ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Introduzione - 2. L’evoluzione della disciplina della partecipazione a distanza dell’imputato: l’art. 146 bis disp. att. c.p.p. e il suo ambito di applicazione - 2.1 L’evoluzione storica dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p. - 2.2. La parentesi dovuta al periodo pandemico: l’affermazione del valore del consenso e le basi per le evoluzioni successive - 2.3 La riforma Cartabia e l’attuale formulazione dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p.: il rapporto con i novelli artt. 133 bis e 133 ter c.p.p. - 3. La perdurante vigenza dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p. per gli imputati detenuti e il divieto di partecipazione degli stessi a distanza al di fuori delle ipotesi previste dalla legge o di una espressa manifestazione di consenso - 3.1 Il consenso dell’imputato e del suo difensore come principio generale e l’ipotesi – residuale – del “mancato dissenso”.
1. Introduzione
La quotidiana attività nelle aule di udienza si caratterizza per un continuo viavai di persone: avvocati, magistrati, testi e imputati che si affannano a raggiungere le aule d’udienza, scalpitando in fondo alla stanza impazienti che giunga il loro momento e che il giudice, finalmente, chiami il processo che li interessa.
Lì, dal suo scranno, il giudice dirige l’udienza, scioglie riserve, risponde alle eccezioni e ascolta testi e imputati, controllando dalla sua postazione privilegiata le condotte degli uomini e delle donne in attesa: c’è chi sonnacchia; chi si mostra impaziente perché spinto dalla necessità di tornare alle proprie ordinarie incombenze; chi bisbiglia con il vicino ma, a causa della scarsa abitudine a tenere bassa la voce, crea più trambusto di chi fuori dall’aula parla serenamente; chi appare evidentemente scocciato; chi ascolta interessato, magari sentendosi finalmente parte del “pubblico della Giustizia” che ha spesso visto in molti talkshow in tv.
Un sistema, insomma, fondato sulla pubblicità dell’udienza e su un controllo diffuso sull’amministrazione della Giustizia, baluardo della democrazia che costituisce un primo assaggio del principio “la legge è uguale per tutti”: tutti aspettano, tutti insieme, senza nessuna distinzione, giovani e anziani, uomini e donne, ricchi e poveri.
Sul quadro appena rappresentato, però, è destinata ad incidere la tecnologia e, soprattutto, la possibilità di comunicare a distanza.
E così, nel corso della pandemia che ha interessato il mondo intero, sono stati implementati gli strumenti di partecipazione a distanza, con previsioni ad hoc che hanno consentito la celebrazione delle udienze da remoto, snellendo le forme in vista della garanzia della salute e della vita dei soggetti coinvolti nei processi: d’altra parte, la Giustizia non si è mai fermata, nemmeno dinanzi alle bombe e alla guerra, e ha mantenuto alto il suo onore reinventandosi per fronteggiare la crisi sanitaria senza con ciò impedire la celebrazione dei processi.
Terminata la fase emergenziale, però, la normativa che ha caratterizzato quel peculiare momento storico è venuta meno e si è registrata una nuova espansione delle forme: si è, così, tornati a celebrare il processo in presenza, nelle aule a ciò dedicate, con la partecipazione delle parti e dei testi in aula.
Ma il presente non può che trarre ispirazione dal passato e, così, la cd. Riforma Cartabia ha cercato di valorizzare le esperienze acquisite in ambito tecnologico durante la pandemia e ha introdotto nel Codice di procedura penale gli artt. 133 bis e 133 ter c.p.p.: opzione che, però, non ha determinato l’abrogazione dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p.
2. L’evoluzione della disciplina della partecipazione a distanza dell’imputato: l’art. 146 bis disp. att. c.p.p. e il suo ambito di applicazione
2.1 L’evoluzione storica dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p.
L’art. 146 bis disp. att. c.p.p. ha una storia antica, essendo stato inserito nel nostro ordinamento con la legge n. 11 del 7 gennaio 1998.
Nella sua versione originaria tale disposizione prevedeva la possibilità del giudice di disporre la partecipazione a distanza dell’imputato solo nel caso in cui si procedesse per taluno dei gravi reati di cui all’art. 51, comma 3, c.p.p. e – al contempo - solo in presenza di una delle seguenti motivazioni: gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico; dibattimento complesso e contestuale necessità di evitare ritardi; detenuto sottoposto al regime penitenziario di cui all’art. 41 bis.
In presenza di tali presupposti, allora, il Legislatore ha concesso di procedere a distanza, con la predisposizione di un sistema di videocollegamento che permettesse contestuali ascolto e visione tra tutte le parti e la possibilità per l’imputato di colloquiare riservatamente con il proprio Difensore: alla rigida alternativa tra partecipare o non partecipare, quindi, all’imputato è stata offerta la terza via della partecipazione a distanza, con una limitata ma costituzionalmente garantita compressione del suo diritto di difesa, come statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 342 del 22 luglio 1999 in presenza dei presidi posti dall’art. 146 bis citato.
Analogamente, poi, il Legislatore ha introdotto nel corpo delle disposizioni di attuazione al Codice di rito anche l’art. 40 bis, prevedendo la possibilità del videocollegamento anche nel caso di giudizi celebrati in camera di consiglio, richiamando l’art. 146 bis del medesimo corpo normativo per l’individuazione delle ipotesi nelle quali era consentito il videocollegamento e per le modalità di gestione dello stesso.
Con successiva modifica apportata con il decreto legge n. 341 del 24 novembre 2000, convertito nella legge n. 4 del 19 gennaio 2001, è stato generalizzato il ricorso al videocollegamento nel caso di imputato sottoposto al regime penitenziario di cui all’art. 41 bis, prevedendo in tale ipotesi che il giudice dovesse disporre la trattazione dell’udienza a distanza indipendentemente dalla ricorrenza della condizione posta dal comma 1 dell’art. 146 bis, ovvero a prescindere dal fatto il processo avesse ad oggetto i reati di cui all’art. 51, comma 3, c.p.p.[1].
La partecipazione a distanza dell’imputato, quindi, è diventata: obbligatoria nel caso di soggetto sottoposto al regime di cui all’art. 41 bis ord. pen.; a discrezione del giudice ma con obbligo di motivazione nei casi di soggetto imputato per uno dei reati di cui all’art. 51, comma 3, c.p.p., purché in presenza anche di gravi ragioni di sicurezza o ordine pubblico ovvero di un dibattimento complesso e necessità di evitare ritardi.
L’inevitabile evoluzione tecnologica ha, però, permesso gradualmente al Legislatore di osare, ampliando le ipotesi di partecipazione a distanza dell’imputato con la novella operata dal decreto legge n. 374 del 18 ottobre 2001, per come convertito nella legge n. 438 del 15 dicembre 2001: è stato, in particolare, esteso il novero dei reati per i quali il giudice poteva disporre il videocollegamento, affiancando a quelli di cui all’art. 51, comma 3, c.p.p. anche quelli di cui all’art. 407 comma 2, lettera a), n. 4 c.p.p., ovviamente purché ricorressero anche le ulteriori condizioni previste dal comma 1 dell’art. 146 bis, ovvero la sussistenza di gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico ovvero di un dibattimento complesso e della contestuale necessità di evitare ritardi, fermo restando il generale impiego del sistema a distanza in caso di imputati sottoposti al regime penitenziario del 41 bis.
A fronte di una disposizione storicamente riservata alla partecipazione a distanza dell’imputato[2], poi, una prima apertura verso analoghe forme di impiego del videocollegamento per l’acquisizione delle testimonianze si è registrata con il decreto legge n. 211 del 22 dicembre 2011, per come convertito nella legge n. 9 del 17 febbraio 2012, che nel modificare il comma 1 bis dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p. ha previsto l’acquisizione a distanza della deposizione resa dal testimone in stato di detenzione, salvo diversa decisione del giudice.
La prima vera riscrittura della norma in esame si è, però, registrata con la legge n. 103 del 23 giugno 2017 (cd. Riforma Orlando, dal nome dell’allora Guardasigilli), che ha generalizzato la partecipazione a distanza degli imputati di reati rientranti nel novero dell’art. 51, comma 3 bis, e dell’art. 407, comma 2 lettera a) numero 4), c.p.p., per i quali è stato previsto sempre il videocollegamento per tutte le udienze nelle quali sono imputati e per quelle penali e civili nelle quali devono essere escussi in qualità di testimoni; analoga previsione generalizzata è stata prevista al comma 1 bis per la persona imputata che sia ammessa a programmi o misure di protezione, comprese quelle di tipo urgente o provvisorio: il radicale cambio di rotta è stato, poi, cristallizzato dal novello comma 1 ter, che ha previsto come eccezionale la possibilità per il giudice di disporre che i soggetti indicati partecipino in presenza, con obbligo di motivazione e, comunque, con esclusione dei soggetti sottoposti al regime del 41 bis ord. pen., per i quali resta l’obbligo di partecipazione a distanza.
Nell’ottica di valorizzare al massimo i progressi tecnologici nel campo delle comunicazioni ed estendere, quindi, l’ambito della partecipazione a distanza – con conseguente contenimento dei costi per l’Amministrazione penitenziaria e riduzione dei rischi di evasione -, poi, è stato inserito un nuovo comma 1 quater, che ha affidato al giudice la possibilità di disporre con decreto motivato la partecipazione a distanza dell’imputato in caso di ragioni di sicurezza o di dibattimento di particolare complessità per il quale occorre evitare ritardi. In altre parole, le condizioni che in precedenza erano poste come necessarie per disporre il videocollegamento in presenza di reati rientranti nel novero dell’art. 51, comma 3, c.p.p. o dell’art. 407, comma 2 lett. a num. 4, c.p.p., dopo la riforma del 2017 sono divenute idonee a giustificare la partecipazione a distanza in presenza di qualsivoglia titolo di reato, con la conseguenza che il videocollegamento è divenuto:
- la regola in presenza di:
* procedimenti per i reati previsti dall’art. 51, comma 3, c.p.p. o dall’art. 407, comma 2 lett. a num. 4, c.p.p., salvo diversa decisione del giudice, che deve motivare sul punto;
* imputato ammesso a programmi o misure di protezione, comprese quelle di tipo urgente o provvisorio, salvo diversa decisione del giudice, che deve motivare sul punto;
* imputati sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis della legge n. 354 del 26 luglio 1975, nel quale caso la partecipazione a distanza è obbligatoria;
- rimesso all’apprezzamento motivato del Giudice in presenza di:
* ragioni di sicurezza, con la precisazione che la nuova previsione ha ulteriormente ridotto l’onere motivazionale del giudice, escludendo la necessità di “gravi ragioni di sicurezza” in favore delle più blande “ragioni di sicurezza”;
* dibattimento di particolare complessità per il quale occorre evitare ritardi;
* assunzione di testimonianza di soggetto a qualsiasi titolo detenuto.
2.2. La parentesi dovuta al periodo pandemico: l’affermazione del valore del consenso e le basi per le evoluzioni successive
Come più volte evidenziato, il Legislatore ha lentamente ampliato il novero delle ipotesi di ricorso al videocollegamento, gradualmente riconoscendo sempre maggiori margini di discrezionalità al giudice nel disporre la partecipazione a distanza dell’imputato – e del testimone, ove detenuto – e addirittura ponendo come regola generale il videocollegamento in altri casi.
Ciò, tuttavia, non ha inciso sulle forme dell’udienza, che per il resto ha continuato a svolgersi nell’aula fisica, con la partecipazione degli operatori del diritto e di tutti gli altri attori del processo per i quali il videocollegamento non era consentito.
Tale meccanismo si è, però, scontrato con l’emergenza pandemica affrontata a partire dal 2020: dinanzi al dilagare di una malattia apparentemente incontrollabile, a fronte di uomini, donne e bambini che morivano ogni giorno a causa di un morbo che si diffondeva con modalità inizialmente sconosciute, ci si è trovati costretti a sospendere a tutti i livelli una delle caratteristiche che ha da sempre connotato l’uomo nel corso della sua evoluzione, ovvero quella socialità che proprio nell’aula d’udienza – come nell’Agorà millenni prima – si manifestava in tutto il suo splendore.
In questo senso, la Giustizia penale non si è potuta esimere dal confrontarsi con le nuove esigenze derivanti dalla pandemia e dalla necessità di coniugare la tutela della salute pubblica con il principio della pubblicità dell’udienza e il diritto dell’imputato di partecipare alla stessa.
L’equilibrio è stato trovato grazie all’art. 221, comma 9, del decreto legge n. 34 del 19 maggio 2020 per come convertito nella legge n. 77 del 17 luglio 2020, che, “fermo restando quanto previsto dagli articoli 146 bis e 147 bis delle norme di attuazione” ha generalizzato la partecipazione a distanza degli imputati detenuti (anche per altra causa) in presenza del consenso degli stessi: una rivoluzione quasi involontaria, dettata dall’esigenza del momento e che, però, ha per la prima volta posto nuovamente l’imputato al centro del processo, affidandogli la possibilità di decidere se avvalersi o meno della partecipazione da remoto indipendentemente da rigidi schemi legislativi e in assenza di ragioni ostative che il giudice avrebbe dovuto, di volta in volta, motivare per imporgli la presenza fisica.
2.3 La riforma Cartabia e l’attuale formulazione dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p.: il rapporto con i novelli artt. 133 bis e 133 ter c.p.p.
Finalmente superato il buio periodo della pandemia, le normative emergenziali sono venute meno e hanno ripreso ad operare le previsioni antecedenti, per come delineate in seguito alla cd. Riforma Orlando. D’altra parte, sebbene sin dal 1999 la Corte costituzionale abbia affermato la compatibilità della partecipazione a distanza per come concepita dal Legislatore italiano con il diritto di difesa[3], è innegabile che l’assenza fisica dell’imputato dall’aula d’udienza rende certamente più difficoltoso l’esercizio del diritto di difesa sotto il profilo della partecipazione al contraddittorio: il confronto con il Difensore, infatti, risulta innegabilmente più macchinoso se effettuato per il tramite di uno strumento ad hoc – solitamente il telefono -, che impedisce quel rapporto dialogico continuo e diretto che si instaura tra l’Avvocato e il suo assistito durante l’acquisizione delle prove dichiarative, con possibilità per l’imputato di sottoporgli con facilità temi utili per il controesame.
E così, nella consapevolezza di tali limiti ma sulla scia dei risultati – non sempre brillanti, in realtà, a causa delle scarse forniture degli Uffici giudiziari e, in particolare, di reti lente e dispositivi informatici obsoleti – ottenuti, il Legislatore ha deciso di spingersi oltre nel processo di “remotizzazione” dell’udienza, giungendo alla riforma realizzata con il decreto legislativo n. 150 del 10 ottobre 2022, definita per comodità “Riforma Cartabia” dal nome dell’allora Ministro della Giustizia.
La novella ha, innanzitutto, inserito nel corpo del Codice di procedura penale un apposito Titolo II bis rubricato “Partecipazione a distanza”, composto da due articoli ovvero:
- l’art. 133 bis che recita “salvo che sia diversamente previsto, quando l'autorità giudiziaria dispone che un atto sia compiuto a distanza o che una o più parti possano partecipare a distanza al compimento di un atto o alla celebrazione di un'udienza si osservano le disposizioni di cui all'articolo 133 ter”;
- l’art. 133 ter rubricato “Modalità e garanzie della partecipazione a distanza”, che per l’appunto individua le modalità tramite le quali realizzare la partecipazione a distanza, recependo le previsioni prima dettate dall’art. 146 bis disp. att. c.p.p. ai commi 2, 3, 4, 5 e 6.
Orbene, la lettura dell’art. 133 ter c.p.p. permette di cogliere la chiara intenzione del Legislatore riformatore di snellire le forme, con esclusione di modalità predefinite di partecipazione a distanza delle parti e dei testimoni: ed infatti, sebbene sia imprescindibile garantire forme di videocollegamento che permettano la reciproca e contestuale visione tra tutti i soggetti coinvolti[4], la norma prevede in generale che il collegamento dei soggetti che partecipano a distanza avvenga da sedi istituzionali (da altro ufficio giudiziario o da un ufficio di polizia giudiziaria ex comma 4, dal luogo di restrizione ai sensi del comma 5 per i soggetti detenuti), ma ammette al comma 6 che l’Autorità giudiziaria, sentite le parti, autorizzi il compimento dell’atto in luogo diverso (previsione che, ovviamente, non trova applicazione per i detenuti).
Sotto il profilo dello strumento da impiegare per garantire il videocollegamento, poi, la nuova previsione normativa non impone alcun limite, proprio per garantire l’adattamento della disposizione agli imprevedibili progressi della tecnologia sul punto. Si è avuta, così, la possibilità di sfruttare un nuovo strumento che proprio in periodo pandemico ha trovato grande diffusione, ovvero il software Microsoft Teams fornito dal Ministero, sistema che si affianca alla classica videoconferenza gestita dalla Cabina di regia di Roma e ai quali, astrattamente, può aggiungersi qualsiasi ulteriore software che l’Autorità giudiziaria deciderà di autorizzare caso per caso, laddove ciò discenda da un’esigenza contingente[5].
3. La perdurante vigenza dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p. per gli imputati detenuti e il divieto di partecipazione degli stessi a distanza al di fuori delle ipotesi previste dalla legge o di una espressa manifestazione di consenso
In chiusura del precedente paragrafo è stata, quindi, operata una distinzione tra videoconferenza e altre forme di partecipazione a distanza dell’imputato, fermo restando che le ipotesi nelle quali è ammesso il collegamento a distanza dell’imputato restano fissate dall’art. 146 bis disp. att. c.p.p. (oltre che da specifiche previsioni di legge, come si evidenzierà nel prosieguo), rimasto inalterato rispetto a quanto previsto dalla Riforma Orlando con riferimento ai casi nei quali la partecipazione a distanza dell’imputato è la regola[6] o è rimessa al prudente apprezzamento del giudice[7] (si veda, sul punto, la riproduzione schematica riportata in chiusura del paragrafo 2.1).
Ed infatti, con l’introduzione dell’art. 133 ter c.p.p. il decreto legislativo n. 150 del 2022 ha disposto l’abrogazione dei commi 2, 3, 4, 5 e 6 (oltre che la modifica del comma 4 bis) dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p., rimettendo all’art. 133 ter c.p.p. l’unitaria individuazione delle modalità di partecipazione a distanza alle udienze.
Proprio sul punto occorre, allora, cercare di essere più precisi possibili, anche alla luce dell’interpretazione “suggerita” da molti istituti penitenziari in favore della partecipazione a distanza degli imputati detenuti, nascente da una lettura – erronea - degli artt. 133 bis e 133 ter c.p.p. che sono stati intesi come la chiave di volta per escludere la necessità della partecipazione fisica degli imputati in udienza, in evidente contrasto con la littera legis e con l’interpretazione sistematica delle norme che ci si appresta ad offrire.
Sebbene sia assolutamente comprensibile l’esigenza di contenimento dei costi delle traduzioni e dei rischi connessi - soprattutto quando occorre tradurre imputati da istituti siti a grande distanza dall’Ufficio giudiziario, magari per attività che richiedono un apporto davvero marginale del detenuto -, non bisogna dimenticare che le esigenze organizzative o economiche non possono scontrarsi con il diritto fondamentale di difesa dell’imputato, della cui vita si discute ad ogni udienza e che deve essere posto nella condizione di guardare negli occhi chi lo accusa e chi lo giudica, di colloquiare con facilità con il proprio difensore, di assistere anche a ciò che si verifica nell’aula al di fuori dello spazio di ripresa della telecamera: tutte queste esigenze vengono inevitabilmente compresse nel caso di una partecipazione a distanza e ciò è giustificabile solo nei limitati casi previsti dall’art. 146 bis disp. att. c.p.p. o da altre specifiche disposizioni di legge e non a tutela di interessi economici o meramente organizzativi dello Stato.
D’altra parte, se l’art. 133 ter c.p.p. disciplina le modalità tramite le quali garantire la partecipazione a distanza di parti e testimoni, l’art. 133 bis c.p.p. rimette all’Autorità giudiziaria il compito di stabilire quando tale modalità di presenza surrogata in udienza è consentita, imponendo un esame congiunto delle ipotesi normativamente previste di partecipazione a distanza.
E così, per esempio, la partecipazione a distanza dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici e degli imputati di reato connesso può avvenire a distanza ai sensi dell’art. 496, comma 2 bis, c.p.p. con il “consenso delle parti”.
Orbene, appare evidente che l’ambito applicativo d’elezione della partecipazione a distanza sia proprio quello dell’assunzione delle prove dichiarative: fermo restando, infatti, il diritto dell’imputato ad essere presente in udienza accanto al suo difensore, il mezzo di prova può agevolmente essere acquisito mediante un videocollegamento, con una deroga minima alla contestuale presenza di tutti i soggetti in aula, visto che comunque il teste è solitamente presente in un ufficio di P.G. (il che garantisce la genuinità dell’assunzione della prova, evitando che dietro la telecamera possa esservi qualcuno che suggerisce delle risposte al teste o che, per esempio, lo minacci o lo condizioni) e viene inquadrato e ascoltato in maniera continua, con possibilità di cogliere ogni suo movimento e, quindi, anche il linguaggio non verbale e il suo contegno.
Se, quindi, è sempre all’art. 133 ter c.p.p. che occorre rinviare per individuare le modalità del videocollegamento, la possibilità o meno di procedere a distanza non trova il suo fondamento negli artt. 133 bis e 133 ter c.p.p., ma nell’art. 496 c.p.p., che ha richiesto l’acquisizione del consenso delle parti al videocollegamento, a riprova dell’assenza di un potere generalizzato del giudice di disporre il compimento di atti a distanza: analoga previsione è stata inserita nell’art. 422, comma 2, c.p.p. con riferimento agli approfondimenti istruttori compiuti in sede di udienza preliminare e di procedimento che si svolge nelle forme del rito abbreviato (alla luce del rinvio operato dall’art. 441 c.p.p. alle norme di cui agli artt. 422 e 423 c.p.p.).
Se, quindi, vengono poste queste importanti limitazioni rispetto all’acquisizione a distanza della prova dichiarativa, a maggior ragione non è possibile ipotizzare una generale possibilità di partecipazione a distanza dell’imputato, ipotesi che certamente comprime in maniera più significativa il diritto di difesa come si è più volte ribadito.
E così, con riferimento alle udienze camerali il Legislatore ha coniugato l’utilità della partecipazione a distanza con le peculiarità di tale forma di gestione del contraddittorio, che prevede la partecipazione facoltativa dell’imputato: in tal senso, laddove l’imputato sia detenuto fuori dalla circoscrizione del giudice e chieda di essere sentito, si provvederà mediante videocollegamento se vi consente o “nei casi particolarmente previsti dalla legge”, ovvero in quelle ipotesi nelle quali il Giudice può procedere a distanza a prescindere dal consenso dell’avente diritto, da individuarsi nella casistica delineata dall’art. 146 bis disp. att. c.p.p.
Tale interpretazione risulta, d’altra parte, suffragata dalla lettura dell’art. 40 bis disp. att. c.p.p., che nel disciplinare le ipotesi di partecipazione a distanza nei procedimenti in camera di consiglio prevede espressamente che “La partecipazione dell'imputato o del condannato all'udienza procedimento in camera di consiglio avviene a distanza nei casi e secondo quanto previsto dall'articolo 146 bis, commi 1, 1-bis, 1-ter e 1-quater”: ne consegue che fuori da tali ultime ipotesi, o vi è il consenso dell’imputato o il videocollegamento non è consentito e l’imputato sarà sentito dal Magistrato di sorveglianza competente sul luogo nel quale è detenuto.
Analogo schema è stato, poi, previsto dal Legislatore per le udienze in camera di consiglio svolte nell’ambito dei procedimenti di esecuzione disciplinati dagli art. 666 e ss. c.p.p., il cui comma 4 prevede che se l’interessato è detenuto e vuole essere sentito, parteciperà a distanza se presta il consenso o “quando una particolare disposizione di legge lo prevede”, diversamente venendo ricevute le sue dichiarazioni dal Magistrato di sorveglianza competente sul luogo di detenzione.
Tale schema risulta rivisto con riferimento ad una particolare ipotesi di udienza camerale che è quella di convalida del fermo o dell’arresto, caratterizzata dalla partecipazione necessaria dell’arrestato/fermato e del suo difensore.
Con riferimento a tale udienza, infatti, all’art. 391, comma 1, c.p.p. è stato previsto che “quando l'arrestato, il fermato o il difensore ne fanno richiesta il giudice può autorizzarli a partecipare a distanza”: ne consegue che anche tale udienza può essere celebrata a distanza secondo le modalità di cui all’art. 133 ter c.p.p., ma il presupposto è che vi sia la richiesta – o il consenso, evidentemente – a tale remotizzazione da parte dell’indagato/imputato e del difensore o che si verta “nei casi particolarmente previsti dalla legge” di cui alla previsione generale posta dall’art. 127 c.p.p., ovvero le ipotesi disciplinate dall’art. 146 bis disp. att. c.p.p.
Vertendosi sempre in materia di procedimenti volti a vagliare la restrizione della libertà personale dell’imputato, il sistema appena delineato è stato riprodotto fedelmente anche dall’art. 294, comma 4, c.p.p. in relazione all’interrogatorio di garanzia, che può svolgersi a distanza laddove “la persona sottoposta a misura cautelare e il difensore ne facciano richiesta”: ancora una volta, quindi, viene ribadita l’assoluta necessità di un consenso (ovviamente anche sotto forma di richiesta) per la celebrazione a distanza dell’udienza, sempre facendo salve le ipotesi di cui all’art. 146 bis disp. att. c.p.p.
Il consenso costituisce, infine, il presupposto previsto dal Legislatore per lo svolgimento di ulteriori attività a distanza, quali:
- l’acquisizione di sommarie informazioni dall’indagato a cura della P.G. (art. 350, comma 4 bis, c.p.p.);
- la partecipazione di indagato, persona offesa, difensori e consulenti tecnici al conferimento dell’incarico in sede di accertamenti tecnici irripetibili (art. 360, comma 3 bis, c.p.p.);
- l’interrogatorio dell’indagato, anche svolto dalla P.G. su delega del P.M. (art. 370, comma 1 bis c.p.p.);
- l’interrogatorio dell’imputato nel procedimento di estradizione, che può essere effettuato a distanza dal Procuratore generale nei casi previsti dalla legge ovvero nei casi in cui l’interessato e il suo difensore ne facciano richiesta (art. 703, comma 2, c.p.p.);
- l’interrogatorio dell’arrestato nel procedimento di estradizione, che può essere effettuato a distanza dal Presidente della Corte d’Appello nei casi previsti dalla legge ovvero nei casi in cui l’interessato e il suo difensore ne facciano richiesta (art. 717, comma 2, c.p.p.).
3.1 Il consenso dell’imputato e del suo difensore come principio generale e l’ipotesi – residuale – del “mancato dissenso”
Alla luce delle considerazioni espresse, appare evidente che l’introduzione degli artt. 133 bis e 133 ter c.p.p. non consente un generalizzato ricorso alla partecipazione a distanza dell’imputato, ma ha semplicemente determinato l’introduzione nel Codice di rito delle modalità tramite le quali procedere al videocollegamento (dettate dall’art. 133 ter c.p.p.) nei casi in cui lo stesso è consentito, che risultano sempre disciplinati unicamente dall’art. 146 bis disp. att. c.p.p. e dalle altre disposizioni puntualmente enucleate dal Legislatore.
Il riferimento che il comma 5 dell’art. 133 ter c.p.p. opera ai detenuti o internati, pertanto, non incide sulle ipotesi nelle quali è possibile procedere al videocollegamento, ma solo sulle modalità di escussione di tali soggetti nei casi – previsti da altre norme – nei quali è possibile sentirli o farli partecipare a distanza. D’altra parte, il citato comma 5 prevede solo che il detenuto, anziché partecipare all’atto o all’udienza da un ufficio giudiziario o da un ufficio di P.G., lo faccia dal luogo in cui si trova recluso, ponendo un’esplicitazione logica e forse superflua, ma pur sempre contenuta in un articolo – il 133 ter, per l’appunto – che disciplina solo le “Modalità e garanzie della partecipazione a distanza”, come precisato nella rubrica della disposizione.
Al di fuori dei casi tracciati dall’art. 146 bis disp. att. c.p.p. – richiamati da molte delle disposizioni sopra evidenziate -, poi, una lettura sistematica delle norme del Codice di rito permette di ricavare il principio generale della possibilità di procedere a distanza in caso di consenso espresso congiuntamente dall’imputato e dal suo Difensore, in linea con quanto previsto dall’art. 1, comma 8 lett. c), della legge delega n. 134 del 27 settembre 2021[8], che ha costituito il fondamento della cd. Riforma Cartabia.
In realtà, tale eventualità è stata espressamente prevista solo per l’interrogatorio di garanzia, l’udienza di convalida, il procedimento in camera di consiglio, alcuni specifici atti di indagine - come l’acquisizione di sommarie informazioni dall’indagato e il conferimento dell’incarico in caso di accertamenti tecnici irripetibili – e i procedimenti di estradizione, ma risponde ad una logica che è possibile ricavare dai principi generali che ispirano il nostro ordinamento e, in via sussidiaria, dai principi generali in tema di nullità.
E così, nel caso in cui ci sia un’espressa richiesta (o il consenso) dell’imputato e del suo difensore alla celebrazione a distanza dell’udienza, appare irragionevole pensare che il Giudice debba disporre comunque la partecipazione in presenza contro il volere dei soggetti interessati.
Può, per esempio, accadere che l’imputato (sia libero che detenuto) risieda lontano dall’Ufficio giudiziario e che per ragioni lavorative, di salute, familiari o economiche (queste ultime rilevanti solo in caso di soggetto non detenuto) non voglia sottoporsi a lunghi viaggi e, cionondimeno, desideri partecipare a distanza alle udienze. Imporre comunque la partecipazione in presenza significherebbe porre l’imputato dinanzi all’alternativa secca tra prendere fisicamente parte all’udienza o non parteciparvi, negando la possibilità di una partecipazione da remoto che il Giudice deve motivare (per esempio, per assenza di strumentazione idonea) e che, ove non adeguatamente supportata, potrebbe anche determinare una nullità relativa di ordine generale per aver ostacolato l’intervento dell’imputato in udienza.
A parere di chi scrive, quindi, la partecipazione a distanza all’udienza da parte dell’imputato che lo richiede o che esprime il consenso a tale modalità non determina certamente un atto nullo né irregolare ma, anzi, costituisce tutela del diritto dell’imputato a scegliere le modalità di partecipazione più consone alle proprie esigenze, ove non contrastanti con specifiche contrapposte esigenze della Giustizia, che dovranno essere puntualmente esplicitate dal giudice.
Occorre, invece, soffermarsi sulle conseguenze di un’udienza celebrata a distanza in assenza di un consenso dell’imputato - purché non sia stato espresso un dissenso, si badi -, che sul punto non è stato interpellato dall’Autorità giudiziaria né ha chiesto espressamente il videocollegamento.
Orbene, in tale ipotesi si ritiene configurabile esclusivamente un’irregolarità dell’atto, al più rilevante sotto il profilo disciplinare nei confronti del giudice.
Ed infatti, sebbene le norme che regolano l’intervento dell’imputato in udienza rientrino tra quelle la cui violazione determina una nullità ai sensi dell’art. 178 lett. c) c.p.p., la partecipazione a distanza dell’imputato all’udienza non lede il suo diritto ad intervenire nel processo, purché siano garantite quelle modalità oggi poste dall’art. 133 ter c.p.p. e che sin dal 1999 la Corte costituzionale ha dichiarato idonee a tutelare il diritto di difesa.
Anche laddove si concludesse, però, per una violazione rientrante tra le nullità di ordine generale di cui all’art. 178, lett. c), c.p.p. perché attinenti all’intervento dell’imputato in udienza, il caso in esame dovrebbe certamente ricondursi nel novero delle nullità relative, non trattandosi di una delle ipotesi di omessa citazione dell’imputato previste dall’art. 179 c.p.p.: ne consegue che la presenza dell’imputato in videocollegamento determinerebbe comunque la sanatoria della nullità ai sensi dell’art. 182, comma 2, c.p.p., laddove il primo partecipi all’udienza e nulla eccepisca.
Si tratterebbe, in definitiva, di una celebrazione a distanza dell’udienza fondata su un “mancato dissenso” da parte dell’imputato e del suo difensore, non in grado di incidere sulla validità degli atti compiuti ma potenzialmente rilevante sul piano disciplinare.
In definitiva, la riforma operata con il decreto legislativo n. 150 del 2022 si inscrive armonicamente nel percorso di evoluzione del nostro ordinamento con riferimento alla materia della partecipazione a distanza all’udienza, prendendo spunto e stimolo dai risultati raggiunti in periodo pandemico ma senza perdere di vista la generale necessità di garantire la partecipazione dell’imputato all’udienza, nella consapevolezza che forme surrogate alla presenza fisica dell’interessato, per quanto comode e vantaggiose sotto il profilo organizzativo ed economico per lo Stato, costituiscono pur sempre una compressione del diritto al contraddittorio dell’imputato, ammissibile solo in presenza del suo consenso o di specifiche ipotesi predeterminate dal Legislatore e tratte dalla necessità di bilanciare contrapposte esigenze di rango costituzionale.
Ne consegue che, sebbene non si possa parlare di un’ipotesi remota – come provocatoriamente indicato nel titolo del presente articolo -, non si può nemmeno ritenere che la partecipazione da remoto dell’imputato all’udienza sia la regola, costituendo invece un’eccezione al principio generale della sua presenza fisica in udienza, ispirato a ragioni di civiltà giuridica che tengono conto della disponibilità di sistemi di collegamento a distanza che, per quanto sempre più sofisticati e realistici, scontano ancora dei profondi limiti.
[1] Tale risultato è stato raggiunto sopprimendo la lettera c) del comma 1 dell’art. 146 bis e inserendo un comma 1 bis autonomo, che recitava “Fuori dei casi previsti dal comma 1, la partecipazione al dibattimento avviene a distanza anche quando si procede nei confronti di detenuto al quale sono state applicate le misure di cui all'articolo 41-bis, comma 2, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni”.
[2] Con l’art. 147 bis disp. att. c.p.p. destinato a regolare la partecipazione a distanza di soggetto diverso dall’imputato e, in particolare, degli operatori sotto copertura, dei collaboratori di giustizia e degli imputati di reato connesso.
[3] Si tratta della già citata sentenza n. 342 del 22 luglio 1999; in realtà anche la Corte europea dei diritti dell’uomo si è più volte pronunciata in tal senso, come nel caso Viola c. Italia, conclusosi con la pronuncia emessa il 5 ottobre 2006 dalla Sezione III.
[4] E ciò in linea con quanto previsto dalla Corte costituzionale sin dal 1999, quale presidio fondamentale per una compressione del diritto di difesa che non si traduca in una illegittima lesione dello stesso.
[5] Si pensi, per ipotesi, ad altri sistemi di comunicazione a distanza come Skype, che garantiscono ugualmente la contemporanea visione e l’ascolto tra tutti i soggetti coinvolti. In linea di massima, però, è suggeribile sempre l’impiego di sistemi forniti dal Ministero della Giustizia al fine di garantire l’applicazione della previsione posta dall’art. 147 quater disp. att. c.p.p. e la garanzia circa l’integrità e la sicurezza della trasmissione dei dati.
[6] Si tratta dei procedimenti: per i reati previsti dall’art. 51, comma 3, c.p.p. o dall’art. 407, comma 2 lett. a num. 4, c.p.p. e di quelli riguardanti un imputato ammesso a programmi o misure di protezione, comprese quelle di tipo urgente o provvisorio, fatta salva in tutti questi casi la possibilità per il giudice di disporre motivatamente la partecipazione in udienza; con imputati sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis della legge n. 354 del 26 luglio 1975, nel qual caso non è ammessa la partecipazione fisica in udienza.
[7] Si tratta delle ipotesi rimesse alla discrezione del giudice, che può motivatamente disporre il videocollegamento in presenza di ragioni di sicurezza, di dibattimento di particolare complessità per il quale occorre evitare ritardi o di assunzione di testimonianza di soggetto a qualsiasi titolo detenuto.
[8] Tale norma ha posto tra i criteri della delega l’individuazione dei “casi in cui, con il consenso delle parti, la partecipazione all'atto del procedimento o all'udienza possa avvenire a distanza”.
Chi scrive queste righe intorno a un libro definibile senz’altro come ‘sorprendente’ è un glottologo che è stato allievo, alla Statale di Milano e in anni ormai lontani, del grandissimo Vittore Pisani: quel Pisani, eccezionale ‘signore’ di tutto lo spazio linguistico indoeuropeo e vivace protagonista, per buona parte del sec. XX, del dibattito storico-linguistico internazionale; quel Pisani, a sua volta ‘erede’, e proprio a Milano, degli insegnamenti del pure grandissimo Graziadio Isaia Ascoli, mediatore in Italia dei portati delle scienze linguistiche ottocentesche (sviluppatesi soprattutto in centri di ricerca di ambiente germanofono) e fondatore, appunto, della prestigiosa Scuola glottologica di Milano. Per chi scrive queste righe ogni ‘lingua’ (e tale termine va inteso in modo esteso, ampio) non è altro se non materia fonico-acustica prodotta da quel mirabile, sofisticatissimo apparato fonatorio del quale sono forniti, tra le specie viventi sulla faccia del pianeta, soltanto gli appartenenti alla specie umana; ché tutti gli altri esseri viventi (anche i vegetali … oggi lo si sa …) sono forniti di sistemi di comunicazione che, seppur non paragonabili per capacità e complessità espressiva a quanto mediato dalle lingue storico-naturali, sono pur sempre ‘sistemi’, e sempre molto complessi.
Bene: per chi scrive queste righe la ‘grammatica’ – ogni grammatica e di qualsiasi sistema linguistico, sia esso una grande lingua di cultura o un qualsiasi dialetto o un gergo – può essere intesa secondo due principali valenze: o come descrizione ‘fine’ (… ma siamo sicuri che tale impresa sia realmente possibile?) di tutti i fenomeni documentabili da interazioni comunicative di parlanti calati in dinamiche ‘conversazionali’ (anche nel caso delle ‘endofasie’ …: chi parla silenziosamente ‘tra sé e sé’ ha pur sempre un interlocutore: sé stesso …) proprie di singole comunità linguistiche (micro- o macro- che siano); oppure ogni grammatica può essere intesa come ‘sistematizzazione’, entro un apparato di norme/regole, di ciò che, tra i materiali utilizzati all’interno di una comunità linguistica, sia parso, in una certa fase della loro vicenda storica, degno di essere ‘fissato’ entro un canone normativo, sì da diventare una sorta di severa ‘Lex’. Le grandi lingue di cultura, regolate entro schemi normativi, rientrano pienamente in quest’ordine di problemi e le loro grammatiche riposano sulla selezione di fenomeni ‘accolti’ in una (più o meno convenzionalmente) salda forma scritta: del resto gr. grammatikḕ téchnē / γραμματικὴ τέχνη = ‘arte della forma scritta’ (< gr. gráph-ein / γράφ-ειν (“incidere” > “scrivere”) sta alla base della nozione di ‘grammatica’ intesa quale ‘apparato istituzionale, in quanto tale da rispettare.
Fatta questa premessa, da glottologo segnalo immediatamente che il libro di Dino Petralia si muove – e assai felicemente – su un terreno totalmente diverso: per Dino Petralia le parole di una lingua altro non sono, prioritariamente, se non preziosi segmenti fonico-acustici dotati ciascuno di un loro intrinseco ‘carattere’: materiali linguistici forniti di una loro ‘vita’, autonoma e funzionalmente attiva, e anche di una loro ‘anima’ rinviante alla loro funzione comunicativa e – aggiungerei, in quanto glottologo – di una loro storia (linguistica): ogni ‘parola’, anche la più semplice, anche la più apparentemente ‘banale’, si rivela uno scrigno di tesori nascosti, ricca come è di informazioni che invitano a ‘viaggiare’ entro uno degli aspetti più affascinanti delle scienze del linguaggio: la forza pragmatica di segmenti fonico-acustici > ‘parole’.
La grammatica petraliana è, come dichiarato già dal titolo del libro, essenzialmente ‘emozionale’: invita il lettore a prendere le distanze – l’agg. ‘emozionale’, attestato in italiano dal 1893, è prestito dall’ingl. emotional, a sua volta [falso!] latinismo tratto da un ipotetico lat. *ēmōtionālis, a sua volta derivato da ēmōtus, -a, -um, part. pft. di ēmovēre ‘smuovere, turbare, sconvolgere’ – rispetto al severo impianto delle consuete grammatiche di impianto descrittivo o normativo. E Dino Petralia invita i suoi lettori a entrare in un vivace/creativo regno ove gli sarà possibile ‘giocare’, grazie a una nuova visione delle cose, con le tradizionali categorie grammaticali (quelle che vengono insegnate sui banchi di scuola) sì da vederne aspetti ‘ludici’ / ‘divertenti’: là dove i due aggettivi in questione vanno intesi come indicativi della ‘serietà’ che è comunque sottesa ad ogni gioco: chi gioca sa che ogni pratica ludica richiede, a chi la esercita, di dotarsi di una specifica ‘razionalità’; nel caso dei giochi di / e con le parole, occorre armarsi di una razionalità ‘creativa’ che è propria della fantasia poetica e del divertissiment intellettuale.
Il libro si articola su precise sezioni dall’aspetto volutamente ‘tradizionale’ (Articoli e preposizioni, pp. 19-25; Nomi, pp. 29-34; Verbi, pp. 37-56; Aggettivi e pronomi, pp. 59-71; Avverbi - Congiunzioni - Disgiunzioni, pp. 75-126; Interiezioni, pp. 129-130; Punteggiatura e altro, pp. 133-149) precedute da una brillante prefazione di Arnaldo Colasanti (pp. 7-11 ) e seguite da due postfazioni (una dovuta allo scrittore-attore-cabarettista Alessandro Bergonzoni: Gli 895 caratteri delle parole stesse, pp. 153-154; l’altra redatta dallo psicoanalista, membro ordinario della Società Psicoanalitica Italia, Sarantis Thanopoulos: Le parole hanno un’anima, pp. 155-158). Va subito detto che ogni sezione, al pari della prefazione e delle due postfazioni, è grande festa di intelligenza di ‘cose’ linguistiche: di ‘cose’ lette, in modo originale, quali vivaci epifanìe di dinamiche tratte dalla quotidianità, sì che il lettore ‘precipita’ in una specie di ‘Paese delle meraviglie’, dove, al pari di Alice, gli sarà dato di stupirsi e di allegramente ‘perdersi’, senza mai tuttavia ‘disperdersi’.
Impossibile, in poco spazio, evidenziare le molte suggestioni che derivano dalla lettura di ogni pagina di un libro che brilla per notevole intelligenza e pari ironia. Cito, di seguito – a titolo di esempio e in modo necessariamente cursorio – il divertente ‘dialogo’ tra l’articolo < il > … e la sua articolata, complicata famiglia (pp.19-21) dentro la quale si assiste a veri ‘drammi di famiglia’ ...; oppure (pp. 31-34) l’evocazione – tutta pirandelliana! – di ‘uno, nessuno, centomila’ a proposito delle dinamiche tra ‘Singolare’ e ‘Plurale’; oppure (pp. 48-49) i problemi, e di nuovo ‘esistenziali’, agitanti la vita dei verbi irregolari e difettivi; e anche, andando avanti (pp. 76-78), le sottili questioni di fratellanza tra < infatti > e < affatto > o quelle, egualmente complesse tra < anche > e < pure >; oppure i problemi (pp. 95-101), di nuovo propri della sfera comportamentale, del timido < forse > o quelli del plurisemantico < già > o del presuntuoso < insomma > o del furbo < comunque > o dello sfuggente < mai >, pessimista costui per natura e di indole rinunciataria e che, semanticamente, non funziona sempre come segnale di negazione … e che può anche evocare, nella pronuncia, un inglesismo cui ben si accorderebbero, eventualmente, un love o un dear. O, ancora (pp. 114-122), i casi di < sopra > e di < sotto > o di < tardi … meglio che mai! > o le vicende, complicatissime, di un semplice < e > dall’identità molto complessa: di nuovo, Petralia descrive il ‘dramma esistenziale’ di un segmento fonico-acustico che non sa bene se essere una congiunzione o … altro; o, ancora (pp. 123-124) la seduzione del < se …> inteso quale congiunzione del ‘sogno lucido’ ma che, quando sia inutilmente sovrabbondante, diventa minaccioso elemento che “può porre in bilico l’oggi e il domani” … come insegna la celeberrima canzone (E se domani, e sottolineo ‘se’ …) di Mina, la ‘Tigre di Cremona’, una delle figure emblematiche della post-adolescenza di molti che furono ragazzi nei ruggenti anni ’60 …; o la sorda concorrenza tra < quindi > e < dunque > (p. 125) o le alternative di cui si fregia, sul piano semantico, un semplice < o > (p. 126) che, tendenzialmente solitario o attratto soltanto da ‘vero, pure, sia’, può però esibirsi in un ‘ovverossia’ definito brillantemente da Petralia quale “capricciosa armonizzazione fonica che suona quasi come parola magica”.
Seguono riflessioni sempre interessanti sul poliedrico settore delle interiezioni (p. 129), inafferrabili nella loro complessità (p. 129), con particolare attenzione per quel < magari > ricco di molte e diverse sfumature semantiche … e che non sa, lui, di affondare le proprie radici addirittura in un nobile, antico grecismo (il nostro < magari > è ciò che resta di una invocazione che i greci antichi rivolgevano agli dèi: makárioi [hoi theoí] / μακάριοι [οἱ θεοί] “oh, dèi beati!”). Chiude il volume un ricco, divertente capitolo (pp. 133-149) dedicato a ‘Punteggiatura e altro’ nel quale sono passati in rassegna il punto (“… presuntuoso e assertivo e che dopo di sé non tollera altre parole …”), la virgola (“… separa ma con affetto … e che ha un sosia nel mondo dei numeri, arida ed esangue però, e che separa gli interi dai decimali …”), il punto e virgola (“… il giusto compromesso … un permesso di sosta più netto della virgola e meno del punto …”), nonché il punto esclamativo (“… forse più attore che altro … e noi ne siamo i registi ...”) e quello interrogativo (“… che può far coppia con l’esclamativo … segno che conclude chiedendo ma schivando risposte …”) e, infine, i due punti (“… gemelli in verticale, senza gerarchie né gelosie … ma non proprio fedeli al proprio ruolo … divisivi in ambito numerico, separatisti nelle formule orarie, simboli entrambi di una volubilità d’uso che li fa quasi mercenari in cerca di impiego …”).
E poi, per finire, anche la povera chiocciola < @ > (“che … con quella vocale imprigionata dentro … non ha suono né maiuscola, si presenta sempre uguale …”), e anche il bailame sonoro veicolato dagli accenti (“… che hanno buoni rapporti solo con le vocali, inesistenti con le consonanti … sì che in verità un certo mistero avvolge l’accento: gode del libero privilegio dell’invisibilità, tranne che non riguardi parole monche … oppure parole ambigue di senso. E così tra circùito e circuìto, tra àmbito e ambìto l’arbitro è l’accento, ben contento in questi casi di mostrarsi gongolante e ricevere i doverosi omaggi …”); l’apostrofo (“… corpo diafano nell’oralità …”); l’asterisco (“… che non ha suono né grandezze diverse…”); la < & > commerciale (“… che pare poltroncina stilizzata, comoda e accogliente …”); le parentesi (“… piccole barriere a fungere da contenitore di spiegazioni o di commenti …”); i trattini (“… elementi a geometria variabile, semplici, afoni e a forma rigida …”); le due letterine < o / a > in apice “… atte a far dire che siamo i primi, i secondi, i terzi al maschile e al femminile…”; il cancelletto (“… tipo allegro e gioviale…”); il percentuale < ###i#< > (“… il cui regno di coltura è la matematica … e che appare in grande spolvero in periodo di saldi …”).
In conclusione, ripeto che davvero ogni pagina del libro invita il lettore a ‘sorprendersi’ … e lo obbliga a riflettere, in modo non convenzionale, su temi di una ‘grammatica’ che nulla ha a che fare con quella tradizionale, quella appresa sui banchi di scuola: Dino Petralia ci invita, insomma, con intelligenza rigorosa e con metodo saldo, a guardare alle ‘parole’ della grammatica con gli occhiali della fantasia e della poesia. E per questo, a mio vedere, gli si deve essere molto grati.
Dino Petralia, Grammatica emozionale. Viaggio dentro le parole (prefazione di Arnaldo Colasanti; postfazioni di Alessandro Bergonzoni e Sarantis Thanopoulos), Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 2025, pp. 161. ISBN 979-12-205-0404-1.
Sommario: 1. Introduzione al problema: un contesto fattuale e normativo inedito per la decarbonizzazione. 2. La ragionevolezza delle valutazioni ambientali sul fossile al tempo della “policrisi”. 3. Il parere AIA-IPPC e le sue quattro lacune. 4. L’AIA sull’ex Ilva tra diritto UE e CEDU, nel novum di “Verein KlimaSeniorinnen” e senza «interpretazioni annacquate». 5. L’analisi comparata del parere AIA-IPPC tra UE, CEDU e Costituzione italiana. 6. Omissione della decarbonizzazione e impossibilità geofisica senza previo calcolo del Carbon Budget residuo. 7. L’illegittimità costituzionale sopravvenuta del diritto vivente favorevole alle valutazioni atemporali della decarbonizzazione.
1. Introduzione al problema: un contesto fattuale e normativo inedito per la decarbonizzazione
Questo contributo si interroga sulla natura e la c.d. “latitudine” – come denominata dalla giurisprudenza amministrativa[1] – del potere di rinnovo dell’autorizzazione integrata ambientale (d’ora in poi, AIA) dell’installazione industriale pugliese nota come ex Ilva di Taranto, per due ragioni:
- da un lato, perché è stato reso noto il parere istruttorio AIA-IPPC in risposta all’istanza di rinnovo presentata da Acciaierie d’Italia S.p.A., oggi Acciaierie d’Italia S.p.A. in Amministrazione Straordinaria (A.S.)[2],
- dall’altro, perché gli interrogativi sui poteri di rinnovo sono imposti dall’inedito contesto fattuale e normativo che coinvolge i processi di decarbonizzazione.
Sul piano fattuale, infatti, questi processi sono ormai discussi nella presa d’atto della condizione di “policrisi” del pianeta[3], contrassegnata da quattro fattori negativi.
Il primo risiede nell’emergenza climatica, quale situazione di urgenza nella decarbonizzazione. Essa è stata più volte denunciata dalla scienza sia come “emergence” (emersione di processi geo-biofisici degenerativi e irreversibili a causa del fossile) sia come “emergency” (urgenza della decarbonizzazione, per limitare al massimo e controllare al meglio quelle degenerazioni)[4]. Inoltre, essa è stata più volte riconosciuta dalla UE «alla luce delle chiare e crescenti prove scientifiche» («in light of the clear and growing scientific evidence») e, per questo, reiteratamente dichiarata, al fine di rafforzare il proprio Green Deal[5].
Il secondo concerne la triplice crisi planetaria per interdipendenza negativa fra cambiamento climatico antropogenico, inquinamento antropogenico e perdita di biodiversità. Il suo riconoscimento ufficiale è stato effettuato dal Consiglio d’Europa, con la c.d. “Reykjavík Declaration”[6]. Da esso ha preso spunto la storica sentenza “Verein KlimaSeniorinnen”, emessa dalla Grande Camera della Corte Europea dei Diritti Umani, ai sensi dell’art. 43 CEDU[7], in data 9 aprile 2024 su ricorso n. 53600/20[8], per tracciare i requisiti necessari della valutazione dei rischi climatici e ambientali nelle politiche di mitigazione climatica e di decarbonizzazione ai fini di tutelare i diritti umani presidiati dall’art. 8 CEDU[9].
Il terzo deriva dalla denuncia scientifica sull’intrinseca nocività dei combustibili fossili, ormai incompatibili con la stessa sopravvivenza umana[10]. Tale constatazione chiama in causa il ruolo delle imprese ad energia fossile, nel loro concorso (per esempio, per quanto concerne l’Italia, secondo le modalità applicative dell’art. 2055 Codice civile[11]) ai danni da cambiamento climatico[12] e al c.d. “mortality cost” per mancata o ritardata decarbonizzazione[13].
L’ultimo è maturato a seguito della registrazione, nel 2024, del primo Overshoot del pianeta, ossia del primo sforamento annuale della soglia di sicurezza dell’aumento della temperatura media globale di +1,5°C, rispetto ai livelli preindustriali, con connesso incremento dei rischi e pericoli per la salute umana[14] oltre che precoce violazione dell’art. 2 dell’Accordo di Parigi del 2015[15].
Per un’installazione fossile come l’ex Ilva di Taranto, per di più collocata in una “zona di sacrificio”, nel significato reso dal Rapporto del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, ovvero di «peggiore negligenza immaginabile dell’obbligo di uno Stato di rispettare, proteggere e realizzare il diritto a un ambiente pulito, sano e sostenibile» («worst imaginable dereliction of a State’s obligation to respect, protect and fulfil the right to a clean, healthy and sustainable environment»)[16], e in un comparto industriale qualificato “nemico del clima”[17], si tratta di un intreccio di dati difficilmente eludibili o ignorabili, se non per apodittica loro negazione, non certo per dimostrabile confutazione scientifica.
Altrettanto ineludibili sono pure le cinque novità di contenuto normativo ovvero:
- le interpretazioni rese dalla Corte di Giustizia UE del 25 giugno 2024 nella causa C-626/2022, direttamente per l’ex Ilva di Taranto e nella presa d’atto della situazione territoriale di “zona di sacrificio”[18];
- le risposte della Grande Camera della Corte EDU in “Verein KlimaSeniorinnen”, formulate, come accennato, nei modi dell’art. 43 CEDU (ossia per risolvere «gravi problemi di interpretazione o di applicazione della Convenzione o dei suoi Protocolli» o comunque «un’importante questione di carattere generale»), in ordine alla natura del margine di apprezzamento degli Stati membri del Consiglio d’Europa nella triplice crisi denunciata a Reykjavík e, quindi, per la delimitazione dei poteri discrezionali di decarbonizzazione rispetto all’art. 8 CEDU, da quella triplice crisi minacciato;
- la decisione n. 28/CMA.5, assunta, col consenso in “buona fede climatica” dell’Italia[19], dalla COP28 del 2023, ossia dalla Conferenza delle Parti per l’attuazione del citato art. 2 dell’Accordo di Parigi sul clima del 2015, contenente il riscontro della «necessità di riduzioni profonde, rapide e sostenute delle emissioni di gas serra in linea con percorsi di 1,5°C ... tenendo conto dell’Accordo di Parigi ...» («the need for deep, rapid and sustained reductions in greenhouse gas emissions in line with 1.5°C pathways … taking into account the Paris Agreement…») e il consequenziale impegno ad «abbandonare i combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere l’azzeramento netto entro il 2050, in linea con la scienza» («transitioning away from fossil fuels in energy systems, in a just, orderly and equitable manner, accelerating action in this critical decade, so as to achieve net zero by 2050 in keeping with the science»)[20];
- la riforma degli artt. 9 e 41 della Costituzione italiana, che la sentenza della Corte costituzionale del 19 giugno 2024 n. 105 ha definito nuovo «mandato» che «vincola così, esplicitamente, tutte le pubbliche autorità ad attivarsi in vista della sua efficace difesa»;
- la formalizzazione del paradigma One Health-Planetary Health, con l’art. 27, comma 2, del d.l. n. 36/2022, convertito con l. n. 79/2022, che riconosce i rischi e pericoli climatici come determinanti negativi della salute e della qualità della vita, attraverso l’istituzione del Sistema nazionale di prevenzione salute dai rischi ambientali e climatici[21].
2. La ragionevolezza delle valutazioni ambientali sul fossile al tempo della “policrisi”
Fino ad oggi, le decisioni dei poteri pubblici sulle valutazioni ambientali, inclusa l’AIA, sono state contrassegnate da «ampia latitudine della discrezionalità esercitata dall’amministrazione nel giudizio»[22].
Per esse, nello specifico, si è insistentemente sostenuto che l’amministrazione eserciti un potere talmente ampio, da non esaurirsi «in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione»[23], comprendendo al contempo profili «particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in relazione all’apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti»[24], con la conseguenza che lo stesso sindacato giurisdizionale, «al fine di assicurare il rispetto del principio costituzionale di separazione dei poteri»[25], sia possibile solo ove «risulti violato il principio di ragionevolezza»[26].
Tra gli elementi sintomatici di questa violazione, poi, sono stati individuati l’assente o inadeguata istruttoria, l’omessa considerazione di alternative in grado di attenuare in modo soddisfacente criticità note o evidenziate[27], l’emersione di illogicità, erroneità o inattendibilità, sia empiriche che metodologiche, purché dotate di «sufficiente grado di compiutezza, superiore alla mera opinabile valutazione di parte»[28].
Non è mai stati individuato il fattore tempo delle traiettorie di inerzia del sistema climatico come determinante del rischio e del pericolo[29].
In altre parole, la “latitudine” si è radicata su una presupposizione della realtà ambientale sempre uguale a sé stessa rispetto ai tempi degenerativi della “policrisi” e indipendentemente dalla natura fossile o meno dell’energia coinvolta nell’oggetto della valutazione.
Di conseguenza, la sua doppia dimensione di esercizio, come verificazione (tecnico-scientifica) sulla base di oggettivi criteri di misurazione, da un lato, e adeguata istruttoria nella ponderazione degli interessi e delle alternative coinvolte, dall’altro, si è mantenuta indifferente alle trasformazioni di contesto.
Allo stato attuale, però, i fattori negativi che attivano la “policrisi” sono ormai ampiamente verificati e misurati. Per esempio, i requisiti, richiesti dalla giurisprudenza italiana, “del più probabile che non” [30], ai fini dell’accertamento dei nessi causali su rischi, pericoli e danni per inerzia del sistema climatico, e della logicità “baconiana e pascaliana”, per l’imputazione delle responsabilità[31], risultano soddisfatti. Come soddisfatto è anche il «sufficiente grado di compiutezza, superiore alla mera opinabile valutazione di parte». Lo dimostrano le ricognizioni dell’IPCC, il Panel Intergovernativo dell’ONU sul Cambiamento Climatico, in particolare nell’ultimo Report Climate Change 2021: The Physical Science Basis[32], ignorando il quale nulla della complessità della “policrisi” è comprensibile.
Proprio da queste verificazioni emerge che l’elemento determinante per una decarbonizzazione efficace nella tutela della salute umana è la considerazione delle traiettorie di inerzia di tutte le sfere del sistema climatico, sia a livello globale che locale[33], in modo da considerare l’efficacia dei tempi di abbandono dei combustibili fossili in rapporto ai tempi di trasformazione inerziale dei territori[34].
In pratica, il tempo delle traiettorie di inerzia del sistema climatico è assurto a bene della vita prevalente e prioritario in qualsiasi giudizio sulla decarbonizzazione[35]: è divenuto il parametro della sua ragionevolezza; il “climate first”, come lo denomina l’IPCC[36].
Non a caso, tutte e cinque le novità normative, elencate nel primo paragrafo, al fattore tempo o al “climate first” si connettono. E la circostanza che, con riguardo a una di esse, la riforma costituzionale del 2022, si sia già preso atto del «superamento del bilanciamento tra valori contrapposti all’insegna di una nuova assiologia compositiva»[37], lascia presagire ulteriori reimpostazioni della “latitudine” del potere nel discutere e decidere sulla decarbonizzazione, anche in ragione del rinnovato quadro normativo.
Spunti, in tale duplice direzione, provengono dalla giurisprudenza comparata, per esempio in quelle decisioni che allargano il catalogo delle emissioni pericolose per la salute umana, includendovi i gas serra proprio a causa dei loro tempi inerziali sul sistema climatico[38].
Ma, in fin dei conti, è questa la filosofia a base dei cinque requisiti necessari, scanditi dalla Corte di Strasburgo nel § 550 di “Verein KlimaSeniorinnen”[39], per limitare dall’esterno il margine di apprezzamento degli Stati e, con esso, la discrezionalità dei poteri in qualsiasi valutazione di decarbonizzazione, in nome dell’art. 8 CEDU compromesso dal “climate first” (o dalla “closing window”, come preferisce metaforizzare la Corte sempre su spunto IPCC[40]). Lo ha fatto presente, di recente, l’Alta Corte Irlandese per l’ambiente, nella prima applicazione, tra i paesi del Consiglio d’Europa, della decisione CEDU[41].
Da qui, dunque, si devono prendere le mosse per una rimeditazione della valutazione ambientale integrata dell’ex Ilva di Taranto.
3. Il parere AIA-IPPC e le sue quattro lacune
Che l’installazione industriale pugliese contribuisca ai rischi climatici è stato già dimostrato e proprio sulla base della letteratura della “policrisi”, con un’evidenza che garantisce non solo il richiesto «sufficiente grado di compiutezza, superiore alla mera opinabile valutazione di parte» ma anche il rispetto della soglia del “più probabile che non” nel nesso causale[42].
D’altra parte, che un’impresa fossile possa essere esente da pericolosità climatica, in uno scenario bad-to-worst di emergenza climatica e triplice crisi, sarebbe del tutto surreale, prima ancora che illogico.
Bisogna, allora, verificare se e come questo dato di realtà venga tematizzato dal procedimento AIA che la riguarda.
La lettura del citato parere istruttorio della Commissione AIA-IPPC serve proprio a questo.
Giova ricordare che esso segue alla legge del 30 marzo 2025 n. 31, di conversione del decreto legge del 24 gennaio 2025, n. 3, adottata al fine non solo di dare compiuta attuazione alle disposizioni della direttiva 2010/75/UE, relativa alle emissioni industriali, secondo l’interpretazione resa dalla citata Corte di Giustizia UE nella causa C-626/2022, ma anche di introdurre, attraverso lo studio di valutazione di impatto sanitario (VIS), criteri predittivi completi su tutti (tutti, non alcuni) i rischi per la salute, associati all’esposizione alle suddette emissioni industriali e per come conosciuti dagli sviluppi delle conoscenze scientifiche[43].
Dentro questo quadro, il documento istruttorio, alla luce dei contesti di fatto e normativi richiamati nel primo paragrafo, presenta quattro lacune:
- due di carattere normativo;
- e due di natura scientifica.
Le due lacune normative derivano dai seguenti riscontri.
Il parere dichiara espressamente di perseguire una duplice finalità. Da un lato, esso mira a far garantire, da parte dello stabilimento, la completa attuazione della citata decisione della Corte di Giustizia UE nel caso C-626/2022. Dall’altro, il suo contenuto vorrebbe contribuire a preparare il percorso di transizione verso la decarbonizzazione del processo produttivo dell’impianto tarantino, in coerenza con gli obiettivi climatici del Green Deal e la neutralità climatica del comparto industriale, entro e non oltre il 2050. Al “climate first”, in qualche modo, accenna.
Ciononostante, entrambe le finalità, alla prova del testo, si dimostrano disattese e ignorate:
- quella di ottemperare alla Corte di Giustizia viene disattesa, perché non tutte le interpretazioni fornite dal Giudice lussemburghese sono state accolte dal parere;
- quella di promuovere la decarbonizzazione nel “climate first” è totalmente ignorata, sia perché di decarbonizzazione non si parla affatto nell’istanza di rinnovo dell’AIA, dove, al contrario, si preannuncia l’aumento della produzione dell’acciaio a 6 milioni di tonnellate annuali nella persistenza del ciclo a combustione fossile, sia perché, nel parere IPPC, nulla si dice degli obblighi ineludibili di decarbonizzazione per la neutralità climatica alla luce dell’art. 8 CEDU, che la citata Grande Camera della Corte EDU in “Verein KlimaSeniorinnen” ha invece posto a limite esterno del margine di apprezzamento degli Stati e, di riflesso, della discrezionalità di tutti i suoi organi in materia climatica, con il citato suo § 550.
Le due lacune scientifiche, invece, investono il concetto di rischio sanitario e di nocività delle emissioni industriali nei percorsi di decarbonizzazione, alla luce, per l’appunto, degli sviluppi delle conoscenze sul tema.
Come si è già fatto presente, il compendio ufficiale, perché richiesto dagli Stati aderenti all’ONU, di questi sviluppi si legge nei rapporti dell’IPCC, specificamente nei due testi intitolati “Global Warming of 1,5°C”, del 2018[44], e “Climate Change 2022: Impacts, Adaptation and Vulnerability”[45]. La loro sintesi per i decisori politici, dunque per i poteri pubblici chiamati a decidere sulla decarbonizzazione, è offerta anche dall’AR6 Synthesis Report: Climate Change 2023, redatto, tra l’altro, con il concorso e il consenso del Governo italiano[46].
Questi documenti sono stati completamente ignorati dalla Commissione AIA.
Eppure il loro contenuto fornisce almeno quattro spunti salienti per la tutela della salute nelle emissioni industriali fossili. Conviene elencarli:
- la decarbonizzazione, allo scopo di scongiurare incrementi di rischi sanitari e nocività delle emissioni, deve operare all’interno delle soglie di sicurezza dell’aumento della temperatura media globale, fissate dagli Stati con il ricordato art. 2 dell’Accordo di Parigi del 2015;
- affinché queste soglie di sicurezza siano effettivamente rispettate dagli Stati, è necessario il calcolo del Carbon Budget residuo (c.d. CRB[47]) da parte di ciascuno di essi, ovvero l’individuazione della quantità di emissioni di gas serra che si possono ancora emettere sul territorio sovrano, tenendo conto delle concentrazioni di gas serra esistenti, di quelli già emessi in precedenza e della temperatura media già raggiunta;
- solo all’interno delle citate soglie di sicurezza, i rischi sanitari e la nocività delle emissioni industriali possono dirsi effettivamente accettabili;
- di conseguenza, l’accertamento del quadro climatico in relazione al Carbon Budget residuo assurge a presupposto indefettibile di qualsiasi predizione a tutela della salute umana, esposta alle suddette emissioni industriali fossili[48].
Tra l’altro, questi elementi salienti si fondano sulla constatazione, scientificamente inconfutabile[49], del c.d. “doppio rischio sanitario” per aria e clima alterati[50] ossia su quella reciproca interazione negativa di inquinamento e cambiamento climatico, fatta propria dalla citata “Reykjavík Declaration”.
Ne deriva che l’esclusione di uno inficia la corretta valutazione sull’altro[51], mentre l’omissione, per entrambi, del previo calcolo del Carbon Budget residuo ne svuota ogni carattere di attendibilità[52].
È quanto, purtroppo, sembra sussistere nel procedimento riferito all’ex Ilva di Taranto.
4. L’AIA sull’ex Ilva tra diritto UE e CEDU, nel novum di “Verein KlimaSeniorinnen” e senza «interpretazioni annacquate»
Sorprende, infatti, l’espunzione dei richiamati parametri di tutela della salute dall’intero parere AIA-IPPC, anche perché, se, da un lato, la giurisprudenza amministrativa ha già censurato come illogici e manifestamente carenti i provvedimenti fondati su valutazioni scientificamente incomplete in presenza di «rischi accertati e dimostrabili»[53] (e tali sono i rischi da emissioni fossili), dall’altro, ora, la Grande Camera della Corte europea dei diritti umani ha erto il Carbon Budget residuo, in accordo proprio con le risultanze scientifiche dell’IPCC sul rischio sanitario, a requisito necessario per l’esercizio legittimo dei poteri statali sulla decarbonizzazione e la mitigazione climatica.
Questo significa che quella espunzione, una volta confermata nel provvedimento finale dell’AIA, difficilmente si sottrarrà alle censure di legittimità per violazione del novum offerto dalla Grande Camera della Corte EDU con “Verein KlimaSeniorinnen”; perché quel novum, come l’ha definito la Corte costituzionale nel quadro delle fonti dell’ordinamento italiano e nei riguardi dell’art. 43 CEDU[54], non può essere ignorato da alcun giudice comune, ma al massimo, se ritenuto lesivo della Costituzione, rimesso al vaglio della Corte costituzionale[55].
Diversamente concludendo, paradossalmente si farebbe del rischio alla salute, con tanto di violazione degli artt. 8 e 43 CEDU, la ragione stessa dell’immunità dei poteri statali nella decarbonizzazione; il che sempre la Corte di Strasburgo ha reputato inammissibile (con la decisione sul caso “Walęsa c. Polonia” del 23 novembre 2023 su ricorso n. 50849/21).
D’altronde, come già schematizzato[56], i temi della valutazione di impatto sanitario e dell’AIA per l’ex Ilva di Taranto rientrano nelle competenze concorrenti tra Stato e Unione europea, così come individuate dagli artt. 191 e 193 del TFUE, ma non si esauriscono in essi. Oggi, a seguito per l’appunto della citata sentenza della Corte EDU nel caso “Verein KlimaSeniorinnen” del 9 aprile 2024, essi intersecano direttamente anche la CEDU, per lo specifico profilo della protezione intertemporale e intergenerazionale dei diritti desumibili dal suo art. 8.
Questo nuovo intreccio fra Stati-UE e CEDU ha, dunque, attivato un doppio livello di limiti ai poteri statali nella materia climatica: uno “assoluto” e l’altro “relativo”[57]. Il limite “assoluto” si desume dai paragrafi 441-444, 453, 550 e 571 della decisione di Strasburgo e consiste nel “dovere primario” – Primary Duty – di proteggere i diritti, di cui all’art. 8 CEDU, in qualsiasi decisione impattante sulla mitigazione climatica (inclusa la decarbonizzazione); quello “relativo”, invece, si riferisce alle competenze del diritto derivato UE, i cui contenuti possono essere integrati in melius dagli Stati membri per una migliore tutela dell’ambiente e della salute umana, come si legge nell’art. 193 TFUE.
In definitiva, i poteri statali, nel decidere se e come decarbonizzare un impianto produttivo fossile ai fini della mitigazione climatica, quale ovviamente è l’ex Ilva di Taranto, non sono tenuti semplicemente alla mera esecuzione del diritto unionale derivato: da un lato, essi lo possono migliorare ai sensi dell’art. 193 TFUE; dall’altro, lo devono integrare con il “dovere primario”, imposto loro dall’art. 8 CEDU, come interpretato dalla Grande Camera della Corte europea in “Verein KlimaSeniorinnen” ai sensi dell’art. 43 CEDU.
Se, invece, lo ignorano, consumano un’illegittimità di rango costituzionale. Tertium non datur.
Il “dovere primario” CEDU, come accennato, funge da novum nell’ordinamento italiano, per tre ragioni:
- perché proveniente da una decisione della Grande Camera della Corte EU ex art. 43 CEDU;
- perché interposto, ai sensi dell’art. 117 comma 1 Cost., tra Costituzione e legislazione interna di settore[58];
- infine perché gerarchicamente sovraordinato al diritto derivato europeo, per il suo contenuto rafforzativo e migliorativo dei diritti umani indicati dall’art. 6 TUE.
Queste tre ragioni non trovano alcun ostacolo, neppure nella volontà del legislatore ambientale italiano, il quale, al contrario, ha letteralmente disposto, con l’art. 3-bis del d.lgs. n. 152/2006, non solo che «i principi posti dalla presente Parte prima [del decreto] e dagli articoli seguenti costituiscono i principi generali in tema di tutela dell’ambiente, adottati in attuazione degli articoli 2, 3, 9, 32, 41, 42 e 44, 117 commi 1 e 3 della Costituzione e nel rispetto degli obblighi internazionali e del diritto comunitario» (primo comma,), ma anche che qualsiasi deroga, modifica o abrogazione debba comunque garantire «il rispetto del diritto europeo [e] degli obblighi internazionali» (terzo comma).
Insomma, è il legislatore italiano a dire tertium non datur. Del tutto inammissibile, di conseguenza, appare la “dimenticanza” del parere AIA-IPPC.
5. L’analisi comparata del parere AIA-IPPC tra UE, CEDU e Costituzione italiana
Forse, allora, simile “dimenticanza” è giustificata espressamente dal diritto europeo derivato?
Evidentemente no: l’hanno ricordato, sempre per la materia ambientale, sia la stessa Corte di Giustizia UE, da ultimo con la decisione del 15 aprile 2021 nelle cause riunite C‑798/18 e C-799/18, dove si ribadisce il vincolo posto dall’art. 52 n. 3 della Carta dei diritti fondamentali sovraordinato al diritto derivato (§§ 35-36)[59], e con quella del 21 gennaio 2025, nella causa C-188/23, dove si spiega che gli accordi internazionali in materia ambientale, sottoscritti anche dalla UE, prevalgono sugli atti di diritto derivato dell’Unione, imponendo un’interpretazione conforme ad essi (§§ 44, 73, 74), sia la Corte costituzionale italiana ai fini della lettura dei riformati artt. 9 e 41 Cost., da inquadrare, come si legge nella sentenza del 19 giugno 2024 n. 105, «attraverso il prisma degli obblighi europei e internazionali in materia».
Insomma, scordarsi del sistema delle fonti, richiesto dall’art. 3-bis del d.lgs. n. 152/2006, è praticamente illegittimo; a meno che non si voglia considerare plausibile un’interpretazione «annacquata» («watered-down interpretation») del “Primary Duty” scandito in nome dell’art. 8 CEDU dalla Grande Camera della Corte Europea ai sensi dell’art. 43 CEDU, come ha denunciato la già ricordata Alta Corte Irlandese per l’ambiente[60].
Ma se l’esclusione dell’interpretazione «annacquata» vale per un sistema costituzionale, come quello irlandese, privo di una struttura ordinamentale corrispondente all’art. 117 comma 1 della Costituzione italiana e all’art. 3-bis del d.lgs. n. 152/2006, c’è da interrogarsi su quale altro riscontro normativo ci si potrebbe appigliare per tollerare le lacune del parere in commento.
Piaccia o meno, i parametri di legittimità del procedimento AIA, in un caso come quello dell’ex Ilva di Taranto, si stagliano su tutti e tre i livelli della tridimensionalità ordinamentale europea: norme statali, costituzionali e legislative; norme unionali europee, originarie e derivate; art. 8 CEDU e sua interpretazione ex art. 43 CEDU.
Alla luce di questa conclusione, è possibile procede alla comparazione di dettagli tra i contenuti del parere AIA-IPPC, da un lato, e, dall’altro, le acquisizioni fornite dalla Corte di Giustizia UE, dal novum della Grande Camera di Strasburgo in “Verein KlimaSeniorinnen” e dalla Corte costituzionale sui riformati artt. 9 e 41 Cost.
I punti di discordanza più evidenti risultano essere quattro.
Prima di tutto, come già constatato, il parere esclude totalmente, dalle proprie fonti di riferimento, la tridimensionalità normativa europea e la sua collocazione rispetto al diritto derivato europeo, invocando esclusivamente quest’ultimo, in modo da declinare solo su di esso concetti e argomentazioni di valutazione e giudizio (cfr. § 2.2 del parere).
Questo modo di procedere non corrisponde affatto a quello suggerito dalla Corte di Giustizia UE, nel citato caso riguardante appunto l’ex Ilva di Taranto, visto che in quest’ultimo si legge che il diritto secondario UE in materia deve essere interpretato per rendere effettivi gli obiettivi di cui all’articolo 191 TFUE (§ 67) e gli artt. 35 e 37 della Carta dei diritti fondamentali della UE (§ 71), affinché tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente e protezione della salute umana non solo siano collegati nel procedimento AIA (§ 68) ma mirino a conseguire un livello elevato di protezione dell’ambiente nel suo complesso (§ 69). Ma non corrisponde neppure all’inquadramento richiesto in “Verein KlimaSeniorinnen”, dove si ricorda che l’applicazione della CEDU deve essere effettuata in buona fede e in conformità con le fonti del diritto internazionale che riguardano tutti gli effetti nocivi per la tutela dei diritti umani (§§ 452 ss.), né alla sentenza della Corte costituzionale italiana n. 105/2024, secondo cui i riformati artt. 9 e 41, vincolando tutte le pubbliche autorità ad attivarsi per l’efficace difesa intertemporale e intergenerazionale dell’ambiente, devono essere letti alla luce degli obblighi europei e internazionali in materia (§ 5.1.2 del Considerato in diritto).
In secondo luogo, il parere ignora totalmente la natura “nociva” delle emissioni climalteranti dell’impianto fossile (cfr. § 1 e ivi la definizione di “inquinamento” appiattita alle sole fonti derivate UE), quando proprio la Corte di Giustizia UE, sempre nel citato caso ex Ilva, ha sottolineato l’obbligo, in sede di rinnovo dell’AIA, di considerare, oltre alle sostanze inquinanti prevedibili, tutte quelle oggetto di emissioni scientificamente note come “nocive” (“harmful”) che possono essere emesse dall’installazione interessata, comprese quelle generate da tale attività che non siano state valutate nel procedimento di autorizzazione iniziale di tale installazione (§ 122), in coerenza, dunque, con la lettura da parte della Grande Camera CEDU, che inquadra come “harmful”, per la tutela intergenerazionale dei diritti di cui all’art. 8 CEDU, le emissioni climalteranti (§§ 472, 518-519, 544-545).
Ma il parere ignora pure, e siamo al terzo profilo, le migliori acquisizioni scientifiche sul nesso cambiamento climatico-inquinamento e sul citato “doppio rischio sanitario” delle emissioni industriali fossili (cfr. ancora il § 1 e ivi la definizione di “inquinamento”); “doppio rischio”, confermato dallo stesso diritto europeo[61], dallo stesso legislatore italiano, con le sue proposte di legge per il clima[62], e dal nuovo citato paradigma One Health-Planetary Health, accolto, come detto, dall’ordinamento giuridico italiano. D’altra parte, senza queste acquisizioni scientifiche, la valutazione della “nocività” scadrebbe, come stigmatizzato sempre dalla citate Corte di Giustizia UE, in mero rispetto dei valori limite per le sole sostanze inquinanti elencate, dunque in una logica di “numero chiuso” della pericolosità che, senza tener conto delle emissioni effettivamente generate dall’installazione interessata nel corso del suo esercizio e dei nuovi impatti conosciuti (§ 117), si dimostrerebbe contro natura e antiscientifico, condannando qualsiasi decarbonizzazione, come concluso dalla Grande Camera della CEDU, al “fallimento” (“failure”) rispetto alle traiettorie di inerzia del sistema climatico (§§ 509, 542, 546, 635).
Di conseguenza, il parere non indica affatto tutte le misure necessarie per assicurare un elevato livello di protezione dell’ambiente nel suo complesso, come vorrebbero la Corte di Giustizia, in nome degli artt. 35 e 37 della Carta UE dei diritti (§ 4), e la stessa Grande Camera, per garantire l’art. 8 CEDU con i requisiti elencati nel citato § 550.
6. Omissione della decarbonizzazione e impossibilità geofisica senza previo calcolo del Carbon Budget residuo
Invero, l’effettiva decarbonizzazione dell’ex Ilva di Taranto appare del tutto fuori dell’orizzonte applicativo dell’AIA.
Il parere lo evidenzia su tre fronti.
In primo luogo, esso testualmente «conferma che gli aspetti relativi alla decarbonizzazione non sono stati oggetto dell’istanza del Gestore» (cfr. Risposte alle Osservazioni nn. 27 e 31). Il che rappresenta un’ulteriore dimostrazione della difformità dalle interpretazioni della Corte di Giustizia, secondo cui, al contrario, la valutazione sistematica dei rischi ambientali deve basarsi su tutti gli impatti, potenziali e reali, delle installazioni interessate, riguardanti salute umana e ambiente, in coerenza, ancora una volta, con le parallele indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo (§§ 92 e 93), la quale precisa pure che la mancata considerazione delle misure necessarie indicate dal § 550, a presupposto della discrezionalità, produce una “lacuna critica” insanabile (§§ 561, 562 e 573).
In secondo luogo, il parere, nel tentativo di sopperire all’omessa previsione della decarbonizzazione, dispone una sola prescrizione di decarbonizzazione, per di più di carattere secondario perché successiva all’AIA (cfr. Prescrizione n. 5.1.1. n. 3 e pp. 42 e 371), dunque anche in questo modo contravvenendo tanto alla Corte di Giustizia, secondo cui, invece, la valutazione degli impatti dell’attività dell’installazione deve essere sempre preventiva e procedere per atti interni al procedimento di riesame dell’autorizzazione (§ 105), quanto alla Corte EDU, per la quale l’adozione delle misure in grado di mitigare gli effetti attuali e futuri, potenzialmente irreversibili, del cambiamento climatico costituisce dovere primario di qualsiasi potere dello Stato (§ 545).
Infine, il contenuto della decarbonizzazione, prescritta dal parere, dovrebbe consistere nella sostituzione del carbone e dei combustibili fossili, all’interno del ciclo integrale di produzione dell’acciaio, con la plastica, più precisamente con l’utilizzazione di polimeri.
Questo è tutto: nulla si spiega sul fronte del nesso fra decarbonizzazione proposta e tutela dei diritti ex art. 8 CEDU; nulla si dice sui tempi della decarbonizzazione rispetto al calcolo del Carbon Budget residuo, richiesto dal § 550 di “Verein KlimaSeniorinnen”; si ignora persino l’incidenza della soluzione indicata sul criterio del Do Not Significant Harm (DNSH) nei contenuti indicati dal Regolamento UE n. 2020/852, specificamente agli artt. 10 e 14 (DNSH per la mitigazione climatica e l’inquinamento) e all’art. 18 (“garanzie minime di salvaguardia” dei diritti umani da assumere a requisito non surrogabile di eco-sostenibilità dell’attività economica).
La soluzione a un’omissione del gestore sfocia in un’altra omissione dell’autorità istruttoria; più rigorosamente, sfocia proprio in quella “lacuna critica” del potere, che la Corte di Strasburgo identifica come lesiva dei diritti ex art. 8 CEDU.
Del resto, dopo la sentenza CEDU del 9 aprile 2024, qualsiasi decarbonizzazione senza previo calcolo del Carbon Budget residuo nazionale è un’arrampicata sugli specchi[63].
È inevitabile ed è oggettivo per tre ragioni, rinvenibili nei citati Rapporti dell’IPCC: perché solo con il previo calcolo del Carbon Budget residuo nazionale è possibile decarbonizzare
- nella legalità dell’agire all’interno delle soglie di sicurezza dell’art. 2 dell’Accordo di Parigi e quindi, come ha spiegato il Consiglio di Stato, col parere della Commissione speciale del 26 settembre 2017, n. 2065, secondo quella precauzione che «impone al decisore pubblico di prediligere, tra quelle possibili, la soluzione che bilancia meglio la minimizzazione dei rischi e la massimizzazione dei benefici, previa individuazione, in esito a un test di proporzionalità, di una soglia di pericolo accettabile, sulla base di una conoscenza completa e accreditata dalla migliore scienza disponibile»[64];
- nel controllo geofisico dei rischi delle traiettorie di inerzia del sistema climatico, se dentro le soglie di sicurezza dell’art. 2 dell’Accordo di Parigi, come chiarito anche dalla Corte di Strasburgo nel § 444 di “Verein KlimaSeniorinnen”;
- nell’uso ragionevole e proporzionato, rispetto all’ambiente e alla salute umana da tutelare, dei gas serra disponibili, per esempio nel mercato delle emissioni, in quanto risorsa resa scarsa dalle soglie di sicurezza fissate dall’art. 2 dell’Accordo di Parigi.
In conclusione, il calcolo del Carbon Budget residuo è il presupposto geofisico necessario per qualsiasi processo di decarbonizzazione (in forza delle leggi di natura delle traiettorie temporali di inerzia) e fondamento normativo di qualsiasi decisione su di esso (in forza dei parametri normativi richiamati sin dal primo paragrafo di questo contributo).
7. L’illegittimità costituzionale sopravvenuta del diritto vivente favorevole alle valutazioni atemporali della decarbonizzazione.
Non si intravede “latitudine” del potere alternativa a quella di calcolare il Carbon Budget residuo, per poi decidere se e come decarbonizzare un’installazione fossile (la più grande installazione fossile italiana) come l’ex Ilva di Taranto.
Il che è un problema, considerato che l’Italia, ad oggi, è ancora priva di questo calcolo[65].
Può, tale circostanza, portare alla sospensione delle attività, nei termini indicati dal § 128 della decisione della Corte di Giustizia UE? In effetti, la Corte ha chiarito che, lì dove sussistano violazioni che producono «un pericolo immediato per la salute umana» o «ripercussioni serie ed immediate sull’ambiente», «l’articolo 8, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2010/75 esige che l’esercizio di tale installazione sia sospeso».
L’assenza del calcolo del Carbon Budget residuo, però, non attesta semplicemente un pericolo: come ha spiegato la Corte di Strasburgo, essa consuma una “lacuna critica” nella traiettoria di decarbonizzazione; una lacuna evidentemente incostituzionale, nella misura in cui essa si pone in violazione dell’art. 8 CEDU nell’impostazione ermeneutica formulata secondo l’art. 43 CEDU.
Pertanto, diventa difficile continuare a predicare come ragionevoli le precedenti “latitudini” del potere di valutazione della decarbonizzazione, indifferenti alla dimensione temporale della “policrisi” e viziate da questa “lacuna critica”.
Un’incostituzionalità sopravvenuta, attraverso la porta d’ingresso dell’art. 117 comma 1 Cost., è ormai subentrata relativamente agli orientamenti giurisprudenziali pregressi e alle stesse leggi che quegli orientamenti, in relazione alla decarbonizzazione, hanno potuto permettere, a partire dall’art. 35, comma 2, lett. c) del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300 (per come modificato dal d.l. 1 marzo 2021, n. 22, convertito con modificazioni dalla l. 22 aprile 2021, n. 55), che, attribuendo al MASE le «funzioni e i compiti spettanti allo Stato relativi allo sviluppo sostenibile … [nelle] politiche per il contrasto dei cambiamenti climatici e … la riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra», nulla dispone nei termini dei requisiti necessari elencati dalla Corte di Strasburgo al § 550 di “Verein KlimaSeniorinnen” a tutela dell’art. 8 CEDU.
Una parte della dottrina, invero minoritaria, sembra invocare la separazione dei poteri come baluardo resistente alle nuove sfide, con conseguente primato dell’autonomia della politica indifferente ai (e prevalente sui) tempi inerziali del sistema climatico, come se questi fossero una mera predizione scientifica[66].
In realtà, il baluardo della separazione dei poteri non è affatto venuto meno né è venuta meno l’autonomia della politica: semplicemente è cambiata la “latitudine” di entrambi[67], come spiega rigorosamente “Verein KlimaSeniorinnen” in forza dell’art. 8 CEDU e, non a caso, nella modalità ermeneutica ex art. 43 CEDU[68]; mentre i tempi inerziali non sono per niente un’invenzione della scienza, che pretende di imporsi sulla politica con le sue predizioni, bensì un fatto di natura, di cui prendere atto (come si è preso atto da parte anche dell’Italia, con la sua adesione ai riscontri effettuati dall’IPCC)[69].
La vicenda del rinnovo dell’AIA dell’ex Ilva di Taranto è probabilmente il primo banco di prova per verificare tutto questo.
Nella revisione comune del testo, i paragrafi 1, 6 e 7 sono stati elaborati da Michele Carducci, i rimanenti da Gianvito Campeggio.
[1] La “latitudine” è solitamente evocata in parallelo al principio di “inesauribilità” del potere pubblico: si v. M. Trimarchi, L’inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, Editoriale Scientifica, 2018, p. 21 ss. e ivi giurisprudenza.
[2] Si v. il sito https://va.mite.gov.it/it-IT/Oggetti/info/2038
[3] Sugli elementi identificativi della “policrisi”, si v. M. Lawrence, T. Homer-Dixon, S. Janzwood, J. Rockström et al., Global polycrisis: the causal mechanisms of crisis entanglement, in Global Sustainability, 7, 2024, pp. 1-16.
[4] Sull’emergenza climatica come “emersione” (emergence) di un processo degenerativo bad-to-worst per tutti i segni vitali della stabilità del pianeta, con conseguente “urgenza” (emergency) di intervento rapido di decarbonizzazione per evitare il peggio, si v. almeno B. Gills, J. Morgan, Global Climate Emergency: after COP24, climate science, urgency, and the threat to humanity, in Globalizations, 17(6), 2020, pp. 885-902, W.J Ripple, C. Wolf, J.W. Gregg, K. Levin et al., World Scientists’ Warning of a Climate Emergency 2022, in BioScience, 72(12), 2022, pp. 1149-1155, L. Kemp, C. Xu, J. Depledge, K. L. Ebi et al., Finale di partita sul clima, trad it. in Ingegneria dell’ambiente, 9(3), 2022, pp. 194-207, e W.J. Ripple, C. Wolf, J.W. Gregg, J. Rockström et al., The 2024 state of the climate report: Perilous times on planet Earth, in BioScience, 74 (12), 2024, pp. 812-824.
[5] In particolare, cfr., in ordine di tempo: Risoluzione del Parlamento europeo del 28.11.2019 sull’emergenza climatica e ambientale (2019/2930(RSP)); Risoluzione del Parlamento europeo del 15.1 2020 (2019/2956(RSP); Comunicazione della Commissione europea su «l’ultima generazione che può intervenire in tempo» (COM/2021/550 final); Considerando n. 19 del Regolamento UE n. 2021/1119; Risoluzione del Parlamento europeo del 14.3.2023 (P9_TA (2023)0065); Raccomandazione CM/Rec(2024)6 del Comitato dei Ministri degli Stati membri, su «young people and climate action». Sul significato e il rilievo giuridico delle dichiarazioni di emergenza climatica, cfr. M. Cunha Verciano, L’emergenza climatica tra concetto scientifico e categorie giuridiche: da situazione di pericolo a fatto ingiusto permanente sul Carbon Budget residuo, dopo KlimaSeniorinnen, in Osservatorio sul Costituzionalismo Ambientale(OCA) www.DPCEonline, 8 ottobre 2024.
[6] La “Reykjavík Declaration” è stata adottata dal Quarto Vertice dei Capi di Stato e di Governo del Consiglio d’Europa, il 17 maggio 2023, riconoscendo, tra le altre cose, l’esistenza di una crisi planetaria intrecciata e interdipendente fra cambiamento climatico, inquinamento e perdita di biodiversità, a discapito della salute umana e della salubrità dell’ambiente.
[7] L’art. 43 CEDU consente l’adozione di sentenze a contenuto determinante su questioni interpretative controverse oppure su importanti questioni di carattere generale, al fine di orientare la successiva giurisprudenza della Corte europea: cfr. S. Bartole, P. De Sena, V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, Padova, Cedam, 2012, sub art. 43.
[8] Si veda il § 200 della sentenza. I commenti alla decisione CEDU sono numerosissimi, sia in Italia che all’estero. Per gli spunti della dottrina italiana, si possono consultare le seguenti voci dal sito www.contenziosoclimaticoitaliano.it: Accesso al giudice; Acquiescenza scientifica; Ambiente; Art. 8 CEDU e art. 193 TFUE; Attività pericolose; Bilanciamento e proporzionalità; Carbon Budget residuo; Separazione dei poteri.
[9] Si vedano i §§ 419-444 della sentenza.
[10] Cfr. W. Shaye, R. Bullard, J.J. Buonocore, N. Donley et al., Scientists’ warning on fossil fuels, in Oxford Open Climate Change, 5(1), 2025, kgaf011.
[11] Ci si riferisce alla sentenza della Corte di Cassazione SS.UU. 27 aprile 2022 n. 13143, in merito all’ammissibilità dell’applicazione dell’art. 2055 Cod. civ., anche in presenza di autonome condotte lesive, discendenti da titoli diversi.
[12] Cfr. C.W. Callahan, J.S. Mankin, Carbon majors and the scientific case for climate liability, in Nature, 640, 2025, pp. 893-901, e ivi bibliografia.
[13] Cfr. R.D. Bressler, The mortality cost of carbon, in Nature Communication, 12, 2021, pp. 1-12, J.M. Pearce, R. Parncutt, Quantifying Global Greenhouse Gas Emissions in Human Deaths to Guide Energy Policy, in Energies, 16, 2023, 6074, e T.M. Lenton, C. Xu, J.F. Abrams, A. Ghadiali et al., Quantifying the human cost of global warming, in Nature Sustainability, 6, 2023, pp. 1237-1247.
[14] Sulla situazione di Overshoot e sulle sue implicazioni sui rischi climatici, si v. E. Bevacqua, C.F. Schleussner, J. Zscheischler, A year above 1.5 °C signals that Earth is most probably within the 20-year period that will reach the Paris Agreement limit, in Nature Climate Change, 15, 2025, pp. 262-265, SNPA, Copernicus: nel 2024 temperatura globale a +1,6°C su livello pre-industriale, in www.snpambiente.it, 10 gennaio 2025, MET-Office, Rise in carbon dioxide off track for limiting global warming to 1.5°C, in www.metoffice.gov.uk, 17 gennaio 2025, WMO report documents spiralling weather and climate impacts, in https://wmo/int/, 19 marzo 2025.
[15] Com’è noto, l’art. 2 dell’Accordo di Parigi del 2015 impegna gli Stati a ridurre le proprie emissioni, al fine di mantenere «l’aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto di +2°C rispetto ai livelli preindustriali e proseguendo l’azione volta a limitare tale aumento a +1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali, riconoscendo che questo potrebbe ridurre in modo significativo i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici».
[16] Human Rights Council Forty-ninth session 28 February–1 April 2022, The right to a clean, healthy and sustainable environment: non-toxic environment. Report of the Special Rapporteur on the issue of human rights obligations relating to the enjoyment of a safe, clean, healthy and sustainable environment, A/HRC/49/53, 12 gennaio 2022, p. 11.
[17] Cfr. Legambiente, I nemici del clima: città di Taranto, in www.changeclimatechange.it, da cui si desume che la città ionica è la capitale d’Italia delle emissioni di gas serra.
[18] Sulla decisione europea che prende avvio dalla questione pregiudiziale insorta presso il Tribunale delle imprese di Milano, si v. i Commenti raccolti nella sezione Inibitoria collettiva [Cittadini tarantini c. Acciaierie d'Italia Holding Spa, Acciaierie d'Italia Spa e Ilva Spa in amministrazione straordinaria], in www.contenziosoclimaticoitaliano.it/i-casi/.
[19] Sul concetto di buona fede climatica, si v. la corrispondente voce in www.contenziosoclimaticoitaliano.it.
[20] Per un approfondimento delle decisioni della COP28, si rinvia a M. Carducci: Le novità della COP28 tra uso delle parole e Costituzione, in www.laCostituzione.info, 17 dicembre 2023; e La buona fede “climatica” dopo la COP28, in Eunomia. Rivista di studi su pace e diritti umani, 2, 2023, pp. 127-144.
[21] Il paradigma è ormai ampiamente riconosciuto anche dalla dottrina giuridica e dalla giurisprudenza. Per una sintesi, si v. S. Ragone, One Health e Costituzione italiana, tra spinte eco-centriche e nuove prospettive di tutela della salute umana, ambientale e animale, e F. Vivaldelli, Corti supreme e One Health. Vent’anni di giurisprudenza, entrambi in Corti supreme e salute, rispettivamente 3, 2022, pp. 809-826, e 3, 2024, pp. 1-14.
[22] Così, testualmente, Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 1° ottobre 2024 n. 7884, punto 4.5.3.
[23] Così, testualmente, Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30 maggio 2022, n. 4355, punto 6.1.
[24] Ibidem.
[25] Così, testualmente, Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza del 2 agosto 2024 n. 6947, punto 7.1.
[26] Ibidem.
[27] Cfr., per esempio, Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 1° marzo 2024, n. 2044, e Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28 giugno 2023, n. 633.
[28] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 1° ottobre 2024 n. 7884, punto 18.3.
[29] Cfr., per la qualificazione del tempo come “bene della vita”, A. Nicodemo, Il tempo come bene della vita, Torino, Giappichelli, 2024.
[30] Cfr. P. Bertolini, Nesso causale: criterio del “più probabile che non” anche per il Consiglio di Stato, in https//rgaonline.it/, 2 giugno 2023.
[31] Si v. la voce “Probabilità baconiana e pascaliana” in www.contenziosoclimaticoitaliano.it.
[32] IPCC, www.ipcc.ch/report/ar6/wg1/.
[33] Sulla centralità delle leggi di inerzia del sistema climatico, spesso sottovalutate dai formanti giuridici, si rinvia a M. Carducci, Costituzionalismo ambientale e leggi della natura, in www.federalismi.it, 12, 2025, pp. 23-36.
[34] L’evidenza è nota sin dal 2001: cfr. IPCC, Climate Change 2001: Synthesis Report: What is known about the inertia and time scales associated with the changes in the climate system, ecological systems, and socio-economic sectors and their interactions?, in https://archive.ipcc.ch/ipccreports/tar/vol4/011.htm.
[35] Cfr. J. Marquardt, L.L. Delina, Making time, making politics: Problematizing temporality in energy and climate studies, in Energy Research & Social Science, 76, 2021, 102073, e R. Maier, J. Behrens, M. Hoffman, F. Kullman et al., Impact of foresight horizons on energy system decarbonization pathways, in Advances in Applied Energy, 18, 2025, 100217 e ivi bibliografia.
[36] Cfr. M. Macrì, Emergenza climatica e funzione amministrativa. Il provvedere nel climate first, Torino, Giappichelli, 2024.
[37] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23 settembre 2022 n. 8167, su cui F. Motta, La riforma dell’art. 41 Cost. davanti al Consiglio di Stato: scelte pubbliche, dati scientifici e transizione ecologica, in www.LaCostituzione.info, 6 ottobre 2022.
[38] Cfr., per i casi: G. Naglieri, Valutazioni di impatto ambientale e downstream emissions. La sentenza Finch v. Surrey della Corte Suprema del Regno Unito, guardando ad Oslo, e L. Cardelli, Utilità sociale intergenerazionale e incompatibilità costituzionale delle emissioni antropogeniche fossili, alla luce di tre recenti decisioni giurisprudenziali, entrambi in Osservatorio sul Costituzionalismo Ambientale(OCA) www.DPCEonline, 17 luglio 2024, G. Trivi, Cambiamento climatico e inquinamento, alla luce di sei recenti decisioni giudiziali: l’analogia come analisi dei “co-benefici” della mitigazione climatica e attuazione del principio europeo di “integrazione”, in Osservatorio sul Costituzionalismo Ambientale(OCA) www.DPCEonline, 2 luglio 2024, e sempre G. Trivi, Catalogo aperto delle emissioni pericolose e tutela della persona tra diritto interno ed europeo, in www.LaCostituzione.info, 1 luglio 2024, nonché S. Pitto, Valutazione d’impatto ambientale ed emissioni indirette: la lettura estensiva e il “favor climatis” della UK Supreme Court nel caso Finch v. Surrey, e M. Carducci, Le affinità “emissive”, entrambi in www.diritticomparati.it, rispettivamente 24 settembre 2024 e 11 luglio 2024.
[39] Così dispone il § 550: «Nel valutare se uno Stato sia rimasto all’interno del suo margine di apprezzamento (si veda il precedente paragrafo 543), … le autorità nazionali competenti, siano esse a livello legislativo, esecutivo o giudiziario, [devono tenere] in debito conto la necessità di: (a) adottare misure generali che specifichino un obiettivo temporale per il raggiungimento della neutralità del carbonio e il bilancio complessivo del carbonio rimanente per lo stesso periodo di tempo, o un altro metodo equivalente di quantificazione delle future emissioni di gas serra, in linea con l'obiettivo generale degli impegni nazionali e/o globali di mitigazione dei cambiamenti climatici; (b) definire obiettivi e percorsi intermedi di riduzione delle emissioni di gas serra (per settore o altre metodologie pertinenti) che siano ritenuti in grado, in linea di principio, di raggiungere gli obiettivi nazionali complessivi di riduzione dei gas serra entro i tempi previsti dalle politiche nazionali; (c) fornire prove che dimostrino se hanno debitamente rispettato, o sono in procinto di farlo, i relativi obiettivi di riduzione dei gas serra (vedere i precedenti sottoparagrafi (a)-(b)); (d) mantenere aggiornati gli obiettivi di riduzione dei gas serra con la dovuta diligenza e sulla base delle migliori prove disponibili; e (e) agire tempestivamente e in modo appropriato e coerente nell'elaborazione e nell'attuazione della legislazione e delle misure pertinenti».
[40] Si v. i §§ 118, 403 e 542 della sentenza, nonché la voce “The closing window” in www.contenziosoclimaticoitaliano.it.
[41] Cfr. M. Carducci, Effettività intertemporale e legalità formale nella lotta all’emergenza climatica, alla luce dell’art. 8 CEDU, secondo l’Alta Corte di Irlanda in www.diritticomparati.it, 25 marzo 2025.
[42] O.V. Giannico, S. Baldacci, L. Bisceglia, S. Minerba et al., Il “mortality cost” delle emissioni di CO2 di uno stabilimento siderurgico nel Sud Italia: una valutazione degli impatti sanitari derivanti dal cambiamento climatico, in Epidemiologia e Prevenzione, 47(4-5), 2023, 273-280.
[43] Cfr. G. Arconzo, Per la Corte di giustizia i decreti Salva Ilva ledono il diritto alla salute degli abitanti di Taranto, in Quaderni Costituzionali, 4, 2024, 947-950.
[44] https://www.ipcc.ch/sr15/.
[45] https://www.ipcc.ch/report/ar6/wg2/.
[46] https://www.ipcc.ch/report/sixth-assessment-report-cycle/.
[47] Cfr., per tutti, J. Rogelj, P.M. Forster, E. Kriegler, C.J. Smith, R. Séférian, Estimating and tracking the remaining carbon budget for stringent climate targets, in Nature, 571, 2019, pp. 335-340.
[48] Si v. la voce “Carbon Budget Residuo” in www.contenziosoclimaticoitaliano.it.
[49] Come si desume dai glossari dell’IPCC: https://apps.ipcc.ch/glossary/
[50] Sul “doppio rischio sanitario”, cfr. M. Williams, Tackling climate change: what is the Impact on Air Pollution?, in Journal of Carbon Management, 3(5), 2012, pp. 511-519, e C. Facchini, Inquinamento atmosferico e cambiamenti climatici, in C. Mangia, G. Rubbia, M. Ravaioli, S. Avveduto et al. (a cura di), Ambiente e clima. Il presente per il futuro, CNR, 2021, p. 23.
[51] Cfr. C. Mangia, P. Ielpo, R. Cesari, M.C. Facchini, Crisi climatica e inquinamento atmosferico, in Ithaca. Viaggio nella scienza, 15, 2020, pp. 57-58.
[52] Cfr. A. Haines, Use the remaining carbon budget wisely for health equity and climate justice, in The Lancet, 400, 2022, pp. 477-479, e K. Abbass M.Z. Qasim, H. Songm M. Murshed et al., A review of the global climate change impacts, adaptation, and sustainable mitigation measures, en Environmental Science and Pollution Research, 29, 2022, pp. 42539–42559.
[53] Cfr., da ultimo Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16 novembre 2023 n. 9852, p. 12.
[54] Nell’ordinanza n. 150/2012, la Corte costituzionale ha qualificato le sentenze della Grande Camera ex art. 43 CEDU un novum nel sistema delle fonti, puntualizzando che «la sopravvenienza della sentenza della Grande Camera impone di ricordare che la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che la questione dell’eventuale contrasto della disposizione interna con la norme della CEDU va risolta, per quanto qui interessa, in base al principio in virtù del quale il giudice comune, al fine di verificarne la sussistenza, deve avere riguardo alle norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo (tra le molte, sentenza n. 236 del 2011, richiamando le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 e tutte le successive pronunce che hanno ribadito detto orientamento), specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione (da ultimo, sentenza n. 78 del 2012), poiché il contenuto della Convenzione (e degli obblighi che da essa derivano) è essenzialmente quello che si trae dalla giurisprudenza che nel corso degli anni essa ha elaborato (per tutte, sentenze n. 311 del 2009 e n. 236 del 2011), occorrendo rispettare la sostanza di tale giurisprudenza, con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi (ex plurimis, sentenze n. 236 del 2011 e n. 317 del 2009), ferma la verifica, spettante a questa Corte, della compatibilità della norma CEDU, nell’interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione (sentenza n. 349 del 2007; analogamente, tra le più recenti, sentenze n. 113 e n. 303 del 2011)».
[55] Cfr. M. A. Scurati Manzoni (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Roma, Palazzo della Consulta, 2023.
[56] Cfr. G. Campeggio, L’installazione ex Ilva e la conformità e adeguatezza della valutazione di impatto sanitario dopo la riforma costituzionale dell’art. 41 Cost. e nel quadro della giurisprudenza UE e CEDU, in www.contenziosoclimaticoitaliano.it, febbraio 2025.
[57] M. Cunha Verciano, Il doppio limite del potere di mitigazione climatica dell’Italia dopo le sentenze CEDU del 9 aprile 2024, in www.giustiziainsieme.it, 22 gennaio 2025.
[58] Di «forza vincolante delle pronunce della Corte di Strasburgo» parla la Corte costituzionale nella sentenza n. 7/2024/2024, in una prospettiva di «solida sinergia fra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU, che consente di leggere in stretto coordinamento i parametri interni con quelli convenzionali al fine di massimizzarne l’espansione in un rapporto di integrazione reciproca» (Corte costituzionale, sentenze n. 145/ 2022 e n. 4/2024).
[59] Il n. 3 dell’art. 52 dispone che «Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell'Unione conceda una protezione più estesa».
[60] Caso “Coolglass v. An Bord Pleanála”, 10 gennaio 2025.
[61] Sull’estensione del concetto di “nocivo” (harmful) nel diritto UE e sull’inclusione, in esso, della dimensione climatica, si v., tra le altre, la Direttiva IED 2024/1785 del 24 aprile 2024 (in particolare con riferimento alle previsioni di cui all’art. 27-quinquies), la Direttiva sulla qualità dell’aria 2024/2881 del 23 ottobre 2024, il Piano d’Azione della Commissione Europea sull’Acciaio e i Metalli (COM(2025) 125 final) del 19/03/2025.
[62] Si v. la Relazione al Disegno di legge sul clima (Senato della Repubblica, XIX legislatura Atto 743), in cui testualmente si parla di «emissioni nocive di carbonio».
[63] A.T. Cohen, L’Italia senza “quota equa” e Carbon Budget viola Costituzione e CEDU, in www.LaCostituzione.info, 9 ottobre 2024.
[64] Cfr. M. Cunha Verciano, L’emergenza climatica tra giudice e vincoli normativi: sulla soglia accettabile del pericolo, in www.LaCostituzione.info, 13 giugno 2022, nonché le proposte di legge, depositate in Parlamento, per la sua introduzione (cfr. Senato della Repubblica, XIX legislatura, Atto 1007).
[65] Cfr. G. Trivi, La nullità della valutazione ambientale strategica del PNIEC per assenza di Carbon Budget residuo, in Osservatorio sul Costituzionalismo Ambientale(OCA) www.DPCEonline.it, 24 gennaio 2025.
[66] Ci si riferisce alle posizioni di G. Scarelli, Contenzioso climatico e giurisdizione, in www.giustiziainsieme.it, 26 novembre 2024, e M. Magri, Lineamenti dell’amministrazione pubblica del clima, in Diritto pubblico, 2, 204, pp. 321-348.
[67] Lo argomenta bene C. Eckes, “It’s the democracy, stupid!” in defence of KlimaSeniorinnen, in ERA Forum, 25, 2024, 451-470.
[68] Il dettaglio dell’art. 43 CEDU sembra essere sfuggito all’analisi di Scarselli (art. cit.), secondo il quale la sentenza “Verein KlimaSeniorinnen” non vincolerebbe in alcun modo i giudici comuni italiani.
[69] Cfr., per una spiegazione sufficientemente semplice, Q. Wu, G.R. North, Climate sensitivity and thermal inertia, in Geophysical Research Letters, 29(15), 2002, pp. 2-1/2-2.
Avvilente e pericolosa. Non sovvengono altri aggettivi per qualificare la telenovela mediatico-giudiziaria sul caso Garlasco, che da molti giorni egemonizza i palinsesti della televisione, della radio e della stampa, sollecitando e soddisfacendo un ossessivo interesse per indagini che potrebbero rimettere in discussione la condanna di Alberto Stasi per l’orribile omicidio di Chiara Poggi.
Ma come, si obietterà, non abbiamo sempre detto che è diritto sacrosanto del popolo conoscere come viene amministrata la giustizia in suo nome (art.101 Cost.)?
La verità è che questo polverone di indiscrezioni, di nuovi accertamenti, di illazioni, di recriminazioni, di nuovi sospetti, di sensazionalismi, con una rigorosa e consapevole narrazione dell’attività giudiziaria ha poco a che fare; non risponde a un interesse pubblico, ma a un morboso interesse del pubblico; nelle sue espressioni deteriori ricorda “gli strilloni” del yellow journalism americano di fine Ottocento. Pochi rinunciano a una comparsata: giornalisti, avvocati, magistrati, consulenti, vistosamente esondando dai rispettivi codici deontologici, gareggiano nell’insufflare nel circuito mediatico-giudiziario qualche sconvolgente insinuazione. Per non farci mancare nulla, anche il Ministro della giustizia ha ritenuto di far sentire la sua voce, bollando come irragionevole e irrazionale la condanna di Stasi. Noi popolo, poi, contribuiamo con la nostra insana attrazione per delitti efferati e successive inchieste: siamo il Paese, nei cui giornali la cronaca nera occupa più del doppio di quanto mediamente avviene negli omologhi organi di informazione europei.
Una siffatta sarabanda mediatica, oltre che deplorevole, è anche pericolosa per più ragioni.
Anzitutto, perché instilla nella collettività una sfiducia nella giustizia, sulla fallace idea che questa, quando funziona bene, debba partorire sempre la verità. Ma la Verità non è umano appannaggio, e il nostro sforzo di accertamento di episodi del passato si deve muovere “nel crepuscolo delle probabilità” (John Locke). L’itinerario processuale che ogni collettività predispone per rendere giustizia è quello che ritiene il meno imperfetto per orientarsi in tale crepuscolo; e il cui risultato è disposta ad accettare pro veritate, al posto della verità. Vi possono essere quindi sentenze giuste, ma orfane della verità. Basta tornare con la mente al recente, doloroso caso Zuncheddu, pastore sardo che ha scontato 33 anni di prigione da innocente: in presenza di un testimone oculare che asseriva di riconoscere in lui l’assassino, le sentenze che lo hanno condannato erano “giuste” - cioè emesse al termine di un corretto iter cognitivo e motivazionale - ma drammaticamente fallaci. Inaccettabile conseguenza dei nostri limiti umani che dobbiamo, purtroppo, imparare ad accettare. Ogni altro modo di rendere giustizia, del resto, sarebbe drammaticamente peggiore. Un popolo che non crede nella propria giustizia si rassegna fatalmente a quella del più forte; prospettiva pericolosa, in uno Stivale come il nostro, sempre pronto a calzare il piede dell’uomo della Provvidenza.
Naturalmente, non è mancato chi, sull’onda emotiva di questa dolorosa vicenda, ha subito stentoreamente invocato un urgente cambiamento del nostro sistema giustizia. Se ad ogni vero o presunto errore giudiziario dovessimo ridisegnare l’itinerario cognitivo elaborato sulla base di pluriennale esperienza, vivremmo in una disorientante incertezza. Non si intende certo dire che le regole del nostro giudizio penale non possano e quindi non debbano essere migliorate; ma il modo peggiore per intervenire è quello d’impulso, nel momento in cui è ancora vivissimo lo sconcerto per una drammatica vicenda umana e giudiziaria.
Questo chiassoso e indecifrabile polverone informativo è foriero di un’ultima deleteria conseguenza: ingenera nell’opinione pubblica spasmodiche attese di risposta ai suoi angoscianti dubbi ed esercita un’incalzante pressione soprattutto sugli organi inquirenti, rischiando di indurli a rovinose scorciatoie (come ad es. nell’altrettanto famoso processo per il delitto di Meredith Kercher: «l’inusitato clamore mediatico della vicenda - rilevò la Cassazione - ha fatto sì che le indagini subissero una accelerazione nella spasmodica ricerca di un colpevole da consegnare all’opinione pubblica internazionale e non ha certamente giovato alla ricerca della verità sostanziale»). Con la paradossale conseguenza che poi, anche in tal caso, si solleveranno dubbi sulla correttezza del risultato che ne è conseguito. E saremmo daccapo, con un altro scomposto clamore mediatico.
Contributo pubblicato sul quotidiano “Avvenire” del 1.6.2025.
Al convegno Attorno a questo corpo dalle mille paludi, titolo preso in prestito da un verso di Amelia Rosselli, sarà presentato il libro di Donatella Stasio L’amore in gabbia.
In effetti tra le mille paludi attorno al corpo, la palude che, più di ogni altra, offre la plastica rappresentazione dell’impedimento al corpo è la palude simboleggiata dalla gabbia.
Nel libro di Donatella Stasio la gabbia è un emblema così come un emblema è l’amore, quale rappresentazione unificante di plurime possibili interrelazioni salvifiche.
Il saggio di Stasio è una rassegna sugli ostacoli al corpo: dalla restrizione nella cella di isolamento in cui viene rinchiuso Gianluca, ancora adolescente a Fossombrone, “venti ore al giorno in isolamento”, all’isolamento affettivo della sua infanzia, cucciolo di una madre “rigida di metallo, che non scalda ma grazie a un biberon meccanico nutre”, la mamma scimmia dell’esperimento scientifico di Harry Harlow.
La lettura ti conduce attraverso un viaggio evocativo e stimolante nel corso della quale si passano in rassegna gabbie potenziali e reali, volontarie, imposte o eventuali: la famiglia, la droga, il carcere e la dannosa assenza di relazioni affettive.
L’autrice non limita il suo obiettivo al racconto di «cosa significhi, nella vita di un essere umano, tenere in gabbia, insieme al corpo, anche la mente e il cuore, chiudere tutto a doppia mandata e buttare la chiave», ma va oltre e punta il dito sulle criticità della nostra società e su come siano stati messi «“in gabbia” altri diritti di libertà riconosciuti dalla Corte costituzionale ma sgraditi alla maggioranza: il diritto al suicidio assistito in presenza di determinate condizioni; il diritto dei figli di coppie omogenitoriali di essere riconosciuti da entrambi i genitori che li hanno voluti cresciuti; il diritto delle madri di condividere realmente la scelta del cognome, materno o paterno, da attribuire ai figli, fin dalla nascita, e, in caso di disaccordo, di assegnare loro il doppio cognome».
L'Io come ha scritto Freud si oggettivizza nel corpo. L’Io «è in definitiva derivato da sensazioni corporee, soprattutto dalle sensazioni provenienti dalla superficie del corpo. Esso può dunque venire considerato come una proiezione psichica della superficie del corpo».
La proiezione psichica della superficie del corpo è influenzata dalle relazione affettive, la madre di morbida pezza, che scalda ma non nutre dell’esperimento di Harry Harlow conferma in maniera lampante che “non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Vangelo Matteo 4, 4 e Luca 4, 4), la parola dalla bocca di Dio, secondo una visione laica e contemporanea, altro che non è che l’amore dell’uomo, la solidarietà, la capacità di ascoltare di offrire, di relazionarsi in modo altruistico.
Gianluca che rappresenta il corpo del detenuto, per tornare al fil rouge del convegno, un corpo affatto dissimile dal corpo del migrante – ristretto solo perché cerca un mondo – o dal corpo prigioniero – ristretto perché è un soldato mandato a combattere.
Nella narrazione di Donatella Stasio il corpo di Gianluca in carcere soffre perché è rinchiuso, perché viene picchiato negli angoli in cui l’occhio della telecamere di sorveglianza non arriva e dagli stessi che dovrebbero proteggerlo, perché viene svegliato dai cani a scopo punitivo, perché la sua cella viene violata quanto all’intimità degli oggetti da perquisizioni violente, perché non ha un luogo dove rimanere in intimità, perché se sfiora il visitatore durante i colloqui il sorvegliante di turno lo sgrida.
Gianluca in carcere è un corpo sofferente perché abusato nella sua dignità.
«Avevo dolori fisici inenarrabili, ero bloccato in ogni parte del corpo, duro come un pezzo di legno. Non perché non fossi allenato, figuriamoci! Ma perché il mio corpo si prendeva la responsabilità di proteggermi dagli abusi, dalla mia emotività inesistente», scrive Gianluca a Donatella.
Gianluca dopo la prima volta diventa un recidivo.
La recidivanza è il più grave tradimento della nostra Costituzione, il più grosso smacco al principio rieducativo della pena. È singolare come l’attenzione al principio rieducativo della pena sia condizionato dall’ideologia politica, come l’asperità o meno del trattamento penale del recidivo dipenda dal colore della bandiera del politico di turno. Il confronto tra la dottrina sulla recidiva del fascista Manzini e la teoria del socialista Matteotti (che nella sua breve esistenza scrisse un saggio ancora attuale sul trattamento penale del recidivo) offre un’idea plastica di come l’idea della punizione sia connaturale al fascista e come quella della rieducazione sia invece connaturale al socialista.
Per fortuna la nostra bella Costituzione ha consacrato il principio rieducativo della pena. La più bella Costituzione del mondo, come scrive Donatella Stasio, è una Costituzione percorsa dal filo dell’impellenza delle relazioni sociali. Il primo richiamo alla comunità di sentimenti lo troviamo all’art. 2 che consacra i doveri della solidarietà politica, economica e sociale come doveri inderogabili e poi all’art. 3 si rinviene il compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
In questo contesto dovrebbe orientarsi il principio rieducativo della pena ma i principi non vanno al passo delle situazioni di fatto, o meglio queste non si adeguano da sole ai principi costituzionali. Occorre uno sforzo che non si riesce a fare o che non si vuole fare, di qui l’enorme importanza della sentenza della Corte Costituzionale sull’intimità affettiva.
Come scrive Stasio: «In carcere, l’intimità, l’affettività, la sessualità non sono considerate espressioni della personalità umana, tanto meno un diritto. Sono un lusso, addirittura un privilegio, e chi ha violato la legge – dal mafioso al ladruncolo, dal tossicodipendente allo straniero, dal detenuto di Alta sicurezza a quello comune – non ha diritti né privilegi né lussi, non merita niente, neppure di respirare. E che “intima gioia”, che godimento questa mancanza d’aria, specie per i “più pericolosi”, abbiamo sentito dire da un sottosegretario alla Giustizia del nostro governo.»
A questa manifestazione di intima gioia, negazione assoluta della dignità umana, mi piace contrapporre un’immagine salvifica. L’immagine è quella di Papa Francesco che lava i piedi dei detenuti di Rebibbia.
Restituiscono dignità all’uomo le mani del Papa sui piedi di corpi rinchiusi e rendono il valore di quei corpi inestimabile, così come deve essere il valore di ogni corpo umano. Chissà quanto è stato emozionante quel contatto fisico per il detenuto e per i presenti che hanno sentito tangibile l’amore esondante dal gesto purificatore che restituiva la dignità all’uomo senza condizioni. «Perché voi e non io», diceva Papa Francesco ogni volta che varcava il portone pesante di un carcere. Un mantra che lo accompagnava nel suo pellegrinare fra gli ultimi, portando speranza, scambiando i suoi occhi con i loro, «facendo sua la storia di ogni persona detenuta». Nessuno deve sentirsi uno scarto secondo la dottrina di Papa Francesco, eppure Gianluca dice di sé «sono stato un prodotto di scarto di questa società per talmente tanti anni che ancora oggi il dolore di quell’ambiente abusante è così vivo dentro di me da farmi sentire un bambino abbandonato tra i tanti, un numerino senza storia, un racconto di poco conto da non dire per non impietosire.»
Negli ultimi anni l’articolo 27 della Costituzione è stato sfregiato dal disinteresse dei governanti. Il sovraffollamento carcerario colloca l’Italia al fanalino di coda dei Paesi europei e così il numero dei suicidi in carcere.
Niente investimenti, niente politiche di depenalizzazione anzi, all’opposto, la maggioranza al governo dall’insediamento non fa che aumentare il numero dei reati, e con il decreto legge sicurezza sono stati introdotti quattordici nuovi reati e sono state aggravate le pene di quelli esistenti – sono questi i reati proprio dei poveri cristi – .
I detenuti aumenteranno. Il decreto-legge sicurezza determinerà l’effetto esattamente opposto a quello propugnato dal decreto perché, come scrive Donatella Stasio la «pervasività fa sì che le patrie galere restituiscano alla “società civile” non persone libere, ma reduci. Che tornino a delinquere oppure no, sono dei reduci. Che abbiano pene lunghe o brevi da scontare, prima o poi tornano a casa – sempre che restino vive e che abbiano una casa –, ma tornano devastate dagli abusi consumati dal carcere. Sono come quei soldati ai quali la guerra ha strappato gambe, braccia, occhi: mutilati nel corpo e nella dignità, amputati dei sentimenti, della sessualità, della capacità di amare, della libertà.»
Ma in questa nostra epoca caratterizzata dalla cultura dello scarto desertificata dal valore del rispetto della dignità umana, noncurante del dovere inderogabile della solidarietà, un passo avanti è stato fatto grazie a un magistrato di sorveglianza, Fabio Gianfilippi, – lo stesso che aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale – e alla pubblico ministero Michela Petrini che hanno imposto l’attuazione della storica sentenza della Corte Costituzionale n.10/2024, contenente la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 18 nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia.
Come ci ricorda Stasio un tentativo in tal senso fu messo in pratica dal 1952 al 1960, da Eugenio Perucatti che diresse il carcere per “l’ergastolani” nell’isola di Santo Stefano, al largo di Ventotene, il carcere che – guarda caso – fu smantellato dal governo Tambroni (governo democristiano sostenuto con l’appoggio esterno del Movimento sociale italiano con il quale il partito Fratelli d’Italia ha in comune pure il simbolo della fiamma tricolore).
Come scrive Donatella Stasio «La sentenza sull’affettività – la numero 10 del 2024 – ha suscitato scandalo e ilarità nel fantastico mondo della società civile, dove tanti, troppi, “godono” se i detenuti non respirano e vengono privati di momenti d’amore. Di quel “godimento” si nutrono le destre, che ne vanno fiere pubblicamente – è questo il dato politico nuovo rispetto al passato – e tanto basta a spiegare il lungo boicottaggio della sentenza della Corte, così come delle altre che riconoscono diritti fondamentali ideologicamente sgraditi alla maggioranza.»
La stanza dell’amore è il punto di arrivo di un percorso il cui punto di partenza si rinviene nella nostra bella Costituzione, oltre che nella Convenzione europea dei diritti dell’Uomo; si tratta di applicazione minima, ma essenziale, del principio secondo il quale «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». La costrizione delle emozioni e dei sentimenti – ce lo dice la Corte costituzionale – costituisce un trattamento contrario al senso di umanità.
Dell’intimità in carcere Gianluca, alla domanda di Donatella, risponde «non si fa» e chiarisce «Qualunque essere umano è in grado di astenersi dalla sessualità per anni senza patire, non è che i detenuti sono una specie a parte che se non eiacula ogni tot muore. La filmografia pop americana è tossica. Il carcere è un luogo di espiazione dove calarsi in una dimensione di intimità con se stessi, di ricerca, di comprensione». Donatella è spiazzata «l’adesione convinta dei detenuti al “non si fa”, al “non sta bene”. L’accettazione, anzi, di più, la convinzione che “non sta bene” e dunque “non si fa” – baciarsi, abbracciarsi, toccarsi o semplicemente sfiorarsi con i propri fidanzati o le proprie fidanzate.»
Anche attraverso la negazione del rapporto affettivo si lede la dignità umana e la lesione subìta da Gianluca è ancora sotto la sua carne cicatrizzata. Racconta il dolere derivante dalla violazione dell’intimità dei colloqui, «brandelli galeotti di affettività settimanale relegata a un’ora di orologio con parenti stretti, amori, conviventi vere o fasulle». «Spesso», racconta, «le guardie interrompevano malamente quei momenti, sostenendo che qualcosa non andava bene; sbattevano le chiavi sul vetro della sala colloqui o direttamente sul tavolo intorno al quale eri seduto a parlare. Era il loro modo di richiamarti all’ordine, anche sulla scadenza dell’orario di visita. Gesti brutali, piccole e grandi angherie, gratuite, umilianti, impossibile non coglierle se stai chiuso lì dentro. Io le ho sofferte tantissimo, così tanto da tenermi volutamente a distanza da tutto ciò che potesse provocarle. Ai colloqui diventavo glaciale pur di non essere disturbato dalle guardie, da quella vista indiscreta, da quei gesti intrusivi e violenti sulla mia intimità. E anche da possibili sanzioni disciplinari.»
Nessuna emozione nessun sentimento nessun contatto sono le regole detenuto affinché sia garantita la pax carceraria; l’effetto collaterale è l’ablazione dei sentimenti e delle relazioni, effetto che determina l’analfabetismo delle emozioni, l’opposto di quello che serve al processo di rieducazione, e ciò in quanto «Il carcere che funziona è quello che produce libertà, come usava dire Alessandro Margara. E la libertà sta dentro i corpi, le menti e i cuori. La realtà è ben altra: la pax carceraria si nutre di subcultura che più o meno tutti, operatori e detenuti, finiscono per respirare, assimilare e condividere. È stato così anche per Gianluca, uno delle migliaia di allievi formatisi alla scuola del carcere. I suoi principali maestri sono stati detenuti mafiosi o dell’Alta sicurezza, il regime detentivo speciale destinato ai detenuti considerati particolarmente pericolosi o che hanno commesso reati gravi, con i quali ha convissuto per circa sei anni, quand’era poco più che un adolescente.»
Gianluca sull’intimità in carcere dopo la prima risposta riflette ancora e poi ci ripensa occorre lavorarci, la stanza dell’amore produrrà i suoi effetti.
Donatella Stasio offre al lettore una lucida analisi politica che non può non condividersi: «Il carcere racconta molto dello stato di salute di una democrazia. Il paesaggio contemporaneo delle prigioni italiane è fatto di corpi ammassati, sempre più giovani e sempre più vecchi, provati da tossicodipendenze, malattie mentali e psichiche, e dalla povertà; ma è fatto anche di corpi senza più vita, suicidati o deceduti, in numeri senza precedenti. Un contenitore nel quale buttare anche il dissenso e, più in generale, tutto ciò che non si vuole o non si sa affrontare – dai migranti al disagio sociale – e che perciò va chiuso in gabbia, possibilmente “a marcire”, cavalcando l’inganno secondo cui solo la gabbia garantisce legalità e sicurezza. Un totale rovesciamento della prospettiva democratica secondo cui le priorità sono il rispetto della dignità della persona, i suoi diritti, la sicurezza sociale.»
Ma Gianluca ce l’ha fatta, il carcere di Bollate ha impedito che ricadesse di nuovo nell’errore.
Una cosa è certa: le persone cambiano la storia dei singoli e pure quella dei popoli; questo ci deve far sentire tutti responsabili, attivi e propulsivi e disponibili, pronti a fare quello che in certi momenti occorre fare, in questo senso certamente Stasio ha adempiuto alle sue responsabilità di giornalista scrivendo questo bellissimo saggio.
«Una persona è sempre fatta da tante persone che l’hanno aiutata e amata», ha detto Ana Lydia Sawaya, professoressa dell’Università di San Paolo del Brasile, il giorno della sua consacrazione monacale.
Il libro di Stasio non racconta soltanto la storia delle periferie e dell’abbandono sociale; Gianluca non te lo racconta soltanto, ma te lo fa incontrare. Un uomo fatto dalle persone che lo hanno aiutato e amato.
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