabilità di chi ha ritardato lo sbarco dopo le operazioni di soccorso, con argomenti che appaiono privi di fondamento legale. Ma occorre abrogare anche il decreto sicurezza bis, nelle parti che riconoscono al ministro dell’interno i poteri di vietare l’ingresso nelle acque territoriali in violazione delle Convenzioni internazionali, e sanzionano i soccorsi umanitari delle ONG, concedendo ai prefetti il potere di adottare la confisca amministrativa delle navi soccorritrici, con effetti che perdurano anche quando la magistratura penale esclude ogni responsabilità in capo ai soccorritori.
[1]In una nota del Tribunale dei minori di Palermo del 9 agosto 2019, questo Tribunale scriveva“come è ben noto le Convenzioni Internazionali a cui l’Italia aderisce e soprattutto l’art. 19 co. 1 Bis D Lvo 286/98 come integrato dall’articolo 3 della legge 47/17, impongono il divieto di respingimento alla frontiera o di espulsione dei minori stranieri non accompagnati, riconoscendo loro, invece il diritto ad essere accolti in strutture idonee, nonché di aver nominato un tutore e di ottenere il permesso di soggiorno.”. Lo stesso Tribunale proseguiva affermando che “Evidentemente tutti questi diritti vengono elusi a causa della permanenza dei suddetti a bordo della nave Open Arms, nella condizione di disagio fisico e psichico descritta dal medico di bordo che ha riferito della presenza di minori con ustioni, difficoltà di deambulazione, con traumi psichici gravissimi in conseguenza alle terribili violenze subite presso i campi di detenzione libici.”
[2]https://www.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/open-arms-tar-lazio-sospende-divieto-dingresso/
[3]Osservava il TAR Lazio, “considerato, quanto al fumus, che il ricorso in esame non appare del tutto sfornito di fondamento giuridico in relazione al dedotto vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti e di violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso, nella misura in cui la stessa amministrazione intimata riconosce, nelle premesse del provvedimento impugnato, che il natante soccorso da Open Arms in area SAR libica – quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo – era in “distress”, cioè in situazione di evidente difficoltà (per cui appare, altresì, contraddittoria la conseguente valutazione effettuata nel medesimo provvedimento, dell’esistenza, nella specie, della peculiare ipotesi di “passaggio non inoffensivo” di cui all’art. 19, comma 1 [recte, comma 2], lett. g), della legge n. 689/1994)”
Il TAR Lazio riteneva pertanto,” quanto al periculum in mora, che sicuramente sussiste, alla luce della documentazione prodotta (medical report, relazione psicologica, dichiarazione capo missione), la prospettata situazione di eccezionale gravità ed urgenza, tale da giustificare la concessione – nelle more della trattazione dell’istanza cautelare nei modi ordinari – della richiesta tutela cautelare monocratica, al fine di consentire l’ingresso della nave Open Arms in acque territoriali italiane (e quindi di prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli, come del resto sembra sia già avvenuto per i casi più critici”.
[4]Come riferiva l’ANSA il 15 agosto, il ministro della difesa Trenta affermava: “Non firmo il nuovo divieto di Salvini in nome dell’umanità”. “Non si può infatti ritenere che siano rinvenibili nuove cogenti motivazioni di carattere generale ovvero di ordine e sicurezza pubblica tali da superare gli elementi di diritto e di fatto nonchè le ragioni di necessità e urgenza posti alla base della misura cautelare disposta dall’autorità giudiziaria che anzi si sono verosimilmente aggravati. La mancata adesione alla decisione del giudice amministrativo – continua Elisabetta Trenta – potrebbe finanche configurare la violazione di norme penali”. E ancora: “Ho preso questa decisione motivata da solide ragioni legali ascoltando la mia coscienza. Non dobbiamo mai dimenticare che dietro le polemiche di questi giorni ci sono bambini e ragazzi che hanno sofferto violenze e abusi di ogni tipo. La politica non può mai perdere l’umanità”
[5]Il ministro dei Trasporti Toninelli motivava così la sua decisione di non firmare il nuovo divieto: “Emettere un nuovo decreto identico per farselo bocciare di nuovo dal Tar dopo 5 minuti – spiega – esporrebbe la parte seria del governo, che non è quella che ha tradito il contratto, al ridicolo. Questo non significa che dobbiamo accogliere tutti i migranti di Open Arms. La nostra linea non cambia: mettiamo in sicurezza la nave come ci chiedono i giudici, poi l’Europa e in primis la Spagna inizino ad assumersi le proprie responsabilità facendosi carico di accogliere 116 migranti. Noi come Italia interveniamo per tutelare la salute dei 31 minori a bordo”.
[6]https://www.ilpost.it/2019/08/21/migranti-open-arms-sbarcati-lampedusa/
[7] http://www.dpceonline.it/index.php/dpceonline/article/download/701/663/
[8]https://www.a-dif.org/2020/02/09/divieti-di-ingresso-nel-mare-territoriale-e-processo-penale/
[9]http://questionegiustizia.it/articolo/dissequestrata-la-nave-open-arms-soccorrere-i-migranti-non-e-reato_19-04-2018.php
[10]http://questionegiustizia.it/rivista/2018/2/gli-obblighi-disoccorso-inmare-neldiritto-sovranazionale-enell-ordinamento-interno_548.php
[11] S. Trevisanut, Immigrazione irregolare via mare, diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, Napoli, Jovene, 2012.
[12]https://www.meltingpot.org/Cap-Anamur-Pubblicati-i-motivi-di-assoluzione-l-intervento.html#.XkxRrTJKj3g
[13] M. Starita, Il dovere di soccorso in mare e il “diritto di obbedire al diritto” (internazionale) del comandante della nave privata, in Diritti umani e diritto internazionale, 2019, pp. 5-47.
[14]http://www.imo.org/en/KnowledgeCentre/IndexofIMOResolutions/Pages/Default.aspx
[15] Una nave che interviene per fornire soccorso non può essere assunta come porto sicuro, in quanto essa non è dotata dei servizi e dell’equipaggiamento adatti per assistere le persone soccorse in maniera adeguata e senza mettere in pericolo la sua stessa sicurezza. Per tale ragione: “even if a ship is capable of safely accommodating the survivors and may serve as a temporary place of safety, it should be relieved of this responsibility as soon as alternative arrangements can be made. A place of safety may be on land, or it may be aboard a rescue unit or other suitable vessel or facility at sea that can serve as a place of safety until the survivors are disembarked to their next destination” (par. 6.13 e 6.14 delle Linee guida).
[16]http://www.imo.org/en/OurWork/Safety/RadioCommunicationsAndSearchAndRescue/SearchAndRescue/Pages/IAMSARManual.aspx
[17]Il Considerando 26 della Direttiva 2013/32/UE prevede che “al fine di garantire l’effettivo accesso alla procedura di esame, è opportuno che i pubblici ufficiali che per primi vengono a contatto con i richiedenti protezione internazionale, in particolare i pubblici ufficiali incaricati della sorveglianza delle frontiere terrestri o marittime o delle verifiche di frontiera, ricevano le pertinenti informazioni e la formazione necessaria per riconoscere e trattare le domande di protezione internazionale tenendo debitamente conto, tra l’altro, dei pertinenti orientamenti elaborati dall’EASO. Essi dovrebbero essere in grado di dare ai cittadini di paesi terzi o agli apolidi presenti sul territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito degli Stati membri, e che manifestano l’intenzione di presentare una domanda di protezione internazionale, le pertinenti informazioni sulle modalità e sulle sedi per presentare l’istanza. Ove tali persone si trovino nelle acque territoriali di uno Stato membro, è opportuno che siano sbarcate sulla terra ferma e che ne sia esaminata la domanda ai sensi della presente direttiva”.
[18] v. T. Scovazzi, Il respingimento di un dramma umano collettivo e le sue conseguenze, in L'immigrazione irregolare via mare nella giurisprudenza italiana e nell'esperienza europea, a cura di A. Antonucci, I. Papanicolopulu e T. Scovazzi, Torino, Giappichelli, 2016, p. 45 ss.
[19]Nell’ordinanza del GIP di Agrigento del 2 luglio 2019, relativa al caso Sea Watch, infatti, si afferma che :”«l’art. 11 comma ter del D. Lgs 286-98 (introdotto dal D. L. n. 53/2019): difatti, ai sensi di detta disposizione, il divieto interministeriale da essa previsto (di ingresso, transito e sosta) può avvenire, sempre nel rispetto degli obblighi internazionali dello Stato, solo in presenza di attività di carico o scarico di persone in violazione delle leggi vigenti nello Stato Costiero, fattispecie qui non ricorrente vertendosi in una ipotesi di salvataggio in mare in caso di rischio di naufragio. Peraltro, l’eventuale violazione del citato art. 11 comma 1 ter – si ribadisce sanzionata in sola via ammnistrativa – non fa venir meno l’inderogabile disposto di cui all’art. 10 ter del Dlgs 286/98, avente ad oggetto l’obbligo di assicurare il soccorso, prima, e la conduzione presso gli appositi centri di assistenza, poi».
[20]Si deve ricordare quanto richiama Irini Papanicolopulu, docente di diritto internazionale presso l’Università di Milano Bicocca, secondo cui “l’ingresso di una nave che trasporta persone soccorse in mare in adempimento dell’obbligo internazionaleassistere le persone in pericolo e di condurle in un luogo sicuro. In altri termini, la fattispecie del salvataggio in mare continua fino a quando il comandante non abbia fatto sbarcare le persone in luogo sicuro, e il suo ingresso nel mare territoriale e nei porti di uno Stato non può essere visto sotto luce diversa. Non si può quindi precludere il passaggio inoffensivo ad una nave che ha soccorso persone in pericolo, anche al di fuori del mare territoriale, qualora questa intenda entrare al fine di perfezionare il proprio obbligo di salvare la vita umana in mare.”di salvare la vita umana in mare non può considerarsi come attività compiuta in violazione delle leggi nazionali sull’immigrazione, a condizione che l’obiettivo della nave sia semplicementequello di far sbarcare le persone soccorse. Infatti, l’obbligo di salvare la vita umana in mare vincola sia gli stati (ai sensi dell’art.98, par. 1 CNUDM) sia icomandanti di navi (ai sensi del Capitolo V, reg. 33 SOLAS, nonché di numerose norme nazionali, quali ad esempio l’art. 489 cod. nav.).
* di seguito la Relazione del Tribunale di Palermo, Collegio per i reati di cui all'art. 96 Cos.
La «missione» del magistrato nella concezione di Lodovico Mortara*
Carmelo Sgroi
Inizio dalla fine, per usare una frase che echeggia Lewis Carroll; dai ringraziamenti. Ringrazio gli organizzatori di questo incontro per avermi invitato e per avermi dato così modo di approfondire lo studio di un pensiero e di un percorso umano così fecondi, anche attraverso la lettura dei due densissimi testi di Massimiliano Boni e di Paolo Spaziani che oggi vengono presentati; per avermi così consentito di apprendere e di ricevere molto, certamente più di quanto io possa restituirvi con il mio intervento.
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Compendiare in una relazione il pensiero di una figura complessa come è quella di Mortara circa l’idea – la «missione» – di magistrato, quindi circa l’idea di giurisdizione e di collocazione della giurisdizione nello Stato e nella società ch’egli ha elaborato, è cosa ardua. Lo è in particolare per chi come me si è addentrato nella lettura degli scritti principali di Mortara proprio nell’occasione di questo incontro; poiché nella formazione universitaria e negli studi della mia generazione, e credo delle successive, l’opera di Mortara non è stata presente se non per rapide citazioni, spesso in nota, nei manuali sul processo civile.
Ma questa complessità, oltre che dovuta ai limiti di chi vi parla, mi sembra derivi anche da una caratteristica obiettiva della figura del maestro del diritto processuale. Quella di non essere interamente identificabile in nessuna delle attività nelle quali la sua vita professionale e la sua esperienza di studio e di pratica si sono manifestate.
Avvocato e consulente giuridico brillante, all’inizio e poi al tramonto – benché, per sua stessa voce (nelle Pagine autobiografiche scritte nel 1933, tre anni prima della morte, poi pubblicate nel 1969 da Salvatore Satta nei Quaderni del diritto e del processo civile), egli non amasse particolarmente la libera professione, e ciò forse anche per il carattere personale: un carattere che il professor Cavallone, nello scritto su Chiovenda, Mortara e il progetto Orlando pubblicato sulla Rivista di diritto processuale del 1988 tratteggia come misantropia e che un contemporaneo di Mortara come De Notaristefani, P.G. della Cassazione, anch’egli epurato dal fascismo nel 1923, definisce di tratto «altero, imperioso, sprezzante», insomma una figura ricca, attraente ma non empatica; giurista e accademico di punta, autore non solo di scritti fondamentali della dottrina processualistica del suo tempo, come la voce Appello civile, il Commentario, le Istituzioni di ordinamento giudiziario, ma anche di prolusioni e di relazioni inaugurali degli anni giudiziari destinate a tracciare indirizzi di dottrina; magistrato pervenuto molto giovane ai più alti livelli, sino alle funzioni di Procuratore generale e poi di Primo Presidente della Cassazione romana; Ministro della giustizia e ad interim di altri dicasteri; senatore del Regno; al vertice dell’Associazione dei magistrati; autore e relatore parlamentare di progetti di riforma di ordinamento e del processo, civile e penale, Mortara, in ciascuna e in tutte tali cose, ci appare svolgere un percorso unico, non privo di contraddizioni e anche di aspetti definiti «enigmatici» (il passaggio, allora singolare, dall’università alla magistratura è stato oggetto di diverse letture e ricostruzioni), ma difficilmente comparabile con chiunque altro – oggi lo si direbbe impossibile.
Uomo di riflessione e di azione al contempo. E in questa complessità ed eccezionalità di percorso si legge, mi pare, una inquietudine di fondo, che è il riflesso della tensione che lo contraddistingue, quella verso il fine di giustizia effettiva, per il cui raggiungimento occorre dottrina ma anche prassi, occorrono strumenti legislativi ma anche organizzazione, regole del processo ma anche indipendenza, qualità e professionalità di chi amministra la giustizia. Nessun impegno, nessuna delle tante attività da lui esercitate sembra appagante. Le riforme che egli proporrà rimarranno in buona misura progetti.
Per questo trovo esattissima la considerazione che Salvatore Satta, nel riaccendere la luce sulla figura del giurista di Mantova con lo scritto pubblicato nel 1968 su Giurisprudenza italiana – non casualmente intitolato all’Attualità di Lodovico Mortara – ebbe a svolgere circa la difficoltà di classificare e definire il pensiero di una tale, complessa, figura: «da molti mesi io sono curvo sulla grande pagina di Mortara e ogni forma che ne vagheggio subito mi appare superata da un’altra forma, come pittore che levando gli occhi dal cavalletto si veda un altro modello davanti. Ogni cerchio che traccio intorno alla sua figura sembra rinchiuderla e subito ne deborda, richiedendo cerchi sempre più vasti. Leggo ciò che è stato scritto di lui nel momento della morte e ho l’impressione che anch’essi abbiano provato lo stesso disagio, rifugiandosi nella genericità della lode».
Mortara è uomo del suo tempo. Ho provato, addentrandomi man mano nella lettura degli scritti di Mortara, una impressione analoga a quella definita da Satta: gli scritti ai quali in questa mia relazione mi riferirò mi hanno fatto scorgere talune assonanze tra la figura di Mortara e la pittura cubista, che del resto sorge nel primo decennio del secolo scorso, con la semplificazione delle forme – e Mortara è nemico del formalismo giuridico e degli orpelli processuali: si pensi alle sue critiche alle irrazionalità della disciplina sulle questioni di competenza e alla «babilonia giudiziaria», nella Lettera del 1905 a Carlo Fadda a proposito Della necessità urgente di restaurare la Corte di cassazione, o al fastidio per i cavilli e i sofismi, e prima ancora per l’astrattezza che ad esempio ascrive alla scuola germanista del diritto processuale; tutto ciò, in ennesima contrapposizione con Chiovenda e con il suo paradosso polemico sugli «antiformalisti», che, osservava, sono come uccelli che si lamentano dell’aria che li frena, senza rendersi conto che è l’aria che sorregge le ali e consente loro di volare.
Semplificazione cui però si associa, ineludibile, la necessità di rappresentazione di un soggetto da più punti di vista, il cui assieme soltanto lo rende realmente percepibile e intelligibile nella sua unità – e Mortara svolge ed interpreta sempre le questioni giuridiche delle quali tratta con più lenti contestualmente: il profilo costituzionale e quello legislativo, quello ordinamentale, quello delle conseguenze pratiche.
Così come un tratto che spesso è stato associato alla sua persona, cioè il realismo, il pragmatismo, l’esigenza di studiare e ordinare il processo nel suo svolgersi effettivo, per non contraddirne la funzione che è quella di rendere «a ciascuno il suo», potrebbe suggerire una impercettibile connessione con l’elaborazione, nel primo decennio del ‘900, del principio di realtà nella psicoanalisi freudiana, che indirizza l’uomo nella sua fase di maturità a tenere conto delle condizioni reali del suo agire. La celebre rappresentazione dialettica del passaggio dalla condizione dei rapporti di forza materiale tra gli uomini a quella del predominio della ragione e dell’intelligenza, che Mortara, ordinario di procedura civile e di ordinamento giudiziario, espone nella Prolusione pisana del 1888 su La lotta per l’uguaglianza, quale snodo verso il fine di giustizia sostanziale, effettiva, forze che nel tempo di Mortara sono tra loro in tensione, ha qualche punto di contatto con quel principio psicoanalitico, nel conflitto tra disordine e razionalità.
Mortara, è stato talvolta detto, non ha saputo fondare una propria scuola, diversamente da Chiovenda e Scialoja, e il passaggio dall’Università alla giurisdizione è stato da taluni letto come una retrocessione. Forse l’argomento deve essere rovesciato, perché – mi pare – le premesse fondanti del pensiero di Mortara, rivolte all’esperienza, conducono naturalmente alla necessità di vivere la realtà del giudizio.
***
Nel tempo di questo intervento cercherò di enucleare, tra le tante suggestioni che nascono dalla lettura degli scritti di Mortara, quei passaggi che concorrono a delineare, secondo il titolo, quale sia la «missione» del magistrato nella visione del giurista; in particolare, quelli che toccano la sensibilità odierna e nei quali possiamo intravvedere temi e contenuti sempre vivi nella dimensione del giudizio.
Senza però potermi soffermare – sia per tempo e sia per limite di oggetto: ne tratta il volume di Massimiliano Boni – sull’incidenza più generale che nella formazione e nella evoluzione del pensiero del giurista di Mantova ha certamente rivestito la sua condizione prima, quella dell’essere il «figlio del rabbino», cresciuto in un contesto culturale, quello ebraico, di straordinaria ricchezza e complessità, particolarmente fertile proprio in relazione alla riflessione giuridica a tutto campo. Basti richiamare il passo delle Scritture in cui è detto che «Una parola Iddio disse: due ne udimmo» per cogliere, già solo in questo, la sensibilità e la propensione alla ineliminabile e perpetua molteplicità di senso del linguaggio, dunque alla centralità dell’operazione interpretativa della legge.
I testi ai quali farò riferimento sono quelli di carattere più generale, meno direttamente legati alla scienza del processo civile e del «diritto giudiziario» come allora si chiamava; tralasciando dunque la mai sopita dialettica – lo scontro – tra esegeti e «germanisti», tra Mattirolo e Mortara da un lato, Chiovenda e Scialoja dall’altro.
Anche per delimitare il campo, preliminarmente, ridurrei a un cenno appena la materia penale, nella quale il contributo di Mortara appare maggiormente datato. Benché fosse stato infatti relatore del Codice di procedura penale del 1913, il Codice Finocchiaro Aprile, nel quale tra l’altro troviamo affermato il nuovo principio della presunzione di non colpevolezza dell’imputato, e benché lo stesso Mortara abbia saputo spaziare anche in quel campo con un Commentario, le idee del giurista intorno alla materia penale non troverebbero eco nei nostri giorni.
Animato da una concezione quasi sacrale della giustizia, riflessa perfino lessicalmente nell’uso qua e là di termini liturgici (egli parla di «sacerdozio» del magistrato), Mortara, forse incapace di prendere le distanze da un peraltro frequente orgoglio del civilista, teorizza una sorta di conditio minor della giurisdizione penale attraverso la personificazione del tipo di magistrato che è chiamato a esercitarla, e lo fa in una logica di primazia del processo civile e del diritto sostanziale civile, per esercitare e applicare i quali egli più volte afferma essere necessari un ingegno e una preparazione di eccellenza; laddove per la giustizia penale reputa essere, in fondo, sufficienti le doti di integrità morale e un «mediocre corredo di dottrina». Idea di disequilibrio, questa, che si estende anche sul piano organizzativo e di ordinamento, ad esempio quando egli, dedicandovi un intero capitolo ne Lo Stato moderno e la giustizia del 1885 – scritto che, annota Alessandro Pizzorusso nella Prefazione alla ripubblicazione del volume nel 1992, è un vero e proprio programma di riforme – ne ricava l’opportunità di una netta separazione delle rispettive funzioni in due corpi separati (non certo come canone di specializzazione, bensì per differenza qualitativa del compito!). O quando, pur essendo convintissimo assertore della necessità di unificare le Cassazioni in una sola – cosa che per la Corte civile vedrà realizzata, come una beffa, solo nel momento in cui egli verrà estromesso dalla magistratura – propone il mantenimento delle Corti di Cassazione esistenti solo per la materia penale (di contro l’unificazione di esse sarà anticipata, nel 1888), secondo una sorta di criterio di maggiore «prossimità» del giudice rispetto al fatto da giudicare, che in qualche modo svaluta la funzione di legittimità nella materia penale, avvicinandola a una terza istanza di merito.
Si tratta di proposizioni non condivisibili né attuali, su cui pertanto non appare necessario soffermarsi.
Così pure nella disamina della funzione propria del diritto penale, Mortara non dà mostra di aperture, tratteggiandone una componente sanzionatoria tout court. L’art. 27 Cost. che verrà è del tutto fuori campo. Nella materia penale, Mortara, che vedremo «progressista» altrove, si dimostra pienamente conservatore e portatore di una politica che oggi diremmo esclusivamente securitaria, di difesa sociale, per ciò che possono significare queste etichette.
«Democratico nel cuore, aristocratico nell’intelletto», così Giovanni Verde definisce Mortara, nell’intervento svolto in occasione della presentazione del citato volume su Lo Stato moderno e la giustizia, pubblicato nei Quaderni Fiorentini del 1993; e mi pare definizione equilibrata.
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Quale è l’idea di Mortara intorno alla giustizia?
Essa, già nella dedica ai genitori de Lo Stato moderno e la giustizia, è la «pietra angolare su cui si edifica la prosperità di una nazione» e il cui dominio dovrebbe essere obiettivo dello Stato nel suo assieme, nella cooperazione tra le sue diverse componenti, tra i poteri. Mortara ascrive cioè a tutta la compagine della cosa pubblica lo stesso fine, nell’intendimento di attribuire a ciascuno il suo, nell’«equilibrio fra i diritti di tutti». Libero dalla «tirannia della maggioranza» indistinta, ogni potere – legislativo, esecutivo, giudiziario – deve, ciascuno nella propria attribuzione, tracciare la disciplina e l’affermazione dei diritti di libertà individuale, equilibrando, rendendo armonizzati e tra loro compatibili gli interessi diversi di ognuno.
«La giustizia è un requisito indispensabile di qualunque non viziosa relazione tra uomo e uomo», scrive nel 1885. Ed è dunque «missione» di tutti e tre i poteri, perché fare le leggi, come svolgerle e applicarle, in tanto ha fondamento in quanto si conformi a quell’obiettivo. C’è già, in queste apparentemente generalissime enunciazioni, la base dell’elaborazione di Mortara intorno ai predicati costituzionali della funzione legislativa, ai limiti del potere governativo-amministrativo nel sistema democratico (che sfocerà anche nella nota giurisprudenza sul controllo di legalità sui decreti-legge, oggetto della relazione odierna del Giudice costituzionale Giovanni Amoroso), al ruolo della giurisdizione come componente paritaria della sovranità.
E v’è la base del verso, della direzione che l’attività delle istituzioni, ed ovviamente della funzione giudiziaria, deve imboccare.
La giurisdizione, scrive ancora ne Lo Stato moderno, è attributo paritario di sovranità; fare le leggi e amministrarne l’esecuzione non può bastare allo scopo di giustizia, occorre un soggetto al quale affidare la «veglia sulla loro osservanza», e questo soggetto è la giurisdizione. Nel successivo percorso teorico di Mortara anche per il potere giurisdizionale si porrà il problema dei limiti e dei controlli sul suo esercizio.
La giustizia e i giudici non sono, però, soggetti classificabili sub specie aeternitatis. La giustizia nello Stato democratico è il discorso pronunciato da Mortara, P.G. della Cassazione romana, nella inaugurazione dell’anno giudiziario 1912-1913; un discorso, per inciso, al pari di quello dell’anno successivo, così radicalmente diverso da quelli cui siamo oggi abituati, privo di minute analisi quantitative – il che non impedisce di sottolineare il peso dei numeri gravanti un secolo fa sulla Cassazione, i problemi in tal senso essendo una costante – e imperniato piuttosto su un’analisi di livello costituzionale e soprattutto su un dichiarato intento programmatico e riformatore nel campo della giurisdizione e del sistema, processuale e di ordinamento.
Nel 1912, dunque, Mortara, che è anche un attento comparativista (nel precedente Lo Stato moderno e la giustizia egli analizza a fondo i diversi sistemi, continentali e di common law, esprimendo anche una certa ammirazione per il funzionamento concreto della giustizia inglese), mette in guardia dall’errore di considerare invarianti la giustizia e coloro che la amministrano. Se è funzione di sovranità, è logico che essa sia coerente con le forme che la sovranità assume nel tempo e nei luoghi. E anche la formula del cuìque suum ciceroniano assume connotati diversi e deve essere storicizzato, mutando contenuto, nei regimi assolutisti e in quelli democratici sorti dopo la rivoluzione francese. Nel tempo di Mortara, e – appunto – nello Stato democratico post-rivoluzionario, non è più solo il binomio famiglia/proprietà l’oggetto di garanzia, come la funzione del giudicare non è più solo esercizio di potestà sanzionatoria ma è qualcosa di più e di precedente, è la garanzia da accordare alla gamma dei diritti alla vita e alla libertà individuale e dei diritti politici individuali, diritti che costituiscono – annota nella citata Inaugurazione romana – «il protoplasma di un sicuro ordinamento della convivenza civile».
Entra in campo quindi la tematica dei diritti fondamentali, sino ad allora in ombra, con una impostazione di singolare modernità, che troverà sbocco nella Costituzione del ’48 ma che proprio nella stessa opera di Mortara quale magistrato sarà criterio di interpretazione nella notissima sentenza sul diritto elettorale delle donne, su cui dirò più oltre.
Si può individuare sin d’ora un primo aspetto di attualità del pensiero del grande giurista nella definizione della funzione di giustizia, quello della ineludibile implicazione tra la funzione, la sua conformazione organizzativa e il livello costituzionale. Tra forma di Stato e ordinamento della giurisdizione.
È nota l’affermazione di Calamandrei (nello scritto su Lodovico Mortara, ora in Opere giuridiche, X, 1985), che vede Mortara pervenire allo studio del processo «non salendovi dal diritto civile ma scendendovi dal diritto costituzionale, cercando in esso non lo strumento per far vincere le cause ai litiganti ma il mezzo per attuare lo scopo più augusto dello Stato che è la giustizia». Questa affermazione sarà poi rimeditata in chiave maggiormente aderente alla impostazione del giurista, nel senso di esprimere piuttosto l’attenzione costante di Mortara per il processo come realizzazione dell’ordinamento e della legge in termini obiettivi, come tali sottratti alla totale disponibilità delle parti.
Si è già accennato allo scritto sulla Lotta per [e già la locuzione appare significativa ] l’uguaglianza. È una idea ed una condizione, questa, nuova, dice Mortara. Le rivoluzioni inglese, americana e francese che hanno diversamente portato alla luce o solennemente enunciato il principio dell’uguaglianza non hanno però generato spontaneamente – scrive ancora Mortara – la condizione corrispondente. Secondo una impostazione certamente ottimista, nel passaggio tra il dominio della forza (che è condizione primaria nella lotta per l’esistenza in sé) e l’affermarsi della uguaglianza (che non è una utopia ma è il portato dell’intelligenza dell’uomo), il presente – di Mortara; ma diremmo anche il nostro – dà mostra di una lotta in atto, non ancora conclusa, e ciò vale sia tra gli individui sia nella dimensione sovranazionale, come lotta tra popoli. Compito dell’ordinamento e in esso del giurista, teorico o pratico, è di dare consistenza di fatto a quel principio, contro le teorie della filosofia pessimista di Hobbes e di Schopenhauer e contro i denigratori dell’uguaglianza come mera utopia. Le masse – aggiunge – non propendono, per natura, verso quell’obiettivo, poiché semmai esse «obbediscono alla spada e al bastone» (qui troviamo un riferimento attualizzabile, con l’odierno populismo ...); ma per passare dal dominio della forza a quello dell’intelletto e della ragione, che fondano l’uguaglianza di diritto, intelletto e ragione non bastano: «l’uguaglianza di diritto non contiene l’uguaglianza di fatto. Anzi, il principio di uguaglianza di diritto non ha valore pratico se non in quanto suppone disuguaglianze di fatto», annota Mortara nella Prolusione pisana del 1888, e però proprio per questo lo sforzo della intera compagine pubblica deve indirizzarsi alla realizzazione pratica di quell’obiettivo, poiché il principio dell’uguaglianza di diritto «stabilisce una necessaria tendenza alla diminuzione delle disuguaglianze reali e una necessaria aspirazione al suo totale cancellamento». Per quanto possano apparire o siano state definite «ingenue», queste proposizioni ci mostrano invece in controluce il futuro art. 3, secondo comma, della Costituzione.
Ed ancora sono certamente di tono costituzionale le analisi ch’egli svolge intorno alla necessità di contrappesi di legalità rispetto all’esercizio della funzione governativa e amministrativa. L’apertura non solo teorica ma espressa in due sentenze della Cassazione al sindacato sui decreti-legge, esponenzialmente cresciuti di numero nel secondo decennio e non previsti da una Costituzione flessibile come quella statutaria, si salda idealmente con l’indirizzo della Corte costituzionale della seconda metà degli anni ’90 sull’abuso della decretazione di urgenza, specie in ambito penale.
Sul versante amministrativo, analogamente, l’elaborazione di Mortara si muove nella ricerca degli strumenti di garanzia rispetto all’esercizio del potere: la sentenza del 1922 sul rifiuto della potestà sub-legislativa dell’amministrazione e sulla conseguente possibilità di azionare pretese risarcitorie verso la P.A. consente, mi sembra, un collegamento ideale con la nota decisione delle Sezioni unite civili n. 500/1999 ed è a ogni modo riaffermazione della centralità del principio di legalità, da lui sottolineato nel rilievo della condizione più avanzata dell’Italia rispetto alla Francia quanto alle garanzie rispetto agli abusi e alle violazioni del potere amministrativo, specie dopo la legge del 1865 abolitiva del contenzioso amministrativo.
Ancora, spicca la sentenza che la Cassazione romana a Sezioni Unite da lui presieduta pronuncia, nel 1917, in tema di insindacabilità dinanzi alla giurisdizione amministrativa di atti del Consiglio superiore di giustizia, confermati dal Ministro, relativi alla carriera di un magistrato; una conclusione che oggi vediamo risolta in termini opposti, con ipertrofia del controllo ab externo, ma che merita qui segnalazione soprattutto perché esprime l’idea di fondo dell’autonomia della funzione giurisdizionale e con essa della istituzione che ne espone il governo, appunto, autonomo.
Infine, pur senza poterne approfondire la disamina nell’economia di questo intervento, tra le analisi del presente e i programmi riformatori de futuro che Mortara espone negli scritti, un cenno va fatto sui passaggi in cui l’autore delinea la collocazione delle istituzioni di garanzia nel quadro dell’equilibrio tra i poteri, come già detto convergenti, fisiologicamente, tutti verso il medesimo obiettivo di giustizia. Non riterrei arbitrario ravvisare in queste proposizioni le premesse culturali remote del principio costituzionale di leale cooperazione.
Questo primo passaggio conduce a esaminare un altro punto cruciale della sua elaborazione: l’analisi dell’ordinamento giudiziario e le relative indicazioni di riforma.
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Mortara, si è accennato, non sembra concepire l’elaborazione sul processo disgiunta da quella sull’assetto di organizzazione e di ordinamento della magistratura. Anzi, in qualche misura ne inverte la priorità logica: sul piano dell’organizzazione generale l’organo di auto-governo della magistratura, il Consiglio superiore (allora, di giustizia), deve costituire «il punto di congiunzione tra i tre rami della sovranità», sicché – anche qui con notazione attualizzabile – ne propone, nel testo del 1885, una composizione mista, inclusiva della componente laica oltre a quella togata, per renderlo coerente con quel ruolo. In parallelo, sul piano della analisi dell’organizzazione concreta e della rispondenza dell’assetto ordinamentale all’esigenza di giustizia effettiva, egli avverte con chiarezza, e in anticipo sui suoi tempi, che la magistratura necessita al contempo di «garanzie e freni», come titola proprio un capitolo de Lo Stato moderno e la giustizia, e ciò per preservarne la funzione sovrana dall’esterno, negli equilibri con i poteri pariordinati, ma allo stesso tempo per impedire che il potere si trasformi in un «ordine», nel senso debole che una dottrina del suo tempo ha proposto per definirne una soggezione funzionale al legislatore e al governante.
Mortara è insigne processualista e però non guarda solo ai meccanismi del processo, guarda, direi in prima battuta, all’assetto istituzionale e alle condizioni di coloro, i magistrati, che sono chiamati a svolgere la funzione di giustizia, da lui collocata al vertice nell’agire della compagine sociale. Forte della solida preparazione nel diritto costituzionale e amministrativo, e uomo della più schietta indipendenza interiore, come dimostrano in abbondanza le decisioni da lui prese nei venti anni di esercizio della giurisdizione (1903-1923) e come testimoniano gli eventi che man mano nella sua vita lo hanno condotto a mutare strada, egli è consapevole che non è sufficiente circondare il personale di magistratura con un reticolo di meccanismi di indipendenza; consapevole cioè che la dimensione politica e partitica tende naturalmente ad affrancarsi da troppo stretti controlli, egli annota, già nel 1885, che non può bastare il desiderio di assicurare indipendenza all’esercizio della giurisdizione, perché occorre qualcosa in più, l’autonomia organica, e questa può venire assicurata solo spezzando la dipendenza della magistratura dal vertice ministeriale.
Non ha rilievo qui stabilire se e quante delle idee di Mortara siano state poi messe in opera con l’istituzione del Consiglio superiore nel 1907, su cui egli si esprimerà criticamente; ciò che conta è sottolineare la lucidità di analisi del profilo, cruciale per la realizzazione della giustizia effettiva.
E dunque agli guarda allo stato delle cose del suo tempo, guarda ai magistrati e al loro operare.
Ma lo sguardo è impietoso. La magistratura, quella post-Statutaria derivata dalle forti immissioni di personale formatosi con le lotte risorgimentali, gli si presenta nella sua interezza come un corpo burocratico e asfittico.
L’organizzazione e la composizione della magistratura gli suggeriscono perfino notazioni sarcastiche, già ne Lo Stato moderno e la giustizia, ancorché esse siano da leggere considerando i severi tratti caratteriali dell’uomo Mortara: è diffusa, afferma, l’«ignoranza», presso pretori, giudici e consiglieri di appello, ed è una «marea che sale verso gli stadi superiori»; la scarsità di stipendi, ma soprattutto le condizioni di organizzazione del servizio rendono impossibile studio e formazione, fino a – sono ancora parole di Mortara nello scritto del 1885 – rendere plausibile la prospettiva di «rincretinire» in breve tempo. Egli è uomo pratico, e non nega che per l’amministrazione della «piccola giustizia», quella degli affari che oggi diciamo bagatellari, si può anche «procedere alla spiccia», e tuttavia lo allarma il contesto complessivo, poiché la giustizia esige che la società civile abbia fiducia in essa, una fiducia che Mortara intravvede soltanto – e non senza strappi – nella funzione della Cassazione, che proprio per questo esige di essere unificata e rafforzata, anche sul piano delle quotidiane funzioni (come testimonieranno i colleghi, severo rigore sarà esercitato da Mortara nella conduzione dei processi). Nel testo dell’Intervento inaugurale del 1912, analizzando dal punto di vista del titolare dell’ufficio requirente di vertice l’aspetto della legittimazione del potere giudiziario, Mortara afferma che la «forza intrinseca di ogni pubblico potere [dunque anche della giurisdizione] è l’opinione e la considerazione che il popolo ha di esso», che ne riconosca legittimità. Non è un appello populista, per usare un termine di attualità, ciò che egli propone; bensì, in quanto forma di esercizio della sovranità e massima istanza di giustizia, è l’esigenza che la funzione, che trova base nella legge e da essa ripete la sua legittimità formale, sia in armonia con il fondamento democratico che alimenta le istituzioni parlamentari e le democrazie rappresentative.
Egli teme la separatezza del corpo di magistrati, le cui prerogative – come la relativa inamovibilità – e al contempo le cui forme di soggezione all’esecutivo ne fanno un organismo burocratizzato, magari indipendente nello svolgimento delle proprie attribuzioni ma privo della indispensabile autonomia organica: una «casta chiusa» – sono ancora parole del giurista, che oggi sono perfino di moda – che fa sorgere il dubbio che «quanto più il corpo giudiziario è rinserrato tra i cancelli isolatori, tanto meno si può sperare che la sua composizione migliori in conformità alle esigenze della funzione». Il corpo giudiziario, così conformato, non è democratico, afferma.
Al rischio della chiusura e dell’isolamento del ceto giudiziario, d’altra parte, si associa l’esigenza di un assetto che sappia auto-rigenerarsi e sterilizzare, o perfino eliminare, dal proprio ambito coloro che mostrano di non essere in grado di svolgere la funzione. «Bastano pochi individui per screditare tutto il corpo», scrive; e sono notazioni che potrebbero accompagnare una attuale relazione sull’andamento della giustizia disciplinare.
Non è questa la sede per esaminare a fondo le diverse e anche minuziose proposte che Mortara costruisce come antidoti a tale stato di cose e ai rischi illustrati, perché interessa, in chiave attuale, piuttosto l’analisi di criticità durature che non questa o quella soluzione, ovviamente storicizzabile.
E certamente il quadro forse un po’ troppo fosco che egli dipinge della magistratura, prima di farvi ingresso, ma che non risparmia neppure avvocati e parti processuali, deve essere considerato al netto di una propensione elitaria e di una particolare severità di giudizio culturale e intellettuale dei propri simili, che non abbandonerà mai Mortara (come dimostrano anche le sue Pagine autobiografiche, con l’ammissione del suo spirito solitario). Ma non per questo alcune notazioni possono essere sminuite, e anzi ci appaiono anch’esse di attualità; come quella, anche letterariamente efficace, che egli tratteggia nello scritto su Una piaga nell’ordinamento attuale della magistratura del 1903, pubblicato ne La Riforma Sociale di quell’anno, dove, analizzando con toni assai critici la disfunzionalità del meccanismo di avanzamento in carriera imperniato su valutazioni tecniche da parte di una Commissione consultiva, secondo meccanismi classificatori cervellotici (che partono dal «buono», transitano per il «buono a pieni voti», l’«ottimo», l’«ottimo a pieni voti», fino al «merito eccezionale»; il «non buono», egli osserva ironicamente, è cancellato dalla realtà), auto ed etero-relazioni, provvedimenti estratti a sorte et similia, descrive i «pellegrinaggi» a Roma di magistrati in predicato di avanzamento nelle carriere per implorare l’indulgenza della Commissione, sovente con successo rispetto a coloro che si astengono da tale pratica; i quali ultimi, chiosa, finiscono in tal modo per risultare degli «ingenui». Uno scenario attualizzabile.
Non minore aspra ironia troviamo nella parte dello scritto Un pericolo sociale: la decadenza della magistratura in Italia del 1894, anch’esso apparso su La Riforma Sociale, là dove, lamentando ancora il burocratismo e l’assenza di metodi di selezione davvero funzionali alla giustizia e non all’interesse del singolo, offre al lettore l’immagine un po’ grottesca dell’«unico libro che non manca mai nella biblioteca del magistrato: la graduatoria» (oggi diremmo: il ruolo di anzianità), una «stupenda trovata» che vede il magistrato assorto in calcoli e combinazioni – su trasferimenti, promozioni e quant’altro dei propri colleghi – che ai profani appaiono «come la cabala del lotto».
Come severa è la constatazione che il «dovere» del giudice, l’adempimento della missione di cui parliamo, viene spesso confuso, al tempo di Mortara, con l’erogazione quantitativa di provvedimenti rapportata alla brevità del tempo impiegato per adottarli, indifferente essendo la qualità e la tenuta giuridica del prodotto.
Contro la «gerarchia burocratica», contro i meccanismi selettivi inidonei a collocare i magistrati nelle varie funzioni secondo le loro effettive attitudini e al servizio della generalità dei cittadini (il che, dice, avvicina impropriamente la giurisdizione a un assetto che egli definisce militaresco), e contro l’equivoco dell’identificazione del dovere con la sola quantità, l’antidoto, per Mortara, è duplice: preparazione e studio, rapportati al tipo e all’ambito della giurisdizione, da un lato, con corsi pratici e programmi di accesso e di avanzamento; selezione correlata esclusivamente al valore e alla capacità effettiva, dall’altro.
Germi, in fondo, di opzioni future: la distinzione dei magistrati solo per funzioni del Costituente; l’instaurazione di meccanismi di formazione permanente nel governo autonomo e oggi l’istituzione e l’attività della Scuola della magistratura. Ma anche il rafforzamento delle specializzazioni e la relativa considerazione, in sede di assegnazione dei diversi ruoli.
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Ma il terreno nel quale l’elaborazione di Mortara intorno al processo e all’ordinamento della giurisdizione si incontrano con il ruolo concreto del magistrato è quello dell’idea che egli esprime della funzione del giudicare, nel rapporto del magistrato con la legge e con le norme che di volta in volta è chiamato ad applicare. Sulla giurisprudenza, quindi, e sul suo senso.
È celebre l’affermazione, contenuta nel suo Commentario al codice, secondo cui «se la legge è la statica del diritto, la giurisprudenza ne è la dinamica». Con termini ancora più netti, nel definire l’ufficio del magistrato, sia esso penale o civile, afferma (ne Lo Stato moderno e la giustizia), che «la legge è quasi nulla, l’opera del magistrato è tutto», perché è nell’attività del magistrato e nella giurisprudenza che si «forma ed eseguisce in uno il precetto legislativo che intelletto e coscienza suggeriscono più acconcio al caso controverso».
Il diritto materiale dunque si fa, vive, nel processo e nelle decisioni che incessantemente sono rese dalla giurisdizione. «La lettera uccide, lo spirito vivifica»: così Mortara definisce, ancora, la posizione che l’interprete deve assumere dinanzi alle norme, proprio quelle fondamentali – riferendosi allora allo Statuto – nella ricerca della soluzione del giudizio. «Il contenuto di una carta costituzionale non sta nelle parole testuali che la compongono, ma nella interpretazione e nella osservanza che essa ha avuta in pratica; il diritto pubblico di un popolo è nella vita stessa e nello svolgimento delle sue istituzioni, non nella scrittura del foglio di carta o di pergamena sia pur venerabile e glorioso che segna la data in cui tale vita e tale svolgimento ebbero principio». In questa proposizione, che in parte è stata letta anche come spunto embrionale della teorica della costituzione materiale, si intravvede più chiaramente l’approccio di Mortara al tema del metodo dell’interpretazione giuridica e dell’obiettivo di giustizia cui essa deve sempre avere riguardo. In questa stessa proposizione, si spiega apertamente l’attenzione che secondo Mortara occorre avere prima di tutto per il magistrato, per l’assetto della magistratura, nell’apprestare un soggetto pubblico adeguato a tale compito; come osserverà Satta, la via da percorrere non è quella dal trattato processuale alla giustizia, ma è l’inversa, dalla giustizia al trattato. Forse in questo sta l’impossibilità, direi strutturale, di Mortara di costituire una «scuola» di sistema teorico.
Ravvisiamo, già in questi pochi cenni, un denso compendio di idee che oggi costituiscono dati essenzialmente acquisiti ma che ieri, nel tempo di Mortara, tali non erano.
V’è la scissione concettuale tra disposizione e norma, in primo luogo, nel rapporto tra la lettera (una) e lo spirito che le dà senso, plurimo, nel tempo.
V’è la necessità di svolgere un’interpretazione «verso l’alto» ossia guardando alle norme fondamentali, costituzionali, ma sempre assegnando a dette norme una portata dinamica, funzionale alle finalità che la disposizione testuale contiene in potenza.
Il focus dell’esperienza giuridica si colloca così naturalmente nel giudizio, che ne diviene il centro, rispetto alla legge: oggi diremmo alle molte fonti multilivello che accentuano la validità della intuizione di Mortara, trovando esse composizione solo se collocate nell’opera di un giudice, sia esso di livello costituzionale oppure no.
Contro la linearità a senso unico della idea che mette in sequenza legge, amministrazione e giudizio, e che fa quindi preesistere la legge alle altre funzioni, che dovrebbero limitarsi a darne svolgimento, Mortara è moderno anche là dove offre una visione circolare del diritto, che non risiede nella legge come un dato presupposto ma «si fa» nell’attività della giurisprudenza; e non credo sia necessaria una particolare spiegazione per registrare la modernità di questo concetto.
Coerentemente, l’atteggiamento che è stato definito pragmatico di Mortara intorno alla dottrina del processo civile, riflette questa concezione del diritto e della funzione del giudizio: la forma processuale è «l’armatura con la quale il diritto individuale deve scendere in campo per ottenere salvezza e reintegrazione quando sia offeso o minacciato», afferma nel 1913, nel corso della Inaugurazione dell’anno giudiziario (1913-1914), quale Procuratore generale presso la Cassazione romana. Ma l’armatura processuale deve essere snella, funzionale allo scopo; da qui la repulsa verso i formalismi del rito, verso le aberrazioni (ho ricordato sopra le regole sulla competenza, allora suscettibili di paralizzare ad libitum un processo; ma meriterebbe approfondimento la posizione intorno alle nullità formali, in tema di notificazione e competenza dell’ufficiale giudiziario, cui Mortara, anche qui con previsione anticipata, propose di rimediare anche con l’utilizzazione del servizio postale) che impediscono di raggiungere il fine ultimo del processo: il dare ciò che spetta.
Su queste premesse, che affidano all’interprete-magistrato il compito di fornire nell’esperienza viva la lettura della proposizione legislativa, sta il riconoscimento di una quota ineliminabile di incertezza del diritto e, di contro, sta l’attenzione speciale che Mortara rivolge verso la Cassazione, di cui diverrà Primo Presidente, non solo nel combattere le teorie della terza istanza di giudizio che inquinano il carattere di stretta legittimità, ma nel prefigurare la necessaria unicità della Corte (civile, quella penale essendo giù unificata dal 1888), condizione di garanzia del suo compito quale giudice supremo, che è quello della interpretazione esatta e uniforme della norma.
Un obiettivo ch’egli vedrà realizzato, nella Corte da lui presieduta, proprio nel momento in cui ne sarà estromesso dal fascismo.
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È nell’esercizio diretto della funzione – al suo massimo livello – che queste idee intorno alla funzione giurisdizionale e al metodo che vi si associa trovano per così dire plastica espressione. La vera e propria ansia di giustizia che permea l’opera del giurista – teorico, pratico, riformatore – trova forse il suo momento di realizzazione e di sintesi più nitido all’interno della funzione che prima, dall’esterno e come studioso, egli ha così profondamente analizzato. Quasi traducendo in azione propria, e nella relativa responsabilità, l’idea del divenire del diritto attraverso l’opera della giurisprudenza.
In questa luce non può non farsi richiamo alla notissima sentenza sul voto politico alle donne (che ha dato anche spunto all’elaborazione letteraria di questa vicenda delle «suffragette», le maestre di Senigallia, nel romanzo Il giudice delle donne, del 2016, di Maria Rosa Cutrufelli), resa dalla Corte d’appello di Ancona da lui presieduta per un breve tratto, nel 1906.
La decisione è nota: la Corte di Ancona, respingendo un ricorso del Procuratore del Re, ammette all’elettorato attivo dieci insegnanti, spezzando la regola della esclusione delle donne sino ad allora – e poi in seguito, fino al voto referendario e per l’Assemblea costituente – negato in base a una regola non scritta, consuetudinaria. Il metodo, asciutto, oggi ineccepibile, della decisione esprime a tutto tondo le coordinate del pensiero di Mortara: la fonte costituzionale – lo Statuto – afferma che i cittadini (i «regnicoli») sono uguali davanti alla legge e godono egualmente dei diritti civili e politici (art. 24) e inoltre il successivo art. 25 ribadisce che essi contribuiscono indistintamente ai carichi dello Stato, ovverosia pagano le tasse, in proporzione alla loro ricchezza. Da queste disposizioni, afferma la sentenza, non è possibile in alcun modo trarre la legittimità di una differenziazione di genere, così come nessuna differenza è sostenibile nella titolarità dei diritti fondamentali e dei diritti politici e di partecipazione (libertà, manifestazione del pensiero, riunione e così via). Con notazione di grande modernità, il passaggio cruciale sta nel classificare anche il diritto alla partecipazione politica, attraverso la sua espressione del voto per le istituzioni rappresentative, nel catalogo di quelli fondamentali, valevoli per tutti, per tale via sottraendo quel diritto – attivo – alla precedente gabbia del rapporto con l’aspetto passivo, ossia con l’accesso alle funzioni istituzionali, all’epoca precluso alle donne.
Di contro, se è vero che lo stesso Statuto – flessibile – ammette che al principio di eguaglianza possa farsi eccezione a opera della legge, la sentenza della Corte di Ancona osserva che una legge di eccezione non c’è; c’è, è vero, una disposizione che nega alle donne la capacità elettorale nelle elezioni amministrative (al pari degli analfabeti, dei condannati, dei ricoverati in ospizio, dei falliti e degli interdetti!), nel T.U. del 1898, ma questa disposizione non esprime un principio, bensì rappresenta una eccezione ad esso, dunque non può costituire base giuridica per una sua estensione a un caso che non vi rientra. Sicché non può valere neppure, per escludere le donne dalla vita politica, l’argomento retorico da minore a maggiore, ossia l’affermazione che se le donne non possono partecipare alle elezioni amministrative allora a maggior ragione non possono in quelle politiche generali. Né – aggiunge la decisione – possono costituire base per la soluzione negativa talune disposizioni collaterali che regolano la cd. delegazione di censo, dalle donne agli uomini, ma che sono poste per conferire il diritto elettorale al marito, non per negare il diritto alla donna. Non c’è la legge e non c’è neppure la ragione per affermare una regola di esclusione secondo l’appartenenza di genere.
Il tema è il silenzio della legge, ma è un silenzio apparente: se nulla dice la legge in merito al diritto di voto politico per le donne, semplicemente è sufficiente la fonte costituzionale, che non fa distinzioni; non v’è alcun bisogno quindi di colmare una lacuna attraverso argomenti consuetudinari.
In questa sentenza, vien da dire, c’è, condensato in proposizioni lineari, l’approccio intero del Mortara teorico, che si fa giurisprudenza.
Vi troviamo, esplicita, la categoria dei diritti fondamentali, e vi troviamo soprattutto incluso il diritto di partecipazione politica, in base al testo primario, il che è una novità per il tempo, rispetto alle idee dominanti che collocano questi diritti in un ambito diverso, quello dei cd. diritti pubblici soggettivi. La decisione ricusa cioè l’argomento che i diritti politici debbano essere collocati in un’area diversa, a fare da pendant alle regole di partecipazione alle cariche e agli uffici pubblici, riservati agli uomini.
Vi troviamo al contempo la necessità di assegnare alla disposizione costituzionale il significato maggiormente conforme non solo alla lettera ma allo spirito che la informa, in una accentuazione della libertà dell’individuo quale soggetto centrale del diritto, il che anticipa il principio personalistico (il futuro art. 2 Cost.), oltre ovviamente quello dell’uguaglianza.
Questa stessa base dell’uguaglianza di diritto, poi, non può essere condizionata o limitata da argomenti metagiuridici o dal richiamo alla tradizione o alla stessa intenzione più o meno implicita di chi la pose (come invece affermerà la Cassazione nell’andare in contrario avviso, valorizzando la tradizione e l’interpretazione consolidata nel senso della esclusione delle donne). Ed in questo senso quindi si fa strada anche la de-valutazione del canone dell’intenzione del legislatore e con essa del ricorso ai lavori preparatori e alle relazioni – nella specie, di Zanardelli, quanto allo Statuto in discorso – che accompagnano l’adozione di un testo legislativo.
Ciò è perfettamente aderente all’idea in divenire della funzione interpretativa della giurisprudenza, al già ricordato carattere dinamico che essa svolge: la legge è posta in un dato tempo, ma essa rappresenta un precetto generale, ed è destinata a governare i bisogni e le contingenze della vita sociale per un tempo illimitato, «adattandosi alla variabilità in modo da rispondere sempre al fine di tutela nell’ordinamento civile». Il diritto non può essere ingessato nel tempo e secondo la cultura di chi lo pose, e se i compilatori della norma ebbero in mente un dato contenuto prescrittivo o un determinato limite, non per questo all’interprete è vietato estrarre dalla proposizione del testo uno scostamento da quell’intenzione o da quel limite, se il testo a ciò autorizza e se lo esige l’assetto dei rapporti sociali.
Ma ciò – troviamo espresso da Mortara nel suo Manuale della procedura civile, scritto nel 1887 – non significa affatto autorizzare l’interprete a sostituirsi alla volontà legislativa, ad invaderne il campo; egli, sulla scia della cd. scuola esegetica (Luigi Mattirolo), ha ben chiaro il limite tra le due possibilità, interpretazione e sconfinamento; e, se rivendica libertà piena di critica come studioso, al contempo nega analoga licenza alla giurisprudenza, che è tenuta a muoversi dentro il perimetro del diritto vigente. In ciò contrapponendosi – anche qui, come per il processo – alla scuola di ispirazione tedesca, che rovescia l’impostazione e fa arretrare la legge rispetto al «sistema». Le conseguenze anche politico-istituzionali di una simile, radicale, dissonanza culturale sono evidenti: nell’approccio di Mortara e della scuola esegetica che vi si ricollega, pur nella dinamica dell’interpretazione, il necessario fondamento legislativo della decisione giudiziale resta un caposaldo da difendere, anche assegnando alla legge il significato più aperto e innovativo, e la garanzia della legalità mantiene più in generale la sua forza di coesione e di evoluzione (il che, nel fragile Stato post-unitario, assume il significato di consolidamento del processo riformatore); nella visione «germanista» – secondo la felice etichetta assegnata da Franco Cipriani – che farà capo a Chiovenda e a Scialoja, è la sistematica a prevalere, ed è dunque l’interprete a prevalere per astrazione rispetto al dato normativo che a quel sistema non sia conforme.
Entrambe le concezioni vanno oltre la lettera del testo, ma imboccano strade assai diverse; in quella di Mortara, l’interprete non applica i propri concetti di sistema, ma svela il significato attuale del testo.
Potremmo dire, assegnando a Mortara una classificazione oggi per noi familiare, che emerge nella sua concezione la tematica del diritto «vivente», espressione che declina il principio di effettività – tanto da essere preso a premessa nelle questioni di costituzionalità – e che in fondo traduce in formula nuova il criterio del giurista mantovano: il ricorso all’intenzione del legislatore storico e alla conseguente fissità della formula lessicale sono sostituiti dalla constatazione del metodo storico-evolutivo, e in questa fondamentale innovazione si radica la centralità dell’opera del giudice, che non crea il diritto nel senso della produzione formale ma ne estrae il testo vivo, effettivo, adattando la regola ai mutamenti del contesto sociale.
Le donne dunque possono votare perché un testo normativo costituzionale lo consente e non autorizza le differenziazioni che pure fino ad allora, anche in quello stesso testo, la cultura del tempo vi aveva scorto.
È un criterio, questo, che ad esempio troveremo ampiamente messo in atto nella giurisprudenza, nell’opera di riadattamento – fin dove possibile – delle norme precostituzionali al mutato quadro della Carta fondamentale, a riprova della intuizione di Mortara in merito alla dinamica giurisprudenziale e al rapporto che corre tra le fonti.
Ed è pure chiaro che in questa nuova centralità della funzione interpretativa rispetto a quella della regolazione iniziale del legislatore, l’esercizio dell’interpretazione si carica di un ben più impegnativo peso: di responsabilità e di scelta, innanzitutto, ma anche di necessaria competenza e formazione, e di autonomia e libertà di giudizio nella composizione degli interessi che sono sottesi da norme diverse, tra loro da coordinare.
Funzione «sovrana», responsabilità, capacità, rifiuto del burocratismo, buona organizzazione: l’attenzione di Mortara per tutti questi aspetti si salda con l’accennato modo di svolgere la funzione, gli uni essendo premesse necessarie dell’altra.
Riprendendo, allora, in chiave di conclusione il titolo – che a ben vedere è un interrogativo – di questa relazione, mi sembra che il quadro frammentato in molti piani tra loro interdipendenti – l’ordinamento della giurisdizione; le condizioni di autonomia e di controllo; il metodo dell’interpretazione; il modo di intendere il processo rispetto al diritto sostanziale; il modo del giudice di porsi di fronte alla legge nella sua applicazione – si ricomponga, proponendo, al netto di inevitabili semplificazioni, un ritratto di magistrato che, muovendo dalla concezione di Mortara, potrebbe attagliarsi al tempo presente.
Un magistrato, investito di una funzione essenziale nel consorzio civile, titolare di responsabilità e per questo autonomo e indipendente, nell’interno e dall’esterno, capace, anche per formazione e studio, di dare una risposta appropriata alle istanze di giustizia; soggetto alla sola legge dunque, da lui applicata attraverso una incessante opera di interpretazione, storica ed evolutiva, idonea a darne il significato nel caso concreto e a collocarla nel tempo in cui opera, immettendovi il significato – variabile ma non arbitrario – che il contesto sociale o l’evoluzione propongono come quello appropriato.
Mi sembra che ne emerga, senza troppe forzature, il ritratto di un dover essere del magistrato che corrisponde, mutatis mutandis, all’idea attuale che la Costituzione e l’ordinamento propongono, in cui quelle esigenze e quelle condizioni del mestiere di giudice assumono connotati di complicazione crescente, per le intersezioni tra fonti eterogenee e soprattutto per la curva esponenziale crescente di nuovi diritti e di pretese non sempre componibili di singoli e di gruppi, nella cd. esplosione dei conflitti.
Ed è particolarmente significativo, quale ulteriore elemento di attualità del pensiero di Mortara, il rapporto tra convincimento personale del magistrato e modo di interpretazione ch’egli deve svolgere, un rapporto che deve ineludibilmente essere posto in termini di netta separazione.
Intervistato poco dopo la sentenza anconetana, Mortara, oltre a illustrare le ragioni di metodo della decisione, affermerà con chiarezza che il proprio convincimento interiore, sul piano culturale, era negativo quanto al riconoscimento del diritto di voto politico alle donne, in base a considerazioni soggettive e di ordine sociologico: egli era «personalmente contrario, giuridicamente favorevole».
In questa capacità di distinzione tra le opinioni personali (che un magistrato, che non vive tra le nuvole, non può non avere e che però non debbono condizionare l’esercizio della giurisdizione) e le scelte interpretative, emerge un aspetto che chiude il cerchio intorno alla ricostruzione dell’idea di magistrato che è presente nella visione di Mortara. Si manifesta l’esigenza della spersonalizzazione, per quanto è possibile, della funzione, come garanzia del buon funzionamento della giustizia e di libertà effettiva di giudizio, di cui troveremo, oltre un secolo dopo, espresse enunciazioni ad esempio nelle pronunce costituzionali riguardanti le regole di imparzialità e di incompatibilità decisoria nel processo penale, come pure nelle decisioni intorno al rapporto di (non)compatibilità tra appartenenza partitico-politica e funzione giudiziaria.
Ragione, senso pratico, giustizia sono il fil rouge del pensiero di Mortara; penso che ciò possa essere condiviso, oggi.
*
Concludo questo intervento, inevitabilmente schematico a fronte della complessità e ricchezza del pensiero e dell’operato di un grande giurista teorico e pratico come Mortara, personalità eminente, giunta ai vertici dello Stato, non priva di alcune contraddizioni o di ripensamenti: tra cui un cenno può farsi sia alla posizione negativa (ne Lo Stato democratico) sull’ingresso in magistratura di estranei – oggi diremmo per meriti insigni – palesemente contraddetta dalla sua stessa chiamata, da lui caldeggiata; sia sulla parimenti critica posizione riguardo l’assunzione di cariche parlamentari per chi appartiene alla magistratura, anch’essa smentita nei fatti dalla sua vita. E molte altre cose si sarebbero dovute annotare ed esaminare, come la particolare posizione (ancora ne Lo Stato democratico) circa il favore con cui egli ipotizzava di importare il modello anglosassone del verdetto reso da una giuria popolare, quale modo di separazione sul campo, per così dire, tra l’accertamento del fatto, rimesso alla giuria, e la decisione in diritto, propria del giudice.
Né è possibile, come detto all’inizio, accennare alla questione ebraica e all’incidenza che questa sua appartenenza (che, ante-Statuto, gli avrebbe perfino impedito l’accesso all’accademia) ebbe nel percorso di un uomo formatosi nella cultura dell’ebraismo ma che nelle pagine autobiografiche si è definito laico, pur nella coesistenza di una «religione», ma rivolta verso la giustizia.
*
Tuttavia, volgendo l’attenzione al domani, l’approccio al pensiero del grande giurista propone una notazione conclusiva.
Ragione, giustizia, senso pratico; interpretazione orientata costituzionalmente; analisi ed elaborazione incessante del diritto vivente; autonomia di giudizio e al contempo inibizione allo sconfinamento nelle potestà altrui; capacità di cogliere la sensibilità del tempo.
Libertà e umanità, capacità di sapere deviare il corso obbligato delle cose. Coraggio.
La complessità di queste coordinate, nel mestiere del magistrato, è compatibile con l’idea, che recluta sempre più sostenitori, della giustizia «predittiva»? e in che misura una delega – per quanto ragionata, selettiva – di elaborazione prognostica sull’esito di un giudizio saprà collocarsi in questo tessuto? L’emergere di esigenze impellenti di «governabilità» del carico giudiziario, indotto dalla già accennata complessità del sistema e dalla crescita di diritti che reclamano tutele, induce a trasferire su istanze digitali la risposta ai conflitti, nel presupposto forse non esplicito di una quota di sfiducia nella idoneità dell’apparato pubblico reale.
Non è possibile addentrarsi ora su questo terreno del futuro prossimo; ma, anche al di là del venir meno della forma simbolica del giudizio, vorrei osservare che le condizioni di indipendenza e di imparzialità non sono operatori booleani, i quali dipendono da coloro che li elaborano, e che libertà e umanità del giudice restano il centro della operazione di elaborazione giuridica, di comprensione globale della vicenda umana, sovente non ripetibile, che si presenta al giudizio. Le correlazioni informatiche basate su affinità casistiche appaiono prive della capacità di deviare la linea tracciata, quando ciò debba avvenire; e il diritto – è stato detto – non aspira a essere una linea retta.
Sorge la questione della prevedibilità come regola o meglio del possibile eccesso di uniformità, giacché l’invarianza della risposta corre il rischio della incapacità di selezionare la variabile decisiva, l’elemento di innovazione e di dinamicità della giurisprudenza. L’algoritmo non è del tutto neutro, esso propone elaborazioni in base ai dati immessi da qualcuno, e questi dati di base possono anche essere pre-condizionati dalle opzioni del programmatore. E, avendo la «robotica» la capacità di apprendere, nel senso di modificare alcune determinazioni in base allo sviluppo delle proprie precedenti decisioni, questa auto-alimentazione della conoscenza sembra non essere a sua volta totalmente pre-dicibile. Nel 2017, in un esperimento di dialogo tra robot addestrati a dialogare in inglese, si è appurato che da un certo punto in poi i robot comunicavano tra loro in un linguaggio diverso, più semplice per loro, ma incomprensibile all’uomo.
Io credo che le maestre di Senigallia non avrebbero gradito di vedere il loro ricorso giudicato da un algoritmo.
*Scritto pubblicato sulla Rivista di diritto processuale n. 4/5 (luglio-ottobre) 2019, pag. 1172-1193, Sezione “Storia e cultura del processo”
Il divieto di bis in idem nella elaborazione della giurisprudenza delle sezioni civili della Corte di Cassazione
di Antonio Scarpa
Sommario: 1.Alla scoperta del bis in idem davanti al giudice civile – 2. Specialità, ‹‹doppi binari›› e bis in idem – 3. Sanzioni tributarie e penali per lo stesso fatto – 4.Bis in idem e abusi di mercato – 5. I ‹‹non bis in idem›› – 6. Come “entra” il bis in idem nel giudizio civile di cassazione?[1]
1. Alla scoperta del bis in idem davanti al giudice civile – E’ affare a prima vista assai complesso l’adattamento al processo civile del principio del divieto di bis in idem, come riconosciuto nell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali UE del 7 dicembre 2000, nell’art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché, all’interno del diritto nazionale italiano, nell’art. 649 c.p.p. Esso, com’è noto, evoca la garanzia primaria dell’individuo dal pericolo di una reiterazione di iniziative penali per un medesimo fatto già consacrato in un giudicato, ed è dunque intimamente correlato al rapporto fra l’Autorità dello Stato e la Libertà dell’individuo, intendendo mettere quest’ultimo al sicuro dalle duplicazioni di esercizio delle funzioni repressive, cui corrisponderebbe altresì un rinnovato deprecabile esercizio della giurisdizione su un fatto già definitivamente giudicato.
Il “fatto” non più processabile per il divieto del bis in idem, secondo l’ormai consolidata interpretazione della Corte europea dei diritti dell'uomo, della Corte di giustizia dell'Unione europea e della giurisprudenza penale italiana, non è, peraltro, il “fatto giuridico”, cioè l’ipotesi normativa astratta strutturata nei suoi elementi costitutivi, ma il “fatto storico”, cioè la vicenda materiale connotata dalla condotta del soggetto, dall’evento naturalistico e dal relativo nesso causale.
Dunque, il principio del ne bis in idem appartiene, per sua essenza più intima, al diritto penale: riguardato nella sua valenza sostanziale, esso si traduce nel divieto di punire due volte un soggetto per un medesimo fatto.
Invero, anche il codice di procedura penale italiano, se all’art. 648 c.p.p. delinea una nozione di giudicato in senso formale (correlando l’irrevocabilità delle sentenze, e quindi la definitività del giudizio sul fatto, sulla responsabilità e sulla pena, alla loro inimpugnabilità con rimedi diversi dalla revisione), col già richiamato art. 649 non contempla un’ipotesi di giudicato sostanziale sul rapporto sottostante, analoga a quella contenuta nell’art. 2909 c.c., limitandosi a trarre, dall’irrevocabilità formale della decisione, un limite “in negativo” alla formulazione di una nuova imputazione.
Diversamente, l’obiettivo cui tende tipicamente il giudizio civile è duplice: l’immutabilità formale dell’atto-sentenza, conseguente al giudicato formale regolato dall’art. 324 c.p.c., e, però, anche l’immutabilità degli effetti della sentenza, ovvero la sua idoneità ad accertare “a ogni effetto” (art. 2909 c.c.) se ed a chi spetti il diritto al bene della vita in contesa.
Quando, allora, il divieto del bis in idem di fonte eurounitaria e convenzionale può costituire una preclusione alla formazione del giudicato civile, che, normalmente, coprendo «il dedotto e il deducibile», è volto a dettare una stabile, ed anzi definitiva, “regula iuris” nel rapporto tra le parti?
In via di prima approssimazione, possiamo dire che ciò avviene allorché la controversia civile abbia ad oggetto l’accertamento dei presupposti per l’esercizio di una potestà repressiva di un determinato comportamento che duplichi una sanzione penale già irrogata alla stessa persona in relazione allo stesso fatto, visto che, per natura e severità, essa stessa debba essere intesa come “sostanzialmente penale”.
Tale schema di controversia civile “a scopo punitivo”, e perciò “a rischio di bis in idem”, lasciava pensare, fino a tempi ancora recenti, in via pressoché esclusiva ai procedimenti di opposizione avverso l'irrogazione di sanzioni pecuniarie amministrative, i quali presentano sicuramente, rispetto all'ordinario processo civile, alcune peculiarità tipiche del processo penale.
Negli ultimi anni, però, le ipotesi di potenziali violazioni del principio del ne bis in idem per il concorso tra una sanzione penale ed una sanzione, per così dire, “para-penale”, si sono dilatate.
Si pensi all’ampio catalogo, certificato da Cass., Sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601, delle misure sanzionatorie civilistiche con finalità tipicamente punitiva e deterrente, peraltro tutte destinate a vantaggio della parte danneggiata, e non dell’Erario, con l’unica eccezione della misura di cui all’art. 709 ter, comma 2, n. 4, c.p.c. (sanzione che la norma definisce “amministrativa” e devolve alla Cassa delle ammende).
Si pensi, ancor di più, alle sanzioni pecuniarie civili previste dal d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, strutturate su due livelli di crescente afflittività proporzionata alla gravità delle sanzioni penali prima comminate, restando, tuttavia, la competenza punitiva del giudice civile subordinata all’eventualità che la vittima dell’illecito promuova l’azione risarcitoria, con evidente funzione “ultracompensativa”. Il d.lgs. n. 7 del 2016 delinea, invero, sanzioni di carattere punitivo in favore dello Stato, che di “civile” hanno essenzialmente il giudizio in cui vengono inflitte, e che però rivelano scopi general-preventivi e repressivi, tali da assimilarle, piuttosto, alle tipiche sanzioni penali. La portata afflittiva delle sanzioni pecuniarie introdotte dal d.lgs. n. 7/2016, l’iniziale rilevanza penale delle condotte, la competenza giurisdizionale in ordine all’irrogazione e la disciplina prevista in ipotesi di reiterazione, inducono a ritenere operanti per esse la garanzia del ne bis in idem nei termini di cui qui si discute.
L’esame della più recente giurisprudenza delle sezioni civili della Corte di cassazione ci aiuterà, comunque, a comprendere quando il giudice civile, dovendo conoscere di una sanzione sostanzialmente penale, subisce il limite negativo della formulazione di una nuova “imputazione” per un fatto già processato dal giudice penale.
Tale ambito di operatività del ne bis in idem nel giudizio civile è cosa evidentemente diversa dall’ambito in cui, invece, la sentenza, che abbia definito il processo penale, si dimostra idonea a produrre effetti vincolanti in quello civile in ordine all’accertamento dei fatti materiali, a norma degli artt. 651, 651 bis, 652 e 654 c.p.p.
2. Specialità, ‹‹doppi binari›› e bis in idem - Il profilo che viene subito in risalto è, dunque, quello del concorso tra illecito penale ed illecito amministrativo. Tale possibile interazione è esplicitamente supposta dall’art. 9, comma 1, della legge 24 novembre 1981, n. 689, secondo il quale “quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale”. Pur parlando l’art. 9, comma 1, cit., di “stesso fatto”, e non di “stessa materia”, come invece fa l’art. 15 c.p., il criterio dettato dalla legge di depenalizzazione è ormai costantemente inteso come espressivo della “specialità in astratto”. L’art. 9, legge n. 689/1981, opera, cioè, se, e nei limiti in cui, la fattispecie prevista nella disposizione punitiva generale sia compresa in quella speciale, la quale contiene un elemento ulteriore rispetto alla prima, così che, ove non fosse prevista la norma speciale, la fattispecie rientrerebbe nella disposizione generale. Non ha quindi rilievo decisivo, al fine di individuare il rapporto di specialità occorrente per dissolvere un concorso apparente di norme, l’una penale, l’altra amministrativa, il criterio del bene o dell'interesse protetto dai precetti punitivi concorrenti, quanto il dato che le previsioni sanzionatrici coincidano sotto il profilo dell'identità dell'avversato comportamento del trasgressore e si differenzino per il fatto di dar rilievo, l'una e non l'altra, ad ulteriori elementi tipizzanti, appunto, "speciali”.
A parziale correttivo della operatività unidirezionale dell’art. 9, comma 1, cit., il quale, come visto, riscontrata la relazione di specialità fra norme, postula sempre l’applicabilità della disposizione speciale (non contenendo esso, del resto, nemmeno la “clausola di riserva” con cui invece si chiude l’art. 15 c.p.), in dottrina si propone di utilizzare proprio il principio del ne bis in idem sostanziale per regolare il concorso tra illecito amministrativo ed illecito penale, dando rilievo altresì all’offensività del fatto, e così facendo prevalere, secondo un criterio - inespresso ma immanente - di consunzione, il trattamento sanzionatorio più severo, amministrativo o penale che sia.
L’ordinamento italiano conosce, tuttavia, com’è noto, due regimi processuali e sanzionatori riferibili al modello del cosiddetto “doppio binario”: quello del diritto tributario e quello degli abusi di mercato.
In maniera del tutto simile all’art. 9, legge n. 689/1981, viene regolato nell’art. 19, comma 1, del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il concorso infra-sistematico tra illeciti amministrativi tributari e corrispondenti reati, pur prevedendosi poi, all’art. 21, comma 2, del medesimo d.lgs. n. 74/2000, un meccanismo di sospensione della eseguibilità delle sanzioni amministrative relative alle violazioni tributarie fatte oggetto di notizia di reato, che potrebbe sembrare proprio un’applicazione del divieto del ne bis in idem sostanziale quanto meno in fase esecutiva. Le sanzioni amministrative possono, cioè, essere messe in esecuzione sol quando il concomitante procedimento penale abbia escluso che il fatto abbia rilevanza come reato. Rimane un problema di ne bis in idem processuale: l’art. 20 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, esclude che il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario possano essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione.
Costituisce, infine, una disciplina affatto peculiare di deroga al principio di specialità quella del cosiddetto market abuse, visto che sia l’art. 187 bis TUF, in tema di abuso e comunicazione illecita di informazioni privilegiate, sia l’art. 187 ter TUF, in tema di manipolazione del mercato, stabilendo le sanzioni amministrative per tali condotte, continuano - pure dopo l’ultima riforma introdotta dal d.lgs. 10 agosto 2018, n. 107 - a contenere espresse clausole che fanno “salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato”. Tale concorso tra sanzioni penali e sanzioni formalmente amministrative si pone spesso in contrasto col principio del ne bis idem sostanziale ex artt. 50 CDFUE e 4 Prot. 7 CEDU, visto che le fattispecie di reato sembrano esaurire integralmente il disvalore del fatto, con conseguente consunzione degli illeciti amministrativi. Il rischio della sommatoria delle sanzioni è in parte evitabile facendo applicazione dell’art. 187 terdecies TUF, nella formulazione ora risultante dopo la modifica introdotta dal d.lgs. n. 107 del 2018, secondo il quale, quando per lo stesso fatto è stata applicata, a carico dell'autore della violazione o dell'ente, una sanzione amministrativa pecuniaria irrogata dalla CONSOB, ovvero una sanzione penale o una sanzione amministrativa dipendente da reato, il giudice deve tener conto, nel determinare le sanzioni di sua competenza, delle misure punitive già applicate, limitando l’esazione della pena pecuniaria alla parte eccedente quella riscossa. La soluzione individuata dal legislatore del 2018 con la riscrittura dell’art. 187 terdecies TUF, nel senso di imporre la somma algebrica e lo “scomputo” del pregresso nel coordinamento tra (sole) sanzioni pecuniarie penali ed amministrative in tema di abusi di mercato, non aiuta, tuttavia, a dare immediata risposta alle ipotesi di concorso implicanti l’adozione di sanzioni detentive o interdittive.
Come a breve vedremo, per entrambi i casi di “doppio binario” punitivo presenti nell’ordinamento italiano, la giurisprudenza interna sopperisce all’esigenza di evitare il bis in idem in base al criterio della “sufficiente connessione sostanziale e temporale” tra i procedimenti sanzionatori riferiti ai medesimi fatti, criterio che, seppur conforme alle più recenti indicazioni della Corte EDU, presenta, secondo la dottrina, contorni sfuggenti. Il procedimento penale e quello amministrativo devono, in pratica, riguardare la stessa condotta individuata in concreto, perseguire finalità complementari e denotare una proficua collaborazione tra le autorità competenti, e la sanzione inflitta nel procedimento antecedente deve essere presa in considerazione anche nel secondo procedimento, in maniera che la sanzione complessiva risulti comunque proporzionale alla infrazione. La Corte di cassazione riconosce, così, una mutata dimensione del ne bis in idem eurounitario e convenzionale, il quale non è più (soltanto) divieto (meramente processuale) di doppio processo e di doppia sanzione sostanzialmente penale, ma garanzia di tipo sostanziale.
3. Sanzioni tributarie e penali per lo stesso fatto – La Quinta Sezione civile della Corte di cassazione (Cass. Sez. 5, 13 marzo 2019, n. 7131) ha negato la violazione del ne bis in idem in un caso in cui le vicende comprovavano “una stretta connessione, sul piano sostanziale oltre che cronologico, tra l'accertamento in sede tributaria ed il procedimento penale”.
In sostanza, analogamente a quanto aveva deciso in precedenza la Terza Sezione Penale della S.C. (Cass. pen., Sez. 3, ud. 22 settembre 2017, dep. 14 febbraio 2018, n. 6693), la Sezione Tributaria, con l’ordinanza 7131/2019, ha fatto applicazione del criterio della “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” tra procedimento tributario e penale, sancito dalla sentenza Corte EDU, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, n. 24130/11 e 29758/11, a partire dalla quale la giurisprudenza convenzionale ha fatto venire meno il divieto assoluto di doppio procedimento, in presenza, appunto, della close connection dovuta alla complessiva contemporaneità del loro svolgersi.
Pertanto, le sanzioni amministrative tributarie (o finanziarie) che rivelano finalità non solo risarcitoria, ma anche deterrente e punitiva, e sono perciò riconducibili alla “materia penale” (nonostante le controversie fiscali si intendano generalmente sottratte all’applicazione dell’art. 6 CEDU), sono regolate dal principio del ne bis in idem, allorché i fatti, che hanno esposto l’interessato a sanzioni sia amministrative che penali, costituiscano un insieme di circostanze indissolubilmente legate tra loro nel tempo e nello spazio. La reazione coordinata dell’ordinamento interno, che assicuri una connessione “in substance and in time” tra la sanzione penale e la sanzione (formalmente) amministrativo-tributaria (ma sostanzialmente punitiva), secondo gli indici sintomatici elaborati dalla Corte EDU, fonda, dunque, la inoperatività del ne bis in idem.
Una irrisolta questione di possibile duplicazione di fattispecie sanzionatoria permane in relazione alle condotte di omesso versamento di ritenute dovute o certificate e di omesso versamento di IVA, oggetto dei reati di cui agli artt. 10 bis e 10 ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, e poi anche perseguibili in via amministrativa. La giurisprudenza penale ravvisa un rapporto non di specialità (in cui l’elemento specializzante sarebbe la soglia di punibilità dei reati, come sostiene la dottrina) ma di progressione illecita tra le norme penali ed i corrispondenti illeciti amministrativi, con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni (Cass. pen., Sez. Un., 28 marzo 2013, n. 37424 e 37425, dep. 12 settembre 2013). Resterebbe da verificare, altrimenti, se non sia riscontrabile la consunzione dell’illecito amministrativo nel caso di consumazione del più grave delitto, che appare in grado di esprimere integralmente il disvalore del fatto.
4. Bis in idem e abusi di mercato – Le più recenti decisioni delle Sezioni civili della Corte di cassazione in tema di abusi di mercato evidenziano la nuova sensibilità dei giudici nel ravvisare il nucleo del ne bis in idem nel rispetto proprio della proporzionalità sanzionatoria complessiva.
Così, Cass. Sez. 5, 30 ottobre 2018, n. 27564, nel procedimento che aveva avuto il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE culminato in Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 20 marzo 2018, C-537/16, Garlsson Real Estate, affermava:
“a) non può essere sindacata la scelta del legislatore di sanzionare la condotta illecita - pur avente ad oggetto lo "stesso fatto" inteso secondo la giurisprudenza della Corte e.d.u. - con la previsione di un doppio binario processuale (penale/amministrativo);
b) l'avvio di separati procedimenti, con la possibilità di vedere applicate sanzioni diverse, costituisce una circostanza prevedibile e l'incolpato sa o – comunque - è in grado di sapere - nei sistemi, come quello italiano, in cui è possibile il "doppio binario" - che nei suoi confronti potrebbe essere esercitata (o che, quantomeno, che ve ne è la possibilità), sia l'azione penale che inflitta una sanzione tributaria - amministrativa;
c) il rispetto del principio del ne bis in idem non dipende dall'ordine nel quale sono stati condotti i rispettivi procedimenti; l'unico fattore materiale è il rapporto tra i due illeciti.
Possibile, quindi, una doppia risposta sanzionatoria: una sanzione amministrativa ed una sanzione penale, le quali perseguono scopi diversi (…).
Occorrono quindi, ai fini della cumulabilità dei procedimenti, alla luce dei principi unionali, la sussistenza delle seguenti condizioni:
a) svolgimento di processi paralleli e tra loro connessi;
b) proporzionalità della sanzione inflitta nel senso che la pena inflitta in un procedimento deve tener conto della sanzione inflitta nell'altro.
È altresì possibile che le diverse sanzioni siano irrogate da due diverse autorità nell'ambito di procedure diverse, purché con un collegamento sufficientemente stretto tra di loro, sia nella sostanza che cronologicamente, così potendo le stesse essere considerate come facenti parte di un complesso schema sanzionatorio.
Occorre, quindi, che sia garantita: 1) la proporzionalità delle risposte punitive rispetto agli scopi perseguiti; 2) la prevedibilità di tale doppia risposta sanzionatoria in forza di regole normative chiare e precise; 3) il coordinamento tra i procedimenti sanzionatori in modo che l'onere per l'interessato da tale cumulo sia limitato allo stretto necessario; 4) il rispetto del principio di proporzionalità delle pene sancito all'art. 49, par. 3, della Carta secondo cui le sanzioni complessivamente inflitte devono corrispondere alla gravità del reato commesso. Al riguardo si ritiene sussistente il requisito sostanziale richiesto ai fini della "sufficiente connessione" tra procedimento penale e amministrativo con un'unica risposta integrata dell'ordinamento contro il medesimo fatto illecito che può essere assicurata dalla valutazione complessiva delle sanzioni - essendo ancora sub iudice quella amministrativa - da parte del giudice chiamato a tale ultima valutazione. Deve anche ritenersi esistente il nesso di carattere cronologico tra i due procedimenti penale e amministrativo che, per i giudici di Strasburgo, non implica necessariamente che i procedimenti debbano essere condotti in maniera parallela, potendo sussistere anche nell'ipotesi in cui il secondo procedimento inizi successivamente alla definizione del primo purché vi sia una valutazione di proporzionalità tra le sanzioni (…)”.
Veniva così affidato al giudice di rinvio, trattandosi di accertamento di merito, di valutare la “congruità della doppia sanzione inflitta” rispetto all’illecito di manipolazione del mercato commesso, riconoscendo allo stesso giudice di rinvio “la possibilità, essendo passata ormai in giudicato la condanna penale, che la sanzione amministrativa, oltre a potere essere annullata o confermata, possa essere ridotta al fine di ricondurre la condanna complessivamente valutata (sanzione detentiva e amministrativa) nei limiti della efficacia, proporzionalità e dissuasività (…), nell'ottica del bilanciamento operato dalla Corte di Giustizia tra il principio del ne bis in idem e l'esigenza di tutela della effettività proporzionalità e dissuasività della sanzione”.
Sempre in nome dell’accezione spiccatamente sostanzialistica del ne bis in idem, Cass. Sez. 2, 6 dicembre 2018, n. 31634, ha poi smentito che, in ipotesi di contemporanea pendenza di un procedimento amministrativo per l'applicazione di una sanzione di natura sostanzialmente penale in materia di intermediazione finanziaria e di un procedimento penale sui medesimi fatti, possa trovare applicazione la preclusione da ne bis in idem, ostando alla sospensione dell’opposizione davanti al giudice civile l'art. 187 duodecies del d.lgs. n. 58 del 1998. E’, piuttosto, “la sanzione del procedimento rimasto pendente a dover essere rimodulata ove essa, cumulata con la pena divenuta definitiva, ecceda i criteri di efficacia, proporzionalità e dissuasività, e tanto a prescindere dalla circostanza che la sanzione irrogata per prima sia quella (anche formalmente) penale o quella (sostanzialmente penale ma formalmente) amministrativa, o viceversa (nel qual caso l'eventuale sentenza di condanna penale potrà valorizzare i parametri di cui all'art. 133 c.p. per commisurare la pena alla gravità del fatto in base ai predetti criteri, tenendo conto anche della definitività della sanzione inflitta in sede amministrativa)”.
Una agevole ed automatica applicazione del ne bis in idem dinanzi al giudice civile dell’opposizione a sanzione amministrativa sostanzialmente penale relativa ad abusi di mercato è invece data dall’eventualità in cui vi sia già stata una sentenza penale di assoluzione. Il caso, che era stato già affrontato da CGUE, Grande Sezione, 20 marzo 2018, C-596/16 e C-597/16, Di Puma e Zecca, viene risolto in Cass. Sez. 2, 6 dicembre 2018, n. 31632, nel senso che non è compatibile con il principio del ne bis in idem di diritto convenzionale ed euro unitario e, in particolare, con l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (il quale non entra in conflitto con alcuna disposizione interna del TUF, e perciò non pone né questione di disapplicazione di norme statali in ragione del primato del diritto dell'Unione europea, né dubbi di costituzionalità astrattamente prospettabili in relazione all'articolo 117 Cost.) l'instaurazione di un procedimento amministrativo sanzionatorio o la sua prosecuzione - eventualmente anche in sede di opposizione giurisdizionale - in relazione alla commissione dell'illecito amministrativo di cui all'art. 187 bis TUF, qualora, con riferimento ai medesimi fatti storici, l'incolpato sia stato definitivamente assolto in sede penale con formula piena dal delitto previsto dall'art. 184 TUF.
La stessa Cass. Sez. 2, 6 dicembre 2018, n. 31632, avvertiva come ben diverse debbano essere le considerazioni da svolgere ove il giudice civile si trovi ad irrogare una sanzione amministrativa sostanzialmente penale in relazione agli stessi fatti storici coperti da un giudicato penale di condanna, e sul punto registrava il “non perfetto allineamento tra la declinazione del principio del ne bis in idem offerta dalla Corte di giustizia e quella offerta dalla Corte Edu”, valorizzando la prima “principalmente la presenza di norme di coordinamento che garantiscano la proporzionalità dell'esito sanzionatorio complessivo”, e la seconda, viceversa, “principalmente la vicinanza cronologica dei diversi procedimenti e la loro complementarietà nel soddisfacimento di finalità sociali differenti”.
Da ultimo, Cass. Sez. 2, 17 dicembre 2019, n. 33426, preso atto che al ricorrente era stata irrogata una sanzione penale, divenuta definitiva, per una condotta illecita di manipolazione del mercato (e ciò sulla base di sentenza ex art. 444 c.p.p. ritenuta dalla S.C. “ritualmente depositata ai sensi dell'art. 372 c.p.c.”), ha evidenziato come:
I: “ai fini della valutazione del ne bis in idem, nel caso di sanzione penale irrevocabile irrogata dal giudice penale, la correlata sanzione ammnistrativa applicata per gli stessi fatti ed ancora sub iudice può ulteriormente esplicare i suoi effetti soltanto nell'ipotesi in cui la sanzione penale (rectius: la sua complessiva afflittività) assorba (ove non sia, perciò, necessario il rispetto di un principio di gradualismo del globale apparato sanzionatorio) completamente il disvalore della condotta antigiuridica rilevante sul piano penale ed amministrativo, offrendo, perciò, piena tutela all'interesse protetto dell'integrità dei mercati finanziari e della fiducia del pubblico negli strumenti finanziari”;
II: “qualora la sanzione penale irrogata e divenuta definitiva (…), si dovesse ritenere già proporzionata ai reati commessi in ordine agli stessi fatti su cui è stato intrapreso anche il procedimento sanzionatorio amministrativo, andrebbe applicato il principio del "divieto del ne bis in idem", in virtù della circostanza che qualsiasi aggravamento in sede sanzionatoria "amministrativa" (ma la cui "pena" è sostanzialmente equiparabile a quella propriamente penale) rappresenterebbe una violazione di tale divieto, proprio per effetto del mancato rispetto del criterio della proporzione afflittiva tra cumulo sanzionatorio e fatti commessi”.
III: “Diversamente, ovvero nell'eventualità in cui non si dovessero ritenere sussistenti le condizioni per una valutazione di adeguatezza e proporzionalità (assorbenti) della già irrogata sanzione conseguente alla sopravvenuta condanna definitiva in sede penale, deve rilevarsi che è demandato allo stesso giudice di merito riconsiderare tutti gli aspetti della complessiva vicenda (con particolare riferimento a quelli soggettivi ed oggettivi, al superamento del grado di lesione degli interessi giuridici protetti e all'entità del danno causato) per un intervento "proporzionalmente" riduttivo della misura delle sanzioni pecuniarie e personali applicate con la delibera Consob”.
Ciò premesso, Cass. Sez. 2, 17 dicembre 2019, n. 33426, ha accolto il ricorso “limitatamente alla rivalutazione dell'impianto sanzionatorio, demandando al giudice di rinvio di procedere alla indicata verifica in ordine alla proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio applicato al ricorrente con riferimento alle sanzioni pecuniarie e a quella personale (…), valutando, tra l'altro, l'incidenza dei fatti sull'integrità e trasparenza del mercato finanziario e sulla fiducia del pubblico negli strumenti finanziari, ma anche la complessiva condotta osservata dal ricorrente, alla stregua dei principi precedentemente evidenziati di derivazione dalle Corti europee”.
Sembra di poter concludere, dunque, quanto al “doppio binario” punitivo tipico degli abusi di mercato, che il divieto del bis in idem, divenuto ormai garanzia sostanziale, è posto dalla giurisprudenza delle sezioni civili della Corte di cassazione a presidio della proporzionalità del trattamento sanzionatorio cumulato, in modo che esso non divenga irragionevole.
Non di meno, la dottrina, che pur plaude al legame tra giudizio di valore sulla proporzionalità della sanzione complessiva e principio del ne bis in idem a valenza sostanziale, avverte come esaurire il contenuto del secondo nella portata del primo, oltre a contaminare il principio con la carenza di predeterminazione e di certezza del canone di proporzione ed a ridurlo in un meccanismo compensativo, impoverisce il divieto stesso del bis in idem, il quale intende scongiurare, prima ancora che la duplice sanzione, il concorso apparente di norme e la duplice qualificazione giuridica del medesimo fatto.
5. I ‹‹non bis in idem›› – Al di fuori dei settori, per così dire, “classici” delle sanzioni tributarie e degli abusi di mercato, la giurisprudenza civile della Corte di cassazione non ha mai ravvisato altre ipotesi in cui potesse operare il divieto del bis in idem di derivazione eurounitaria e convenzionale.
Così, Cass. Sez. 2, 15 aprile 2019, n. 10459, ha escluso che integrasse una violazione del principio del ne bis in idem la “doppia punibilità” stabilita dall’art. 3 della legge 23 dicembre 1986, n. 898, in materia di aiuti comunitari nel settore agricolo, cumulandosi alla sanzione penale la sanzione amministrativa pecuniaria pari all’importo della erogazione indebitamente percepito. Tale sanzione pecuniaria non sarebbe, infatti, equiparabile a quella penale “per qualificazione giuridica, natura e grado di severità”.
Generalmente negativa è la risposta delle sentenze in punto di ravvisabilità della violazione del bis in idem con riguardo alle sanzioni disciplinari, in dichiarata adesione alla giurisprudenza della Corte E.D.U., che convintamente estromette le stesse dalla “matière pénal”, giacché riservate “ad un gruppo ristretto e determinato di individui”, ovvero alla sola tutela della “profession’s reputation”.
Cass. Sez. 2, 3 febbraio 2017, n. 2927, in ordine ad un giudizio disciplinare nei confronti di un notaio, sanzionato penalmente per i medesimi fatti a titolo di peculato e truffa, negò la violazione del principio del ne bis in idem in ordine alla irrogazione dalla misura della sospensione dalla professione, evidenziando come la sanzione disciplinare inflitta non rivelasse natura sostanzialmente penale, atteso che il precetto deontologico ha come destinatari gli appartenenti a un ordine professionale ed è preordinato all’effettivo adempimento dei doveri inerenti al corretto esercizio dei compiti assegnati al professionista dall'ordinamento.
Nello stesso senso, Cass. Sez. Un. 20 novembre 2018, n. 29878, la quale, a proposito della sanzione disciplinare della radiazione inflitta ad un avvocato, già perseguito in sede penale per la stessa condotta, ha ribadito la diversità di finalità, intensità ed ambiti di applicazione della sanzione disciplinare e di quella penale, ed ha smentito la violazione del principio del ne bis in idem, sempre confutando la natura sostanzialmente penale della infrazione deontologica.
Anche Cass. Sez. lav., 26 ottobre 2017, n. 25485, giudicando sulla legittimità della sanzione disciplinare disposta a carico di un pubblico dipendente, condannato in sede penale per i reati di truffa aggravata e di peculato, ha negato che le sanzioni disciplinari inflitte dal datore di lavoro abbiano natura penale ai fini dell'applicazione dell'art. 4 del protocollo 7 della CEDU, “perché il potere disciplinare non è espressione della pretesa punitiva dell'autorità pubblica e nei rapporti disciplinati dal d.lgs. n. 165 del 2001, ha natura privatistica-contrattuale. La sanzione disciplinare, infatti, è strettamente correlata al potere direttivo del datore di lavoro, inteso come potere di conformazione della prestazione alle esigenze organizzative dell'impresa o dell'ente, potere che comprende in sé quello di reagire alle condotte del lavoratore che integrano inadempimento contrattuale. La previsione della sanzione disciplinare non è posta a presidio di interessi primari della collettività, tutelabili erga omnes, né assolve alla funzione preventiva propria della pena, sicché l'interesse che attraverso la sanzione disciplinare si persegue, anche qualora i fatti commessi integrino illecito penale, è sempre quello del datore di lavoro al corretto adempimento delle obbligazioni che scaturiscono dal rapporto”. Cass. Sez. lav., 26 ottobre 2017, n. 25485, avvertiva, peraltro, come diversa sia la questione ove venga attivato un nuovo procedimento disciplinare in relazione ad addebiti già sanzionati dal datore di lavoro, in tal caso operando il divieto del ne bis in idem fra procedimenti disciplinari avviati per le medesime condotte, non già fra processo penale e procedimento disciplinare.
Il criterio operativo, che ravvisa a priori nelle sanzioni disciplinari una natura inevitabilmente preventiva ed esclusivamente settoriale, lascia perplessa parte della dottrina, la quale contesta l’esclusione dall’ambito del “sostanzialmente penale” quanto meno quelle misure che comportano una esclusione pressoché totale dal contesto sociale di riferimento.
6. Come “entra” il bis in idem nel giudizio civile di cassazione? – Nessuna delle decisioni citate affronta in modo esplicito il problema di come possa fare ritualmente ingresso nel giudizio civile di legittimità la deduzione della violazione del bis in idem.
Una decisione (Cass. Sez. 2, 17 dicembre 2019, n. 33426) afferma, tra le righe, che la sentenza penale che abbia irrogato una condanna penale per lo stesso fatto alla parte del giudizio civile di cassazione possa poi essere ivi “depositata ai sensi dell'art. 372 c.p.c.”.
Altra sentenza (Cass. Sez. 2, 3 febbraio 2017, n. 2927) assimilava la pregressa condanna penale ad un “giudicato esterno” e perciò stigmatizzava il difetto di specificità del motivo di ricorso che lamentava il ne bis in idem: “il ricorso avrebbe dovuto trascrivere o riassumere quanto meno stralci significativi della decisione passata in giudicato in modo da dimostrare la identità tra i fatti accertati nel giudizio penale e quelli oggetto del presente procedimento disciplinare, così da consentirne alla Corte di Cassazione la verifica. Il che non è avvenuto nella specie (…) e sarebbe stato tanto più necessario se si considera (…) che, secondo la Corte Europea dei diritti dell'uomo, il divieto del bis in idem ovvero di emettere plurime condanne per lo stesso fatto a seguito di due procedimenti penali postula la perfetta coincidenza del fatti storici, che integrano la condotta oggetto dell'illecito (…).
Nelle sezioni civili della Corte di cassazione non sembra, dunque, ancora aperto un dibattito chiaro sulla rilevabilità della preclusione da ne bis in idem nel giudizio civile di legittimità, dibattito che è invece assai risalente nella giurisprudenza penale, per lo più assestata nel senso che non può essere effettuato per la prima volta dinanzi alla Suprema Corte un accertamento sull’identità del fatto sanzionato con la prima condanna e di quello oggetto della seconda incolpazione.
Ora, la sentenza penale intervenuta nel corso del giudizio di merito concernente la sanzione “sostanzialmente penale”, deve essere fatta valere, ai fini preclusivi del bis in idem, in quella sede, e la decisione resa in proposito è impugnabile sul punto con il ricorso per cassazione.
Se, invece, la condanna penale sia intervenuta dopo la conclusione del giudizio di merito, la relativa sentenza potrebbe dirsi sottratta al divieto di produzione posto dall'art. 372 c.p.c., ma se intesa a far valere la successiva formazione del giudicato, e perciò riconducibile alla categoria dei documenti riguardanti l'ammissibilità del ricorso.
Nel caso, tuttavia, di sentenza penale di condanna sopravvenuta a quella civile impugnata, che si intenda allegare nel processo di cassazione per ottenere, piuttosto, una rivalutazione dell’adeguatezza e della proporzionalità della sanzione amministrativa sub iudice alla luce di quella già inflitta, ovvero per contestare il mancato coordinamento tra i due procedimenti sanzionatori, essa deve intendersi volta all’affermazione o alla negazione di fatti materiali, ovvero a valutazioni di stretto merito di regola non deducibili nel giudizio di legittimità, sicché la produzione della sentenza penale sembra altresì estranea all'ambito previsionale dell'art. 372 c.p.c.
Riguardo, tuttavia, a questi profili prettamente processuali del ne bis idem, conviene forse qui concludere che semmai vi sarà poi un momento più opportuno per parlarne, mentre ora vi è soltanto tempo per tacere.
[1] Relazione svolta nel corso dell’incontro di studio organizzato dalla Struttura della formazione decentrata della Scuola della Magistratura presso la Corte di Cassazione in data 19 febbraio 2020 sul tema IL DIVIETO DI BIS IN IDEM: PUNTI FERMI E PROFILI PROBLEMATICI CORTI NAZIONALI E CORTI SOVRANAZIONALI A CONFRONTO.
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