ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il 16 settembre 1935, all’interno della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo, vennero rinvenuti i corpi di “Cetti” Zerilli (una ventenne palermitana) e di un milite fascista, uccisi da più colpi di pistola, rinvenuta vicino ai cadaveri, insieme ad alcuni biglietti che attestavano una relazione sentimentale tra i due.
La notizia del fatto venne completamente oscurata dalla cronaca locale e le indagini, nonostante la solerzia di un giudice istruttore e di un funzionario di polizia, velocemente archiviate qualificando l’accaduto come caso di omicidio-suicidio.
Qualcosa non convinse un bravo cronista del Giornale di Sicilia: la versione ufficiale confliggeva con la dinamica dei fatti (l’omicida si era suicidato esplodendo più di un colpo di pistola ed aveva spento la luce della stanza prima del delitto).
Troppe incongruenze, tra cui l’inibizione ai familiari della vittima di partecipare all’autopsia, nonché la mancanza di elementi comprovanti una relazione della giovane con il (presunto) omicida.
Plurimi riscontri evidenziavano invece un legame di Cetti con un'altra e più autorevole figura emergente nei quadri locali del partito nazionale fascista.
Ma soprattutto: perché impedire la divulgazione di un fatto caratterizzato da tutti gli ingredienti per destare interesse? Possibile che il silenzio potesse essere esclusivamente ricondotto alla volontà del regime di attutire le vicende di cronaca nera, per accreditare la percezione di sicurezza di una nazione ostentata come tranquilla e ordinata e rassicurare l’opinione pubblica?
Troppe omissioni, troppi silenzi in una Palermo in camicia nera in cui si pretende una verità di regime, in cui “ogni notizia non data è già una sconfitta”, in cui si delinea uno sfondo fatto di un reticolo di collusioni e pavidità, perché se la verità trionfa da sola, la menzogna ha invece sempre bisogno di complici.
Salvo Palazzolo, inviato speciale del quotidiano “La Repubblica”, autore tra l’altro di saggi scritti in collaborazione con pubblici ministeri palermitani (“Collusi” con Nino di Matteo e “La cattura. I misteri di Matteo Messina Denaro e la mafia che cambia” con Maurizio De Lucia), si cimenta nel suo primo romanzo raccontando la storia della morte violenta di Cetti Zerilli in “L’amore in questa città” (ed. Rizzoli).
Raccogliendo un ideale testimone tramandato dal primo reporter dell’epoca ad uno successivo, e quindi trasmesso a lui, in una suggestiva staffetta di tre generazioni di cronisti che tratteggia una sorta di romanzo nel romanzo, Palazzolo diventa investigatore per raccogliere i brandelli, scoloriti dal tempo, di una storia vera ma taciuta, riempiendo con il suo libro la pagina bianca dell’omicidio della giovane Zerilli.
Con la meticolosa attenzione che caratterizza un buon giornalista di inchiesta, dà corpo ad una “storia” frugando in archivi, emeroteche, atti giudiziari e di polizia, raccogliendo ricordi privati, finendo per dar corpo ad una vicenda che assume tutte le caratteristiche di un cold case.
Emergono così le accorate lettere del padre di Cetti che invoca approfondimenti e giustizia, le testimonianze che delineano una possibile verità alternativa a quella imposta dal regime, il coinvolgimento di gerarchi intesi ad accreditarla, finendo addirittura per disporre l’arresto del “molesto” genitore, incautamente tenace nella sua ricerca di un colpevole.
Cetti Zerilli rivive nelle sue lettere appassionate, in cui la scoperta dell’amore si intreccia con la cronaca del quotidiano, con tutte le difficoltà derivanti, nel contesto storico e meridionale, dal declinare una vita al femminile.
Missive in cui le frasi più ingenue e fervide della giovane innamorata vengono sottolineate dall’organo inquirente per accreditarne una fantomatica “licenziosità” in una inveterata (e inaccettabile) inversione dei ruoli esclusiva dei reati di genere (ma solo se la vittima è una donna).
Ma “L’amore in questa città” non è solo la storia di un femminicidio di regime, quant’anche il racconto del rapporto della sinergia tra potere e censura (che si alimentano a vicenda), della faticosa strada verso la verità (troppo spesso in salita nella storia recente della nostra Italia).
L’omicidio di Cetti Zerilli, mediante l’attività di ricerca storica di Palazzolo, ci consegna un ennesimo caso insoluto, fatto di silenzi, omissioni, insabbiamenti.
Una vicenda certamente minore rispetto alle tante che hanno caratterizzato la Sicilia, ma di portata emblematica, perché in questa affannosa ricerca del cronista palermitano vengono in rilievo temi importanti: la risposta delle istituzioni (qui inerti se non depistanti…), la solitudine dell’investigatore, il pericolo cui proprio l’isolamento inevitabilmente lo espone.
Un rischio personale che deborda dalla storia descritta nelle pagine del libro, finendo per inverarsi in una realtà che vede Salvo Palazzolo attualmente oggetto di tutela con vigilanza rafforzata, per le minacce subite a causa delle sue attuali inchieste sulla mafia.
Palermo fa da sfondo alla storia raccontata nel libro, con le sue “vibrazioni” e i suoi “baratri”, “…buchi neri dove scompaiono parole, prove, testimoni, accuse, ma anche persone”.
L’amore non a caso viene contestualizzato nel titolo del libro: amore “in questa” città, evidenziando anche l’attaccamento per un contesto territoriale difficile, dove l’autore ha maturato una fervida esperienza iniziata nella F.U.C.I. di cui era assistente spirituale don Pino Puglisi.
L’esergo del volume riporta una frase di Lucia Borsellino “Il diritto alla verità non va in prescrizione”: non si può smettere di cercare la verità, che viene a galla solo quando si va a fondo.
La cronaca investigativa di Palazzolo, che avvince il lettore al punto da impedire una lettura rapsodica del testo, conduce ad un finale forse meno appagante rispetto alle aspettative di certezza (impossibile per il decorso del tempo), ma rispettoso della verità, prefigurando la concreta probabilità di una ricostruzione diversa (e cancellata) rispetto a quella imposta dalle circostanze storiche dell’epoca.
Con tutti gli inevitabili limiti offerti da una cronaca postuma, qui come altrove viene professata una religione laica di grande importanza “il culto della memoria”, un vero e proprio “vizio” secondo l’icastica denominazione di Gherardo Colombo.
Memoria di quello che è accaduto, del martirio di alcuni; un atto dovuto per il loro sacrificio e per i loro congiunti (cui residua una sedia vuota e l’ergastolo del dolore), ma anche per gli ideali che spesso sono stati causa del sacrificio della vita.
Cetti Zerilli non assurge certo a rango di eroina civile, ma tocca il cuore del lettore per i semplici valori che ne connotano la sua breve esistenza: il desiderio di indipendenza e di libertà di una ragazza che ci offre i suoi sentimenti con le sue lettere, innamorata dell’amore e che viene uccisa per il suo grande desiderio di vivere.
Le parole che Palazzolo attribuisce all’anziano cronista protagonista del romanzo scalfiscono l’oggi: “…l’amore è libertà, e dunque di per sé viene considerato un ostacolo in certi contesti politici. L’amore sconveniente di chi non si rassegna, anzi di chi guarda avanti. Ecco cosa non vuole il regime”.
Alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica Italiana.
Onorevole Commissione,
come richiestomi, rassegno la seguente memoria in materia di misure cautelari alternative alla custodia cautelare in carcere, di misure alternative alla detenzione e di misure di prevenzione personali giurisdizionali e di sorveglianza speciale con particolare riguardo agli strumenti di controllo elettronico.
Gli strumenti di controllo elettronico a distanza previsti dall’art. 275 bis c.p.p. sono parte del sistema processuale penale da circa venticinque anni, arco temporale che sicuramente permette una valutazione a ragion veduta dell’istituto a fronte di un’ampia casistica derivante dall’applicazione di misure cautelari e dalla loro sostituzione da parte dei giudici nelle fasi di merito: G.I.P., G.U.P. e giudici dibattimentali di primo e secondo grado.
Il percorso applicativo del braccialetto elettronico – questo il termine comunemente utilizzato nelle sue diverse tipologie tecniche – è stato talvolta tortuoso e inizialmente limitato alla misura cautelare degli arresti domiciliari, principalmente con finalità specialpreventive rafforzando la possibilità di controllo dei soggetti detenuti in abitazione ma anche di ausilio alle forze dell’ordine nell’attività di controllo tradizionale, ponendo immediatamente alcune criticità relative alla effettiva disponibilità dello strumento e dei relativi tempi di attivazione, a volte molto lunghi.
Specie nei primi anni di applicazione dei dispositivi, si sono verificati casi in cui persone sottoposte a custodia cautelare in carcere sono rimaste decine di giorni in attesa che fosse disponibile il braccialetto elettronico, cui veniva nella sostanza condizionata la sostituzione della misura inframuraria con gli arresti domiciliari, e subito sono sorte perplessità sulla legittimità di tale situazione, giacché la permanenza in carcere dipendeva dalla variabile disponibilità dello strumento di controllo, i cui tempi di attivazione non sono riconducibili al fatto dell’imputato al netto di possibili carenze di linea nell’abitazione individuata come luogo di detenzione.
Queste criticità sembrano allo stato superate grazie all’aumento del numero dei dispositivi elettronici disponibili per come garantiti dal contratto di fornitura in essere, e della relativa semplicità tecnica dell’installazione del braccialetto elettronico, semplicemente collegato alla linea fissa dell’abitazione divenuta luogo di detenzione.
Situazione sensibilmente diversa è quella dello strumento di controllo a distanza doverosamente imposto con l’applicazione delle misure cautelari del divieto di avvicinamento alla persona offesa (art. 282 ter c.p.p.) e dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis c.p.p.), specie nei reati di “codice rosso” elencati al comma sesto dell’articolo da ultimo citato, con particolare riguardo ai delitti di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) e atti persecutori (art. 612 bis c.p.), di particolare allarme sociale a fronte del non raro evolversi in lesioni personali anche gravi o addirittura mortali.
A mio avviso, in questi casi le criticità maggiori non si rinvengono tanto nella disponibilità degli strumenti di controllo a distanza, quanto nei tempi di attivazione del braccialetto elettronico e nella piena funzionalità dello strumento.
Il contrasto alla violenza di genere e domestica ha quindi nel braccialetto elettronico un valido strumento di prevenzione che consente di avvisare la persona offesa dell’avvicinarsi del soggetto maltrattante o persecutore, ma alcuni malfunzionamenti tecnici hanno consegnato alle cronache gravi fatti di sangue che mettono in dubbio la concreta efficacia dello strumento, ponendo seri interrogativi sulle relative tecnicalità operative.
Quanto all’efficacia, ritengo sia comunque arduo porre la persona offesa in perfetta condizione di sicurezza nel caso in cui un soggetto libero animato da intento omicida sia assolutamente determinato a nuocere.
Vengono in considerazione circostanze soggettive, quali le abitudini di vita, le condizioni di vita sociali e familiari, e non credo possa sostenersi che il segnale di allarme emesso si riveli sempre idoneo a porre in assoluta sicurezza la vittima potenziale di violenza quando l’aggressore supera il fatidico limite dei 500 metri previsto dall’art. 282 ter c.p.p., la cui legittimità costituzionale è stata da ultimo statuita dal giudice delle leggi nella recente sentenza n. 173/2024.
Anche la sensazione di perfetta sicurezza può del resto essere fonte di pericolo, e quindi riporre nel braccialetto elettronico fiducia assoluta nel garantire l’incolumità delle vittime mi pare davvero poco opportuno.
In altre parole, sarà anche banale affermare che il rischio zero non esiste, ma ne va comunque tenuto conto in un’ottica realistica di tutela delle vittime.
Va inoltre considerato che il braccialetto elettronico andrebbe applicato in stretta concomitanza rispetto all’esecuzione della misura cautelare, senza ritardi di sorta, giacché proprio nei primissimi giorni di applicazione della misura cautelare la persona sottoposta ad indagini potrebbe sviluppare reazioni incontrollate – e di fatto incontrollabili – ai danni della vittima. Ed anche sotto questo aspetto sarebbe opportuno un intervento normativo che rendesse necessaria la concomitanza tra l’esecuzione della misura cautelare e l’installazione del braccialetto elettronico.
Nella prospettiva dei mezzi scarsi e dei bisogni molteplici, il braccialetto elettronico resta comunque un valido e realisticamente l’unico strumento che consente di tutelare le vittime di violenza sessuale, maltrattamenti e stalking, senza collocare in carcere l’aggressore, che anche in caso di carcerazione potrebbe essere in seguito liberato – non ultimo il caso di espiazione della pena - e tentare nuove aggressioni alla vittima, ponendo nuovamente il tema dell’applicazione di uno strumento di controllo a distanza.
Ciò detto, al fine di garantire il massimo livello di tutela delle vittime, ritengo che una volta applicato il braccialetto bisognerebbe comunque incentivare forme di aiuto psicologico che possano distogliere l’aggressore da affettività patologiche o moleste, e qui la strada scelta dal legislatore nel consentire al giudice di subordinare la sospensione condizionale della pena alla obbligatoria frequentazione di percorsi specifici di recupero presso enti e associazioni operanti nel settore (art. 165, quinto comma, c.p.) mi sembra condivisibile e andrebbe incentivata, poiché i reati di c.d. codice rosso sono spesso riconducibili a carenze educative o a modelli educativi obsoleti, in cui il rapporto di coppia – o più in generale con il prossimo – è ricondotto al diritto di proprietà esercitato in forma assoluta, piuttosto che al principio volontaristico di libera scelta alla base di ogni relazione umana equilibrata.
Occorre però sottolineare che si tratta di strumenti in cui occorre investire con risorse umane e strutturali non sempre compatibili con clausole di invarianza finanziaria che talvolta si leggono nei testi normativi che riguardano il settore giustizia (nel caso di specie prevista dall’art. 6, comma secondo, della Legge n.69/2019), trattandosi di veri e propri investimenti sociali diretti a migliorare il livello educativo e culturale delle persone sotto molteplici aspetti, e che vanno oltre la tematica penalistica strettamente intesa.
In quest’ottica, potrebbe essere incentivato anche l’accesso a forme di giustizia riparativa, fondate sul riconoscimento dell’altro che viene quindi sottratto da forme di reificazione che conducono a gesti estremi e delittuosi, e qui il d.lgs. n.150/2022 (c.d. riforma Cartabia) offre strumenti in cui occorre riporre fiducia, ma che ancora si presentano in forma embrionale e sono comunque ben lontani dalla necessaria verifica di efficacia e congruità.
Mi preme sottolineare un ultimo aspetto.
Le forze dell’ordine sono fortemente coinvolte nell’attività di monitoraggio degli allarmi segnalati dai dispositivi elettronici, e l’esperienza giudiziaria dimostra che talvolta si verificano falsi allarmi legati a tecnicalità di vario genere, da quelle più banali quali lo scaricarsi delle batterie dei dispositivi – quelli antistalking prevedono oltre al braccialetto indossato dall’indagato anche due ricettori mobili che devono essere portati sia dalla persona offesa che dall’indagato – o più complesse anomalie di funzionamento dovute all’intensità del segnale, al netto di possibili manomissioni volontarie totali o parziali.
Si tratta di un impegno gravoso, da rendere compatibile con le altre funzioni di polizia, e che deve trovare necessariamente particolare attenzione nella formazione del personale e soprattutto nell’aggiornamento tecnologico degli strumenti di controllo, trattandosi di un settore in continua evoluzione.
Le pubbliche amministrazioni competenti dovrebbero pertanto essere messe in grado di pretendere dal soggetto fornitore degli strumenti il puntuale adempimento del contratto, in termini di numero di dispositivi forniti e di tempi di attivazione degli stessi. Il capitolato dovrebbe poi garantire il massimo livello tecnologico consentito dal momento, prevedendo in caso di inadempimento strumenti negoziali agili che consentano al limite di rivolgersi rapidamente altrove.
La conclusione a mio avviso evidente è che il braccialetto elettronico, per essere efficace nel contrasto alla violenza di genere e domestica, non deve essere soltanto applicato nei casi che lo richiedono e nel più breve lasso di tempo – obiettivo possibile grazie anche alle modifiche legislative che hanno interessato la tempistica delle indagini relative ai reati di codice rosso – ma deve anche essere perfettamente idoneo sotto l’aspetto strettamente tecnico allo scopo cui è destinato, e costantemente revisionato e aggiornato rispetto all’evoluzione tecnologica, grazie a strumenti negoziali idonei e al costante monitoraggio delle criticità che via via insorgono.
In tal senso mi permetto di segnalare l’opportunità che il legislatore rivolga la sua attenzione alla stesura di norme – di fonte primaria ma anche regolamentari, forse di più rapida entrata in vigore – che consentano agli operatori di avere strumenti sempre all’avanguardia per garantire doverosamente alle vittime dei reati la migliore tutela consentita dal settore tecnologico di interesse.
Concludo la mia memoria con qualche rilievo statistico.
L’applicazione del mezzo di controllo a distanza è in netto aumento, andando di pari passo rispetto al numero crescente di applicazioni di misure cautelari non detentive per i reati di codice rosso. Al novembre 2024 erano attivi 840 dispositivi disposti da giudici del Tribunale di Roma, ma l’andamento è comunque in aumento come segnalato da fonti appartenenti alle Forze dell’ordine.
Del pari obbligatoria è l’applicazione del braccialetto elettronico in occasione dell’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale per i reati di codice rosso. Dalla Sezione competente mi segnalano che negli ultimi tre anni sono state disposte mediamente 55 misure di sorveglianza speciale con contestuale applicazione del braccialetto elettronico.
Sperando di aver fornito utili elementi di valutazione, Vi ringrazio per l’attenzione concessami.
Roma, 10.2.2025
Sul tema si veda anche “Braccialetto elettronico” e protezione vittima di violenza di genere di Maria Monteleone.
Sommario: 1. I fattori che spiegano la “precisazione” del 2017 rispetto a Granital - 2. Aggiustamenti e nuovi interrogativi (la giurisprudenza dal 2019 al 2024) - 3. Recenti tentativi di assestamento (sent.n. 181 del 2024) - 4. Prospettive e incognite del “tono costituzionale” - 5. Il ruolo delle corti costituzionali in sede di rinvio pregiudiziale nella prospettiva della Corte di giustizia - 6. Possibili prospettive.
1. I fattori che spiegano la “precisazione” del 2017 rispetto a Granital
Nella sentenza n. 269 del 2017, la Corte costituzionale giustificò la “precisazione” del consolidato indirizzo avviato nel caso Granital dalla sentenza n. 170 del 1984 in tema di rapporti fra diritto nazionale e diritto dell’Unione europea direttamente applicabile con l’argomento che “il contenuto di impronta tipicamente costituzionale” della Carta dei diritti fondamentali determinava un crescente intreccio di princìpi e diritti con quelli della Costituzione. La conseguente proliferazione di doppie questioni pregiudiziali rendeva dunque necessario per il giudice scegliere fra la non applicazione della normativa nazionale impugnata per contrasto col diritto UE direttamente applicabile e la rimessione alla Corte della questione di legittimità costituzionale, che però la Corte considerò allora un obbligo con l’argomento dei vantaggi in termini di certezza del sindacato accentrato quale “fondamento dell’architettura costituzionale”.
In Granital, l’ipotesi che una legge od atto equiparato potesse violare non solo il diritto UE direttamente applicabile ma anche la Costituzione non era prevista, e comprensibilmente: basti pensare che l’Unione europea non era stata ancora istituita. Per cui non si poneva neanche una possibile scelta per il giudice, a meno che non dubitasse, ma si presumeva in ipotesi di scuola, della conformità del diritto primario UE (tramite la relativa legge nazionale di esecuzione) ai princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale, i cosiddetti controlimiti.
Poteva darsi inoltre che il giudice dubitasse del significato da ascrivere al diritto comunitario, e proponesse perciò rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia; ma il campo delle ipotesi era anche qui più limitato, giacché la Corte costituzionale si rifiutava di proporre questioni pregiudiziali, lasciando al solo giudice comune tale scelta. Ripescando un antico precedente (sent. n. 13 del 1960), essa si autodefiniva “organo di garanzia costituzionale, di suprema garanzia della osservanza della Costituzione della Repubblica da parte degli organi costituzionali dello Stato e di quelli delle Regioni”, pur di riservarsi un margine di apprezzamento autonomo dal circuito giudici comuni-Corte di giustizia relativo all’interpretazione del diritto comunitario, in vista di un arbitraggio finale sul relativo contrasto col diritto interno. Nelle ipotesi di doppia pregiudizialità, che cominciano a crescere negli anni Novanta, il rifiuto della Corte di considerarsi giudice ai fini del rinvio comportava infatti che fosse il giudice comune a dover sollevare la questione di pregiudizialità comunitaria avanti alla Corte del Lussemburgo, riceverne l’interpretazione della norma comunitaria ed eventualmente sollevare incidente di costituzionalità, col risultato di riservare alla Corte costituzionale l’ultima parola (fra le altre, ord. nn. 536 del 1995, 316 del 1996, 108 e 109 del 1998).
Nel 2017, la Corte aveva peraltro abbandonato da tempo quell’indirizzo (a partire dall’ord. n. 102 del 2008 quanto ai giudizi in via principale e dall’ord. n. 207 del 2013 per quelli in via incidentale). La stessa sentenza n. 269 venne emessa all’indomani della conclusione di Taricco, dove il ricorso della Corte al rinvio pregiudiziale era stato strategicamente decisivo.
La proliferazione delle doppie questioni pregiudiziali, determinata dall’applicazione di un documento dal “contenuto di impronta tipicamente costituzionale” come la Carta dei diritti fondamentali, si presentava dunque con caratteri di relativa novità. Ma unitamente all’argomento della maggior certezza garantita dal monopolio della Corte sull’annullamento bastò per affermare che il giudice dovesse sollevare la questione, salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale. Si trattava di una soluzione da un lato limitata in termini di parametro, in quanto ristretta alla sola ipotesi in cui la doppia pregiudizialità investisse la Carta dei diritti, non il resto del diritto dell’Unione primario o derivato, dall’altro cogente, in quanto concretizzantesi nell’obbligo per il giudice di sollevare questione di legittimità costituzionale.
Intorno a questi due aspetti ruoterà l’intera evoluzione della giurisprudenza costituzionale.
2. Aggiustamenti e nuovi interrogativi (la giurisprudenza dal 2019 al 2024)
Ben presto la Corte avrebbe sostituito all’obbligo del giudice la facoltà di sollevare questione di legittimità in alternativa alla non applicazione della legge confliggente col diritto dell’Unione direttamente applicabile.
Nella sent. n. 20 del 2019, il nuovo orientamento era sostenuto dall’argomento che “la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della Costituzione italiana genera, del resto, un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione”.
Nella sent. n. 63 del 2019, ribadita l’ammissibilità di questioni sollevate nella ipotesi di concorso di parametri (Costituzione e CDFUE), la Corte aggiungeva: “fermo restando il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta”.
L’orientamento sarebbe stato poi confermato (sent. nn. 11 del 2020 e 182 del 2021). E tuttavia l’affermazione della “non preclusione”, fondata sull’“arricchimento degli strumenti di tutela” assicurato dalla sopravvenienza della Carta, non forniva al giudice alcun criterio utile ad orientarlo nella scelta richiesta dalla presenza di una doppia pregiudizialità. In altre sentenze (nn. 254 del 2020 e 194 del 2018) la Corte si richiamerà al requisito della compiutezza normativa della disposizione del diritto UE applicabile, ma non al punto da dar vita a un indirizzo consolidato.
Ancora più avanti, si sarebbe anzi registrata un’autentica oscillazione fra il ritorno al rispetto della regola Granital, solo temperato dall’avvertenza che il sindacato accentrato non è alternativo ma confluisce con un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo “nella costruzione di tutele sempre più integrate” (sent. n. 67 del 2022), e l’affermazione, che risulterebbe suffragata “da un’ormai copiosa giurisprudenza costituzionale”, secondo cui l’effetto diretto eventualmente risultante dal diritto dell’Unione non preclude la cognizione della Corte costituzionale circa la legittimità della legge nazionale confliggente, anche qui accompagnata dal rilievo per cui l’arricchimento degli strumenti di tutela assicurato dalla Carta “vede tanto il giudice comune quanto questa Corte impegnati a dare attuazione al diritto dell’Unione europea nell’ordinamento italiano, ciascuno con i propri strumenti e ciascuno nell’ambito delle rispettive competenze” (sent. n. 149 del 2022).
L’orientamento della non alternatività dei rimedi, pur restando costante (v. anche sent. n. 15 del 2024), non riusciva dunque a nascondere accentuazioni opposte, rispettivamente, del primato del diritto dell’Unione quale “architrave su cui poggia la comunità di corti nazionali” (sent. n. 67 del 2022) e del sindacato accentrato quale “fondamento dell’architettura costituzionale” (sent. n. 269 del 2017).
In definitiva, a partire dalla sentenza n. 20 del 2019, la Corte ha lasciato al giudice il compito di scegliere fra le soluzioni riportate, pur senza rinunciare a indicare il proprio favore per la rimessione della questione di legittimità in ragione della maggior certezza del diritto arrecata dal ricorso all’effetto erga omnes proprio delle sentenze di accoglimento. Il percorso del giudice comune di fronte a una doppia pregiudiziale si faceva così più incerto, dovendo egli compiere valutazioni di ordine probabilistico non assistite da un criterio-guida sufficientemente affidabile, delle quali l’ipotesi di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia costituiva ulteriore variante.
3. Recenti tentativi di assestamento (sent.n. 181 del 2024)
Ci si può chiedere se e fino a che punto la sentenza n. 181 del 2024, seguita da altre (sentt. nn. 210 del 2024, 1, 5 e 7 del 2025, ord. n. 21 del 2025), abbia stabilizzato gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale.
Certamente i due aspetti fondamentali della “precisazione” del 2017 risultano ora profondamente modificati. Da una parte, infatti, confermando l’indirizzo avviato con la sentenza n. 20 del 2019, la Corte afferma che al giudice non spetta l’obbligo, ma solo la facoltà, di sollevare questione di legittimità costituzionale: richiamando la Corte di giustizia, precisa che le Corti costituzionali non possono «ostacolare o limitare il potere dei giudici di proporre un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e di non applicare la legge statale incompatibile con il diritto dell’Unione (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 22 febbraio 2022, in causa C-430/21, RS), quando esso sia provvisto di efficacia diretta (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 24 giugno 2019, in causa C-573/17, Popławski).»
Dall’altra parte, però, la Carta dei diritti fondamentali non è più il solo parametro tratto dal diritto dell’Unione alla cui stregua giudicare l’eventuale vizio della legge nazionale: quando una censura investa la violazione degli “obblighi comunitari” ex art. 117, primo comma, Cost., dice la Corte, “L’obbligo dello Stato è quello di assicurare il rispetto del diritto eurounitario e il principio di preminenza; tale obbligo è violato, sia se il contrasto riguarda la Carta dei diritti fondamentali, sia se il conflitto riguarda un’altra normativa del diritto dell’Unione.” (sent. n. 181 del 2024).
Per ambedue i profili, la posizione assunta nel 2024, e poi come vedremo più volte ribadita, è frutto di progressivi aggiustamenti di tiro.
Quanto al primo profilo, la ribadita facoltà di scelta del giudice comune non equivale affatto a ritenere che per la Corte le due strade siano equivalenti. Non lo erano nemmeno nel 2017, quando il sindacato accentrato era stato definito “fondamento dell’architettura costituzionale”, e a più forte ragione non lo sono state nel 2024.
Già nella sentenza n. 15, la Corte aveva affermato che la proposizione della questione di legittimità “offre un surplus di garanzia al primato del diritto dell’Unione europea, sotto il profilo della certezza e della sua uniforme applicazione.” Ma lo aveva affermato in presenza di una perdurante applicazione da parte di una pubblica amministrazione di normativa interna che in sede giurisdizionale era stata giudicata incompatibile col diritto UE direttamente applicabile, e perciò da lui non applicata. Infatti, così proseguiva la Corte, “Proprio per evitare tale evenienza, e fermi restando ovviamente gli altri rimedi che l’ordinamento conosce per l’uniforme applicazione del diritto quando ciò accada, la questione di legittimità costituzionale offre la possibilità, ove ne ricorrano i presupposti, di addivenire alla rimozione dall’ordinamento, con l’efficacia vincolante propria delle sentenze di accoglimento, di quelle norme che siano in contrasto con il diritto dell’Unione europea”.
La sent. n. 181 del 2024 generalizza invece l’affermazione del “surplus di garanzia” offerto al primato del diritto dell’Unione dall’accoglimento della questione di legittimità “sotto il profilo della certezza e della sua uniforme applicazione”.
Così stando le cose, ci si può chiedere piuttosto perché la Corte non abbia percorso l’ultimo miglio che, a partire dal 2017, la separa dalla integrale riacquisizione del giudizio sulle leggi incompatibili col diritto UE direttamente applicabile, qualificando come “principio supremo” il sindacato accentrato.
Finora i princìpi supremi sono stati fatti sapientemente balenare quali controlimiti nei rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia, come nel caso Taricco. Ma se la Corte qualificasse espressamente il sindacato accentrato come controlimite alle limitazioni di sovranità di cui all’art. 11 Cost., potrebbe continuare nello stesso tempo a ragionare di un “concorso di rimedi giurisdizionali” mirante alla “costruzione di tutele sempre più integrate”?
Per poter svolgere una funzione, l’affermazione del sindacato accentrato quale controlimite equivarrebbe a rivendicare un’esclusiva titolarità non del solo potere di annullamento delle leggi ma anche della cognizione circa la loro conformità a Costituzione indipendentemente dalla provenienza (interna o esterna) dell’atto che abbiano in ipotesi violato.
La stessa giurisprudenza mostra come l’evocazione del controlimite non sia facilmente dissociabile dal richiamo alla minaccia di attivare lo strumento ultimo che una corte ha a disposizione per rivendicare una certa funzione, e in quanto tale non bilanciabile con altri. In questo senso, l’evocazione del controlimite del sindacato accentrato andrebbe oltre la constatazione di un vantaggio in termini di certezza del diritto, derivante dal possibile annullamento della legge incostituzionale, che la Corte ha più volte operato a partire dal 2017 quale mero argomento a favore della soluzione accentrata.
Finquando si esaurisca nella generalmente incontestata attribuzione alla Corte del monopolio dell’annullamento delle leggi, l’evocazione del sindacato accentrato può valere appunto nei termini di una soluzione più vantaggiosa della non applicazione, e dunque bilanciabile con essa sulla base di altri argomenti, come avviene ancora nella sent. n. 181 del 2024. Se viceversa il monopolio derivante dal sindacato accentrato venisse riferito alla cognizione circa la conformità della legge a Costituzione in quanto principio supremo dell’ordinamento costituzionale, e pertanto controlimite alle “limitazioni di sovranità” ex art. 11 Cost., non potrebbe non tornare in discussione il fondamento giuridico del rimedio della non applicazione della legge nazionale da parte del giudice comune.
Una scelta simile, con l’abbandono dell’indirizzo inaugurato da Granital e un ritorno a Frontini (1973), isolerebbe nuovamente la Corte dal circuito fra giurisdizioni nazionali ed europee formatosi intorno alla tutela dei diritti fondamentali: non solo per il merito della scelta, ma anche in forza della rivendicazione di giudice delle leggi così implicitamente operata. Superato l’originario stadio dell’isolamento grazie al recente accorto uso dei rinvii pregiudiziali, la Corte tornerebbe al punto di partenza. È appena necessario ricordare che, da Simmenthal in poi, per la Corte di giustizia il principio del primato include l’obbligo per il giudice comune di procedere all’immediata disapplicazione della norma interna contrastante quelle UE dotate di diretta efficacia, con la conseguente difformità da tale principio di meccanismi interni che viceversa impongano la caducazione della norma interna. Che è quanto scaturirebbe dalla qualificazione del sindacato accentrato come principio supremo nel senso anzidetto.
Infine, una tale qualificazione non potrebbe restare senza conseguenze sulla configurazione dell’identità nazionale di cui all’art. 4 TUE. La Corte di giustizia ha già escluso che la Corte costituzionale di uno Stato membro possa richiamarsi alla clausola dell’identità nazionale onde aggirare la regola per cui l’ultima parola sull’interpretazione del diritto primario dell’Unione spetta alla Corte di giustizia.
In RS (2022) ha prima affermato che “l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE non osta a una normativa o prassi nazionale che prevede che i giudici ordinari di uno Stato membro, in forza del diritto costituzionale nazionale, siano vincolati da una decisione della Corte costituzionale di tale Stato membro che dichiari una norma nazionale conforme alla costituzione di detto Stato membro. Tuttavia, lo stesso non può dirsi nel caso in cui l’applicazione di una siffatta normativa o di una siffatta prassi implichi l’esclusione di qualsiasi competenza di tali giudici ordinari a valutare la conformità al diritto dell’Unione di una norma nazionale, che la Corte costituzionale di tale Stato membro abbia dichiarato conforme a una disposizione costituzionale nazionale che preveda il primato del diritto dell’Unione”. La Corte ha poi aggiunto che, “qualora la Corte costituzionale di uno Stato membro ritenga che una disposizione del diritto derivato dell’Unione, come interpretata dalla Corte di giustizia, violi l’obbligo di rispettare l’identità nazionale di detto Stato membro, tale Corte costituzionale deve sospendere la decisione e investire la Corte di giustizia di una domanda di pronuncia pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 TFUE, al fine di accertare la validità di tale disposizione alla luce dell’art. 4, paragrafo 2, TUE, essendo la Corte di giustizia la sola competente a dichiarare l’invalidità di un atto dell’Unione”. Infine la Corte di giustizia ha desunto dalla propria competenza esclusiva a fornire l’interpretazione definitiva del diritto dell’Unione che “la Corte costituzionale di uno Stato membro non può, sulla base della propria interpretazione di disposizioni del diritto dell’Unione, ivi compresa quella dell’articolo 267 TFUE, legittimamente dichiarare che la Corte di giustizia ha pronunciato una sentenza che viola la sua sfera di competenza e, pertanto, rifiutare di ottemperare a una sentenza pronunciata in via pregiudiziale dalla Corte di giustizia”.
Nel respingere le azioni di annullamento dell’Ungheria e della Polonia contro il regolamento sulla condizionalità finanziaria a tutela dello Stato di diritto n. 2020/2022, la Corte ha poi affermato per la prima volta che “l’art. 2 TUE non è semplicemente una dichiarazione di linee guida politiche o di intenzioni, ma contiene i valori che … sono una parte integrante dell’identità dell’Ue come ordine giuridico comune, valori che hanno una concreta espressione in principi, comprese delle obbligazioni vincolanti per gli Stati” (Ungheria contro Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea e Polonia contro Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea (2022)). È, questo, un passaggio costituzionale che impegna una corte che lo abbia varcato a non tornare indietro, orientandone corrispondentemente ruolo e aspettative.
Già prima delle sentenze del 2022 poteva dirsi che più la Corte costituzionale di uno Stato membro assume a parametro il diritto primario dell’Unione, e più si trova a dover assimilare la regola che l’ultima parola nella sua interpretazione, compresa la clausola dell’identità nazionale, spetta alla Corte di giustizia. A più forte ragione ciò vale dopo che la Corte di giustizia ha interpretato l’art. 2 TUE in modo da metterne in luce la portata costituzionale. Anche per questo, la Corte costituzionale non potrebbe vantare nei confronti della Corte del Lussemburgo il carattere “sistemico” dei propri scrutini, ancora di recente paragonato alla valutazione “parcellizzata” della Corte di Strasburgo.
Per tutte queste ragioni, l’evocazione del sindacato accentrato quale principio supremo, o non aggiungerebbe nulla di nuovo ove fosse riferita al monopolio sull’annullamento della legge, cui la Corte ha già più volte accennato dal 2017 in poi, o equivarrebbe a una svolta insuscettibile di trattative con altre corti ove venisse riferita alla stessa cognizione della conformità di una legge a Costituzione indipendentemente dalla provenienza dell’atto con cui si ritenga in collisione.
Non a caso, l’ultimo miglio non è stato percorso neanche nella sent. n. 181 del 2024, che pure appare ai commentatori la punta più avanzata nell’ambito della tendenza della Corte a recuperare terreno nella partita aperta con gli altri giudici sul trattamento delle leggi confliggenti col diritto UE direttamente applicabile.
Ad esprimere quella tendenza, non è dunque l’indicazione dei vantaggi della scelta di sollevare questione di legittimità costituzionale su quella di non applicare la normativa nazionale confliggente. Sul punto la sent. n. 181 del 2024 non aggiunge nulla alla consueta combinazione fra dichiarazioni sulla piena libertà di scelta del giudice comune e indicazioni dei vantaggi offerti dalla proposizione della questione di legittimità in termini di certezza del diritto. L’elemento davvero innovativo consiste invece nella estensione dalla sola Carta dei diritti a tutta la normativa del diritto dell’Unione del parametro alla cui stregua valutare la difformità della normativa nazionale.
4. Prospettive e incognite del “tono costituzionale
Già nella sent. n. 20 del 2019 si era colta una propensione della Corte costituzionale a porsi “come organo interno di garanzia dell’uniforme applicazione del diritto UE anche in ambiti non connessi alla tutela dei diritti fondamentali. In questa chiave, il tentativo potrebbe essere quello di mettere l’efficacia erga omnes delle proprie pronunce al servizio di un’attività di conformazione del diritto interno a quegli obblighi sovranazionali che non vengono adeguatamente presi in carico dal legislatore, così da perseguire una corrispondenza più piena e integrata tra diritto interno e sovranazionale, di cui essa potrebbe porsi alla guida nella generalità dei casi”[1]. Ma una volta che la disapplicazione costituisca un rimedio parallelo all’attivazione del giudizio incidentale, si verificherebbero “sovrapposizioni difficilmente governabili nelle sfere d’azione delle due corti”[2].
La sentenza n. 181 del 2024 supera ogni remora a distinguere la Carta dal resto del diritto UE primario o derivato. Nello stesso tempo, la questione di legittimità può dirsi ammissibile purché provvista di “tono costituzionale”. Più precisamente, “Perché questa Corte scrutini nel merito le censure di violazione di una normativa di diritto dell’Unione direttamente applicabile, è necessario che la questione posta dal rimettente presenti un “tono costituzionale”, per il nesso con interessi o princìpi di rilievo costituzionale. Tale nesso si rivela in modo esemplare nel caso di specie.
La direttiva 2006/54/CE, nell’attuare il principio di parità di trattamento tra uomo e donna, già sancito dalla direttiva 76/207/CEE, e nel concretizzare gli artt. 21 e 23 della Carta di Nizza (Considerando n. 5), investe princìpi fondamentali nel disegno costituzionale e con tali princìpi interagisce nel sindacato che questa Corte è chiamata a svolgere al metro dell’art. 3 Cost., in una prospettiva di effettività e di integrazione delle garanzie.”
Mentre la Carta dei diritti veniva qualificata di per sé, nella sent. n. 269 del 2017, “di impronta tipicamente costituzionale”, qui, al cospetto di tutto il diritto dell’Unione, “il tono costituzionale”, o “il nesso con interessi o princìpi di rilievo costituzionale”, va provato di volta in volta, con la conseguenza che una riscontrata assenza di tale “tono” o “nesso” renderebbe inammissibile la questione. Secondo Roberto Mastroianni, l’affermazione sarebbe frutto di un’autolimitazione, ma solo apparentemente[3]. In effetti, essa viene ricollegata dalla Corte ai casi in cui la proposizione della questione di legittimità si rivelerebbe “particolarmente proficua”: ciò avverrebbe “qualora l’interpretazione della normativa vigente non sia scevra di incertezze o la pubblica amministrazione continui ad applicare la disciplina controversa o le questioni interpretative siano foriere di un impatto sistemico, destinato a dispiegare i suoi effetti ben oltre il caso concreto, oppure qualora occorra effettuare un bilanciamento tra princìpi di carattere costituzionale.” Inoltre, soggiunge la Corte, ove “sussista un dubbio sull’attribuzione di efficacia diretta al diritto dell’Unione e la decisione di non applicare il diritto nazionale risulti opinabile e soggetta a contestazioni, la via della questione di legittimità costituzionale consente di fugare ogni incertezza. Questa Corte potrà dichiarare fondata la questione di legittimità costituzionale, se accerta l’esistenza del conflitto tra la normativa nazionale e le norme dell’Unione, indipendentemente dalla circostanza che queste siano dotate di efficacia diretta.”
La subordinazione dell’estensione del parametro del diritto UE al di là della Carta alla sussistenza di un “tono costituzionale” non pare in effetti volta a limitare il giudizio della Corte. Le ipotesi in cui la proposizione si riveli “particolarmente proficua”, e quindi nettamente preferibile a quella della non applicazione della normativa nazionale, pur risultando fra loro profondamente eterogenee, da incertezze di ordine interpretativo a quelle sulla suscettibilità di operare un bilanciamento fra princìpi costituzionali, nel complesso si verificano con grande frequenza nella giurisprudenza della Corte. E sarà comunque essa stessa a valutarne la ricorrenza, a partire da quando si richieda o meno un bilanciamento.
Per altro verso, i vantaggi della proposizione della questione di legittimità, quali che siano le ipotesi indicate, comunque a titolo esemplificativo, sono sempre riconducibili alla maggiore certezza giuridica derivante dall’annullamento della normativa nazionale confliggente col diritto UE, cui la Corte continua a richiamarsi dal 2017 in poi evitando però di ricondurlo per le ragioni dette al sindacato accentrato quale principio supremo. Solo in quel caso, del resto, la Corte avrebbe potuto richiedere al giudice comune l’obbligo, e non la sola facoltà, di sottoporre avanti a se stessa la questione di legittimità costituzionale nell’ipotesi in discorso. Ma deve averlo sconsigliato il rischio di aprire conflitti di portata imponderabile, tanto con la Corte di giustizia quanto coi giudici comuni.
La spinta alla “marginalizzazione del ‘percorso europeo’” rinvenuta nella sent.n. 181 è stata ritenuta inidonea a “fornire una base teorica solida ad un nuovo assetto dei rapporti tra ordinamenti”, e tale da configurare piuttosto “un nuovo tassello nel tentativo della Corte costituzionale di posizionarsi in un sistema complesso di rapporti tra Corti e Carte che ancora non la vede come punto di riferimento centrale per le questioni che coinvolgono il diritto dell’Unione europea”[4].
Sono non da oggi convinto che non spetti alle corti, nemmeno se corti costituzionali, fondare le proprie pronunce su basi teoriche, vecchie o nuove che siano. Per esse, le teorie potranno costituire uno sfondo, o un punto d’appoggio, rispetto alla conformazione e alla soluzione dei casi. Ho però anche notato come la giurisprudenza avviata nel 2017 abbia abbandonato la prospettiva dei rapporti fra ordinamenti[5], con la conseguente “scomparsa dell’art. 11” notata da Mastroianni. Semplicemente, ora la Corte non crede più che gli ordinamenti siano “autonomi e distinti, ancorché coordinati”, come riteneva nel 1984. Non vi crede, anzitutto perché ha constatato come proprio quella sua affermazione abbia agevolato un percorso di interazioni sempre più fitto fra giudici comuni e Corte di giustizia dal quale si sarebbe così autoesclusa. Nello stesso tempo non osa dichiarare il superamento di quell’assunto, che le imporrebbe di ridefinire l’assetto dei rapporti fra ordinamenti in un contesto anche giuridico troppo precario come quello odierno.
Rimangono le esigenze di posizionamento, il cui soddisfacimento sta avvenendo con due modalità solo apparentemente convergenti. Della prima si è detto. Culminata nella sentenza n. 181 del 2024, ripresa nella sent. n. 210 dello stesso anno nonché nelle sentt. nn. 1, 5 e 7 e nell’ord. n. 21 del 2025, si risolve nel riaccentrare il sindacato di costituzionalità il più possibile, ossia entro il limite di non considerarlo un principio supremo. Vedremo le avventure del “tono costituzionale”: certo è che la sua estrema latitudine, “suscettibile di espandersi e contrarsi a fisarmonica secondo occasionali convenienze”[6], non può conciliarsi con la ribadita intenzione di cooperare con le altre corti, nazionali ed europee, nel perseguimento di “tutele sempre più integrate”.
L’altra modalità si può cogliere dall’attitudine dialogante dei rinvii pregiudiziali, di cui la vicenda Taricco costituisce un caso esemplare nella misura in cui la Corte vi è risultata tanto ferma nella difesa delle proprie ragioni, quanto aperta al confronto con quelle altrui. Lo stesso può dirsi peraltro delle ordinanze relative alle altre questioni pregiudiziali, anche più recenti. Le ordinanze nn. 29 e 161 del 2024 hanno rispettivamente richiamato il consolidato “quadro di costruttiva e leale cooperazione tra i diversi sistemi di garanzia” e lo “spirito di leale collaborazione” in cui l’istituto in esame opera. Infatti, come notato anche dalla sentenza n. 15 del 2024, “la corretta applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto UE sono garantiti dalla Corte di giustizia, cui i giudici nazionali possono rivolgersi attraverso il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, così cooperando direttamente con la funzione affidata dai Trattati alla Corte”. A sua volta l’ordinanza n. 21 del 2025, oltre a riguardare un regolamento che riserva “ampia autonomia” agli Stati membri in ordine alla propria attuazione, ha accompagnato la richiesta di interpretazione rivolta alla Corte di giustizia con argomentate e convinte prese di posizione circa la direzione che dovrebbe prendere, tenendo conto dell’ispirazione solidaristica delle misure redistributive varate dall’Unione per riequilibrare i costi dell’energia, e delle sue conseguenze sulla configurazione degli spazi di disciplina lasciati agli Stati membri.
5. Il ruolo delle corti costituzionali in sede di rinvio pregiudiziale nella prospettiva della Corte di giustizia
Ma ogni valutazione della dinamica delle relazioni fra corti in sede di rinvio pregiudiziale non potrebbe prescindere da come la Corte di giustizia prospetti a sua volta il ruolo che vi possono giocare le corti costituzionali. Ad essa si è già fatto riferimento quanto alla rivendicazione, anche e soprattutto nei confronti delle Corti costituzionali, del potere di interpretazione ultima del diritto dell’Unione. Ma possono registrarsi anche orientamenti che indicano in positivo il possibile ruolo delle corti costituzionali.
In D.B. contro Consob, la Corte di giustizia osserva che “Conformemente ad una consolidata giurisprudenza della Corte, le questioni relative all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevate dal giudice nazionale nel contesto di diritto e di fatto che egli definisce sotto la propria responsabilità, e del quale non spetta alla Corte verificare l’esattezza, sono assistite da una presunzione di rilevanza. Il rifiuto della Corte di statuire su una domanda proposta da un giudice nazionale è possibile soltanto qualora risulti in modo manifesto che la richiesta interpretazione del diritto dell’Unione o l’esame della validità di quest’ultimo non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto del procedimento principale, o anche quando il problema sia di natura ipotetica, oppure la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere utilmente alle questioni che le sono sottoposte nonché per comprendere le ragioni per le quali il giudice nazionale ritiene di aver bisogno delle risposte a tali questioni per dirimere la controversia dinanzi ad esso pendente (v., in tal senso, sentenze del 19 novembre 2009, Filipiak, C‑314/08, EU:C:2009:719, punti da 40 a 42, e del 12 dicembre 2019, Slovenské elektrárne, C‑376/18, EU:C:2019:1068, punto 24)”.
In O.D. la specificità dei rinvii pregiudiziali operati dalla Corte costituzionale rispetto a quelli dei giudici comuni diventa un motivo giustificativo della rilevanza della questione pregiudiziale. Il giudizio verteva su una direttiva non ancora attuata in sede nazionale, la quale non poteva perciò essere invocata per veder disapplicate disposizioni nazionali con essa confliggenti. Senonché, soggiunge la Corte di giustizia, “Occorre [......] rilevare che il giudice del rinvio non è il giudice chiamato a pronunciarsi direttamente sulle controversie principali, bensì il giudice costituzionale «a cui è stata rimessa una questione di puro diritto – indipendente dai fatti addotti dinanzi al giudice di merito – questione alla quale esso deve rispondere alla luce sia delle norme di diritto nazionale che delle norme del diritto dell’Unione al fine di fornire non solo al proprio giudice del rinvio, ma anche all’insieme dei giudici italiani, una pronuncia dotata di effetti erga omnes, vincolante tali giudici in ogni controversia pertinente di cui potranno essere investiti. In tale contesto, l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta dal giudice del rinvio presenta un rapporto con l’oggetto della controversia di cui è investito che riguarda esclusivamente la legittimità costituzionale di disposizioni nazionali rispetto al diritto costituzionale nazionale letto alla luce del diritto dell’Unione» (CGUE, grande sezione, sentenza 2 settembre 2021, in causa C‑350/20, OD. e altri).”.
Nella sent.n. 181 del 2024 la nostra Corte costituzionale ha ripreso il passo rilevando come la Corte di giustizia vi abbia “valorizzato l’importanza primaria del ruolo di questa Corte”. Ma in quale direzione?
Il passo di O.D. viene citato dopo aver osservato che “La declaratoria di illegittimità costituzionale, proprio perché trascende il caso concreto da cui ha tratto origine, salvaguarda in modo efficace la certezza del diritto, valore di sicuro rilievo costituzionale (sentenza n. 146 del 2024, punto 8 del Considerato in diritto), di cui i singoli giudici e questa Corte sono egualmente garanti. Questa Corte, inoltre, grazie alla molteplicità e alla duttilità delle tecniche decisorie che adopera, può porre rimedio nel modo più incisivo alle disarmonie enunciate dal rimettente, anche colmando le lacune che possano derivare dalla caducazione delle norme illegittime.”
Il paragone fra giudici comuni e Corte costituzionale viene compiuto da quest’ultima nella prospettiva del diritto interno anche quando il trattamento giurisdizionale della legge venga in rilievo con riguardo ai suoi rapporti col diritto UE direttamente applicabile. Giudici comuni e Corte costituzionale sono “egualmente garanti” della certezza del diritto, ma solo la Corte, oltre al monopolio dell’annullamento, può colmare le lacune che possano derivarne.
Nell’indirizzo più recente, è costante il richiamo alla “vasta gamma di tecniche decisorie” di cui la Corte si avvale, operato al fine di mostrare l’unicità del proprio contributo non solo rispetto ai giudici comuni, ma più in generale nello spazio costituzionale europeo[7]. Tuttavia, nella prospettiva della Corte di giustizia, tale unicità, per quanto vantaggiosa dal punto di vista dell’applicazione del diritto UE, non giustificherebbe l’attivazione del sindacato incidentale in luogo della non applicazione della normativa interna incompatibile col diritto UE. In O.D. troviamo spiegata questa posizione.
Il punto di partenza implicito ad essa sotteso è che i giudici comuni degli Stati membri siano i giudici incaricati dell’applicazione del diritto dell’Unione, considerazione peraltro ricorrente nella giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. n. 245 del 2019; ordd. nn. 48 del 2017 e 298 del 2011). Quando costoro rimettano al giudice costituzionale una questione che coinvolga tanto norme di diritto nazionale quanto norme di diritto UE, questi, nel rinviare in via pregiudiziale alla Corte di giustizia una questione di interpretazione del diritto UE, lo fa solo perché il diritto costituzionale va letto alla luce del diritto UE. Si tratta comunque di una questione di puro diritto, che per un verso consente alla Corte di giustizia di fornire un’interpretazione del diritto UE al di là dell’area del diritto direttamente applicabile su cui vi è una “presunzione di rilevanza”, e per l’altro conferma che la Corte costituzionale non è autorizzata a definire autonomamente tale interpretazione. Nella prospettiva del giudice costituzionale, il rinvio pregiudiziale serve a definire “una questione di puro diritto”, che non interseca l’applicazione del diritto UE di cui solo i giudici comuni sono incaricati.
Sarebbe facile replicare, dal punto di vista del diritto costituzionale nazionale, che il rapporto fra giudici comuni e Corte costituzionale non corre lungo la contrapposizione giudizio di merito/giudizio di legittimità, la quale non dà conto del nesso di rilevanza che generalmente deve connettere il giudizio incidentale a quello principale. Ma l’obiezione non sposterebbe i termini della questione così come prospettata dalla Corte di giustizia. Che riguarda bensì il ruolo delle giurisdizioni costituzionali in sede di rinvio pregiudiziale, ma si ripercuote pure direttamente sul loro rapporto coi giudici comuni in quanto incaricati in esclusiva dell’applicazione del diritto dell’Unione.
6. Possibili prospettive
Come dimostrano le questioni pregiudiziali fin qui prospettate, nemmeno il più recente indirizzo della Corte costituzionale mira a contestare il potere della Corte di giustizia nell’interpretazione del diritto dell’Unione. Casomai la richiesta che le questioni presentino un “tono costituzionale” dovrebbe o vorrebbe agire in via preliminare, con un ridimensionamento del peso del diritto dell’Unione in sede di interpretazione della normativa applicabile, e una corrispondente riconduzione dei giudici comuni all’ovile della stessa Corte costituzionale. La quale si candiderebbe a quel punto a interloquire in via privilegiata con la Corte di giustizia.
Per riuscire nell’intento, il nuovo indirizzo deve però pur sempre affidare la sua capacità persuasiva – avendo la Corte abbandonato saggiamente la via dell’obbligo – circa i vantaggi in termini di certezza del diritto del possibile annullamento della normativa nazionale confliggente col diritto UE direttamente applicabile. Argomento spendibile, a condizione di dimostrare che l’alternativa della non applicazione si sia prestata a oscillazioni, incertezze o abusi. E dovrebbe far riflettere che i giudici comuni continuano a seguirla in misura consistente ad otto anni di distanza dalla sentenza n. 269 del 2017.
Il richiamo al “tono costituzionale” accentua ulteriormente l’intensità dell’istanza rivolta a costoro, dispiegandosi come si è detto sull’intero diritto dell’Unione proprio per alimentare al massimo le occasioni che rendano possibile il loro ritorno all’ovile. Questo approccio quantitativo è il risvolto di una perdurante debolezza della Corte in una partita a tre nella quale le altre due parti sembrano continuare ad esercitare i rispettivi sperimentati ruoli senza particolari preoccupazioni.
È auspicabile che la Corte si avveda della necessità, se non anche dell’urgenza dal suo punto di vista, di passare da un approccio quantitativo ad uno qualitativo, nel quale il ruolo della giurisdizione costituzionale venga giuocato sul piano delle grandi opzioni di principio, le sole a consentire un autentico “tono costituzionale”. Non sto ipotizzando ovviamente il ritorno a una riserva di giurisdizione costituzionale sui soli princìpi supremi o controlimiti, che aveva alle spalle quella separazione fra ordinamenti, accompagnata da congegni di coordinamento, su cui era stata costruita Granital. Immagino piuttosto che, dalla realistica presa d’atto della proliferazione delle doppie questioni pregiudiziali, la Corte desuma l’esigenza di concentrarsi su casi analoghi a Taricco, in cui l’interlocuzione con la Corte di giustizia diventa cruciale, o su casi nei quali sia essa stessa a poter e dover evidenziare analogie e differenze fra diritto nazionale e diritto dell’Unione nella prospettiva dei princìpi costituzionali, come in effetti è avvenuto felicemente nell’ordinanza n. 21 del 2025.
In ogni caso, un’autentica autorevolezza si può mantenere, o recuperare, con la rinuncia a intervenire compulsivamente in ogni occasione possibile. I casi di inammissibilità, anche per assenza di “tono costituzionale”, potranno allora rivelarsi altrettanto importanti per comprendere quanto possa funzionare la nuova direzione di marcia.
Relazione al Convegno della Scuola Superiore della Magistratura “I rinvii pregiudiziali che hanno fatto l’Europa”, Napoli, 24-26 marzo 2025.
[1] G.Repetto, Esercizi di pluralismo costituzionale. Le trasformazioni della tutela dei diritti fondamentali in Europa tra ambito di applicazione della Carta e “doppia pregiudizialità”, in Diritto pubblico, 2022, 803.
[2] G.Repetto, Esercizi di pluralismo costituzionale, cit., 805.
[3] R.Mastroianni, La sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2024 in tema di rapporti tra ordinamenti, ovvero la scomparsa dell’art. 11 della Costituzione, in Quaderni AISDUE, n. 1/2025, 8.
[4] R.Mastroianni, La sentenza della Corte costituzionale, cit., risp. 3 e 24.
[5] C.Pinelli, Granital e i suoi derivati. A quaranta anni da Corte cost.n. 170 del 1984, in Rivista AIC, n. 4/2024.
[6] A.Ruggeri, Rapporti tra diritto interno e diritto eurounitario, dal punto di vista della teoria della Costituzione, e tecniche retorico-argomentative nella recente giurisprudenza costituzionale, in Diritti fondamentali, n. 1/2025, 16.
[7] Per un accenno C.Pinelli, Granital e i suoi derivati, cit.
Sommario: 1. Una prima inadeguatezza con tre effetti di costo. – 2. Le “morti da carbonio” imputabili all’Italia e la violazione dell’art. 8 CEDU. – 3. Le conseguenze della doppia inadeguatezza della mitigazione italiana
1. Una prima inadeguatezza con tre effetti di costo
Ha destato preoccupazione la notizia della recente pubblicazione, da parte di ISPRA, dei dati ufficiali relativi alle emissioni di gas serra, prodotte dall’Italia nel 2023[1].
Da un lato, le emissioni complessive sono in calo, rispetto al 2022, solo del 6,8%. Dall’altro, però, risultano in aumento quelle causate dai trasporti, responsabili del 28% del totale. Questo significa che l’Italia non è in linea con gli obiettivi di mitigazione climatica, per essa stabiliti dal Regolamento europeo n. 2023/857, sul c.d. Effort Sharing. La disciplina europea, infatti, stabilisce, per ciascuno Stato, un obiettivo nazionale di riduzione delle emissioni di gas serra entro il 2030 nei seguenti settori: trasporti nazionali (escluso il trasporto aereo), edilizia, agricoltura, piccola industria (esclusa dal settore ETS) e rifiuti. In totale, le emissioni contemplate dal Regolamento rappresentano quasi il 60% delle emissioni interne dell’UE. L’obiettivo della normativa europea, pertanto, è quello di far sì che ciascuno Stato contribuisca concretamente al conseguimento della riduzione delle emissioni dell’intero continente «almeno del 55% entro il 2030» (rispetto ai livelli del 1990), così concorrendo al conseguimento del Green Deal europeo.
Per l’Italia, il taglio contemplato entro il 2030 è del 43,7% rispetto al 2005, con riguardo a tutte le emissioni prodotte, inclusi appunto i trasporti.
Su questo fronte, però, il paese non è evidentemente sulla buona strada. I dati ISRPA non danno luogo a equivoci[2]: la mancata diminuzione delle emissioni dei trasporti ha portato a un progressivo avvicinamento dei livelli emissivi italiani ai tetti massimi consentiti dalle fonti UE, fino al loro superamento registrato nel 2021 (per 5,5 milioni di tonnellate di CO2 equivalente[3]), nel 2022 (per 5,4 milioni) e nel 2023 (per 8,2 milioni), segnando, alla fine, un +7% rispetto ai livelli del 1990. Tra l’altro, una constatazione simile era già pervenuta dal documento allegato all’ultimo DEF, dove si legge che «la mancata riduzione delle emissioni dei settori trasporti e civile ha portato … al superamento [delle quote annuali di emissioni] registrato per l’anno a partire dal 2021»[4].
Dunque, il disallineamento è in atto e questo produce serie conseguenze negative, in termini di costo e di danni. I costi sono principalmente di tre tipi.
Il primo consiste nell’incremento dei costi sociali da mancata mitigazione. Per comprenderlo, basta fare riferimento al costo sociale del carbonio. Esso, infatti, rappresenta il valore economico del danno (socio-economico) causato dalle emissioni di CO₂ equivalente, All’interno della UE, tale costo è utilizzato sia per valutare l’efficacia delle politiche climatiche sia per determinare il prezzo del carbonio nei mercati delle emissioni. Nel corso del 2023, questo costo è stato stimato intorno ai 100€ per tonnellata di CO2 equivalente. Di conseguenza, se l’Italia non dovesse centrare gli obiettivi emissivi per circa 100 milioni di tonnellate cumulate nel periodo fino al 2030 (il che appare possibile con l’attuale trend registrato da ISPRA), essa si troverebbe a dover rispondere del costo sociale di almeno 10 miliardi di euro.
A questa conseguenza negativa, poi, si sommerebbe un secondo costo, questa volta monetario, derivante dalla necessità, per lo Stato italiano, di far ricorso al mercato del carbonio, al fine di acquistare da altri Stati le quote emissive in eccesso.
Infine, in ragione di quanto previsto dall’art. 14 del Regolamento UE n. 2023/857, lo Stato dovrebbe farsi carico anche di un ultimo costo, legato agli oneri amministrativi conseguenti agli accertamenti UE, dato che, una volta riscontrata dalla Commissione l’inadeguatezza italiana, il Governo sarà tenuto a presentare, entro tre mesi dall’accertamento, un piano d’azione correttivo, ossia un vera e propria azione di urgente e drastica mitigazione climatica, traumaticamente incidente sul tessuto economico-sociale del paese.
Quindi, lo scenario offerto da ISPRA è oggettivamente preoccupante.
2. Le “morti da carbonio” imputabili all’Italia e la violazione dell’art. 8 CEDU
Ma non è tutto, purtroppo.
Due altri elementi vanno considerati, a seguito dei dati ISPRA.
Il primo riguarda le c.d. “morti da carbonio”, dunque una categoria di danno. Com’è noto, le emissioni di gas serra sono anche una fonte di imputazione di decessi, sia per inquinamento[5] sia per altri effetti da riscaldamento globale. Su questo secondo fronte, viene ora utilizzata, a livello internazionale, la cosiddetta “regola delle 1000 tonnellate”, elaborata sulla base del costo sociale del carbonio, accettato dagli Stati. Essa stima quante morti sono imputabili alla combustione di una specifica quantità di CO2 equivalente[6] e viene utilizzata per valutare l’impatto sulle persone, nel presente e nel futuro, delle decisioni climatiche degli Stati (e anche delle imprese climalteranti[7]).
In sintesi, la “regola delle 1000 tonnellate” stima che l’emissione appunto di 1.000 tonnellate di CO2 equivalente causa la morte prematura di almeno 1 persona.
Se si rapporta questa regola ai milioni di tonnellate di emissioni non ridotte dello Stato italiano in adempimento delle previsioni europee, emerge uno scenario di danno, statisticamente stimabile e non confutabile, che porterebbe lo Stato a rispondere di lesione del principio del neminem laedere a seguito, da un lato, della violazione del diritto europeo e, dall’altro, del nesso causale emissione-decessi (presenti e futuri). Nuovi profili di responsabilità extracontrattuale si aprirebbero a carico dell’amministrazione pubblica.
Il secondo elemento è connesso al precedente, ma trova fondamento nell’art. 8 della CEDU. Com’è noto, il potere di mitigazione climatica di uno Stato, membro sia della UE che della CEDU, soggiace a un doppo limite: quello europeo e quello appunto CEDU[8]. I dati ISPRA del 2023 arrivano dopo la storica sentenza della Corte di Strasburgo nel caso “Verein KlimaSeniorinnen” del 9 aprile 2024, i cui paragrafi 441 e 550 hanno stabilito, tra le altre cose, i requisiti necessari affinché la mitigazione statale risulti conforme alla tutela effettiva intertemporale dei diritti presidiati dall’art. 8 CEDU. La conformità alla CEDU, pertanto, si affianca a quella unionale europea. Si tratta, tuttavia, di una conformità qualitativa e non invece meramente quantitativa (come quella richiesta dal Regolamento UE n. 2023/857), essendo volta a ridurre non semplicemente le emissioni statali, bensì il rischio di danno alla qualità della vita, imputabile alle emissioni statali. Detto altrimenti, la conformità a CEDU implica, prima ancora che un giudizio prognostico sulla traiettoria della mitigazione climatica (in sede UE svolto dalla Commissione ai sensi del citato art. 14 del Regolamento UE n. 2023/857), un giudizio diagnostico, che la Corte di Strasburgo attribuisce a qualsiasi potere statale, in merito all’adempimento nazionale degli obblighi positivi di protezione derivanti dall’art. 8 CEDU: adempimento a sua volta verificabile attraverso lo scrutinio dei cinque requisiti necessari di mitigazione, scanditi dal citato paragrafo 550 di “Verein KlimaSeniorinnen”.
Poiché neppure dei cinque requisiti necessari CEDU risulta traccia dai dati ISPRA, si deve presumere che l’inadeguatezza della mitigazione climatica italiana si estenda anche al non adempimento degli obblighi positivi di protezione ex art. 8 CEDU. Profilo, questo, che si aggiunge, senza sostituirsi, a quelli già evidenziati sul fronte unionale europeo, dato che la UE non aderisce alla CEDU e la CEDU, a sua volta, vincola l’Italia per la migliore tutela dei diritti (nei termini ovviamente dell’art. 117 comma 1 Cost.).
3. Le conseguenze della doppia inadeguatezza della mitigazione italiana
Ecco allora che questa doppia inadeguatezza della mitigazione climatica (sul fronte dell’Effort Sharing, richiesto dalla UE, sommato all’inadempimento degli obblighi positivi di protezione, riconosciuti dalla Corte di Strasburgo) espone l’Italia, nel convergente quadro di conoscenza dei danni prodotti e producibili dalle emissioni eccedenti (quantificati dalla “regola delle 1000 tonnellate”), su un crinale di plurime responsabilità di varia natura, tanto politiche e istituzionali (tra Stato e UE) quanto giuridiche tra Stato e cittadini, evidentemente legittimati, questi ultimi, a far valere la giustiziabilità delle proprie ragioni di tutela in termini di mancata attuazione del diritto europeo e di violazione diretta dell’art. 8 CEDU.
Se l’Italia non provvederà con urgenza a prendere sul serio il Green Deal europeo nel rispetto delle quantità europee di Effort Sharing e dei metodi di garanzia dei diritti umani, disegnati dalla decisione “Verein KlimaSeniorinnen”, la sua mitigazione climatica risulterà facilmente censurabile anche in sede giudiziaria, tanto civile, in nome del neminem laedere per mancata riduzione del rischio[9] nell’adempimento degli obblighi positivi di protezione, quanto amministrativa, per atti illegitimi in contrasto con l’ Effort Sharing e con la CEDU: e questo sia prima del 2030, in ragione del riformato art. 9 Cost. che impegna ad agire «anche nell’’interesse delle generazioni future», sia, e soprattutto, dopo il 2030, quando la “regola delle 1000 tonnellate” servirà a contare gli effettivi decessi da emissioni non ridotte, che si sarebbero potuti evitare adempiendo al diritto UE e alla CEDU, a discapito di tutte le soglie di sicurezza climatica indicate dalle fonti internazionali, a partire dall’art. 2 dell’UNFCCC del 1992 e dagli artt. 2 e 8 dell’Accordo di Parigi del 2015.
[1] Cfr. L. Aterini, Ispra, l'Italia ha tagliato le emissioni di gas serra del 26,4% sul 1990 mentre l'UE segna -37>#/i###, in Greenreport, 25 marzo 2025; S. Deganello, Emissioni, l’Italia sfora il tetto Ue: «Rischia di dover pagare oltre 25 miliardi», ne Il Sole-24 ore Energia e Ambiente, 6 aprile 2025.
[2] Si legga, per sintesi, il Comunicato stampa di ISRPA.
[3] La CO2 equivalente costituisce l’unità di misura che quantifica la forza climalterante di tutti i gas serra, parametrata a quella del biossido di carbonio.
[4] Relazione sullo stato di attuazione degli impegni per la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, allegata al Documento di economia e finanza (DEF) 2024.
[5] Valga, per tutti, il riferimento al World Air Quality Report 2024.
[6] J.M. Pearce, R. Parncu, Quantifying Global Greenhouse Gas Emissions in Human Deaths to Guide Energy Policy, in Energies, 16, 2023, 6074.
[7] Considerato che solo 36 multinazionali dell’Oil & Gas sono responsabili di circa la metà delle emissioni globali di CO2 (cfr. Carbon Majors: 2023 Data Update).
[8] M. Cunha Verciano, Il doppio limite del potere di mitigazione climatica dell’Italia dopo le sentenze CEDU del 9 aprile 2024, in www.giustiziainsieme.it, 22 gennaio 2025.
[9] Nella distinzione tra riduzione delle emissioni e riduzione del rischio, sancita dal paragrafo 441 di “Verein KlimaSeniorinnen”.
Foto via Wikimedia Commons.
Memoria illustrativa del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo sulle novità contenute nella proposta di legge AC 1822, approvata dal Senato della Repubblica il 10 aprile 2024, relativa alla modifica del codice di procedura penale in materia di sequestro di dispositivi, sistemi informatici o telematici o memorie digitali.
Reputo doveroso rassegnare le considerazioni che seguono, in ragione dell’allarme per l’efficacia delle indagini in materia di criminalità organizzata e di sicurezza cibernetica che genera la considerazione di alcuni dei contenuti della proposta di legge AC 1822, approvata dal Senato della Repubblica il 10 aprile 2024.
Come noto, la proposta legislativa in oggetto prevede una innovativa procedura per i sequestri di dispositivi e sistemi informatici o telematici, memorie digitali, dati, informazioni, programmi, comunicazioni e corrispondenza informatica inviate e ricevute (art. 254-ter c.p.p.)
Le soluzioni prefigurate per non pochi e rilevanti aspetti destano profonda preoccupazione.
Naturalmente, non è in discussione la necessità di deciso rafforzamento delle garanzie difensive, ma la capacità di individuare forme di adeguata protezione dei diritti senza minare ingiustificatamente la capacità di risposta repressiva dei più gravi fenomeni criminali.
In generale, credo di essere stato fra i primi a porre in sede parlamentare il tema di un deciso avanzamento degli equilibri fra esigenze delle indagini e diritti della persona, attraverso la previsione di nuove e più elevate garanzie individuali e della stessa funzione difensiva.
Mi riferisco alla mia audizione dinanzi alla Commissione giustizia del Senato del 31 gennaio 2023. In quella sede, infatti, sottolineavo come vi fosse:
“un evidente ritardo normativo nel prendere atto della profonda necessità di innalzamento delle garanzie legali collegate alla tutela dei dati personali che confluiscono nei sistemi digitali: un ritardo evidente, direttamente collegato al da tempo sopravvenuto rilievo eccezionale dei dati personali diversi da quelli oggetto della tradizionale captazione delle comunicazioni: ma tale da imporre, come è stato detto, “la formulazione di un nuovo apparato normativo dagli orizzonti più vasti”. La stessa nozione codicistica di “intercettazione”, intesa quale captazione clandestina dei flussi di comunicazione in atto fra due soggetti, entra in crisi nell’era digitale, non valendo ad abbracciare e disciplinare unitariamente fenomeni diversi, ma caratterizzati comunemente dalla sottrazione alla sfera di privatezza delle persone di dati di straordinario rilievo giuridico e sociale. È questo un punto cruciale per cogliere la radice di tensioni che la giurisprudenza mostra di non saper risolvere e che probabilmente non può risolvere, come dimostra la sofferenza visibile nell’impiego delle tradizionali categorie del documento e della corrispondenza per individuare la cornice normativa di attività invasive per le quali si rivela la necessità di rafforzamento delle garanzie individuali. Una sofferenza ancor più grande, perché palesemente sostenuta dalla consapevolezza che soltanto il legislatore può definire il punto di equilibrio fra efficienza delle indagini e tutela della riservatezza e delle altre libertà fondamentali; è forse giunto il momento di riconoscere che vi è un deficit di effettività del principio di legalità processuale e delle correlate garanzie difensive che può essere colmato senza pregiudizio per le esigenze di accertamento dei reati più gravi e in coerenza con l’intervento legislativo del 2017; mi riferisco alle possibilità di acquisizione occulta di chat pregresse e comunque di contenuti dei dispositivi di comunicazione telematica mediante captatore in funzione on line search o alle possibilità di ispezione, perquisizione e sequestro di archivi informatici, quali quelli contenuti anche in un semplice smartphone, derivanti dall’inquadramento giurisprudenziale di queste attività come attività “atipiche” di ricerca della prova: è giunto il momento, di “valorizzare, nel settore delle indagini digitali, il principio di proporzionalità quale parametro di legittimità per le attività investigative”… , ciò che oggi non è, se, come sovente accade, è dato sequestrare uno smartphone o altro dispositivo analogo con provvedimento adottabile procedendo per qualsivoglia reato: in ipotesi, anche per semplici contravvenzioni ovvero comunque per delitti di scarsa gravità. In pratica, si tratta di innalzare il valore del principio di libertà di comunicazione prevedendo l’intervento del Giudice e l’introduzione di rigorose condizioni di proporzionalità ed adeguatezza dell’agire investigativo, così legando l’esercizio del potere di acquisizione dei dati personali a rigidi presupposti, definiti da adeguati limiti edittali e da altre tassative specificazioni e, non ultimo, a più rigorosi e perciò controllabili oneri motivazionali; soprattutto, è necessario prevedere che i dati siano trattati come quelli delle intercettazioni, confluendo nell’Archivio delle Intercettazioni: soltanto così i dati irrilevanti a fini di giustizia potranno restare segregati e sfuggire ad ogni diffusione sterminatrice della reputazione, dell’onore e della vita delle persone.”
Dunque, non può che trovare apprezzamento una disciplina che, per non pochi versi consolidando risultati intanto conseguiti in via interpretativa dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, prevede che le acquisizioni dai dispositivi informatici e telematici siano distinte tra rilevanti ed irrilevanti e, per le seconde, proprio come già previsto per le intercettazioni telefoniche, se ne disponga la conservazione, con diritto di accesso solo ai soggetti interessati al procedimento e senza estrazione di copie se non attraverso una procedura governata dal giudice.
L’allarme per la sorte delle indagini che il mio ufficio ha la responsabilità di coordinare nasce da ben altro.
Una prima ragione di grave preoccupazione nasce dalla constatazione della inutile pesantezza delle procedure per l’acquisizione, in fase di indagini, dei contenuti digitali.
Infatti, il testo normativo in esame, dispone che tale attività venga svolta attraverso ben tre provvedimenti di sequestro, dei quali due disposti dal GIP ed uno dal pubblico ministero.
Si prevede infatti che si debba adottare:
a) un primo sequestro - disposto dal GIP su richiesta del PM - relativo all’intero dispositivo;
b) un secondo sequestro - disposto dal PM - sui contenuti estratti che non abbiano carattere di comunicazioni informatiche o telematiche;
c) un terzo sequestro - ancora disposto dal GIP su istanza del PM - relativo ai contenuti estratti dal dispositivo che assumano natura di comunicazioni.
A questa lunga teoria di atti si dovrà inoltre aggiungere un ulteriore sequestro - di natura preventiva, disposto dal GIP su richiesta del PM - qualora il dispositivo, una volta estratti i contenuti rilevati, non possa essere restituito, perché contenente dati o informazioni la cui detenzione integra il reato (ad esempio materiale pedopornografico), ovvero perché suscettibili di confisca obbligatoria o facoltativa all’esito del giudizio, in quanto utilizzato per la commissione del reato (come accade per il dispositivo utilizzato per commettere i reati di stalking ex art. 612-bis c.p. o di revenge porn ex art. 612-ter c.p., ma come accade anche per i gravi delitti cibernetici con riguardo a dispositivi e infrastrutture utilizzati per attacchi ad infrastrutture critiche).
Appare certo che questa proliferazione di interlocuzioni con il GIP per ogni dispositivo sequestrato, oltre a ritardare oltremodo le indagini, procurerà un aggravio insostenibile per uffici spesso onerati da ritardi superiori alla durata delle indagini preliminari nel vaglio delle richieste cautelari per indagini di criminalità organizzata.
Poco male, si dirà, se da questo passa necessariamente una più elevata tutela dei diritti individuali.
Ma forse sarebbe opportuno considerare l’impatto reale di una catena processuale così concepita.
Un duplice, anzi di regola triplice intervento del giudice delle indagini preliminari equivale ad introdurre un potente moltiplicatore dei casi di incompatibilità del giudice, insostenibile soprattutto negli uffici di minori dimensioni.
Un’architettura procedimentale così complessa per giungere alla acquisizione dei dati contenuti in dispositivi in sistemi informatici e telematici, ulteriormente appesantita nel caso in cui si tratti di estrarre contenuti comunicativi, appare sbilanciata rispetto al regime che disciplina le medesime acquisizioni di documenti in formato cartaceo anziché digitale, tanto da offrire, a chi avesse l’accortezza di documentare le proprie attività criminali solo su supporto digitale (si pensi alle scritture contabili o alle corrispondenze d’azienda) una tutela rafforzata nei confronti delle attività di indagine rispetto a chi tale scelta avveduta non abbia assunto.
Si potrebbe persino ironizzare sulla capacità del testo approvato dal Senato a divenire un vero e proprio incentivo alla digitalizzazione delle attività illecite o quantomeno della loro documentazione.
Ma anche l’amaro sorriso dell’ironia si spegne dinanzi alla considerazione della brutalizzazione delle esigenze di contrasto della criminalità mafiosa e delle minacce alla sicurezza cibernetica che inevitabilmente deriverà da altri contenuti del disegno di legge, se approvato nella sua attuale formulazione.
Prima di considerare tali aspetti, appare doveroso, in omaggio ad elementari canoni di lealtà istituzionale, segnalare che l’eccessiva onerosità pratico-organizzativa e ordinamentale prima sottolineata potrebbe ridursi grandemente senza sacrificio per le istanze di maggior tutela delle corrispondenze acquisibili tramite analisi dei dispositivi.
Sul punto conviene dunque segnalare che il regime attualmente delineato potrebbe modificarsi prevedendo che il sequestro previsto dall’art. 1, comma 1, della proposta, relativo all’intero dispositivo, possa estendersi anche ai contenuti non comunicativi estratti all’esito dell’analisi e quindi, assorbire in sé anche l’ipotesi disciplinata al comma 12, prima parte. Al contempo, una specifica ed ulteriore valutazione, riservata esclusivamente al GIP, potrebbe riguardare i soli contenuti comunicativi ritenuti rilevanti per le indagini come già previsto dalla seconda parte dello stesso comma 12.
Sempre in funzione di semplificazione ed alleggerimento della procedura, si potrebbe altresì prevedere, in relazione alla disciplina dettata per la restituzione del dispositivo analizzato (cfr. comma 11 dell’articolo 1 del testo), che il sequestro originario possa essere mantenuto, con eventuale reiezione dell’istanza di parte volta alla restituzione, in tutti i casi nei quali il dispositivo possa essere oggetto di confisca facoltativa o obbligatoria all’esito del giudizio e nei casi in cui contenga dati o programmi dei quali sia vietata la detenzione.
Operando queste modifiche si potrebbe ricondurre l’intera disciplina in una dimensione di sostenibilità, senza alcun nocumento oggettivo ai diritti di libertà ed inviolabilità delle comunicazioni private che si intende qui tutelare.
Il barocco nell’arte ha prodotto capolavori straordinari, ma nell’amministrazione della giustizia le architetture normative che ne imitano la tendenza alla sovrabbondanza formale possono generare effetti disastrosi.
Non soltanto nella dimensione processuale nazionale.
L’introduzione del nuovo regime produrrà conseguenze non di certo positive anche sulla rapidità e sull’efficacia della cooperazione giudiziaria internazionale.
In relazione alla domanda di cooperazione degli altri Stati, la laboriosità delle procedure di sequestro e successive analisi dei dispositivi produrrà certamente un significativo allungamento dei tempi di risposta della giustizia italiana, ciò che risulterà insopportabile con riferimento a quelle indagini, prime tra tutte quelle relative ai crimini informatici, che richiedono una assoluta speditezza al fine di non disperdere l’utilità dei dati investigativi che si vanno acquisendo.
Ad esempio, l’acquisizione di un indirizzo IP, fondamentale per giungere all’individuazione degli autori del crimine, diverrà inutile se conseguita oltre i termini di data retention differenti da Stato a Stato e fino ad ora non disciplinati uniformemente da un testo sovranazionale.
Per non parlare, poi, nel caso di esecuzione di un provvedimento di sequestro disposto dalla A.G. estera di un server in Italia, della necessità di effettuare, con le modalità della consulenza tecnica irripetibile, la copia forense, così “vincolando” gli ordinamenti esteri a “subire” macchinosi e defatiganti procedimenti, per mettere a disposizione un device, che, ad oggi, verrebbe consegnato in tempi rapidi.
Si pensi, soltanto, alla necessità di:
a) notificare gli avvisi, ovviamente da tradurre, anche all’estero;
b) nominare degli interpreti, ove gli interessati esteri intendano partecipare al conferimento dell’incarico.
Ancor più difficile sarà poi giungere ad una acquisizione di e-evidence all’estero che risulti all’esito utilizzabile nel processo italiano.
Infatti, la Corte di Giustizia e la giurisprudenza nazionale stabiliscono che, ai fini dell’utilizzabilità, le modalità di acquisizione adottate all’estero non devono essere meno garantite di quelle previste dal diritto interno per la gestione di situazioni analoghe (Corte Giust. UE Grande Sez. 6 ottobre 2020, C-511/18).
Non vi è dubbio che una procedura come quella in esame non abbia analogie con altre discipline straniere.
Sulla sorte reale delle prospettive della cooperazione internazionale peserà grandemente altresì la disposizione - dell’intrinseca irragionevolezza della quale si dirà oltre - dell’art. 1, comma 14, relativa ai limiti di utilizzabilità delle acquisizioni dei contenuti digitali.
Di fatto, per tale via si disperderanno i vantaggi dell’acquisizione di prove legalmente assunte negli ordinamenti di altri Stati, connessi alla possibilità di estendere gli effetti della richiesta di cooperazione giudiziaria a procedimenti diversi e per reati diversi.
Oggi, se una Autorità giudiziaria estera - in esecuzione di una commissione rogatoria o di un ordine di indagine europeo - consegna un device sequestrato in quello Stato, senza apporre condizioni sull’utilizzo processuale, l’Autorità giudiziaria italiana può ben utilizzare il contenuto, anche per reati diversi da quello per cui si procede e ben può mettere a disposizione quella memoria digitale anche di altre autorità giudiziarie ove emergano nuovi e diversi reati di competenza di altri uffici.
Domani, ove approvato nella sua attuale formulazione il testo in esame, viceversa, l’Autorità giudiziaria italiana, senza che vi siano condizioni apposte da quella estera, sarà costretta all’utilizzo del materiale di prova faticosamente per le sole fattispecie di reato per cui già procedeva, salvo a reiterare la medesima domanda, con inutile dispendio di tempo e risorse, in ogni ulteriore procedura interna.
Naturalmente, pur in mancanza dei limiti propri delle clausole di specialità del diritto internazionale penale, ben può il legislatore ancorare l’utilizzabilità dei dati acquisiti a parametri corrispondenti a fondamentali principi di proporzionalità e adeguatezza delle soglie di tutela.
Ma proprio per questa via si giunge al vero punto di crisi dell’intero sistema delle indagini in materia di criminalità organizzata e cybercrime generato dall’impianto normativo prefigurato.
Come accennato, il disegno di legge prevede al comma 14 dell’art. 1 l’applicazione di varie disposizioni codicistiche, fra le quali quelle di cui all’art. 270 c.p.p., dettate in tema di utilizzazione delle intercettazioni in altri procedimenti.
Secondo tali disposizioni, i risultati delle acquisizioni non saranno utilizzabili in procedimenti diversi, salvo che risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza.
La stessa, gravemente pregiudizievole disciplina introdotta dal legislatore del 2023 per le intercettazioni, ma con incalcolabili effetti ingiustificatamente nocivi per la tenuta dell’azione di contrasto dei più gravi fenomeni criminali.
Quale sarà questo disastroso impatto, si fa presto ad indicare, passando in rapida rassegna il dettato dell’art. 380 c.p.p., per verificare quali siano alcuni dei delitti rispetto ai quali la documentazione informatica acquisita non costituirebbe più prova in altri procedimenti:
- art. 256 c.p. (procacciamento di notizie segrete concernenti la sicurezza dello Stato)
- art. 314 c.p.: peculato, anche se aggravato dalla finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose o commesso avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.;
- artt. 316-bis e 316-ter c.p., delitti di malversazione di erogazioni pubbliche e indebita percezione di erogazioni pubbliche, disposizioni queste che sanzionano condotte di chi rispettivamente destini risorse pubbliche per finalità diverse per le quali sono state erogate e di chi riceva contributi, sovvenzioni, finanziamenti dallo Stato presentando documenti falsi o atti equipollenti, anche se aggravati dalla finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose o commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.;
- art. 318, 319, 319-ter, corruzione, anche aggravata dalla finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose o commessa avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.;
- art. 321 c.p., corruzione in atti giudiziari, anche aggravata dalla finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose (eccettuato il caso, assai raro, di fatto da cui deriva una ingiusta condanna superiore ad anni cinque di reclusione);
- art. 326 c.p.: rivelazione di segreto di ufficio, anche aggravata dalla finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose o commessa avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.;
- artt. 353 e 353-bis c.p., in tema di turbata libertà degli incanti e turbata libertà di scelta del contraente, anche aggravata dalla finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose o commessa avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.;
- art. 356 c.p., frode nelle pubbliche forniture, anche aggravata dalla finalità agevolatrice di mafia o commessa avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.;
- artt. 378 e 379 c.p., delitti di favoreggiamento personale o reale, anche se aggravati dalla finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose o commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.;
- art. 386 c.p., procurata evasione, anche aggravata dalla finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose o commessa avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.;
- art. 390 c.p., procurata inosservanza di pena, anche aggravata dalla finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose o commessa avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.;
- art. 391-ter c.p., introduzione indebita di cellulari e altri dispositivi idonei a effettuare comunicazioni in istituti penitenziari, anche aggravato dalla finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose o commessa avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.;
- art. 415-bis c.p., rivolta all’interno di un istituto penitenziario, anche aggravata dalla finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose o commessa avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.;
- art. 416 c.p., direzione, organizzazione e partecipazione ad associazioni per delinquere, anche se aggravate dalla finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose o avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.;
- art. 416, comma 6, c.p., direzione, organizzazione e partecipazione ad associazioni per delinquere finalizzate alla commissione di reati in materia di immigrazione illegale, salvo che il reato non sia aggravato dalla finalità di reclutare persone da destinare alla prostituzione o comunque allo sfruttamento sessuale o lavorativo ovvero riguardi l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento ovvero dalla finalità di trame profitto, anche indiretto;
- art. 416 c.p., direzione, organizzazione e partecipazione ad associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati in materia di contraffazione di marchi, segni distintivi, brevetti, modelli e disegni nonché di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi, anche se aggravate dalla finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose o avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.;
- art. 416 c.p., partecipazione ad associazione criminosa diretta a commettere reati di sfruttamento sessuale di minori, compresa la violenza sessuale ai danni di minori degli anni diciotto;
- art. 452-quaterdecies c.p., attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, anche se si tratta di rifiuti ad alta radioattività e se aggravate dalla finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose o commesse avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.
- art. 517-quater c.p., contraffazione di indicazioni geografiche o denominazione di origine dei prodotti agroalimentari, anche se aggravata dalla finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose;
- art. 600-quater c.p., detenzione di materiale pedopornografico;
- art. 612-ter c.p., diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (c.d. revenge porn);
- art. 615-ter c.p., accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, anche se commesso da pubblico ufficiale o da incaricato di pubblico servizio o quando dal fatto derivi la distruzione o il danneggiamento dei sistemi, anche se di interesse militare o relativi all’ordine pubblico o alla sicurezza pubblica o alla sanità o alla protezione civile o comunque di interesse pubblico;
- artt. 648-ter e 648-ter c.p., delitti di riciclaggio e di impiego in attività economiche e finanziarie di beni e altre utilità provenienti da delitto;
- delitti di detenzione e porto di un’arma comune da sparo, anche se aggravati dalla finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose o avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.;
- art. 86 d.lgs. 26 aprile 2024, n. 141, direzione, organizzazione e partecipazione ad associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, anche se aggravate dalla finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose o avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.;
- tutti gli altri numerosi delitti che, se pur commessi con finalità di agevolazione mafiosa ovvero avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p., non abbiano soglie edittali tali da rientrare nel novero di quelli suscettibili di arresto obbligatorio in flagranza.
Tali indicative esemplificazioni offrono misura visibile del sacrificio delle istanze di contrasto dei fenomeni criminali ai quali si riferiscono.
Naturalmente, si tratta di materia tipicamente affidata alla responsabilità politica propria dell’attività legislativa, ma della quale appare doveroso far risaltare gli effettivi contorni più chiaramente di quanto riesca a rendere la tecnica del rinvio alla disposizione che regola l’utilizzabilità delle intercettazioni in altri procedimenti mediante ulteriore rinvio alla disciplina dei casi di arresto obbligatorio nella flagranza del reato.
È appena il caso di sottolineare che anche le medesime limitazioni alla circolazione della prova acquisita mediante intercettazioni di così gravi delitti o, per lo meno, in ogni caso, di quelli commessi al fine di agevolare le associazioni mafiose o avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. introdotte nella conversione del d.l. 90/2023 meriterebbero nuova e più attenta considerazione, per il loro disastroso impatto sulla sorte delle indagini in materia di criminalità organizzata.
Ma è del tutto evidente che la riproduzione di quelle medesime limitazioni all’acquisizione dei dati digitali contenuti in dispositivi e sistemi informatici e telematici appare destinata ad ingigantirne la portata paralizzante delle investigazioni, anche in materia di criminalità organizzata, che la realtà impone invece di proiettare verso le strutture e le attività criminali che ormai trovano nello spazio virtuale la loro ordinaria dimensione, a partire da quelle che si nutrono di criptovalute o ormai si svolgono nel metaverso.
Si tenga in considerazione il dato per cui l’art. 270 c.p.p. è una disposizione dettata a tutela delle garanzie di cui all’art. 15 Cost. (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 63 del 1994).
In altri termini, vi è una precisa necessità, di rilievo costituzionale, secondo la quale il decreto del giudice non deve divenire una sorta di autorizzazione in bianco, in forza della quale i risultati delle intercettazioni possano circolare liberamente al di fuori del recinto processuale in cui essi sono stati acquisiti.
Ma questa esigenza non pare riconoscibile nel caso in esame, nel quale la prova acquisita è costituita da documenti informatici, che vengono appresi in un’unica soluzione, nel rispetto di principi di pertinenza e di proporzionalità.
Un’acquisizione che, secondo il nuovo statuto processuale, è ben più articolata rispetto alle stesse attività in materia di intercettazione, atteso che sono previsti fino a tre diversi decreti dell’autorità giudiziaria, tutti ancorati alla necessità di scrutinio della sussistenza di rigorosi presupposti.
La scelta prefigurata attraverso l’espresso richiamo all’art. 270 del codice di rito non sembra giustificata. Certamente non lo è nella dimensione accolta nel testo approvato dal Senato.
In primo luogo, il richiamo alla citata disposizione pare esteso sia ai contenuti di natura comunicativa che a quelli di natura non comunicativa, rinvenuti nei dispositivi sequestrati.
Ma soltanto, i primi possono essere latamente assimilabili ai contenuti di una captazione; i secondi vanno comunque equiparati a meri documenti digitali.
Non è dato comprendere la ragione per la quale le esigenze di tutela della riservatezza delle comunicazioni debbano meccanicamente estendersi a un ambito del tutto avulso dal concetto di comunicazione.
In secondo luogo, attesa l’applicabilità dell’intero complesso normativo non solo agli smartphone, ma a qualsiasi dispositivo o sistema telematico caduto in sequestro, ne consegue che, rispetto, ad esempio, a un server, che ha l’ordinaria funzione di acquisire e trasmettere dati, qualsiasi elemento informatico in esso contenuto subirebbe lo stesso limitato regime di utilizzazione, producendo un effetto assolutamente abnorme.
Peraltro, che tale sistema di ridotta circolazione sia esorbitante anche rispetto agli obiettivi di tutela che il legislatore intende perseguire con questa riforma lo si desume dal raffronto con la recente disciplina della acquisizione dei dati del traffico telefonico.
Si rammenti in proposito che la Corte costituzionale (sentenza n. 170/2023) ha evidenziato la natura comunicativa dei cd. tabulati, affermando come “non possa ravvisarsi una differenza ontologica tra il contenuto di una conversazione o di una comunicazione e il documento che rivela i dati estrinseci di queste, quale il tabulato telefonico…”. E tuttavia, la recente modifica del regime di acquisizione dei tabulati telefonici, pur prevedendo l’intervento del giudice, come intende fare oggi il legislatore, non ha in alcun modo limitato l’utilizzazione probatoria dei risultati acquisiti ai sensi dell’art. 270 c.p.p.
Non vi è dubbio che il raffronto tra le due discipline rende evidente la irragionevolezza delle limitazioni di natura investigativa che si intendono introdurre oggi, attraverso il disegno di legge in esame.
Si rischia, all’evidenza, un pericoloso arretramento dell’azione di contrasto della criminalità mafiosa, in sostanziale spregio dell’impegno, asseritamente da tutti inteso come prioritario e inderogabile, a non indebolire gli strumenti investigativi utilizzabili per arginare la pericolosità di gruppi criminali che hanno ormai nello spazio virtuale il loro fondamentale cardine organizzativo.
In ogni caso, quand’anche si volesse mantenere la limitazione alla circolazione dei dati acquisiti in altri procedimenti al fine di non depotenziare il contrasto alla criminalità organizzata e alle minacce di natura cibernetica, sarebbe necessario prevedere che detto divieto di utilizzo non si applichi per tutti i reati di cui all’art. 51, comma 3-bis e 3-quater, c.p.p. e a quelli previsti nell’art. 371-bis, comma 4-bis, c.p.p.
In modo del tutto omogeneo con quanto già previsto in altra parte dell’articolato (art 254-ter, comma 10, c.p.p.), dove ci si è premurati di porre una apposita deroga processuale anche per i reati anzidetti, altrimenti svuotata di gran parte del suo reale valore.
Le considerazioni fin qui svolte non esauriscono i profili di criticità dei contenuti del disegno di legge, dovendo riservarsi le ultime osservazioni agli aspetti di maggiore ed ingiustificato appesantimento procedurale.
Il testo della novella prevede altresì che “Nel corso delle indagini preliminari, il giudice per le indagini preliminari, a richiesta del pubblico ministero, dispone con decreto motivato il sequestro di dispositivi e sistemi informatici o telematici o di memorie digitali, necessari per la prosecuzione delle indagini in relazione alle circostanze di tempo e di luogo del fatto e alle modalità della condotta, nel rispetto del criterio di proporzione. Il decreto che dispone il sequestro è immediatamente trasmesso, a cura della cancelleria, al pubblico ministero, che ne cura l’esecuzione.”
Appare, invero, assai discutibile la delimitazione delle condizioni del sequestro dei dispostivi o sistemi informatici necessari per la prosecuzione delle indagini attraverso la formula “in relazione alle circostanze di tempo e di luogo del fatto e alle modalità della condotta”.
Quid iuris, infatti, qualora il sequestro sia necessario non tanto per individuare le circostanze e di tempo e di luogo del fatto o per definire le modalità della condotta criminosa, ma per identificare gli autori del fatto?
Si pensi al caso in cui dall’utilizzo di videoriprese sia possibile definire, in termini di certezza assoluta, le circostanze di tempo e di luogo del fatto reato per cui si procede (ad esempio una rapina) e le modalità della condotta criminosa (due persone armate e travisate), ma non sia possibile identificare gli autori del fatto e questa identificazione necessiti anche dell’acquisizione di un device che possa contenere elementi utili per l’identificazione (videoriprese di sopralluoghi sui luoghi effettuati nei giorni precedenti).
L’identificazione degli autori non sembra possa ricomprendersi nel concetto di modalità della condotta, se non attraverso un’applicazione analogica della norma, come tale contrastante con il principio secondo il quale disposizioni eccezionali non possano essere applicate oltre i casi e i modi previsti dalla legge.
Ed ancora: se si vuole verificare se i soggetti indiziati di una determinata rapina ne abbiano commesse altre, il sequestro non sarebbe parimenti possibile, poiché non sono individuate le circostanze di tempo e di luogo dei fatti che radicano l’esigenza di proseguire le indagini.
Parimenti per identificare i fornitori di un ingente carico di stupefacenti ovvero gli autori di reati informatici, laddove siano già acclarate le modalità fattuali, i tempi e luoghi della attività criminosa.
Qualora il fatto sia esattamente ricostruito nella sua dinamica spazio/temporale e siano stati identificati gli autori, inoltre, può certamente accadere che il sequestro del dispositivo rivesta una indubbia utilità per rafforzare la piattaforma indiziaria acquisita a carico degli indagati.
In questo caso come conciliare le finalità di rafforzamento indiziario con le strettoie della disciplina normativa?
Proprio al fine di evitare queste difficolta, il legislatore del 1988, disciplinando all’art. 267 c.p.p. i presupposti a fronte dei quali è possibile autorizzare operazioni di intercettazione telefonica ed ambientale, ha stabilito che le stesse siano possibili qualora assolutamente indispensabili (o quantomeno necessarie per i reati ricompresi nell’art. 13 d.l. 152/1991) ai fini della prosecuzione delle indagini, senza ulteriori limitazioni.
In altre parole, per le intercettazioni, strumento questo ben più invasivo del sequestro di apparecchi informatici, la legge si limita a prevedere il requisito della assoluta indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini, che, se da un lato, appare più rigoroso in termini generali (assoluta indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini, rispetto a necessità per la prosecuzione delle indagini), dall’altro, però non indica in maniera espressa quali siano le esigenze che il mezzo di ricerca della prova mira a soddisfare.
Si segnala, pertanto, l’opportunità di eliminare dalla proposta di formulazione dell’art. 254-ter, comma 1, c.p.p. la dizione “in relazione alle circostanze di tempo e di luogo del fatto e alle modalità della condotta”, sostituendola con quella: necessari per la prosecuzione delle indagini,
Appare, infine, doveroso rimarcare ulteriori aspetti critici.
Il dovere di assicurare il preventivo contraddittorio nella formazione della copia forense (art 254-ter, comma 6, c.p.p.) può risultare potenzialmente foriero di indebita dilatazione dei tempi di trattazione dei procedimenti e di aggravio di adempimenti, dovendosi notificare alle parti la data e l’ora del conferimento di incarico.
Ulteriori difficoltà operative il sequestro incontrerebbe allorquando debba essere effettuato in esecuzione di domande di assistenza internazionale, atteso che le notifiche dovrebbero essere fatte anche all’estero, previa traduzione degli avvisi nella lingua conosciuta dai soggetti cui devono essere notificati gli stessi. Non vi è dubbio che il rispetto di questa macchinosa procedura potrebbe creare non pochi ostacoli alla tempestiva risposta alla richiesta di assistenza formulata dalla autorità estera.
In particolare, al sesto comma dell’art. 254-ter c.p.p. si prevede, inoltre, che, entro 5 giorni dal deposito del verbale di sequestro, abbia inizio la procedura di formazione della duplicazione del contenuto del materiale informatico sequestrato attraverso la creazione di una copia immodificabile.
Giova, ai fini critici che si intende rassegnare, descrivere la scansione essenziale della relativa procedura:
a) avviso alle persone sottoposte a indagini, ai soggetti ai quali sono stati sequestrati i supporti, a quelli che avrebbero diritto alla restituzione e alle persone offese del giorno, delle modalità di conferimento dell’incarico di consulenza tecnica, mutuando dalla disciplina dell’art. 360 c.p.p.;
b) possibilità di duplicare anche dati, informazioni e programmi accessibili da remoto dal dispositivo in sequestro;
c) facoltà per le parti di nominare propri consulenti, di partecipare allo svolgimento delle operazioni e di formulare osservazioni e riserve;
d) restituzione dei supporti all’esito della formazione della copia forense, salvo che il sequestro sia stato disposto a fini preventivi.
Il disegno di legge opportunamente prevede delle deroghe alle disposizioni dettate dai commi 6, 7 e 8, laddove si proceda in relazione ai delitti previsti dagli artt. 406, comma 5-bis, c.p. e 371-bis, comma 4-bis c.p.p., ovvero quando ci sia il pericolo per vita o l’incolumità di una persona, per la sicurezza dello Stato, ovvero pericolo di concreto pregiudizio per le indagini in corso, o un pericolo attuale di cancellazione dei dati o delle informazioni.
In sostanza, negli anzidetti casi non è previsto il contraddittorio sulle modalità di duplicazione dei supporti, salva ovviamente l’osservanza di cautele per garantire che la copia formata sia conforme all’originale e sia ovviamente immodificabile.
Nonostante la clausola semplificatrice prima richiamata, l’impianto procedurale prefigurato appare oltremodo macchinoso e pregiudizievole per l’efficacia delle indagini.
Si pensi alla difficoltà ed alle lungaggini che derivano dalla necessità di procedere alla comunicazione dell’avviso di fissazione del conferimento dell’incarico di duplicazione, qualora il procedimento risulti iscritto a carico di numerosi indagati, alcuni dei quali magari residenti all’estero (si pensi, a meso titolo di esempio, ad articolati procedimenti penali in tema di criminalità economica transazionale, o in materia di riciclaggio transazionale o ancora di immigrazione clandestina), procedura che determina una inevitabile dilatazione dei tempi, difficilmente compatibile con i rigorosi termini delle indagini preliminari.
O ancora ai procedimenti penali con una pluralità di persone offese (ad esempio truffe a danno di un numero elevato di persone), alle quali è necessario dare avviso della data di fissazione del conferimento dell’incarico.
A fronte di queste ipotesi, tutt’altro che remote, la deroga prevista dall’art. 254-ter, comma 10, appare difficilmente applicabile, con il concreto rischio che le procedure di comunicazione dell’avviso consumino totalmente i termini di indagine preliminare.
Si tenga conto che la procedura proposta nella novella legislativa è parzialmente sovrapponibile a quella prevista dall’art. 360 c.p.p.
Bisogna però ricordare che la procedura ex art. 360 c.p.p. costituisce una eccezione alla procedura ordinaria di accertamento tecnico, cioè quella disciplinata dall’art. 359 c.p.p., come tale applicabile solo in caso in cui l’accertamento “riguardi persone, cose o luoghi il cui stato è soggetto a modificazione”.
Non si comprende, in altre parole, perché a fronte di un accertamento tecnico, la duplicazione forense del contenuto del device, che attiene ad un oggetto che non presenta alcun rischio di modificazione (il dispositivo, infatti, è sotto sequestro e, qualora ricorra il rischio di sua modificazione o cancellazione, è possibile optare per la procedura semplificata ex comma 10) si debba seguire una procedura articolata, complessa, complicata e del tutto contraria alle naturali esigenze di speditezza investigativa.
Se la garanzia per tutte le parti processuali è costituita da quanto previsto dal successivo comma 9, a norma del quale “La duplicazione avviene su adeguati supporti informatici mediante una procedura che assicuri la conformità del duplicato all’originale e la sua immodificabilità” allora è difficile comprendere i motivi che inducono il legislatore a fare ricorso per la mera duplicazione forense (che si ricorda è solo un procedimento tecnico) ad una procedura complicata e che non fornisce garanzie di sicurezza maggiori rispetto a quella ordinaria.
Si rammenti che la formazione della cd. copia forense è considerata dalla Corte di cassazione una procedura che non richiede il contraddittorio anticipato.
Questo perché si tratta di attività meccaniche, che non richiedono alcuna complessa elaborazione intellettuale da parte dell’ausiliario del PM (cfr. Cass., Sez. II, 07/02/2023, n. 17984).
In conclusione, una procedura come quella prefigurata è destinata a creare un notevole e inutile appesantimento delle attività investigative, senza correlativo, reale rafforzamento delle garanzie.
Infine, va segnalato che il comma 12 dell’art. 1 del disegno di legge, nel regolare le attività consequenziali alla formazione della copia forense, detta prescrizioni che destano non poche perplessità.
Come detto, il sequestro informatico viene autorizzato dal GIP con decreto motivato, in relazione alla necessità di proseguire le indagini in relazione a circostanze di tempo e di luogo del fatto e alle modalità della condotta, nel rispetto del principio di proporzionalità.
Quindi, l’acquisizione del “contenitore” informatico presuppone un controllo giurisdizionale che, oltre a vagliare la ricorrenza del fumus del reato, deve altresì scrutinare le esigenze investigative poste a fondamento della mozione del pubblico ministero.
Se questo è il quadro, non appare comprensibile la esigenza che il PM emetta un provvedimento di sequestro, all’esito delle analisi del materiale informatico, su quelle informazioni, dati e programmi strettamente pertinenti al reato in relazione alle circostanze di tempo e di luogo del fatto e alle modalità della condotta, nel rispetto del principio di proporzionalità.
L’irragionevolezza di ciò si può cogliere se si correla quella previsione sia con la disciplina generale dei sequestri che con quella delle intercettazioni.
Infatti, laddove il pubblico ministero emetta un decreto di perquisizione e contestuale sequestro di quanto eventualmente rinvenuto, non è dato sapere a monte che cosa nello specifico verrà reperito nella disponibilità del soggetto attinto dal mezzo di ricerca della prova.
Però, una volta eseguito il provvedimento e reperito materiale pertinente con il provvedimento, non è necessario un nuovo decreto.
Si pensi al caso di una indagine nei confronti di un indiziato di pedofilia:
a) se il PM dispone perquisizione e sequestro, nel caso di reperimento di foto e altra documentazione fisica (bigliettini, lettere, manoscritti) che dimostrino il tema di accusa, non deve procedere a nuovo sequestro;
b) se il PM chiede al GIP la emissione di un sequestro informatico e vengono trovate le stesse foto, gli stessi bigliettini, lettere e manoscritti nella memoria del telefono (poiché esse erano state scansite ovvero fotografate e poi conservate nell’archivio del supporto), deve procedere a un nuovo sequestro, peraltro con presupposti non previsti per il sequestro fisico (stretta pertinenza con il reato, in relazione alle circostanze di tempo e di luogo del fatto e alle modalità della condotta, nel rispetto dei criteri di proporzionalità e necessità).
Vi è poi un’altra considerazione.
Si è detto che il sequestro informatico presuppone uno scrutinio giurisdizionale in punto di fumus e di esigenze investigative.
Alla stessa stregua, mutatis mutandis, del regime delle intercettazioni, nel quale il mezzo di ricerca della prova presuppone un vaglio del giudice che procede.
Ebbene, nel caso delle intercettazioni, all’esito delle analisi effettuate dalla polizia giudiziaria, non viene emesso alcun provvedimento di sequestro del materiale pertinente al tema di prova (le tracce audio, video e telematiche rilevanti).
Semplicemente, il PM utilizza quel materiale a fini cautelari e, al momento antecedente all’esercizio dell’azione penale (avviso 415-bis c.p.p.; richiesta di giudizio immediato), deposita un elenco di tracce informatiche rilevanti, acquisendo dall’archivio riservato, atti giudiziari (decreto intercettivi e mozioni) e di polizia giudiziaria (annotazioni e informative), che afferiscano le tracce telematiche di cui all’elenco.
Tutto ciò, senza fare alcun provvedimento di sequestro.
Peraltro, il giudizio di rilevanza delle tracce intercettive non prevede alcuna stretta pertinenza al reato in relazione “alle circostanze di tempo e di luogo del fatto e alle modalità della condotta, nel rispetto dei criteri di necessità e proporzione”.
È sufficiente che vi sia un legame funzionale tra il materiale intercettivo e il reato per cui si procede, evitando inutili moltiplicazioni di adempimenti formali privi di reale idoneità a porsi a presidio dei diritti delle persone coinvolte nelle indagini,
Infine, qualche riflessione merita il riferimento ai presupposti in base ai quali il giudice può disporre il sequestro di dati inerenti a comunicazioni, conversazioni o a corrispondenza informatica inviata o ricevuta, presupposti che secondo la norma sono i seguenti;
- stretta pertinenza al reato in relazione alle circostanze di tempo e di luogo del fatto e alle modalità della condotta.
- limiti di ammissibilità di attività di intercettazione (art. 266 c.p.p.);
- presupposti dell’attività di intercettazione (art. 267, comma 1, c.p.p.).
Ne deriva che tutti gli elementi comunicativi rinvenuti all’interno di device sequestrato non potranno essere utilizzati qualora:
- attengano a fatti reato per cui non è ammissibile l’attività di intercettazione telefonica/ambientale;
- oppure, anche se relativi a fatti reato per cui è possibile l’attività di intercettazione, non sussistano gravi indizi della commissione del reato per cui si procede e l’acquisizione non sia assolutamente indispensabile alla prosecuzione delle indagini (salva la diversa disciplina prevista per i procedimenti per cui è applicabile l’art. 13 DL 152/91).
La conseguenza è del tutto evidente.
Per certe tipologie di reati per i quali non sussistono i limiti edittali di pena previsti dall’art. 266, comma 1 c.p.p., (pena della reclusione superiore nel massimo a cinque anni, salvo alcune limitate deroghe) si rischia di creare una sorta di inespugnabile cassaforte , al cui interno collocare dati cd. comunicativi che non potranno mai essere acquisiti in quanto relativi a reati puniti con la semplice pena dell’ammenda, della multa, dell’arresto o, infine, della reclusione, inferiore o corrispondente nel massimo a cinque anni.
Gli esempi sono molteplici e tutti facilmente declinabili.
Si pensi, ad esempio, a tutte le fattispecie di reati che così profondamente agitano la nostra sensibilità e incidono sulle nostre comunicazioni sociali, tra cui tutte le fattispecie di truffa, magari ai danni di persone fragili, (art. 640, comma 2, c.p.) o ai reati di accesso abusivo ai sistemi informatici (art. 615 ter, comma 1, c.p.) e frode informatica (anche nella fattispecie aggravata di cui all’art. 640 ter, comma 2, c.p.), oppure alla maggior parte dei reati tributari posti a presidio di primari interessi economici dello Stato (artt. 3, 4 e 5 d.lgs.. 74/2000); ed ancora a tutti i reati societari (2621 c.c. e seguenti), ai reati colposi tra cui il disastro colposo), ai reati posti a tutela del delicato lavoro svolte delle forze dell’ordine (art. 336 e 337 c.p.) per finire al reato che tutela le nostre frontiere, quello di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (art. 12, comma 5 e 5-bis, d.lvo 286/98). Ma gli esempi potrebbero continuare all’infinito.
Così come infinite appaiono le possibilità che una riforma di questa portata, nei limiti descritti, possa, al di là di ogni lodevole intenzione, determinare l’apertura di pericolosi spazi di sostanziale impunità di gravi fenomeni criminali.
Una conclusione tanto amara quanto realistica, in mancanza di necessarie correzioni.
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