ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I nuovi orizzonti dei rapporti fra Corte Costituzionale e Parlamento
di Eleonora De Gregorio
Sommario: 1. Separazione dei poteri e piena tutela dei diritti: un equilibrio difficile. 2. Osservazioni conclusive.
1. Separazione dei poteri e piena tutela dei diritti: un equilibrio difficile
La Corte costituzionale è un giudice sui generis, al cui interno convivono due “anime”, una giurisdizionale e una politica. Queste due anime non sono fra loro inconciliabili, ma compongono la fisiologica struttura – per come pensata dai Costituenti – di un Giudice che è chiamato a custodire la Costituzione, la primaria fonte dell’ordinamento, da ogni possibile minaccia o lesione.
La Corte, pur non avendo una legittimazione democratica, è riuscita, col tempo, a crearsi il proprio spazio nell’ordinamento, e oggi gode di una forte autorità. Potremmo dire, anzi, vista la sua capacità di inserirsi nei procedimenti legislativi, che essa è all’apice della sua autorità[1]. Alcuni fra i suoi più recenti interventi, legittimamente criticati, hanno portato a ritenere che, fra le sue due anime, quella politica occupi oggi uno spazio maggiore. L’organo puramente politico, e, in generale, il principio rappresentativo, risultano, invece, gravemente in crisi[2].
Così, ci si interroga sul rapporto che lega oggi due delle colonne portanti dell’ordinamento costituzionale italiano, Corte costituzionale e Parlamento: “per qualcuno siamo di fronte a un’evoluzione naturale, per altri invece a un’involuzione preoccupante, se non addirittura a una deviazione, rispetto all’originario modello disegnato nella Carta”[3].
Si registra, infatti, un iperattivismo della Corte, un suo “innaturale convertirsi” in un decisore politico, che è giustificato dall’esigenza di compensare l’immobilismo del legislatore[4], suo interlocutore naturale, con il quale dovrebbe avere un costante rapporto dialettico, di incontro o anche di “scontro” (è naturale un “antagonismo”[5] fra i due organi, in conseguenza del ruolo cui il giudice costituzionale è chiamato: giudicare e, se del caso, caducare gli atti prodotti dal Parlamento). Nel silenzio del legislatore, però, la Corte ha gradualmente assunto il ruolo di “supplente”, superando la precedente “timidezza”[6], che la portava a rigettare le questioni che “si aprivano a plurimi esiti ricostruttivi del tessuto normativo”[7], e iniziando, di fronte a questioni particolarmente delicate – e soprattutto riguardanti la materia penale – a osare sempre più[8], sino a “sconfinare” al di fuori dei limiti che tradizionalmente le sono riconosciuti[9]. Siffatto “sconfinamento”, dunque, affonda le sue radici nell’auto-emarginazione del Parlamento[10], il quale non solo non adempie al suo ruolo spontaneamente, ma neppure quando viene espressamente sollecitato. La tecnica decisoria in due tempi è stata ideata dalla Corte proprio con l’obiettivo, dichiarato, di esortare il Parlamento ad esercitare le sue prerogative: in questo senso, la Corte ha tentato di individuare uno strumento che consentisse di evitare un’ulteriore “umiliazione ed emarginazione del Parlamento e del principio rappresentativo”[11]. Infatti, “se a seguito della prima pronuncia il legislatore facesse luogo alla salvaguardia dei diritti, risvegliandosi dal suo annoso letargo, la Corte non avrebbe necessità di perfezionare l’intervento preannunziato nella sua prima decisione e portare così ad effetto la manovra già avviata”[12]. Dunque, la Corte ha pur tentato, ideando tecniche decisorie quali l’incostituzionalità prospettata o la precedente “doppia pronuncia”[13], “di metter le mani sul calendario dei lavori parlamentari”[14], così da esortare il legislatore ad affrontare determinate questioni, poiché esso rimane sempre “il soggetto «preferito» per dare risposta al problema di costituzionalità” sollevato dinanzi alla Corte medesima[15]. Il legislatore, però, è padrone di sé e non è tenuto ad intervenire solo perché il Giudice delle leggi lo sollecita[16]. Ed è allora che la Corte interviene incisivamente. Essa, infatti, si ritrova dinnanzi a ridotte alternative: o dichiara inammissibili le questioni non risolvibili “a rime obbligate” e rispetta la discrezionalità del Parlamento, ma sopporta il vulnus di costituzionalità, oppure si pronuncia “a versi sciolti”, compiendo scelte discrezionali che non le competono, ma garantendo il pieno rispetto dei diritti. La Corte interviene, insomma, per rispondere alle richieste di tutela formulate dai corpi sociali, solo dopo che il legislatore, sordo alle loro istanze, non ha accolto neppure quelle della Corte[17]. In materia di sanzioni – penali ma anche amministrative –, il Giudice delle leggi ha recentemente scelto di orientarsi in un’ottica di maggiore “attivismo”, così da “evitare la determinazione di «zone franche» del giudizio di costituzionalità e di scongiurare «insostenibili vuoti di tutela» che possano discendere da una pronuncia meramente ablativa”[18].
La crisi del Parlamento genera, quindi, dal punto di vista della Corte, un conflitto fra il principio della separazione dei poteri e la tutela dei diritti, che, a sua volta, determina uno “scivolamento” della Corte medesima verso la sua anima politica[19].
La risposta che la Corte può dare alle istanze sociali bisognose di tutela, però, è solo parziale: la visione della Corte, infatti, è “parcellizzata”, in quanto essa, per quanto cerchi di garantire la più larga tutela possibile dei diritti, è inevitabilmente condizionata dalla domanda che le viene posta da chi solleva la questione incidentale[20]. In tema di suicidio assistito, ad esempio, la Corte ha tentato, con la sent. 242 del 2019, di fare le veci del Parlamento - assumendo la veste di “legislatore positivo”[21] - dettando una disciplina generale, disciplina che, però, risulta “ritagliata” sul caso di specie, cosicché non è in grado di ricomprendere neppure situazioni ad esso analoghe, ma non completamente sovrapponibili.
Oltretutto, per quanto pregevole possa essere l’obiettivo cui la Corte aspira, cioè assicurare la piena ed effettiva tutela ai diritti fondamentali, si può dire che il fine giustifica i mezzi? La compressione del principio di separazione dei poteri rischia di ledere quegli stessi diritti in nome dei quali la Corte agisce, in quanto tale principio ha, nei loro confronti, una funzione servente[22]. La separazione dei poteri, pure nella visione temperata dell’attuale Stato costituzionale, garantisce che nessuno degli organi costituzionali possa agire in maniera incontrollata e incontrollabile, facendo qualunque cosa voglia, senza dover necessariamente rispettare i diritti dei cittadini. In quest’ottica, siffatte alterazioni dei ruoli istituzionali non ledono solo la separazione dei poteri, ma ledono conseguentemente anche l’altra “base portante” dello Stato costituzionale, cioè la difesa dei diritti[23].
Ancora, se è vero che la supplenza è determinata dall’inerzia legislativa, è anche vero che tale supplenza, qualora perpetuata, rischia di reiterare l’inerzia stessa, creando dei cortocircuiti difficili da neutralizzare[24].
La Corte, ovviamente, avverte la necessità di rispettare i ruoli istituzionali, ed è proprio per questo che è stata ideata la tecnica dell’incostituzionalità prospettata, al fine, cioè, di “accordare al legislatore la precedenza temporale nella nuova disciplina della materia”[25]. In altri casi, però, la Corte ha agito direttamente, “rompendo gli indugi” e “confermando di considerare ormai pleno iure fungibili i ruoli istituzionali”[26]. Ciò risulta chiaramente dalla sent. 41 del 2021, nella quale la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità delle disposizioni che prevedevano la partecipazione in via ordinaria ai collegi di Corte d’appello di giudici onorari (i giudici ausiliari), in quanto contrastanti con l’art. 106 Cost., secondo comma, ma ha rinviato la caducazione di tali disposizioni di ben quattro anni (sino al 31 ottobre 2025)[27]. Così, la Corte ha praticamente deciso di “sospendere” temporaneamente l’operatività dell’art. 106, secondo comma, della Costituzione, negando il “diritto ad essere giudicati da giudici idonei, forniti dei requisiti previsti dalla Costituzione”[28]. Essa, infatti, non si è limitata a consentire la sopravvivenza degli effetti prodotti in passato dalla normativa incostituzionale (in modo da evitare di travolgere giudizi già pronunciati da collegi irregolarmente composti), ma ha anche riconosciuto ai giudici onorari la possibilità di continuare, anche dopo la sentenza di incostituzionalità, a svolgere ordinariamente funzioni collegiali, in violazione – riconosciuta – del preciso divieto costituzionale[29], al fine di evitare un grave pregiudizio all’amministrazione della giustizia[30]. Tale rischio, però, poteva essere scongiurato in altri modi[31], che non avrebbero comportato l’avallo di una situazione di incostituzionalità da parte dello stesso custode della Costituzione.
Se in materia penale la Corte non ha accettato, in alcuni casi, che il dover compiere scelte discrezionali le precludesse di agire in difesa dei diritti, ed è pertanto intervenuta in luogo del legislatore (considerando il limite della discrezionalità solo quale limite “relativo”), nel caso in esame, invece, ha riconosciuto l’incostituzionalità di una specifica disciplina, l’ha dichiarata, ma ha previsto, al contempo, che la violazione della Costituzione potesse – e possa – perdurare ancora per un po’, disattendendo così “le legittime aspettative di chi aveva correttamente eccepito l’esistenza di un vulnus costituzionale”[32].
In questo senso, è stato detto che la Corte sembra trattare il limite della discrezionalità del legislatore diversamente a seconda delle circostanze: a volte viene fatto espandere, altre volte contratto[33]. Il problema, a questo punto, diventa la mancanza di un canone prestabilito – sia pure forgiato dalla stessa Corte – che consenta di prevedere in modo sufficientemente attendibile come la Corte si pronuncerà nel corso di questa o quella vicenda processuale[34].
Da ultimo, poi, con la sent. 40 del 2023, in materia di sanzioni amministrativo pecuniarie, concernenti le inadempienze delle strutture di controllo delle produzioni agroalimentari registrate con denominazione di origine o indicazione geografica protetta, la Corte ha realizzato un ulteriore intervento “sostitutivo” al legislatore. In questa sentenza, infatti, essa ha rilevato l’incostituzionalità della sanzione fissa prevista per un ampio novero di condotte illecite aventi diverso disvalore, ma, anziché limitarsi ad una pronuncia di mero accoglimento, ha statuito che la sanzione prevista dalla norma censurata debba essere “conservata” come massima, e, attraverso una pronuncia sostitutiva, ha previsto un minimo edittale, ricavandolo dalla disciplina riguardante le violazioni degli organismi di controllo sui prodotti BIO[35] (disciplina utilizzata come “punto di riferimento”, in conseguenza della “piena omogeneità finalistica”[36]).
Si è osservato che la Consulta tende a piegare e adattare “alle peculiari e pressanti esigenze di una situazione di fatto i canoni sul giudizio di costituzionalità”[37], dismettendo talvolta i panni di giudice, e indossando quelli del decisore politico, generando “un’anomala commistione dei ruoli istituzionali”: “è francamente singolare che la Corte reputi di potere scegliere di volta in volta quale vestito indossare a seconda della rappresentazione teatrale che si accinga a fare, se quello del garante ovvero l’altro del decisore”[38]. Da ciò emerge l’immagine della Corte quale organo “potente”, sia “quando decide dei contenuti, sia quando decide delle forme attraverso le quali esprimerli; sia quando «dice», inoltre, che quando «tace», come peraltro notato, già decenni orsono, da raffinata dottrina, in relazione al significato «politico» connesso al crescente utilizzo di decisioni di inammissibilità”[39].
Dunque, se da un lato la Corte ha assunto un ruolo – dichiaratamente non voluto – di “supplenza” a causa della crisi dell’organo politico, dall’altro lato non si può non notare che l’evoluzione delle tipologie decisorie ha determinato un’ampia libertà della Corte nell’adeguare la tecnica da utilizzare al singolo caso, con conseguenze negative “in termini di certezza del diritto costituzionale (e, perciò, di prevedibilità nell’uso degli strumenti processuali)”[40]. Tale evoluzione è iniziata già dalle prime sentenze del giudice costituzionale, poiché la previsione delle sole due alternative “secche” di accoglimento o rigetto è risultata sin da subito inadeguata a consentire alla Corte di esercitare a pieno le sue funzioni,dimostrando così l’ingenuità dell’idea che la Corte potesse essere mero “legislatore negativo”[41]. D’altronde, il compito della Corte non è semplice: essa deve tutelare i diritti, ma stando attenta a non compiere scelte discrezionali, che solo il legislatore può effettuare, ma che difficilmente compie; quando, poi, rinviene una situazione di illegittimità costituzionale può accoglierla, con il rischio di creare un vuoto normativo, o rigettarla esortando il Parlamento ad intervenire, ma lasciando intanto in vigore una normativa illegittima[42]. L’horror vacui, ha spinto, così, la Corte, nella consapevolezza che a una declaratoria di incostituzionalità difficilmente segue un tempestivo intervento del legislatore, a ideare degli strumenti che consentano di non aprire voragini normative[43]. In questo senso, “l’intera storia dell’arricchimento degli strumenti decisori che ha contrassegnato la parabola evolutiva del ruolo della Corte costituzionale nel nostro ordinamento”, esprime l’esigenza di “minimizzare, circoscrivere, limitare «a quanto strettamente necessario» gli effetti delle pronunce di accoglimento”, in virtù della consapevolezza “dell’estrema difficoltà del legislatore di intervenire, ove necessario, a valle della declaratoria di incostituzionalità al fine di ripianare la lacuna da questa provocata”[44].
La crisi del Parlamento – la cui origine è difficile da individuare con precisione, ma la cui sussistenza è evidente a tutti – spiega, al tempo stesso, l’espansione del potere della Corte, e la sua difficoltà nel rendere giustizia costituzionale, che la porta a ideare nuove e modellare vecchie tecniche decisorie, da adattare alle circostanze[45]. Questo modus operandidella Corte, però, genera un circolo vizioso: il Parlamento, infatti, trae vantaggio dalla supplenza, in quanto può evitare di intervenire in quei campi che rischierebbero di compromettere il consenso raggiunto dalla maggioranza in vigore in quel dato momento[46]; così, l’inerzia comporta la supplenza che accentua l’inerzia. Si parla di “malfunzionamento sistemico” che viene così a determinarsi, in quanto il Parlamento si sente “sotto tutela giurisdizionale”, e finisce per “delegare ai giudici la soluzione dei problemi di costituzionalità più delicati, scaricando su di essi la propria responsabilità”[47]. Una tale problematicità, che da tempo viene attenzionata negli Stati Uniti, risulta di particolare attualità in un sistema come quello italiano, “a fronte – cioè – di maggioranze poco coese e attraversate da ideologie all’un tempo deboli e differenziate”, che indeboliscono sempre più la legittimazione dei partiti e dei sistemi politici in genere[48]. La classe politica in crisi tende, dunque, trasferire altrove le sue responsabilità: “in simili condizioni un meccanismo particolarmente costrittivo (…) qual è quello della doppia pronuncia di nuovo tipo non solo non pare idoneo a stimolare la reattività del legislatore, ma ne sollecita l’inerzia, consentendogli un commodus discessus dalle sue responsabilità politiche”, e facendogli perdere, così, “lo stimolo alla coraggiosa assunzione del dovere di risposta politica”[49].
La “fungibilità” tra una tecnica decisoria e l’altra è ormai un fattore da tenere (sempre più) in considerazione nello studio della giurisprudenza costituzionale, che crea di continuo, con “irrefrenabile fantasia”, sempre nuove soluzioni[50]. Inoltre, “la ricca e piuttosto disordinata panoplia di strumenti e di tipologie di decisioni che la Corte italiana usa, pur essendo pressoché tutta di elaborazione giurisprudenziale, non pare favorire un lavoro organico e sistematico del Giudice delle leggi”[51].
Così, la legge 87 del 1953 non basta più come quadro normativo di riferimento del giudice costituzionale. Invero, articoli come il numero 28 (che impedisce alla Corte “ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento”) e il numero 30 terzo comma (che statuisce che “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”), potrebbero sembrare ormai superati. In realtà, ciò risulta eccessivo: a non aver “resistito” non è tanto la norma in sé, quanto più la sua assolutizzazione, la “logica del «tutto-o-niente»”, che mirava ad impedire qualsiasi manipolazione normativa e temporale[52]; tali norme, però, continuano ad avere fondamentale rilevanza, e a limitare l’azione della Corte, nella misura in cui consentono di essere - per così dire - “derogate” solo in esito ad un contemperamento con valori di pari rango[53]. D’altronde, la legge 87 è stata scritta in un’epoca in cui non si aveva alcuna esperienza della giustizia costituzionale e del suo concreto modo di operare; ciò nonostante, il suo impianto generale non è mai stato del tutto disatteso, anzi è risultato “impermeabile” a tutte le difficoltà e le esigenze che sono sorte dalla prassi del giudizio costituzionale[54]. Tuttavia, come si è detto, la prassi si è evoluta, per cui sarebbe forse giunto il momento che tale legge venisse “adeguata agli insegnamenti della pratica”[55], non essendo necessario un suo stravolgimento, quanto più, però, qualche importante modifica, che consenta di “ri-razionalizzare” il ruolo del giudice costituzionale.
Risulta insomma necessario mettere ordine. In tal senso, sembra difficile aspettarsi un intervento del legislatore, “già tradizionalmente schivo anche nel semplicemente codificare gli innovativi approdi della giurisprudenza della Corte”; appare allora ancora più essenziale il contributo della dottrina, che, con la sua opera di instancabile analisi e “razionalizzazione ex post” della giurisprudenza della Corte, “potrebbe fornire allo stesso giudice costituzionale elementi utili ad indicare i termini della nuova rotta intrapresa”[56]. La stessa Corte, poi, dovrebbe tentare di ricondurre ad un sistema le operazioni manipolative che compie, magari facendo ricorso ad una decisione “magisteriale”, ad una “sentenza-matrice caratterizzata dalla motivazione «eccedente» rispetto le esigenze del caso deciso, idonea a indicare le linee-guida e i criteri generali cui il giudice della legge intende attenersi nell’intraprendere il nuovo percorso”[57].
Una precedente sentenza che si è mossa in questa direzione, e che ha tentato, cioè, di definire i contorni di un modello decisorio, è la sent. 10 del 2015, nella cui motivazione, nell’affrontare la problematica relativa al potere della Corte di disporre degli effetti temporali delle sentenze di accoglimento, emerge l’impegno argomentativo della Corte per tentare di offrire “alla scelta compiuta un orizzonte ampio e, specialmente, per definirne ragioni e termini”[58].
In un diverso ambito – ma non per questo meno pertinente – si è inserita la sent. 36 del 1997, nella quale la Corte, decidendo sull’ammissibilità di un referendum abrogativo, ha elaborato per la prima volta gli “indici” della manipolazione ammessa mediante lo strumento ablatorio popolare[59].
Dunque, nel tempo non sono mancati sforzi del giudice costituzionale per “fornire una «bussola» ai suoi interlocutori”[60]. E una tale bussola dovrebbe essere fornita anche oggi, in quanto, “al netto delle inevitabili oscillazioni connaturate all’esercizio della giurisdizione”, si avverte l’esigenza di comprendere “le ragioni della coerente compresenza delle diverse soluzioni a disposizione del giudice costituzionale”[61].
In particolare, dovrebbero essere stabiliti dei principi e dei criteri direttivi, preferibilmente da inserire proprio all’interno delle norme integrative opportunamente modificate, e precisati poi in sede giurisprudenziale, ai quali “far capo laddove si reputi necessaria ed urgente una produzione normativa discrezionalmente forgiata per via pretoria, in vece di quella legislativa colpevolmente mancante”[62]. Tale soluzione è stata definita “di compromesso”, in quanto, se, da un lato, definendo i limiti entro i quai i ruoli istituzionali possono essere “mescolati”, determinerebbe una ulteriore breccia al principio della separazione dei poteri, dall’altro lato, consentirebbe, però, di “preservare un brandello di tipicità dei ruoli stessi”[63]. Alla Corte potrebbe, infatti, essere riconosciuta la facoltà di fare le veci del legislatore soltanto a determinate condizioni ed entro certi limiti, nei casi in cui, ad esempio, risulti acclarata la particolare gravità del vulnus di costituzionalità e impossibile tollerarne ulteriormente l’incisione[64]. In questo modo, certo, sarebbe incisa la separazione dei poteri, ma si tratterebbe, in realtà, di normare un fenomeno che nella prassi già si verifica, e si verifica senza limiti e contorni ben precisi. Avallare tale prassi, alla luce delle considerazioni effettuate, significa forse prendere consapevolezza di un assetto istituzionale che più che mutato si è evoluto, e che continua ad evolversi; l’adeguamento della disciplina alla prassi potrebbe consentire che tale evoluzione avvenga in futuro in maniera meno caotica e più comprensibile per chi osserva, perché si muoverebbe all’interno di confini ben delineati.
Per quanto giuste siano, quindi, le critiche dogmatiche agli interventi più “audaci” del giudice costituzionale, non si possono non considerare le impellenti esigenze della prassi: “questa è la differenza fra chi rimane fedele a tutti i costi a schemi teorici e chi, invece, rileva la distanza tra la pura teoria e la prassi del diritto, con la sua necessaria attenzione al complesso degli interessi in gioco”[65]. Dunque, una “razionalizzazione delle sue tecniche decisorie”, e, di conseguenza, “una loro preventiva delimitazione e definizione, potrebbe aiutare l’«organo di chiusura» del nostro ordinamento a rasserenare i rapporti con gli altri poteri dello Stato”[66].
Affinché, poi, la Corte possa svolgere al meglio le sue funzioni, “senza forzature (apparenti o reali) e nel rispetto delle regole processuali” è davvero necessaria una “rifondazione del ruolo del Parlamento”[67]. Come si è avuto modo di osservare, la supplenza della Corte sembra essere controproducente, non aiuta il legislatore a risvegliarsi dal “suo annoso letargo”, ma anzi agevola il suo rimanere inerte[68]. Ruggeri propone, allora, il seguente rimedio: “obbligare lo Stato a risarcire i danni causati dalle omissioni del legislatore” (“sempre che – beninteso – risulti provato il nesso di causalità tra le stesse e i vulnera recati alla sfera soggettiva degli agenti”)[69]; nella consapevolezza che ciò comporterebbe un appesantimento ulteriore della procedura legislativa, poiché il legislatore cercherebbe il più possibile di evitare carenze vistose che possano “spianare la via ad esborsi anche cospicui di denaro per le già sofferenti casse dello Stato”; lo stesso autore sostiene che comunque questa soluzione possa costituire il “male minore”, poiché comunque una proposta che presenti solo vantaggi e non comporti alcun costo è impossibile da individuare[70]. Tale soluzione replicherebbe il modello adottato in sede europea, dove gli Stati vengono sanzionati se non danno esecuzione alle sentenze della Corte di Giustizia, o se non adempiono agli obblighi comunitari[71]. Una soluzione in tal senso, però, potrebbe non bastare: sanzionare non basta quando vi sono profondi problemi strutturali.
2. Osservazioni conclusive
La Costituzione, in senso liberaldemocratico, è un “processo storico” e non un mero “atto” puntuale nel tempo, per cui non deve stupire “né preoccupare troppo la mutazione, nel corso dei decenni, del rapporto fra Corte e Parlamento, a vantaggio della prima”[72]. La nostra Costituzione è, infatti, giovane, così come è giovane il giudice costituzionale, a differenza del Parlamento. Secoli di storia hanno permesso di consolidare la figura dell’organo rappresentativo, di far evolvere e far radicare la consapevolezza di quali siano i suoi compiti e i suoi limiti. Certo, le funzioni e i meccanismi operativi del Parlamento continuano ad evolversi, in relazione a come cambia la società nel suo complesso. La Corte costituzionale, invece, non ha neppure un secolo di storia alle sue spalle. Quando è stata ideata, i Costituenti hanno “inventato” un organo, senza avere nessuna esperienza concreta, basandosi solo sulle teorizzazioni di eminenti studiosi, e sulle esperienze di altri ordinamenti. Ogni ordinamento, però, è differente, e, si sa, la teoria arriva fino ad un certo punto. L’evoluzione dei rapporti fra Corte costituzionale e Parlamento è, a parere di chi scrive, un fenomeno fisiologico, dovuto al consolidamento di un organo che deve ancora essere a pieno inquadrato. Lo “sconfinamento” della Corte al di fuori dei limiti pensati dai Costituenti è un superare i confini fra due organi che, quando questi sono stati tracciati, non avevano mai interagito fra di loro. Pertanto, se da un lato occorre evitare una “commistione fra ruoli istituzionali”[73], e occorre sempre difendere la separazione dei poteri, per evitare che la Corte si tramuti in una “terza camera” del Parlamento, dall’altro lato, non basta criticare la Corte perché compie scelte discrezionali che, in teoria, le sarebbero precluse. Occorre, forse, prendere atto dell’evoluzione del rapporto e riscrivere la disciplina che lo regola, in base all’esperienza che è stata acquisita in quasi settant’anni di attività del giudice costituzionale.
Viviamo oggi in un momento di crisi del principio rappresentativo e dell’organo legislativo. Tuttavia, la Corte ha, in effetti, fatto i conti con un Parlamento inerte di fronte a violazioni dei diritti, già sin dagli albori della sua attività. All’inizio, però, poiché tali violazioni erano provocate dalla legislazione fascista, la Corte poteva “supplire” al Parlamento semplicemente dichiarando l’incostituzionalità delle leggi, riuscendo così nell’opera di smantellamento di una legislazione autoritaria, che avrebbe dovuto essere abrogata direttamente dal legislatore. Oggi, invece, per garantire l’effettiva attuazione dei diritti, non basta più caducare leggi anteriori, ma occorre “riempire i vuoti” (come nel caso Cappato), o, viceversa, adoperarsi per non creare dei vuoti (come nel caso della sent. 41 del 2021). Sin da quando è nata, dunque, la Corte si è impegnata per tutelare i diritti, ma il modo in cui questa tutela è stata realizzata è inevitabilmente cambiato. Non sono mancati, comunque, periodi di attività particolarmente proficua del Parlamento, ad esempio a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, durante i quali le decisioni della Corte hanno assunto un carattere più cauto e meno dirompente. In questo senso, sembra condivisibile la ricostruzione di Giuliano Amato, che, nel descrivere i rapporti fra gli organi di garanzia – Corte costituzionale e Presidente della Repubblica - e legislatore, parla di “moto a fisarmonica”[74]: nei momenti di vuoto politico e legislativo si espandono i ruoli degli organi di garanzia, e viceversa[75].
Un’altra metafora che dipinge con chiarezza l’immagine del tema qui esaminato è fornita da Spadaro: si tratta della metafora della “barca a vela”, che “però dispone di un «motorino» per i momenti in cui il vento non spira o c’è burrasca – la nostra «barca» (forma di governo) ordinariamente naviga «a vela» (parlamentare), ma dispone anche – per i tempi di bonaccia (inanità politica) o di tempesta (emergenze) – di due «motorini» (Presidente e Corte), che le permettono comunque di proseguire il suo percorso senza gravi intoppi. Proprio grazie alla presenza dei due motorini ricordati, il singolare sistema italiano – «forma di governo parlamentare con doppia supplenza» – nonostante le sue note imperfezioni, tutto sommato «funziona»”[76].
Sembra, dunque, che gli organi di garanzia non siano solo “anticorpi” del sistema che impediscono all’organo politico di violare la Costituzione esorbitando dalla sfera dei poteri che gli sono attribuiti – come accaduto in epoca fascista -, ma impediscono anche che la Costituzione, e, segnatamente, i diritti che essa riconosce, siano violati dall’immobilismo del legislatore[77]. Così, se il legislatore viola con un atto la Costituzione, l’atto viene annullato; se il legislatore viola con un “non atto” la Costituzione, la Corte lo esorta ad intervenire, o, addirittura, detta una “disciplina provvisoria” che colmi il vulnus di costituzionalità. Ciò, nel parere forse ingenuo di chi scrive, non sembra troppo preoccupante. L’equilibrio del sistema ideato dai Costituenti, che verrebbe danneggiato dagli interventi “suppletivi” della Corte, è un equilibrio che era stato solo teoricamente pensato, ma che nella prassi non appare adeguato.
Il grande assente, come si è detto, è una normativa di riferimento che consenta di “ridefinire” il ruolo della Corte, tracciando dei confini che, non essendo più solo pensati ma essendo stati anche “testati”, siano maggiormente in grado di guidare – e limitare – in concreto l’attività della Corte, così da garantire anche il rispetto dell’irrinunciabile principio della separazione dei poteri, nell’ottica oggi privilegiata non di netta separazione, ma di proficuo dialogo e bilanciamento fra gli organi. Potrebbe essere la stessa Corte costituzionale, nell’esercizio del suo potere di autoregolamentazione, ad intervenire in tal senso[78].
“L’iperattivismo” della Corte che si registra oggi potrebbe, dunque, essere l’attuazione di quel moto a fisarmonica di cui già si parlava più di quarant’anni fa, e forse, più che una minaccia all’equilibrio di sistema, rappresenta un riassestamento dell’equilibrio medesimo, che risultava già compromesso dalla crisi politica in atto, che, fra l’altro, al momento, non sembra essere facilmente e rapidamente superabile.
[1] M. Dogliani, “La sovranità (perduta?) del Parlamento e la sovranità (usurpata?) della Corte costituzionale”, in “Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima «politica» e quella «giurisdizionale»”, a cura di in R. Romboli, Torino, 2017, pp. 75 e ss.
[2] M. Dogliani, “La sovranità (perduta?) del Parlamento e la sovranità (usurpata?) della Corte costituzionale”, p. 84. “La crisi della rappresentanza è, soprattutto, crisi dei partiti: non è di certo un mistero, e ampia dottrina si è espressa a riguardo, che i partiti abbiano smarrito la propria funzione di anello di congiunzione tra la società civile e le istituzioni”. D. Scopelliti, “Il canale giurisdizionale per il riconoscimento dei diritti: tra crisi della rappresentanza e supplenza nei confronti della politica”, in Dirittifondamentali.it, Fascicolo 2/2022, 11 maggio 2022, pp. 28 e ss.
[3] A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, in Rivista AIC, Fascicolo 2/2023, 12 aprile 2023, pp. 103 e ss.
[4] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, in “Ricordando Alessandro Pizzorusso. Verso una nuova «stagione» nei rapporti fra Corte costituzionale e legislatore?”, a cura di E. Malfatti, V. Messerini, R. Romboli, E. Rossi, A. Sperti, Pisa, 15 dicembre 2022, pp. 24 e 25.
[5] La relazione fra Corte e legislatore è, secondo Carnevale, declinata in termini “antagonisti”, “che pure, però, per altri aspetti, ha conosciuto una declinazione opposta, di marca assimilazionista”, dovuta “essenzialmente al convergere su di un medesimo campo d’azione rappresentato del tessuto legislativo”. P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, in Nomos. Le attualità del diritto, Fascicolo 3/2023, www.nomos-leattualitaneldiritto.it , p. 3, nota n. 2.
[6] D. Manelli, “La diffamazione a mezzo stampa e il persistente dominio dell’inerzia legislativa nella tutela dei diritti. La Consulta perfeziona un nuovo caso di «incostituzionalità differita» con la sentenza n. 150 del 2021”, in Consulta online, Fascicolo 1/2022, pp. 94 e ss.
[7] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 28.
[8] D. Manelli, “La diffamazione a mezzo stampa e il persistente dominio dell’inerzia legislativa nella tutela dei diritti. La Consulta perfeziona un nuovo caso di «incostituzionalità differita» con la sentenza n. 150 del 2021”, cit., p. 102.
[9] “Il fenomeno dello «scaricabarile» istituzionale inevitabilmente arriva, alla fine, all’organo giudiziario «di chiusura» di tutto l’ordinamento: la Corte costituzionale”. A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 135.
[10] “A me sembra evidente che la causa prima dei supposti «sconfinamenti» della Corte andrebbe cercata nell’abulia del legislatore che, non solo ha consentito alla Corte di allargarsi, ma l’ha costretta a farlo, non fornendo ad essa strumenti utili per lavorare adeguatamente”. R. Bin, “Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone”, in Quad. cost., Fascicolo 4/2019 (pp. 757 ss.); testo consultabile su www.robertobin.it , p. 4.
[11] M. Dogliani, “La sovranità (perduta?) del Parlamento e la sovranità (usurpata?) della Corte costituzionale”, p. 84.
[12] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 29.
[13] La differenza, però, è che nel caso dell’incostituzionalità prospettata “il giudice costituzionale non solo intende metter mano all’agenda del legislatore immettendovi l’argomento da trattare, ma prescrive altresì il tempo di trattazione, stabilendone il termine ultimo, così da incidere sull’autonomia delle Camere, la quale – per usare le stesse parole della Corte – «si estrinseca non solo nella determinazione di cosa approvare, ma anche di quando approvare»”. P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 26.
[14] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 25.
[15] La preferenza per un intervento del legislatore è testimoniata anche dall’ulteriore rinvio cui la Corte ha fatto ricorso con l’ordinanza 122 del 2022, per consentire ai lavori parlamentari, che avevano raggiunto uno stato abbastanza avanzato, di giungere a termine. P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 25.
[16] È stato osservato, ad esempio da Carnevale, che la fissazione di un termine a legiferare possa rappresentare, “piuttosto che un pungolo, un disincentivo all’intervento del legislatore”: “questi, difatti, avendo di fronte «già fissata» la data di esecuzione della condanna a morte della legge potrebbe essere fatalmente indotto ad attendere l’(ormai sicura) irrogazione della pena capitale da parte del giudice costituzionale, la cui certezza d’intervento avrebbe perciò l’effetto di deresponsabilizzarlo, invece che responsabilizzarlo”. P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., pp. 26-27.
[17] D. Scopelliti, “Il canale giurisdizionale per il riconoscimento dei diritti: tra crisi della rappresentanza e supplenza nei confronti della politica”, cit., p. 29.
[18] M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, Relazione al Convegno del Gruppo di Pisa tenutosi a Como il 26-27 maggio 2023: “I 70 anni della Legge n. 87 del 1953: l’occasione per un “bilancio” sul processo costituzionale”, consultabile in forma provvisoria sul sito del Gruppo di Pisa, www.gruppodipisa.it , p. 20.
[19] A. Mazzola, “Decide che deciderà! La Corte costituzionale torna a adoperare la tecnica inaugurata con il «caso Cappato»”, in Consulta online, Fascicolo 3/2020, pp. 545 e ss.
[20] D. Scopelliti, “Il canale giurisdizionale per il riconoscimento dei diritti: tra crisi della rappresentanza e supplenza nei confronti della politica”, cit., p. 48.
[21] M. Della Morte, “La Corte decidente negli squilibri di sistema”, in Costituzionalismo.it, Fascicolo 1/2023, pp. 112 e ss.
[22] A. Ruggeri, “Ha ancora un futuro la legge quale strumento primario di normazione e di direzione politica?”, in Osservatorio sulle fonti, Fascicolo 2/2021, pp. 568 e ss.
[23] A. Ruggeri, “Ha ancora un futuro la legge quale strumento primario di normazione e di direzione politica?”, cit., p. 595.
[24] M. Della Morte, “La Corte decidente negli squilibri di sistema”, cit., p. 126.
[25] A. Ruggeri, “Ha ancora un futuro la legge quale strumento primario di normazione e di direzione politica?”, cit., p. 581.
[26] Ibidem.
[27] V. Onida, “Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?”, in Osservatorio costituzionale AIC, Fascicolo 2/2021, pp. 130 e ss.
[28] V. Onida, “Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?”, cit., pp. 131-132.
[29] La sent. 41 è “una sentenza di natura additiva che non mira – contrariamente a quanto usualmente praticato – a sanare, nell’immediato, il vulnus contestualmente accertato, quanto piuttosto a renderlo «sopportabile» limitandone la durata nel tempo”. R. Pinardi, “Costituzionalità «a termine» di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta (note a margine di Corte costituzionale sent. n. 41 del 2021)”, in Consulta online, Fascicolo 1/2021, pp. 288 e ss.
[30] V. Onida, “Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?”, cit., p. 135.
[31] Tra possibili rimedi “giusti” in grado di garantire l’ordinata prosecuzione dei processi, Onida cita, ad esempio, l’innalzamento dell’età pensionabile dei giudici professionali, o iniziative anche straordinarie di reclutamento di nuovi magistrati professionali, o anche riforme semplificatrici dei procedimenti giudiziari, o altre riforme intese a ridurre la domanda di giustizia cui deve rispondere la magistratura professionale. V. Onida, “Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?”, cit., p. 135.
[32] R. Pinardi, “Costituzionalità «a termine» di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta (note a margine di Corte costituzionale sent. n. 41 del 2021)”, cit., p. 293.
[33] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 34.
[34] Ibidem.
[35] M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, cit., p. 17.
[36] Corte cost., sent. 11 gennaio 2023, n. 40, considerato in diritto, punto 5.5.1.
[37] A. Ruggeri, “Vacatio sententiae alla Consulta, nel corso di una vicenda conclusasi con un anomalo “bilanciamento” tra un bene costituzionalmente protetto e la norma sul processo di cui all’art. 136 Cost. (nota minima alla sent. n. 41 del 2021)”, in Giustizia insieme, www.giustiziainsieme.it , 13 aprile 2021.
[38] Ibidem.
[39] M. Della Morte, “La Corte decidente negli squilibri di sistema”, cit., p. 119.
[40] A. Ruggeri, “Vacatio sententiae alla Consulta, nel corso di una vicenda conclusasi con un anomalo “bilanciamento” tra un bene costituzionalmente protetto e la norma sul processo di cui all’art. 136 Cost. (nota minima alla sent. n. 41 del 2021)”, cit.
[41] M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, cit., p. 3.
[42] Carnevale parla, con riferimento ai casi in cui il Giudice delle leggi rinuncia ad intervenire, pur ravvisando la necessità di un suo intervento, di “sfumatura amara del velim (iudicare) sed non possum”. P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 7.
[43] “La Corte sembra voler cercare ogni possibile strada per evitare soluzioni che possano dirsi invasive della sfera riservata al legislatore e, nella stessa logica, tende ad evitare decisioni che possano creare vuoti nomativi o comunque esiti idonei a produrre una situazione di incostituzionalità paradossalmente maggiore rispetto a quella che si dovrebbe andare a rimuovere”. M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, cit., p. 28.
[44] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 4.
[45] G. Silvestri parla di “felix culpa” della Corte costituzionale, facendo riferimento a qualche “eccesso o disinvoltura” che in questi anni hanno caratterizzato le sue decisioni, le quali, però, al contempo, sono riuscite a realizzare una coraggiosa opera “di «bonifica» costituzionale della legislazione”. G. Silvestri, “Legge (controllo di costituzionalità)”, in Dig./pubb., IX, Torino 1994, p. 32; A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 106.
[46] M. Della Morte, “La Corte decidente negli squilibri di sistema”, cit., p. 126.
[47] M. Luciani, “Ogni cosa al suo posto”, Milano, 2023, pp. 207 e ss.
[48] Ibidem.
[49] M. Luciani, “Ogni cosa al suo posto”, cit., p. 209.
[50] R. Pinardi, “Costituzionalità «a termine» di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta (note a margine di Corte costituzionale sent. n. 41 del 2021)”, cit., pp. 290-291.
[51] A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 106.
[52] M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, cit., p. 40.
[53] In senso contrario, invece, Spadaro, che ritiene che sia avvenuta ormai “una sorta di abrogazione tacita della seconda parte dell’art. 28, l. n.87/1953”, in quanto la Corte costituzionale sembra decidere, di volta in volta, quando sussiste la discrezionalità del Parlamento, e quando invece non sussiste. A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., pp. 133-134.
[54] R. Bin, “Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone”, cit., p. 2.
[55] Ibidem.
[56] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., pp. 17-18.
[57] Ibidem, p. 18.
[58] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 18.
[59] Ibidem, p. 19.
[60] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 19.
[61] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 34.
[62] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 35.
[63] Ibidem, p. 36.
[64] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 36.
[65] Intervento del Giudice Prof. Gaetano Silvestri, in Aa. Vv. “Atti della giornata in ricordo del Giudice emerito della Corte Costituzionale Vezio Crisafulli”, Corte costituzionale, Roma, 2011, pp. 54 ss. (www.cortecostituzionale.it/documenti/pubblicazioni/Giornata_Crisafulli.pdf ).
[66] A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 106.
[67] M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, cit., pp. 44-45.
[68] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., pp. 38-39.
[69] Ibidem.
[70] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 40.
[71] Ibidem.
[72] A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 105.
[73] A. Ruggeri, “Vacatio sententiae alla Consulta, nel corso di una vicenda conclusasi con un anomalo “bilanciamento” tra un bene costituzionalmente protetto e la norma sul processo di cui all’art. 136 Cost. (nota minima alla sent. n. 41 del 2021)”, cit.
[74] G. Amato, “Dal garantismo alla democrazia governante”, in Mondoperaio, Fascicolo 6/1981, pp. 17 ss.
[75] A. Formisano, “La tendenziale convergenza della Corte costituzionale e del Presidente della Repubblica nelle situazioni di emergenza”, in Nomos. Le attualità del diritto, Fascicolo 1/2023, www.nomos-leattualitaneldiritto.it , p. 2.
[76] A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 136.
[77] “L’attuale «sistema di relazioni inter-istituzionali”» presenta alcuni rischi, ma esso può ancora essere letto, soprattutto se contestualizzato in un quadro più ampio, quale inevitabile e più generale risposta di supplenza concreta che, a ben vedere, «tutti» gli organi costituzionali di controllo (quindi anche il Presidente della Repubblica), svolgono di fronte alle costanti carenze e ripetute omissioni di «tutti» gli organi di indirizzo politico (dunque anche del Governo)”. A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 105.
[78] Spadaro, ad esempio, si augura che venga realizzata una “razionalizzazione normativa autogestita” dalla stessa Corte, in quanto, in fondo, è proprio nell’interesse di quest’ultima che si dovrebbe mettere ordine nella “quasi sconfinata panoplia di tipi e sottotipi di decisioni che usa”, invece di aspettare che sia il Parlamento ad intervenire in tal senso; quest’ultimo, infatti, potrebbe intervenire “nella forma che più gli aggrada/ rassicura – plausibilmente la legge costituzionale – e nella sostanza”, forse, “solo per contenere pro domo sua i poteri del Giudice delle leggi”. A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 140.
Foto di Francesco Ammendola - Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica
L’art. 578 c.p.p. tra Sezioni unite e Corte costituzionale
di Aniello Nappi
Dopo l’intervento delle Sezioni unite del 2009 la giurisprudenza della Corte di cassazione è consolidata nel senso che «allorquando, ai sensi dell'art. 578 c.p.p., il giudice di appello - intervenuta una causa estintiva del reato - è chiamato a valutare il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili per la presenza della parte civile, il proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva, pur nel caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova». Sicché è indiscusso che «all'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, oppure ritenga infondata nel merito l'impugnazione del pubblico ministero proposta avverso una sentenza di assoluzione in primo grado ai sensi dell'art. 530, comma 2, c.p.p.».
Nel 2021 è tuttavia intervenuta in tema la Corte costituzionale, affermando che l’art. 578 c.p.p. non viola il diritto dell'imputato alla presunzione di innocenza, «perché nella situazione processuale che vede il reato estinto per prescrizione e quindi l'imputato prosciolto dall'accusa, il giudice non è affatto chiamato a formulare, sia pure "incidenter tantum", un giudizio di colpevolezza penale quale presupposto della decisione, di conferma o di riforma, sui capi della sentenza impugnata che concernono gli interessi civili», ma «nel decidere sulla domanda risarcitoria, anziché verificare se si sia integrata la fattispecie penale tipica contemplata dalla norma incriminatrice, deve accertare se sia integrata la fattispecie civilistica dell'illecito aquiliano (art. 2043 cod. civ.)».
Si è dunque prospettata la possibilità che la decisione della Corte costituzionale abbia così contraddetto la giurisprudenza di legittimità, che in presenza della parte civile esige sempre l’accertamento pieno in ordine alla responsabilità penale dell’imputato nonostante la sopravvenuta estinzione del reato per amnistia o prescrizione.
Con ordinanza dell’8 giugno 2024 la Quarta sezione penale della Corte di Cassazione ha dunque rimesso la questione alle Sezioni unite, ritenendo che il principio di diritto enunciato nel 2009 dalla sentenza Tettamanti potrebbe appunto essere ormai incompatibile con la sopravvenuta decisione della Corte costituzionale del 2021.
Risolvendo la questione loro rimessa, le Sezioni hanno però ribadito ora, con sentenza depositata il 27 settembre 2024, che «nel giudizio di appello avverso la sentenza di condanna dell'imputato anche al risarcimento dei danni, il giudice, intervenuta nelle more l'estinzione del reato per prescrizione, non può limitarsi a prendere atto della causa estintiva, adottando le conseguenti statuizioni civili fondate sui criteri enunciati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 182 del 2021, ma è comunque tenuto, stante la presenza della parte civile, a valutare, anche a fronte di prove insufficienti o contraddittorie, la sussistenza dei presupposti per l'assoluzione nel merito».
Ha precisato la Corte che «la situazione processuale oggetto della pronuncia della Consulta riguarda il caso in cui “il giudice dell'impugnazione penale (giudice di appello o Corte di cassazione), spogliatosi della cognizione sulla responsabilità penale dell'imputato in seguito alla declaratoria di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione (o per sopravvenuta amnistia), deve provvedere — in applicazione della disposizione censurata — sull'impugnazione ai soli effetti civili”»; mentre «il principio espresso da Sez. U, Tettamanti opera, invece, nel caso in cui non sia venuta meno per il giudice dell'impugnazione penale la cognizione sulla responsabilità penale dell'imputato». Sicché «l'esigenza di tutela della presunzione d'innocenza nei rapporti tra proscioglimento in rito dall'accusa penale e potere cognitivo del giudice dell'impugnazione sugli interessi civili non si pone nell'ambito applicativo del principio espresso da Sez. U, Tettamanti, concernente la possibilità per il giudice penale di privilegiare l'assoluzione nel merito dall'accusa penale sulla declaratoria di prescrizione, con parallela revoca delle statuizioni civili».
Tuttavia la Corte non ha chiarito a quali condizioni il giudice dell’impugnazione possa ritenersi “spogliato” «della cognizione sulla responsabilità penale dell'imputato in seguito alla declaratoria di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione (o per sopravvenuta amnistia)». Infatti l’esercizio da parte del giudice dell'impugnazione penale della cognizione piena sulla responsabilità penale dell'imputato dovrebbe escludere che quello stesso giudice possa pervenire alla dichiarazione di estinzione del reato limitando la sua cognizione all’illecito civile.
Come ha rilevato l’ordinanza di rimessione alle Sezioni unte, non è che «dapprima debba essere condotta l’indagine secondo le direttive della Sez. U. Tettamanti e successivamente, ove esclusa la possibilità di assoluzione in primo grado ai sensi dell'art. 530, comma secondo, c.p.p.». nel merito, dovesse farsi applicazione di quelle dettate dalla Corte costituzionale».
In realtà la decisione delle Sezioni unite è corretta, perché non è un’impossibile cesura tra i due accertamenti a rendere la sentenza Tettamanti compatibile con la decisione della Corte costituzionale, ma è l’effetto devolutivo dell’impugnazione a determinare l’ambito della cognizione del giudice adito.
Infatti l’accertamento pieno ai fini dell'eventuale assoluzione nel merito, richiesto dalla giurisprudenza di legittimità «anche a fronte di prove insufficienti o contraddittorie», presuppone che al giudice dell’impugnazione sia devoluto appunto l’accertamento della responsabilità dell’imputato, ai sensi dell’art. 597 o dell’art. 606 c.p.p.: presuppone ad esempio che il giudice sia chiamato a pronunciarsi sull’impugnazione ai fini penali proposta dall’imputato che neghi la sua colpevolezza. Mentre può accadere che il giudice dell’impugnazione sia chiamato a pronunciarsi su questioni che non pongano in discussione la colpevolezza dell’imputato, con la conseguenza che in tal caso potrebbe trovare applicazione solo l’art. 129 comma 2 c.p.p., laddove prevede che anche «quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta». E in questi casi il giudice, esclusa l’evidenza della non colpevolezza dell’imputato, potrà pronunciarsi sulla sola azione civile in conformità alla decisione della Corte costituzionale.
Potrà accadere ad esempio che, quando il solo P.M. abbia impugnato una sentenza di condanna anche al risarcimento dei danni in favore della parte civile (lamentando ad esempio l’erronea esclusione di un’aggravante a effetto speciale o l’irrogazione di una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato), il giudice dell’impugnazione, non sia chiamato a pronunciarsi sulla colpevolezza dell’imputato e dunque, ove sopravvenga comunque l’estinzione del reato per prescrizione o amnistia e non risulti applicabile l’art. 129 comma 2 c.p.p., dovrà pronunciarsi sull’azione civile ai sensi dell’art. 578 c.p.p.; e potrà allora ribadire la condanna agli effetti civili anche nel caso in cui la responsabilità penale sarebbe stata in realtà da escludere indipendentemente dall'estinzione del reato, perché, come chiarito da C. cost., n. 182/2021, il giudice dovrà in tal caso attenersi alle regole di giudizio e allo standard probatorio del processo civile.
Ma anche quando fosse l’imputato a impugnare la sentenza di condanna, per lamentare ad esempio solo l’eccessività della pena o il mancato riconoscimento di un’attenuante, la sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione o amnistia renderebbe possibile un proscioglimento nel merito solo in applicazione dell’art. 129 comma 2 c.p.p.; e dunque il giudice dell’impugnazione, esclusa l’evidenza di non colpevolezza dell’imputato e dichiarato estinto il reato, dovrebbe ribadire la decisione in favore della parte civile, eventualmente anche solo in applicazione delle regole di giudizio e dello standard probatorio del processo civile.
Si deve pertanto concludere che correttamente le Sezioni unite hanno escluso l’ipotizzabilità della dedotta incompatibilità tra la giurisprudenza di legittimità e la decisione della Corte costituzionale, perché, per gli effetti devolutivi delle impugnazioni, C. cost., n. 182/2021 risulterà applicabile solo quando non sia applicabile la sentenza Tettamanti.
Per leggere la sentenza: https://www.cortedicassazione....
La certezza del diritto penale e l’incertezza del resto: la nozione di pubblico servizio tra diritto penale e altri diritti
Maria Sabina Calabretta
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il punto di vista della legge penale – 3. L’incertezza del resto – 4. La nozione di incaricato di pubblico servizio nella sua declinazione giurisprudenziale penale - 5. L’attività “BANCOPOSTA” - 6. Ultime riflessioni in tema di coerenza interna del sistema normativo.
1. Introduzione
Spesso l’interprete affronta acque perigliose quando deve risolvere problemi applicativi che coinvolgono ambiti e materie diverse, ciascuna connotata da profili peculiari: così è per l’interprete penale che deve risolvere, spessissimo, il problema dell’applicabilità delle norme che puniscono condotte del pubblico ufficiale e dell’esercente un pubblico servizio. In casi come questo, gli strumenti interpretativi del diritto penale sostanziale si intersecano, indubitabilmente, con quelli propri del diritto amministrativo. Verrebbe da dire che nel mondo del perfetto sistema, del legislatore unico e quasi “creatore” di un mondo perfetto, tutto dovrebbe corrispondere e nessun problema dovrebbe sorgere nella concreta casistica applicativa. Ma, indubbiamente, la realtà giuridica vive di regole, eccezioni e diversità e l’operatore penale, ogni volta che si trovi ad applicare una fattispecie inclusa tra i reati contro la pubblica amministrazione, deve verificare se il soggetto che esercita una determinata attività percepita e disciplinata secondo le regole del servizio pubblico sia un esercente un pubblico servizio. Proprio così: perché non è così scontato che ad ogni servizio pubblico corrisponda un esercente un pubblico servizio quale descritto dall’art. 358 c.p.
2. Il punto di vista della legge penale
Sia consentita una premessa preliminare: il codice sostanziale non prevede una nozione universalmente valida né di pubblico ufficiale né di pubblico servizio. Tanto è vera questa premessa, che sia l’art. 357 c.p. che il successivo art. 358 c.p. contengono un inciso chiarificatore: “agli effetti della legge penale”. E ciò si comprende alla luce del fatto che scopo della norma penale è quello di individuare soggetti e condotte di soggetti meritevoli di sanzione penale.
Il legislatore, pertanto, con le disposizioni citate si riferisce alla materia penale e pone dei confini precisi. Quanto ai pubblici ufficiali dispone:
Quanto invece agli incaricati di un pubblico servizio:
L’osservazione che si può fare, sulla base del dato letterale della norma, è che il punto di vista del legislatore penale oltre ad essere metodologicamente mirato all’ambito strettamente penale, è altresì indubbiamente connotato da una prevalente dimensione sostanzialistica. Sia il pubblico ufficiale che l’incaricato (cioè, chi riceve un incarico) di pubblico servizio tali sono in quanto svolgono una determinata attività.
Quanto alle caratteristiche di tale attività essa, sia nel caso del pubblico ufficiale che nel caso del pubblico servizio, di sicuro può dirsi che le stesse rivestano un interesse ultra individuale le cui insopprimibili esigenze di tutela sono proprio quelle che giustificano inasprimenti sanzionatori (si pensi alle differenza tra appropriazione indebita e peculato) o previsioni di sanzioni penali per comportamenti altrimenti di mero rilievo civilistico (turbativa d’asta e violazione di regole concorrenziali) o meramente amministrativo.
Ebbene, l’impostazione sostanzialistica delle anzidette nozioni è evidentemente desumibile dal tenore letterale degli articoli citati, e ciò vale sia per la pubblica funzione che per il pubblico servizio. Quanto alla funzione pubblica, posto che nessun particolare dubbio ponevano le funzioni legislativa e giudiziaria, il legislatore del 1992 ha inserito nell’art. 357 c.p. il secondo comma, specificatamente rivolto alla funzione amministrativa, elencando una serie di indici rivelatori della natura pubblica di una funzione di amministrazione (ulteriori rispetto alla natura pubblicistica delle norme che la disciplinano) ovvero: l’agire per atti non paritari rispetto al destinatario, il contenuto tendenzialmente volitivo di questi atti ed il loro estrinsecarsi mediante poteri autoritativi o certificativi (o entrambi) .
La declinazione della nozione di pubblici ufficiali a fini penali si è per l’effetto attuata, nella applicazione giurisprudenziale, attraverso percorsi che possono definirsi condivisi: si riconosce la qualità di pubblici ufficiali (alle condizioni previste dalla legge) agli appartenenti alle forze armate e alle forze dell’ordine che commettano fatti previsti dalla legge come reato nell’esercizio delle loro funzioni, ai docenti universitari, di scuole statali e di istituti parificati nell’esercizio delle attività certificative e autorizzative e, alle stesse condizioni, ai dipendenti degli enti locali (si pensi al dipendente del Comune addetto all’ufficio tecnico) ed al personale delle aziende sanitarie e del servizio sanitario nazionale, con particolare riferimento alla tipologia di attività svolta (Cass. pen., Sez. V, Sentenza, 16/12/2019, n. 9393 (Rv. 278665-01), così massimata: “L'infermiere operante in una struttura sanitaria privata, anche se non accreditata con il servizio sanitario nazionale, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto l'attività svolta, come evidenziato anche dall'art. 1 della legge 10 agosto 2005, n. 251, persegue finalità pubbliche di rilievo costituzionale, garantendo il diritto alla salute individuale e collettiva ed esercita, quindi, un'attività amministrativa con poteri certificativi assimilabili a quelli del pubblico ufficiale quando redige la cartella o la scheda infermieristica. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto configurabile il delitto di cui agli artt. 476 e 479 cod. pen. per le false attestazioni compiute in una scheda infermieristica di una casa di cura privata, in quanto atto destinato a confluire nella cartella clinica, condividendone, quindi, la natura di atto pubblico munito di fede privilegiata).”
Più problematica, nello stesso approccio ermeneutico, la nozione a fini penali dell’incaricato di pubblico servizio. Il secondo comma dell’art. 358 c.p. sebbene non contenga lo stesso inciso di rinvio “ agli effetti penali” deve intendersi riferito e limitato ad essi e specifica la nozione non mediante l’utilizzo del verbo essere (come sarebbe delle definizioni, laddove ogni cosa o concetto è o non è altra cosa o un altro concetto astratto) bensì attraverso una “convenzione”: dice infatti la legge che “…Per pubblico servizio deve intendersi un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest'ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale.”
Nel definire si dice sia cosa “deve essere” (un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione”) sia cosa “non deve essere”, ovvero una semplice mansione di ordine o una prestazione di opera meramente materiale.
Nel diritto penale, diritto vivente e del fatto, la declinazione di pubblico servizio (ulteriormente declinata con riferimento ai servizi di pubblica necessità ex art. 359 c.p.) prescinde dall’inserimento del soggetto attivo in un determinato contesto soggettivo pubblicistico: nell’art. 358 c.p. la legge, infatti, espressamente prevede che l’esercente un pubblico servizio è tale a prescindere dal titolo in ragione del quale svolga l’attività riconducibile al canone definitorio (posto che il primo comma della norma prevede che “Agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio.”). Sotto tale profilo, indubbiamente, il legislatore ha delineato una nozione oggettiva di pubblico servizio, derivante dalla disciplina normativa dell'attività considerata, indipendentemente dalla natura, pubblica o privata, del soggetto da cui l'attività è svolta. A confortare la declinazione oggettiva delle definizioni di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio, vale altresì citare il disposto dell’art.360 c.p., “Cessazione della qualità di pubblico ufficiale” a norma del quale ove il fatto reato sia commesso da soggetto che riveste la qualità, ovvero anche solo aggravato in ragione della stessa, la cessazione di tale qualità, nel momento in cui il reato è commesso, non esclude la esistenza di questo né la circostanza aggravante, se il fatto si riferisce all'ufficio o al servizio esercitato[1].
Simmetricamente, quindi, il pubblico ufficiale è tale quando agisce nell’esercizio dei poteri legislativo, giudiziario, amministrativo e l’esercente un pubblico servizio tale è quando svolga un’attività (non di mero ordine né meramente materiale) che sia disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione.
Questa premessa ci induce a ritenere che, delle molte possibili (e particolarmente care al diritto amministrativo, che tradizionalmente declina la nozione di pubblico servizio secondo impostazioni soggettive, oggettive o miste), il legislatore penale abbia inteso fare propria una nozione sostanzialistica del pubblico servizio.
3. L’incertezza del resto
Il diritto amministrativo conosce la categoria del pubblico servizio e del servizio pubblico locale, ed ancora del servizio pubblico essenziale (art. 43 Cost.) sebbene fatichi, e non poco, ad approdarne ad una definizione esaustiva e finale dell’uno e dell’altro.
Si sono nel tempo variamente confrontate tra loro nozioni di pubblico servizio (locale e non) improntate ad una prevalente dimensione soggettiva, ovvero oggettiva o, infine, mista.
Nella presente riflessione non si pretende certo di individuare una nozione condivisa in quell’ambito, piuttosto, da interprete penale, si tenta di raccogliere, con sporadiche incursioni nel diritto pubblico, indizi che possano risultare altresì utili a declinare la corrispondente nozione penalistica.
Ebbene, alla nozione di servizio pubblico fa senz’altro riferimento l’art. 43 della Costituzione per il quale “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti, determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”: la norma certamente collega la nozione di servizio e quella di impresa, con una connotazione in termini di rilievo ultra individuale ed economico dell’attività svolta e, altresì, individua, tra i servizi pubblici, un sottoinsieme dedicato ai servizi pubblici “essenziali”. L’impostazione costituzionale sembrerebbe quindi optare per una nozione del pubblico servizio in senso oggettivo
In via di prima approssimazione interpretativa, può certamente affermarsi che la nozione di “servizio pubblico” è comunque declinata dal legislatore costituzionale in correlazione con la funzionalizzazione di una determinata attività al soddisfacimento di bisogni di carattere collettivo.
Così letta, la norma costituzionale sembra superare (anche in ragione della natura della fonte) l’originaria impostazione della legge Giolitti (legge 29 marzo 1903 n. 103), che istituiva le aziende municipalizzate e del TU n. 2578 del 1925, e conteneva, all’art. 1[2], un elenco dei servizi pubblici (che il Comune poteva assumere) ripartiti in n. 19 categorie : la legge citata seguiva, quindi, un’impostazione prevalentemente soggettiva del servizio pubblico al contempo temperato dalla elencazione di attività finalizzate al soddisfacimento di bisogni collettivi (acqua, luce, fognature, trasporti ecc. ecc.).
La materia risulta oggi ampiamente trattata nel Decreto legislativo 23 dicembre 2022, n. 201, “Riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”, sempre però con un occhio assolutamente privilegiato alla dimensione, appunto, economica del servizio: ebbene la citata dimensione economica non risulta invece necessariamente valutata come coessenziale ai fini del diritto penale, rispetto al quale, ad esempio, valgono piuttosto, oltre al rilievo ultra individuale dell’interesse sotteso, la presenza di eventuali poteri attestativi, certificativi, valutativi e di controllo connaturati all’attività svolta (come nel caso del capocantiere Anas, cfr. Cass. Sez. 6, sent. n. 3342 del 20/12/2023 Ud. (dep. 26/01/2024) Rv. 285906 – 01, così massimata: “In tema di reati contro la pubblica amministrazione, riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio il "capo cantiere sorvegliante" dipendente di Anas s.p.a., il quale non è assegnatario di semplici mansioni d'ordine, né prestatore di opere meramente materiali, ma svolge attività disciplinate nella stessa forma della pubblica funzione, essendo titolare di numerosi compiti di guida, sorveglianza e vigilanza sull'operato degli altri lavoratori, di sottoscrizione di verbali di accertamento, di redazione di un rapporto settimanale dei lavori eseguiti.”.
Altri “indizi”, potenzialmente utili all’interprete penale (ferma restando l’impostazione definitoria del legislatore penale attuata attraverso l’inciso “a fini penali”) li ritroviamo nel nuovo Codice degli appalti (decreto legislativo 31 marzo 2023 n. 36), in particolare, nel capo dedicato al partenariato pubblico privato di tipo contrattuale o istituzionale (anche menzionato come PPP) disciplinato dagli artt. 174-208. Il raccordo, non intuitivo, tra il concetto di servizio pubblico e quello di partenariato pubblico privato diviene evidente avuto riguardo alla declinazione della relativa nozione, contenuta nell’art. 174 del decreto legislativo citato[3],: indubbiamente la norma segue una impostazione sostanzialistica e privilegia una valutazione di tipo economico dell’istituto (basti pensare che il legislatore al riguardo prevede una programmazione, ed altresì la valutazione di fattibilità ed efficienza, art. 175 commi 1 e 2 del decreto legislativo n. 36 citato).
Resta ferma la assoluta rilevanza del tema relativo alla individuazione della nozione di servizio pubblico nel diritto processuale amministrativo, posto che l’art. 133 del codice di quel processo espressamente prevede che tale materia costituisca ipotesi di giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo (in particolare la lettera c) del citato articolo testualmente prevede che siano devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: “c) le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo, ovvero ancora relative all'affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di pubblica utilità;…”.
Quanto alle fonti eurounitarie, l’art. 106 del TFUE prevede al secondo paragrafo che “le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi dell’Unione”. Le citate fonti sovranazionali paiono quindi approcciare ad una prevalente valutazione della dimensione economica del servizio/prestazione, astrattamente idonea a soddisfare una “missione” di rilievo ultra-individuale (e perciò di interesse pubblico).
Concludendo, queste rapide e senz’altro sintetiche incursioni nel diritto pubblico interno e nel diritto euro unitario, di certo non sembrano risolvere i dilemmi dell’interprete penale (cui il legislatore ha indicato, come detto, una via “riservata”): in esse, tutte, prevale, all’evidenza, una valutazione economica del servizio pubblico (inteso come attività che produce prestazioni o beni di interesse per la collettività) che non risulta del tutto corrispondente a quella utilizzata in sede penale.
4. La nozione di incaricato di pubblico servizio nella sua declinazione giurisprudenziale penale
Premessa la nozione di incaricato di pubblico servizio ex art. 358 c.p., valutata la sua diversità rispetto alle nozioni proprie del diritto amministrativo, pare doveroso verificare in quali casi concreti la giurisprudenza di legittimità abbia ritenuto sussistente la qualifica di incaricato di pubblico servizio.
La prima e più ampia categoria certamente comprende i dipendenti di enti che svolgono un pubblico servizio: così è stato affermato che fosse incaricato di pubblico servizio il gestore del servizio di ambulanza, il gestore del servizio di soccorso stradale, il depositario di veicoli coinvolti in incedenti stradali, il ricevitore autorizzato a ricevere giocate, il custode del cimitero, l’addetto alle casse dell’azienda sanitaria locale ed altre variegate ipotesi.
Si osserva che di frequente si ritiene ricorra tale particolare qualifica nei casi in cui il soggetto movimenti denaro proveniente dallo Stato o da enti locali (così ad esempio l’amministratore di una comunità per il recupero di tossicodipendenti beneficiaria di erogazioni finanziarie pubbliche vincolate) ovvero sia preposto alla raccolta dai privati di somme di denaro destinate all’erario (il caso più evidente quello del soggetto autorizzato alla raccolta delle giocate, con specifico riferimento al versamento del c.d. PREU).
Questo, si intende, perché in ipotesi di tale specie senz’altro risulta agevolmente individuabile la norma che impone comportamenti doverosi analoghi a quelli previsti per la pubblica funzione, ovvero una norma che vincola l’agire del soggetto nell’interesse di una collettività e segna le direzioni dei suoi comportamenti.
Così, ad esempio, nel caso del soggetto esercente attività di raccolta di giocate, la convenzione sottoscritta tra il predetto e l’ente concessionario dei monopoli, impone all’esercente tanto le modalità della raccolta tanto l’esazione del PREU ed il suo successivo pagamento all’Erario.
Sembra quindi possa affermarsi che, dopo la riformulazione dell’art. 358 c.p. ad opera del legislatore del 1990, si è adottato un criterio oggettivo-funzionale per la definizione del pubblico servizio, sicché la qualifica pubblicistica dell'attività prescinde dalla natura dell'ente in cui è inserito il soggetto e dalla natura pubblica dell'impiego. Possiamo altresì affermare, con un certo grado di convinzione, che un ulteriore indice rivelatore della qualità di pubblico servizio e del soggetto incaricato risiede nella disciplina dell’attività ad esso correlata: deve essere quindi possibile rinvenire una norma di natura pubblicistica che indichi un comportamento doveroso per il soggetto che lo esercita al precipuo fine di consentire la realizzazione di interessi propri della collettività (in ciò il servizio è pubblico). Se il soggetto è totalmente libero nella realizzazione di una determinata attività, nella scelta del contraente, nella individuazione dei propri scopi di impresa e delle modalità con cui perseguirli, sarà ben difficile che lo stesso possa ritenersi incaricato di pubblico servizio, anche se l’ambito in cui opera sia di interesse pubblico.
Certamente questa conclusione costituisce approdo certo della giurisprudenza della Corte di la quale ha recentemente affermato che “Il parametro di delimitazione esterna del pubblico servizio è dunque identico a quello della pubblica funzione ed è costituito da una regolamentazione di natura pubblicistica, che vincola l'operatività dell'agente o ne disciplina la discrezionalità in coerenza con il principio di legalità, senza lasciare spazio alla libertà di agire quale contrassegno tipico dell'autonomia privata, con esclusione in ogni caso dall'area pubblicistica delle mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale (Sez. 6, n. 53578 del 21/10/2014, Cofano, Rv. 261835; Sez. 6 n. 39359 del 07/03/2012, Ferrazzoli, Rv. 254337).” (cfr. Cass. Sez. 6, sent. N. 21624 del 2022)
5. L’attività “BANCOPOSTA”
La questione relativa all’ambito di operatività della nozione di esercente un pubblico servizio si è recentemente posta con specifico riferimento alla attività c.d. di “BANCOPOSTA” svolta dal Poste s.p.a.: come noto la soluzione della questione, ritenuta controversa, circa la natura dell’attività bancoposta è stata recentemente rimessa alle Sezioni Unite della Corte (notizia di decisione n. 10/24).
Poste S.p.a., ente avente forma giuridica di società per azioni, nel nostro sistema può svolgere attività “bancaria” o “finanziaria”, attività oggi pacificamente privatistica sebbene vigilata dalle competenti Autorità (Banca d’Italia, in particolare, per il settore dell’attività bancaria e Consob per quello del mercato finanziario): entrambe tali attività si estrinsecano in negozi giuridici sottoposti a regime privatistico, nonostante l’interesse delle Autorità di Vigilanza al rispetto di determinati standard di tutela finalizzati ad assicurare sana e prudente gestione dell’attività bancaria ed i controlli necessari e opportuni per l’attività finanziaria.
Tuttavia, non si ritiene di poter affermare che Poste svolga attività bancaria in regime parificabile a quello degli altri operatori, rispetto ai quali le attività di vigilanza sono comunque successive e di gestione ed estranee alla concreta disciplina dei singoli rapporti: ed invero, in virtù di una specifica normativa Poste s.p.a. svolge tale attività in regime “concessorio” da Cassa Depositi e Prestiti ed è proprio la relazione genetica con tale ente che deve essere valutata al fine di verificare se dalla stessa sorgano obblighi comportamentali e precetti di disciplina che realizzano proprio quella particolare condizione cui la giurisprudenza della Corte riconnette l’operatività dell’art. 358 c.p., ovvero quella “regolamentazione di natura pubblicistica, che vincola l'operatività dell'agente o ne disciplina la discrezionalità in coerenza con il principio di legalità, senza lasciare spazio alla libertà di agire quale contrassegno tipico dell'autonomia privata”. La questione, come noto, è controversa ed oggetto di una recente rimessione alle Sezioni Unite, proprio al fine di scongiurare pronunce tra loro contrastanti sul punto.
Ebbene, tornando alla eventuale esistenza di una regolazione pubblicistica, l’analisi delle norme vigenti pare fornire elementi indizianti in tal senso: ciò varrebbe, in particolare, proprio con riferimento a quella attività di raccolta del risparmio che si estrinseca attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi (cfr. sul punto Cass. Sent. Sez. 6 n. 44146 del 22 giugno 2023) e tanto si desume dalla circostanza che tali forme di risparmio abbiano un regime fiscale agevolato e l’esenzione da taluni oneri in materia successoria e, ancor prima, che tale attività sia svolta per conto della Cassa Depositi e Prestiti, anch’essa ente con forma societaria sebbene con una “spiccata vocazione al sostegno degli investimenti pubblici”.
Quanto a tale ultimo aspetto, val la pena considerare che l’art. 5, comma 7) lett. a) del DL 30 settembre 2003 n. 269 (convertito con modificazioni dalla l. 24 novembre 2003 n. 326) prevede tra l’altro che “La CDP S.p.A. finanzia, sotto qualsiasi forma:
Risulta quindi, per quanto di interesse ai fini della individuazione della rilevanza della qualifica di esercente un pubblico servizio, la circostanza che a monte dell’attività Banco Posta ci sia una norma primaria che prevede espressamente che Cassa depositi e prestiti nello svolgimento delle proprie finalità si finanzi attraverso prodotto nominativamente definiti (libretti di risparmio postale, buoni fruttiferi postali) assistiti dalla garanzia dello stato e distribuiti attraverso Poste Italiane Spa. Tanto significherebbe, altresì, che quale mera distributrice il prezzo di distribuzione non sia necessariamente determinato da Poste: se nel contratto tipico di offerta al pubblico dei predetti prodotti si rinvenissero disposizioni limitative della concreta volontà contrattuale non tanto dell’acquirente ma dell’offerente-distributore Bancoposta, ecco che si invererebbe proprio la condizione già ritenuta dalla cassazione come coessenziale alla natura del pubblico servizio.
Dalla consultazione del sito delle Poste è possibile acquisire ulteriori informazioni: si tratta di prodotti emessi da Cassa Depositi e Prestiti che appunto li distribuisce attraverso Poste spa, con agevolazione fiscale sia su interessi che su eventuali premi (con tassazione al 12,50%) e che sono esenti da imposte di successione.
Va da sé che già per esempio la determinazione ad opera di CDP del prezzo di vendita del prodotto potrebbe costituire argomento utilizzabile al fine di ritenere che la libertà contrattuale di Poste non sia del tutto priva di limiti, non sia una libertà contrattuale piena e che, per l’effetto, vi siano i presupposti per ritenere che l’attività relativa alla collocazione sul mercato di quel tipo di prodotti si sostanzi nell’esercizio di un pubblico servizio ai sensi e per gli effetti dell’art. 358 c.p. : tuttavia, occorre ben ponderare, in ottica più ampia, la circostanza che anche nei rapporti giuridici privati sono possibili vincoli contrattuali in virtù dei quali un determinato soggetto assume l’obbligo di collocare sul mercato beni o servizi a prezzi predeterminati dalla propria controparte contrattuale. Il discrimine potrebbe, quindi, rinvenirsi nella circostanza che la ratio del vincolo contrattuale risponda ad interesse non meramente individuale, ovvero ad interesse collettivo, senza peraltro trascurare che comunque attraverso la vendita di tali prodotti CDP, ente che svolge attività di rilievo ed interesse pubblicistico, si finanzia.
La questione di diritto (controversa) del “Se, nell'ambito delle attività di "bancoposta" svolte da Poste Italiane s.p.a., ai sensi del D.P.R. 14 marzo 2001, n. 144, la "raccolta del risparmio postale”, (raccolta di fondi attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi effettuata per conto della Cassa depositi e prestiti art. 2 comma 1 lett. b) d. lgs. 30 luglio 1999 n. 284) -, abbia natura pubblicistica e, in caso positivo, se l'operatore di Poste Italiane s.p.a. addetto alla vendita e gestione di tali prodotti rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio ex art. 358 cod. pen.” risulta, come detto, di recente rimessa alle Sezioni Unite della Corte con l’ordinanza n. 31605 del 29 maggio 2024.
In attesa della decisione delle Sezioni Unite, pare ragionevole affermare comunque che proprio la correlazione dell’attività bancaria svolta da Poste Spa rispetto a quella della Cassa Depositi e Prestiti, unitamente alla circostanza che quella specifica categoria di prodotti sia presidiata da garanzia dello Stato, porta ad evidenziare a monte una “vocazione pubblicistica in senso oggettivo” dell’attività bancaria svolta da Poste e relativa a questi prodotti.
Si verte, quindi, nel caso di specie di una duplice corrispondenza tra l’attività bancoposta ed il pubblico servizio, trattandosi di attività che da una lato è relativa, anche se in senso ampio, al patrimonio destinato dello stato, dall’altro finalizzata, in senso oggettivo, al finanziamento dello stato, delle regioni, degli enti locali, degli enti pubblici e degli organismi di diritto pubblico, attività che ex se e in senso oggettivo integra un pubblico servizio (anche prescindere dall’utilizzo che gli enti destinatari facciano di queste risorse).
Il regime di tassazione agevolata, l’esenzione dalle imposte di successione e, ultimo ma non per importanza, la strumentalità dell’attività Bancoposta al raggiungimento dell’obiettivo senz’altro di rilievo pubblicistico, di finanziare soggettività di rilievo pubblico, in particolare, concreta quella particolare ipotesi di delimitazione esterna del pubblico servizio che vincola l'operatività dell'agente (se non Poste spa, strumento di collocazione sul mercato di prodotti emessi da Cassa Depositi e Prestiti, direttamente quest’ultima, vincolata ad utilizzare la provvista ricavata per il surriferito finanziamento pubblico) e che costituisce presupposto per l’operatività dell’art. 358 c.p., limitatamente all’attività di collocamento sul mercato dei prodotto emessi da CDP.
6. Ultime riflessioni in tema di coerenza interna del sistema normativo
Posta la non corrispondenza tra i concetti di esercente un pubblico servizio in ambito penale e quello in materia penale, è interessante chiedersi se possano esservi incompatibilità tra norme che disciplinano l’esercizio del servizio pubblico nella declinazione propria del diritto amministrativo e norme che mirano ad individuare condotte sanzionabili penalmente poste in essere dall’esercente ex art. 358 c.p.
Ora, questa distanza tra i due sistemi, astrattamente configurabile ad esempio con riferimento a comportamenti “efficienti” (in ambiti nei quali è ammessa discrezionalità) non pienamente conformi alle previsioni di una norma di rango qualificato, deve pur trovare un momento di applicazione coerente.
In tali casi, se di certo non può giungersi a ritenere lecito per il diritto amministrativo un comportamento meramente predatorio posto in essere dall’esercente un pubblico servizio, potrebbe valutarsi invece lecito il caso in cui l’esercente un pubblico servizio tenga un comportamento diverso da quello previsto dalla norma che disciplina l’attività, senza recare nocumento ( ed anzi recando un vantaggio all’amministrazione): si ponga il caso di scelta non conforme ad un criterio predefinito ma vantaggiosa (e non illecita, posto che l’illiceità costituisce sempre ragione di anno per l’amministrazione).
La giurisprudenza della Corte di Cassazione dimostra come questo potenziale conflitto sia stato già affrontato: il caso che si vuole richiamare è quello risolto (in senso favorevole all’imputato) dalla Corte di legittimità con la sentenza delle sez. 6, n. 25173 del 13/04/2023 Ud. (dep. 09/06/2023) Rv. 284790 – 01). In essa, si afferma tra l’altro , per quanto di interesse in questa sede quale concetto condiviso, che il legale rappresentante di una società a totalitaria partecipazione pubblica, deputata allo svolgimento di attività di pubblico servizio corrispondente a quello affidato all'ente pubblico controllante riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio e che parimenti rivesta la medesima qualità anche il legale rappresentante di una società a responsabilità limitata, interamente controllata da una società "in house", deputata all'espletamento di attività di carattere tecnico che si pongano in rapporto ausiliario e strumentale rispetto ai compiti pubblicistici perseguiti dalla società controllante. Tuttavia, riconosciuta la sussistenza del profilo soggettivo, nel merito la Corte è giunta ad escludere la configurabilità del cd. peculato per distrazione nella condotta di uno degli imputati in ragione di una destinazione da questi impressa a somme di denaro che, sebbene non corrispondente a quella astrattamente prevista, non giungeva comunque ad integrare un fatto appropriativa in senso stretto, in ragione della sussistenza di un interesse pubblico anche alla diversa e non prevista destinazione (ovviamente destinazione non privatistica).
Ecco, quindi, che il sistema già dimostra di essere in grado di porre rimedio a quei potenziali conflitti interni (derivanti dalla diversità tra regole amministrative di efficiente amministrazione e regole penali) valorizzando l’esistenza di un concreto vulnus quale presupposto essenziale per l’operatività della sanzione penale.
Il principio di offensività, unito alla valutazione della sussistenza del dolo quale elemento psicologico che connota i delitti contro la pubblica amministrazione, costituiscono strumenti attraverso i quali risolvere le pur configurabili diversità tra comportamenti doverosi nelle diverse sedi penale e amministrativa. Ovvia la considerazione (finale) che ogni intervento normativo che “riempia” le fattispecie incriminatrici in tema di reati contro la pubblica amministrazione di elementi connotanti (l’intenzionalità del dolo, la sussistenza del danno) costituisce strumento di ausilio per l’interprete nella individuazione del discrimine tra incriminazioni di pura forma ed incriminazioni rispondenti al principio di offensività, oltre a garantire, al contempo, la giusta reazione del sistema rispetto a condotte invece pacificamente meritevoli di rilievo nella sede penale.
[1] Interessante sul punto la recente sentenza della Corte di Cassazione sez 6, n. 33016 del 2024 udienza 11 luglio 2024 in tema di peculato dell’amministratore di sostegno così massimata “ …La ratio sottesa all'art. 360 cod. pen. è volta ad estendere gli effetti della qualifica pubblicistica, anche ad un periodo successivo alla sua cessazione, nella misura in cui sussiste un rapporto di strumentalità tra la qualifica precedentemente ricoperta e il reato commesso, la cui realizzazione deve essere stata possibile proprio sfruttando la pregressa posizione.”
[2] “Art. 1 I Comuni possono assumere, nei modi stabiliti dilla presente legge, l'impianto e l'esercizio diretto dei pubblici servizi, e segnatamente di quelli relativi agli oggetti seguenti: 1° costruzione di acquedotti e fontane e distribuzione di acqua potabile; 2° impianto ed esercizio dell'illuminazione pubblica e privata; 3° costruzione di fognature ed utilizzazione delle materie fertilizzanti; 4° costruzione ed esercizio di tramvie, a trazione animale o meccanica; 5° costruzione ed esercizio di reti telefoniche nel territorio comunale; 6° impianto ed esercizio di farmacie; 7° nettezza pubblica e sgombro di immondizie dalle case; 8° trasporti funebri, anche con diritto di privativa, eccettuati i trasporti dei soci di congregazioni, confraternite ed altre associazioni costituite a tal fine e riconosciute come enti morali; 9° costruzione ed esercizio di molini e di forni normali; 10° costruzione ed esercizio di stabilimenti per la macellazione, anche con diritto di privativa; 11° costruzione ed esercizio di mercati pubblici, anche con diritto di privativa; 12° costruzione ed esercizio di bagni e lavatoi pubblici; 13° fabbrica e vendita del ghiaccio; 14° costruzione ed esercizio di asili notturni; 15° impianto ed esercizio di omnibus, automobili, e di ogni altro simile mezzo, diretto a provvedere alle pubbliche comunicazioni; 16° produzione e distribuzione di forza metrico idraulica ed elettrica e costruzione degl'impianti relativi; 17° pubbliche affissioni, anche con diritto di privativa, eccettuandone sempre i manifesti elettorali e gli atti della pubblica autorità; 18° essicatoi di granturco e relativi depositi; 19°stabilimento e relativa vendita di semenzai e vivai di viti ed altre piante arboree e fruttifere.”
[3] Art. 174
Art. 174 “Nozione”:
1.Il partenariato pubblico-privato è un'operazione economica in cui ricorrono congiuntamente le seguenti caratteristiche: a) tra un ente concedente e uno o più operatori economici privati è instaurato un rapporto contrattuale di lungo periodo per raggiungere un risultato di interesse pubblico;
b) la copertura dei fabbisogni finanziari connessi alla realizzazione del progetto proviene in misura significativa da risorse reperite dalla parte privata, anche in ragione del rischio operativo assunto dalla medesima; c) alla parte privata spetta il compito di realizzare e gestire il progetto, mentre alla parte pubblica quello di definire gli obiettivi e di verificarne l'attuazione;
d) il rischio operativo connesso alla realizzazione dei lavori o alla gestione dei servizi è allocato in capo al soggetto privato.
2. Per ente concedente, ai sensi della lettera a) del comma 1, si intendono le amministrazioni aggiudicatrici e gli enti aggiudicatori di cui all'articolo 1 della direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014.
3. Il partenariato pubblico-privato di tipo contrattuale comprende le figure della concessione, della locazione finanziaria e del contratto di disponibilità, nonché gli altri contratti stipulati dalla pubblica amministrazione con operatori economici privati che abbiano i contenuti di cui al comma 1 e siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela. L'affidamento e l'esecuzione dei relativi contratti sono disciplinati dalle disposizioni di cui ai Titoli II, III e IV della Parte II. Le modalità di allocazione del rischio operativo, la durata del contratto di partenariato pubblico-privato, le modalità di determinazione della soglia e i metodi di calcolo del valore stimato sono disciplinate dagli articoli 177, 178 e 179. 4. Il partenariato pubblico-privato di tipo istituzionale si realizza attraverso la creazione di un ente partecipato congiuntamente dalla parte privata e da quella pubblica ed è disciplinato dal testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, e dalle altre norme speciali di settore. 5. I contratti di partenariato pubblico-privato possono essere stipulati solo da enti concedenti qualificati ai sensi dell'articolo 63.
“Marie Gulpin” di Marco Mantello l’inedito camouflage dell’odio. Recensione di Paola Filippi
In Francia, in un futuro distopico, l’estrema destra è al potere.
È Marie Gulpin che guida il paese, la leader del partito Figli della Patria.
È arrivata al potere cavalcando le paure e le insicurezze dei francesi. Il collante lo ha facilmente rinvenuto nell’odio razziale che ha sapientemente coltivato, insieme a populismo e complottismo.
Tutti i francesi sono con lei, uniti contro i neri, contro gli immigrati e soprattutto contro i musulmani. Nell’immaginario collettivo, manipolato da Gulpin e dai suoi sodali, gli stranieri sono i nemici mortali della Francia, e il popolo francese è saldamente unito nel comune sentimento di rabbia e istinto di prevaricazione contro il diverso.
La leader del partito Figli della Patria – come già è accaduto in altri paesi europei dove i fasciti sono al governo e il sovranismo ha vinto – reintroduce in Francia la pena di morte.
Chi sarà il primo decapitato, dopo l’introduzione della ghigliottina? Sarà Luigi Gulpin, il figlio, appena diciottenne, di Marie? È lui che, con i suoi amici, ha organizzato il poussez le mannequin e gettato Abdel Hakim Hadiudi, un anziano immigrato di origine tunisina, tra le rotaie del metrò? Abdel Hakim Hadiudi meritava di morire?
Il romanzo di Marco Mantello, scrittore e poeta romano che vive tra Parigi e Berlino, autore del romanzo “La rabbia”, finalista al Premio Strega nel 2012, inizia così, con il drammatico poussez le mannequin, e di lì si dipana, almeno apparentemente, secondo gli ordinari schemi del thriller psicologico; nessuno dei personaggi è veramente come appare, la realtà è presentata su diversi piani e differenti angoli visuali.
Immagini carpite da misteriose riprese video, spedite al narratore Cesare Cannelutti, terzo marito di Marie Gulpin, da un mittente anonimo, restituiscono vicende inaspettate e sconvolgenti. Rappresentazioni di vita vissuta che modificano repentinamente i tratti dei personaggi e i loro ruoli. La storia si fa sempre più avvincente.
Marco Mantello, con “Marie Gulpin”, in maniera magistrale, offre al lettore, intrecciandole in un'unica storia, tre diverse narrazioni: quella che si dipana nel thriller; quella che affronta i temi legati all’ascesa dell’estrema destra, al populismo nazionalista, all’ossessione identitaria e antislamica che attraversa l’Europa, quella che descrive, senza veli, la personalità e l’ascesa della leader sovranista.
Il giallo è intrigante: Luigi Gulpin sarà condannato? Ci saranno altri morti? Chi è veramente Davide? Il Soleil Noir esiste? Quale è il ruolo assegnato all’ultimo discendente dei boia, chiamato a rimettere in funzione la Petite Louison?
L’analisi politica dell’ascesa dell’estrema destra è estremante lucida: la paura droga la ragione, l’odio razziale è il nuovo oppio che obnubila il popolo francese.
Il sovranismo, con la proclamazione dell’obiettivo dell’esclusione è il vessillo che rassicura gli animi. La solidarietà è bandita e i diritti fondamentali sono sostituiti dai valori della patria. Ma in cosa consistono i valori della patria? Quali sono questi valori proclamati e da difendere strenuamente? Ebbene, si tratta di valori dei quali si sa solo che sono da difendere; alla loro mera enunciazione corrisponde il vuoto; un vuoto potente perché riesce a cancellare non solo l’egalité – cancellazione scontata per i diversi – ma anche la liberté e la fraternité.
In questo nuovo regime gli showman e i pagliacci diventano, a pieno titolo, uomini politici di successo, nella facile declinazione di una ideologia populista, senza idee, senza rispetto dei diritti fondamentali dei diversi ove solo i francesi possono ridere, essere felici e vivere. I giudici sono sostituiti dai talkshow.
Il processo mediatico delle vittime è formalizzato – diventa Cour d’Assises con il nome di Giudice delle vittime. Secondo la filosofia per cui “il sangue non si nutre di una colpa dei carnefici ma di un sentimento diffuso di colpevolezza attribuito alla vittima” l’immigrato, vittima, diventa imputato. Il sistema penale è particolarmente repressivo con l’introduzione di crimini tipici dei regimi di polizia, la giustizia oltre che mediatica è sommaria. I nuovi crimini sono quelli da strada, mentre, contestualmente, i reati dei colletti bianchi vengono depenalizzati.
La descrizione della Francia è desolante, trapela come scenario di fondo un occidente ripiegato su stesso, chiuso nelle proprie ossessioni, sterile e contaminato da “democrazie identitarie” e “sovranismi”.
Nella descrizione di Mantello – alla fine non così immaginaria – l’Occidente è in pericolo. Non sono i neri, gli immigrati o l’Islam a collocarlo sull’orlo del baratro quanto piuttosto è l’Occidente che è in fase di autoeliminazione; processo iniziato con la drastica sostituzione della politica dell’esclusione alla politica della solidarietà e dell’accoglienza, con la sostituzione dei principi di Jean-Jacques Rousseau con i vacui valori della patria.
In questo nuovo occidente – con la o minuscola – tutto ruota attorno al doppelwirKung, come scrive nella sua tesi Davide Cannelutti, figlio del narratore e amico di Luigi Gulpin, con lui nel poussez le mannequin. La nuova cristianità che anima l’occidente ha sostituito Dio con il culto dell’apparire, del piacere e della ricchezza; in nome di divinità commerciali e ha poi trovato la regola per autoassolversi da ogni delitto. L’odio verso il diverso è giustificato dall’amore verso l’uguale o l’assimilato. L’introduzione della pena di morte è un atto di amore di Gulpin verso la Francia. In nome della sicurezza degli uguali è stata elaborata la distinzione tra costi umani e omicidi. Il terrorismo islamico è omicida mentre l’occidente è innocente per definizione, perché agisce a difesa di sé stesso e, per il resto, i danni sono effetti collaterali, non importa se le vittime sono civili innocenti o addirittura bambini.
L’intento di Marco Mantello è quello di «recuperare la vista» sulle identità collettive e la violenza in Europa, per accendere i riflettori sui «pericoli insiti in una mentalità collettiva che si alimenta in modo ossessivo del terrore prodotto dagli “altri”»[1].
L’occidente descritto da Mantello è un occidente con la “o” minuscola, che non ha fatto i conti con il suo lato oscuro, che non ha preso le distanze da fenomeni politico-culturali come il nazismo e il fascismo.
La terza narrazione che si intreccia nel racconto riguarda nell’intimo Marie Gulpin.
Gulpin si svela come una donna qualunque, solo ben “lanciata”, altro non è che un marchio di successo, il cui slogan è tratto dall’ancestrale paura della morte.
È instabile e psicotica – straordinario il suo rapporto con il boia della Bastiglia, lo gusterà il lettore – ma ciò non altera il rapporto della Gulpin con il suo popolo. È significativo che la leder del partito nazionalista sia una donna. Come ha scritto Marco Mantello «È un qualcosa di altamente manipolativo, perché si usano argomenti condivisi per rendere incontestabile il fine, reazionario, attraverso la condivisione del mezzo, progressista»[2].
Il messaggio è che chiunque, con un buon lancio pubblicitario, può diventare un leader sovranista, un dittatore; tutto inevitabilmente si snoda attorno al pericolo correlato alla desertificazione della cosa pubblica, al disinteresse per il collettivo e all’abbandono della politica.
Il messaggio di Marco Mantello è chiaro: la partecipazione politica va costantemente coltivata per impedire che vengano occupati da uno solo al comando – una sola nel nostro caso – gli spazi che, in uno Stato democratico devono, necessariamente, essere occupati da una pluralità di soggetti.
Le idee vanno coltivate con il confronto; le ideologie non possono essere sostituite dai c.d. valori della patria, concentrati esclusivamente attorno all’identità nazionale, il centro dell’etica della polis è l’essere umano, senza distinzioni riferite a diversità, come recita la Carta fondamentale dei diritti dell’Uomo.
La pochezza di Marie Gulpin, l’assenza di un’ideologia contro la quale confrontarsi, l’inconsistenza dei valori della patria, cuciti con la stessa stoffa del vestito dell’imperatore[3], avvertono che non è poi così difficile che un leader fascista prenda il potere. La ricetta è sempre la stessa fomentare la paura e assicurare sicurezza e protezione.
Il romanzo di Marco Mantello, con questa stupenda descrizione di una surreale Francia fascista, che purtroppo richiama criminalizzazioni, depenalizzazioni, razzismi e nuove diseguaglianze del nostro quotidiano, richiama alla memoria il monito di Primo Levi “È accaduto, quindi può di nuovo accadere”.
“Marie Gulpin” va letto.
Marco Mantello, "Marie Gulpin", Neri Pozza, 2023.
https://www.ibs.it/marie-gulpi...
Inedito camouflage dell’odio è un’espressione tratta dal titolo dell’intervista a Marco Mantello apparsa su il Manifesto il 25.4.2023 https://media.gruppoathesis.it/media/attach/2023/05/il_manifesto.pdf
[1] V. Marco Mantello e l’inedito camouflage dell’odio dal titolo dell’intervista di Guido Caldiron a Marco Mantello apparsa su il Manifesto il 25.4.2023.
[2] V. nota 1.
[3] Il vestito della fiaba danese di Hans Christian Andersen - Keiserens Nye Klæder.
L'immagine è un’installazione dalla serie «Human condition» di Antony Gormley
Applicare i principi fondamentali, rispettando le regole.
Con le sentenze gemelle n. 128 e n. 129 del 16 luglio 2024 continua la revisione costituzionale dei licenziamenti come disciplinati dal Jobs Act
Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Oronzo Mazzotta
V. A. Poso. Continuano gli interventi demolitorio-ricostruttivi della Corte costituzionale sul “contratto a tutele crescenti” (d.lgs. n. 23 del 2105). I più recenti sono le sentenze 16 luglio 2024, n. 128 e n.129.
In estrema sintesi, con la sentenza n. 128 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria attenuata si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore (c.d. repêchage). Mentre con la sentenza n. 129 è stata ritenuta non fondata la questione di legittimità costituzionale della medesima norma, sollevata in riferimento ad un licenziamento disciplinare basato su un fatto contestato per il quale la contrattazione collettiva prevedeva una sanzione conservativa, a condizione che se ne dia un’interpretazione adeguatrice in base alla quale deve essere disposta la tutela reintegratoria attenuata nelle particolari ipotesi in cui la regolamentazione pattizia preveda solo sanzioni conservative.
Tutto inizia con la sentenza n. 194 dell’8 novembre 2018 oggetto – come spesso accade in materie come questa – di letture contrastanti. Tu cosa ne pensi? Il tuo giudizio su questa sentenza costituzionale è positivo?
O. Mazzotta. La sentenza del 2018 è di grande rilevanza perché tocca il nucleo duro dell’intervento legislativo. Si tratta del cuore delle cc.dd. “tutele crescenti”. L’idea che fa da sfondo alla legge si riannoda alla ormai antica prospettiva (se si pensa che risale ai primi anni Ottanta) secondo cui la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro all’interno dell’impresa avrebbe dovuto favorire maggiore occupazione, attraendo gli investitori esteri. Per smentire la fondatezza della prospettiva in questione forse sarebbe sufficiente acquisire che, nonostante il fatto che tali politiche siano state messe in atto da oltre 40 anni, la situazione dell’occupazione non si è molto modificata; anzi in alcuni settori è aumentata la precarizzazione del lavoro.
Più nello specifico la legge intendeva segnalare agli imprenditori due cose: (a) che, dopo il 7 marzo 2015, licenziare un lavoratore sarebbe costato molto meno rispetto al passato e (b) che comunque il costo del licenziamento (tendenzialmente monetizzato) avrebbe potuto essere millimetricamente calcolabile a priori. Infatti, come è noto, le “tutele crescenti” questo sono: lungi dal rappresentare un nuovo modello negoziale (il famoso “contratto a tutele crescenti”) consistono in nient’altro che in una tecnica per determinare l’entità dell’indennizzo dovuto in caso di licenziamento illegittimo, entità che viene ancorata agli anni di servizio. Punto e basta. Il coté nobile di tale presupposto di fondo è quello di assicurare la certezza del diritto, quello un po’ meno nobile risponde al nome di “giustizia predittiva”.
I miei (meno di) venticinque lettori conoscono le obiezioni che ho formulato nei confronti di tale prospettiva.
V. A. Poso. Ce le puoi ripetere?
O. Mazzotta. In primo luogo, tutti i barocchismi sul costo del licenziamento si infrangono contro una constatazione assai banale: un licenziamento legittimo non costa nulla. Ne deriva che tutta l’enfasi politica riposta sulla riforma si riduce in nient’altro che in un espediente per restituire al datore di lavoro un potere di libera recedibilità un po’ (un bel po’ dopo il decreto dignità) più costoso.
In secondo luogo, mi continua a sfuggire la ragione per cui l’imprenditore, quel capitano coraggioso che affronta impavido i mille rischi che il mercato gli propone (dal costo delle materie prime alle insidie della concorrenza) debba poter misurare con il bilancino del farmacista quanto gli costerà un licenziamento illegittimo.
La verità è ovviamente un’altra. La pianificazione del costo del licenziamento è nient’altro che l’altra faccia del timore dell’intervento del giudice in materia, quel timore che il c.d. “collegato lavoro” del 2010 aveva cercato maldestramente di attutire se non di evitare del tutto.
Sennonché la discrezionalità giudiziale (e quindi la conseguente incertezza circa l’esito delle relative liti) è strutturalmente inevitabile perché è lo stesso legislatore che ha affidato il potere di liberarsi dal vincolo obbligatorio di lavoro a delle norme (o clausole) generali, che, al pari della buona fede, della correttezza, della diligenza, etc., sono gli strumenti giuridici meno controllabili a priori. E la ragione è ovvia: è lo stesso legislatore che non potendo risolvere una volta per tutte il conflitto fra le due parti del rapporto di lavoro, ha rinviato la soluzione di tale conflitto ad un’altra autorità, per l’appunto quella giudiziale.
Ecco, dunque, che si ritorna al punto di partenza del discorso, che il legislatore del 2015 ha cercato invano di eludere: il licenziamento è atto irriducibilmente individuale inserendosi all’interno della dinamica di un singolo rapporto di lavoro e la reazione sanzionatoria in termini economici non può essere standardizzata ed applicata a tutte le (diversissime) situazioni che quella dinamica presenta. È questo il messaggio più profondo che ci lancia la Corte costituzionale, che, non a caso, senza intaccare la scelta per l’indennizzo economico, invita a tener conto, nella sua determinazione, di una serie di parametri che restituiscono il senso della individualità e specificità del singolo recesso e che sono poi quelli descritti dall’art. 8 della l. n. 604 del 1966. Per la Corte, infatti, e giustamente, è irragionevole e fonte di diseguaglianze trattare allo stesso modo situazioni profondamente diverse.
In questo senso la Corte è rispettosa dell’insegnamento mengoniano che vuole che il ricorso al “sistema”, per non ricadere nel vizio di arbitrarietà, sia ammissibile solo in presenza di una lacuna dell’ordinamento; che è quanto ha fatto la Consulta evitando di creare nuovi parametri, ma limitandosi ad importare quelli già esistenti in materia di licenziamento.
V. A. Poso Da quanto dici traggo la conclusione secondo cui il “difetto” della disciplina introdotta nel 2015 è originario, se tanti sono stati gli interventi della Corte Costituzionale.
O. Mazzotta. È quanto mi sembra di poter dire, anche rispetto ad altre decisioni altrettanto importanti.
V. A. Poso. Tralasciando la sentenza, non meno importante, n. 150 del 16 luglio 2020, meramente conseguenziale rispetto alla prima, c’è stata, qualche anno dopo, la sentenza 22 febbraio 2024, n. 22 con la quale la Corte Costituzionale (in maniera del tutto condivisibile, secondo me) ha risolto il problema delle nullità – testuali e virtuali – ampliando la platea delle ipotesi alle quali consegue la reintegrazione nel posto di lavoro con integrale risarcimento dei danni.
O. Mazzotta. Sono d’accordo con te. In questo caso direi che la Corte è stata assai rispettosa della volontà del legislatore, essendosi basata sull’evidente eccesso di delega (la legge di delegazione non distingueva infatti fra nullità espresse e nullità virtuali). A mio avviso avrebbe anche potuto ritenere del tutto irragionevole la scelta di limitare la reintegrazione alle sole ipotesi di nullità espressa.
La distinzione fra nullità virtuali ed espresse poggia su basi assai poco solide. Si tratta di una contrapposizione che non costituisce un discrimine negativo, tale da escludere alcune fattispecie, collocabili certamente entro lo spettro della nullità, dalla relativa sanzione. Essa ha la sola funzione di distinguere fra nullità espresse e nullità rimesse alla valutazione del giudice in punto di “violazione di norma imperativa”. In sostanza mentre nel primo caso il compito del giudice è alleggerito dalla circostanza che il legislatore ha sancito la sanzione applicabile alla specie, nel secondo il medesimo legislatore ha rinviato all’interpretazione giudiziale la verifica del carattere imperativo della norma violata. Mai invece si dà che una nullità possa essere considerata in sé e per sé non sanzionabile con gli effetti che le sono propri (la caducazione dell’attività del privato).
In effetti deve valere l’aureo (e permanentemente vigente) principio secondo cui ogni atto di autonomia che si ponga in violazione di norma imperativa è affetto dalla sanzione della nullità ex art. 1418 cod. civ., salvo che non sia diversamente disposto dalla legge. Si ribalta quindi l’idea del legislatore del 2015: non deve la legge prefigurare le conseguenze della nullità in modo “espresso”, ma queste sono ricollegate direttamente dai principi civilistici, salvo che non venga esplicitamente negatatale conseguenza.
Ciononostante – con apprezzabile senso del proprio ruolo – la Corte costituzionale sposa l’idea che il legislatore delegato fosse andato oltre l’incarico conferitogli dal Parlamento delegante, nel momento in cui ha voluto introdurre l’avverbio “espressamente”, laddove nel criterio direttivo della legge di delega manca del tutto la distinzione fra nullità espresse e nullità non sanzionate come tali, con la conseguenza che la reintegrazione deve far capo ad ogni ipotesi di licenziamento riconducibile alla categoria della nullità. E dunque sotto questo profilo non mi pare che si possa rimproverarle nulla.
V. A. Poso Si tratta di capire, a questo punto, come incide questa sentenza nella concreta applicazione dei giudici comuni.
O. Mazzotta. Non mi pare complicato. È la Corte stessa che, nell’ampia motivazione, con pazienza certosina, elenca tutte le ipotesi di nullità del licenziamento, nel gioco combinato di legislazione e (soprattutto) giurisprudenza, fra le quali colloca, fra l’altro, il licenziamento durante il periodo di comporto per malattia; quello per motivo illecito ex art. 1345 cod. civ.; quello ritorsivo sulla base della normativa di cui alla l. 179/2017 (il c.d. whistleblower); quello in violazione del blocco dei licenziamenti disposto durante il periodo del Covid; il licenziamento in violazione dell’art. 4 della l. 146/90 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali; quello in violazione della disciplina degli stupefacenti (art. 124, 1° co. d.p.r. 309/90), etc.
V. A. Poso. Tornando agli aspetti generali, sistematici, mi sembra che passi indenne dalle censure il discrimen temporale dell’assunzione a far data dal 7 marzo 2015.
O. Mazzotta. Il punto è quello meno discutibile. Si tratta di una pacifica applicazione del principio, da sempre invalso nella giurisprudenza della Corte costituzionale (si pensi alla materia pensionistica), secondo cui la diseguaglianza di trattamento va valutata in maniera sincronica e non diacronica. E nel caso il legislatore del d.lgs. 23/2015 ha applicato la disciplina solo ai nuovi assunti, la cui posizione non è comparabile con quella dei lavoratori già in forza al momento dell’entrata in vigore della legge.
V. A. Poso. Torniamo alle ultime due sentenze costituzionali. Prima di tutto la n. 128/2024 che ricompone il requisito dell’ “insussistenza del fatto” cercando di omogeneizzare la disciplina riguardante i licenziamenti economici e quelli disciplinari. È proprio così o ci sono margini di incertezza?
O. Mazzotta. Direi che è proprio così. Il filo conduttore che guida le due importanti decisioni della Consulta è proprio la nozione di “fatto”. Lo scopo è quello di rendere omogenee le discipline riguardanti l’illegittimità del licenziamento per ragioni oggettive e soggettive eliminando le evidenti storture, in termini di lesione del principio di eguaglianza, causate dalla differenziazione di regimi. Alla base del discorso c’è l’idea, cui ho fatto già cenno in precedenza, secondo cui il licenziamento è un fatto traumatico che incide sulla vita del lavoratore e la cui regolamentazione deve di necessità rispettare la dignità del lavoratore colpito da un evento così devastante.
V. A. Poso. In termini generali cosa si intende per “fatto” al fine di potere apprezzare la sussistenza o no dello stesso.
O. Mazzotta. Il “fatto” è nient’altro che la proiezione in termini concreti della descrizione che ne fornisce la legge per giustificare la rottura del vincolo. È una species concreta di una definizione astratta (di qui l’espressione “fattispecie”). Esso va quindi inquadrato entro la definizione normativa per coglierne la rilevanza e legittimare il recesso.
V. A. Poso. Mi sembra evidente che, in base ai criteri generali dell’onere della prova in tema di licenziamento, sia il datore di lavoro, e non il lavoratore, a dover dimostrare la sussistenza del fatto, di un fatto genuino e rilevante, posto a fondamento del recesso per motivi oggettivi.
O. Mazzotta. Sono perfettamente d’accordo; questo è quanto de plano risulta dall’art. 5 della legge n. 604 del 1966.
V. A. Poso. La Corte, però, considera fuori dalla nozione di “fatto” rilevante ai fini della tutela reintegratoria l’obbligo di repêchage la cui violazione da parte del datore di lavoro comporta solo una compensazione indennitaria del danno. Ciò, peraltro, in evidente contrasto con la giurisprudenza della Corte di Cassazione.
O. Mazzotta. Il contrasto è solo apparente. Il primo passaggio argomentativo ruota intorno all’idea della necessaria causalità del recesso datoriale (sostenuta, se fosse necessario, dai riferimenti costituzionali al diritto al lavoro e alla tutela del lavoro in tutte le sue forme). Da questa idea – ripeto: sostenuta dal richiamo a fondamentali principi costituzionali – scaturisce la logica conseguenza, pur nel rispetto della discrezionalità del legislatore, di una “adeguata e sufficiente” dissuasività della sanzione avverso il licenziamento illegittimo.
Messa in questi termini la questione, risulta evidente la discrasia fra giustificazione soggettiva e giustificazione oggettiva in termini di sanzione applicabile al licenziamento illegittimo. Nel primo caso il legislatore del 2015 lascia uno spazio alla tutela reintegratoria in talune situazioni specificamente individuate, nel secondo appiattisce la sanzione, sempre e comunque, al piano meramente indennitario. Ed è qui che si annida il sospetto di incostituzionalità. In sostanza è l’irrilevanza del requisito della “insussistenza del fatto” che risulta contraria ai principi fondamentali, per due assorbenti ragioni. La prima ragione è che, così facendo, si viola proprio l’essenziale presupposto della causalità del recesso. La seconda è che si lascia il datore di lavoro arbitro di qualificare ed etichettare il licenziamento a suo libito (nella gran parte dei casi celando un licenziamento arbitrario dietro la parvenza di una giustificazione oggettiva). Ne deriva che il licenziamento per g.m.o. in cui il fatto sia insussistente (in cui cioè non vi sia una effettiva soppressione del posto e/o manchi del tutto il nesso di causalità con la posizione del lavoratore) è addirittura equiparabile ad un licenziamento pretestuoso e/o discriminatorio.
Ecco, dunque, che l’allargamento della tutela reale al fatto insussistente anche nell’ambito del licenziamento economico si traduce, in termini sostanziali, in una sorta di alleggerimento per il lavoratore dell’onere della prova (sempre complicato) della discriminatorietà e/o pretestuosità.
V. A. Poso. Secondo una prima lettura, se “fatto materiale” è espressione equivalente, nella sostanza, a “fatto (in senso ampio)”, e se quest'ultimo ricomprende, per come affermato ripetutamente dalla giurisprudenza di legittimità, anche il repêchage, non sembra possibile che nell’area del “Jobs Act” la prospettiva possa mutare. Condividi questa opinione?
O. Mazzotta. Mi rendo conto che l’idea che, rispetto alla disciplina del contratto a tutele crescenti, il concetto di “fatto” non inglobi anche il c.d. repêchage può apparire eterodossa rispetto all’opinione espressa dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 125 del 2022, da subito fatta propria dalla giurisprudenza ordinaria, a proposito dell’art. 18 dello statuto. Sennonché nel diverso caso delle tutele crescenti c’era da rispettare la volontà legislativa diretta a valorizzare, in linea di massima, la sanzione indennitaria. Di qui la decisione della Corte di restringere la tutela reale ad ipotesi apparentabili al licenziamento pretestuoso, per lasciare in tutti gli altri casi la tutela indennitaria.
Del resto, che l’obbligo di repêchage costituisca l’anello debole dei requisiti giustificativi del g.m.o. è pacifico. È sufficiente riandare alle perplessità manifestate dal nostro comune Maestro Giuseppe Pera nello storico saggio apparso all’indomani della legge n. 604 del 1966 e che ha costituito la base di tutti i ragionamenti successivi sul tema.
V.A. Poso. Nel dispositivo della sua sentenza la Corte Costituzionale, mutuando la locuzione utilizzata dal Legislatore per i licenziamenti disciplinare, fa riferimento alle “ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro”. Sembrerebbe, questa, una scelta consapevole adottata dai giudici costituzionali che consente di lasciare ogni operazione interpretativa affidata ai giudici comuni.
O. Mazzotta. Sono d’accordo con questa lettura.
V.A. Poso. Ritieni che i principi accolti dalla Corte nella sentenza n. 128/24 possano modificare l’atteggiamento circa l’apparato sanzionatorio previsto dal d.lgs. 23/2015 per i licenziamenti collettivi? Ricorderai che, allo stato, la Consulta ha rigettato i dubbi di legittimità costituzionale con la sentenza n. 7 del 2024.
O. Mazzotta. Non credo proprio che l’atteggiamento della Corte rispetto ai licenziamenti collettivi possa modificarsi. Proprio nella sentenza da te richiamata vi è una lunga motivazione diretta a diversificare strutturalmente le due vicende, se pure accomunate dall’espressione “licenziamenti economici”. L’argomento forte per i giudici della Consulta, al di là dei nominalismi (su cui vi sarebbe molto da discutere, ma non è qui il luogo), è che le due vicende non possono essere parificate non foss’altro perché non l’ordinamento non prevede un controllo di merito sulla sussistenza delle ragioni invocate per la riduzione di personale, ma solo un controllo di natura procedurale. Il che risponde alla ben nota acquisizione secondo cui mentre nel licenziamento individuale il controllo è successivo ed affidato al giudice, nei licenziamenti collettivi il controllo è preventivo ed è affidato alle parti sociali.
Quanto al piano della deterrenza della sanzione economica la Corte, anche nella sentenza n. 7 del 2024 (oltre che in varie altre decisioni), ha ribadito che un indennizzo, che nel massimo attinge a 36 mensilità, è esente da vizi di costituzionalità, perché realizza un «adeguato contemperamento degli interessi in conflitto».
V. A. Poso. Passando all’esame della sentenza n. 129/2024 (particolarmente apprezzabile anche per la completa ricostruzione normativa e giurisprudenziale dei licenziamenti disciplinari) al punto 7.3 (nel richiamare i punti 6 e 7 della sentenza n. 44 del 19 marzo 2024), la Corte ribadisce che lo “scopo” complessivo del legislatore del 2015 è stato quello di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo». Ritieni condivisibile questa affermazione, anche alla luce della applicazione giurisprudenziale e degli sviluppi che si sono verificati nel mercato del lavoro?
O. Mazzotta. In generale rilevo che è vero che nella sentenza n. 129/24 l’atteggiamento della Corte è maggiormente attento alla ratio normativa, nel momento in cui essa richiama lo scopo complessivo del d.lgs. 23/2015 diretto a favorire l’allargamento dell’occupazione.
Se mi chiedi però se tale finalità è legittimamente perseguibile intervenendo in maniera restrittiva sulla tutela contro i licenziamenti arbitrari e/o illegittimi il mio dissenso è abbastanza netto, per ragioni di metodo e di merito.
Sul piano del metodo ritengo che l’allargamento dell’occupazione – come del resto hanno dimostrato i fatti successivi – è legato a fattori che poco o niente hanno a che fare con la disciplina dei licenziamenti. Una disciplina restrittiva delle tutele può solo consentire una riduzione dei costi per l’impresa, ma non c’è alcuna garanzia che a tale riduzione di costi si accompagni un allargamento della base occupazionale. Del resto, la vicenda del licenziamento si inserisce all’interno di un contratto privatistico che deve trovare un punto di equilibrio al proprio interno, un equilibrio che deve tenere in conto le aspettative che le parti individuali ripongo sulla relazione giuridica, aspettative che niente hanno a che fare con problemi occupazionali.
Sotto altro profilo poi – e vengo al merito – la riduzione delle tutele deve comunque trovare un punto di equilibrio fra le posizioni e le aspettative delle parti (si ripete: individuali), rispettoso dei diritti fondamentali cioè del diritto alla libera gestione dell’attività di impresa, da una parte, e della protezione delle aspettative di reddito del lavoratore nonché della sua dignità.
V. A. Poso. Nel merito della motivazione, sono due, a detta della Corte, le innovazioni di assoluto rilievo in tema di licenziamento disciplinare nel regime del Jobs Act: «la qualificazione del fatto come “materiale” e l’espressa esclusione, ai fini della individuazione del fatto rilevante per la selezione della tutela applicabile, del giudizio di proporzionalità con la conseguente eliminazione del riferimento alle previsioni della contrattazione collettiva».
O. Mazzotta. Non attribuirei particolare rilievo alla enfatizzazione del concetto di “materialità” del fatto, dal momento che l’opinione comune ritiene che l’attributo “materiale” nulla toglie e nulla aggiunge al concetto di fatto, come ho detto prima.
Più importante è rilevare che in realtà al centro della discussione c’è il tema della proporzionalità della sanzione, del quale la Corte ribadisce la centralità nella vicenda del licenziamento disciplinare e l’eterodossia di una legge che intenda prescindervi.
Ciò posto però l’intervento ablativo non si spinge fino al punto di eliminare la scelta legislativa ripristinando in pieno il rilievo del principio, ma si assesta su una linea per così dire intermedia.
V. A. Poso. Infatti, nel momento in cui il legislatore considera applicabile la tutela reintegratoria attenuta in caso di “fatto materiale insussistente”, resta del tutto irrilevante, a questi fini, il giudizio di proporzionalità. Scrive la Corte: «Il licenziamento potrà risultare “sproporzionato” rispetto alla condotta e alla colpa del lavoratore – e quindi, sotto questo profilo illegittimo – ma la tutela sarà quella indennitaria del comma 2 dell’art. 3 citato».
O. Mazzotta. Certamente. Sotto questo profilo il giudizio della Corte è ampiamente rispettoso della volontà legislativa.
Vi si discosta soltanto quando l’irragionevolezza della scelta tracima in una violazione dell’art. 39 Cost., ledendo quella autonomia collettiva che, proprio in materia disciplinare, da sempre svolge una funzione essenziale che preesiste alle scelte legislative.
Senza voler ricercare il fondamento teorico di tale scelta nella teoria giugniana dell’ordinamento intersindacale è sufficiente ricordare il contributo di Luigi Montuschi, il massimo studioso del potere disciplinare, che riconosceva all’autonomia collettiva proprio il ruolo di edificatrice della tipicità del potere disciplinare, una tipicità che si afferma anzitutto sul piano sociale per poi rifluire sul piano legislativo.
Va comunque anche ricordato che la Corte, per affermare tale principio, si avvale di uno strumento, almeno formalmente, meno traumatico rispetto ad un intervento ablativo, dal momento che ritiene sufficiente una interpretazione adeguatrice, che guarda proprio al ruolo essenziale dell’autonomia collettiva in materia disciplinare.
La conseguenza più che condivisibile del ragionamento è che se il fatto materiale imputato al lavoratore è per così dire del tutto atipico, cioè non previsto da alcuna fonte come passibile di sanzione conservativa, la tutela (pur in presenza di una sproporzione) sarà solo indennitaria. Ove invece il fatto sia rubricato dalla contrattazione collettiva come suscettibile di sanzione minore, la violazione del principio di proporzionalità comporterà la tutela reale.
V. A. Poso. Ritieni complessivamente che nelle due sentenze del luglio 2024 la Corte Costituzionale abbia scavalcato i compiti interpretativi della Corte di legittimità?
O. Mazzotta. Ho già risposto di volta in volta ai vari profili tematici. Vedrei solo un problema di coordinamento con la giurisprudenza in materia di g.m.o., avendo particolare riferimento al problema del c.d. repêchage, rispetto al quale nella interpretazione dell’art. 18 dello statuto (come novellato nel 2012) la Corte costituzionale e sulla sua scorta il giudice di legittimità, hanno inserito tale elemento nel “fatto” posto a base del licenziamento economico.
Sennonché, nella diversa temperie del contratto a tutele crescenti, si giustifica bene una diversificazione all’interno del concetto di fatto rilevante, dovendosi comunque assegnare un qualche significato all’alternativa fra tutela reale e tutela indennitaria. Sarebbe stata certamente più grave e foriero di ben più aspre polemiche l’appiattimento della protezione sul solo piano della tutela reintegratoria.
V. A. Poso. Più in generale anche con il Jobs Act la Corte Costituzionale, pur affermando, come in altre occasioni, il suo self restraint nei confronti del legislatore, ha però pronunciato un monito invitandolo ad intervenire, pena il successivo intervento costituzionale. Mi riferisco alle sentenze n. 150 del 2020, n. 183 del 2022, n. 7 del 2024, n. 22 del 2024. Come giudichi questa doverosa apertura della Corte Costituzionale?
O. Mazzotta. La giudico così come la giudichi tu stesso, che, non a caso, giustapponi al sostantivo “apertura” l’aggettivo “doverosa”. La Corte che è stata indotta ad intervenire su molti profili problematici posti sia dalla riforma Monti che dalla riforma Renzi, ha portato a compimento un’opera ablativa e (parzialmente) ricostruttiva entro i limiti delle proprie funzioni.
È chiaro che solo il legislatore potrà rimettere mano (e sperabilmente ordine) nell’universo dell’apparato sanzionatorio in materia di licenziamenti. Ovviamente in quest’opera di riedificazione non potrà ignorare i ripetuti moniti della Consulta circa il carattere di necessaria deterrenza che deve rispettare un apparato sanzionatorio per essere indenne da censure di incostituzionalità.
In questo ambito però mi pare che il sentiero per l’ipotetico legislatore non sia così stretto. Dalla giurisprudenza della Corte costituzionale può infatti dedursi agevolmente che, ferma la sicura deterrenza della tutela reale, una tutela indennitaria, così come è risultata corretta dal decreto dignità, sia altrettanto esente da censure.
V. A. Poso. Una battuta finale. La CGIL ha promosso il referendum per l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 4 marzo 2015 (ma anche dell’art. 8 della l. n. 604 del 15 luglio 1966). È questa la soluzione di tutti i problemi?
O. Mazzotta. Credo proprio di no. Si tratta di problemi complessi che non possono essere risolti solo con un tratto di penna. A parte il significato politico che la CGIL annette all’iniziativa, vi potrebbe essere l’arrière-pensée che, ove il referendum passi il vaglio di ammissibilità, magari il legislatore metta mano ad una riforma, come già avvenuto in passato.
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