Ancora in tema di opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali: è meglio accendere i riflettori sulla Consulta o lasciarla in penombra?
di Antonio Ruggeri
Sommario: 1. Una questione antica, di cui non ci si nasconde, tanto dai favorevoli quanto dai contrari alla introduzione del dissent, la sussistenza di vantaggi e svantaggi a quest’ultima conseguenti – 2. Un appunto critico di metodo al modo usuale con cui si guarda al dissent e i due dati sui quali conviene specificamente appuntare l’attenzione al fine di stabilire se sia, o no, opportuno far luogo alla sua previsione – 3. Una succinta, sofferta notazione finale.
1. Una questione antica, di cui non ci si nasconde, tanto dai favorevoli quanto dai contrari alla introduzione del dissent, la sussistenza di vantaggi e svantaggi a quest’ultima conseguenti
La questione – come si sa – è antica, da noi come altrove: un tempo animatamente discussa e dallo stesso giudice delle leggi particolarmente avvertita, tanto da dedicarvi uno dei suoi Seminari[1], e quindi a più riprese riconsiderata in dottrina, anche con contributi di respiro monografico di considerevole interesse[2]. È tornata, poi, ancora da ultimo, a porsi in evidenza e ad essere fatta oggetto di valutazioni di vario segno in relazione a talune vicende processuali che hanno attratto l’attenzione di studiosi e operatori, tra le quali quella relativa alla sospensione della prescrizione a causa della emergenza da Covid-19[3]. A dare ulteriore rilievo alla questione stessa è, poi, venuta una intervista[4] al giudice relatore della sent. n. 278 del 2020, dal titolo eloquente: Zanon: “È tempo che la Corte faccia conoscere l’opinione dissenziente”[5]. In realtà, l’intervistato si è limitato a rammentare un fatto noto, vale a dire che non poche volte il dissenso maturato in seno al collegio è reso palese dalla sostituzione del relatore al fine della redazione della decisione[6], aggiungendo tuttavia una chiosa significativa, tenendo a precisare che, in siffatte circostanze, si assiste ad una forma di dissenso “autoreferenziale e introversa” (e, forse, potrebbe ulteriormente aggiungersi – ma è una notazione personale – anche frustrante, dal momento che colui che la pone in essere non ha modo di far conoscere il proprio punto di vista, sì da consentire il raffronto con quello della maggioranza del collegio[7]).
Non è, ad ogni buon conto, inopportuno rammentare che la sostituzione in parola, per un verso, non necessariamente si deve ad un dissenso, potendo avere a sua giustificazione, sia pure in casi non frequenti[8], anche una causa diversa; per un altro (ed ancora più rilevante verso), poi, essa non esaurisce di certo i casi di divisione registratisi, in relazione alle singole vicende processuali, in seno all’organo giudicante, per la ragione di tutta evidenza che essa non “copre” gli altri casi, di gran lunga maggiori per numero, in cui ad essere in minoranza sono giudici diversi dal relatore, la cui posizione non è dunque intercettata neppure nella forma blanda sopra indicata.
Venendo, nondimeno, al cuore della questione, nulla ora dirò per ciò che concerne il merito della stessa, premendomi piuttosto svolgere una succinta notazione di metodo, con riguardo cioè all’animus col quale si è soliti ad essa accostarsi e prendere partito per l’uno o per l’altro verso.
Nel merito, infatti, pregi e difetti del dissent[9] sono stati sviscerati da tempo[10] e si tratta solo di far luogo, ancora una volta, alla loro reciproca ponderazione al fine di stabilire da quale parte penda maggiormente la bilancia. Accenno solo di passaggio, dopo averne detto ripetutamente altrove[11], che forse i più pesanti argomenti sono quelli a favore della introduzione dell’istituto, restando quindi nondimeno aperta la questione, nient’affatto agevole da risolvere, relativa al modo con cui farvi luogo[12]. Fra gli argomenti in parola, una considerevole vis persuasiva – è innegabile – possiede quello che fa leva sul guadagno che ne avrebbe la linearità e coerenza della motivazione, una volta depurata di alcune espressioni non di rado in essa presenti al fine di dare un qualche appagamento alla posizione tenuta dalla parte minoritaria del collegio[13], nonché l’altro per cui il dissent spianerebbe la via a successive, ulteriori messe a punto di un orientamento dapprima manifestato dalla Corte o, più ancora, al suo ribaltamento, che avrebbe agio di affermarsi appoggiandosi appunto all’opinione minoritaria in precedenza manifestata.
Sul fronte opposto, l’argomento più “forte” di tutti è quello che rimanda al timore di una eccessiva esposizione “politica” dei giudici dissenzienti (e, di conseguenza, ad un eventuale pregiudizio per la loro indipendenza, sostanzialmente intesa[14]), unitamente all’altro che paventa il rischio di un indebolimento della posizione della Corte davanti ai decisori politico-istituzionali. L’indebolimento in parola dell’intero collegio poi ugualmente si avrebbe anche per l’ipotesi che dovesse essere giudicato conveniente tenere celato il nome del dissenziente o dei dissenzienti (se più d’uno, dal momento che l’effetto comunque conseguirebbe al mero dato oggettivo della manifestazione del dissenso.
2. Un appunto critico di metodo al modo usuale con cui si guarda al dissent e i due dati sui quali conviene specificamente appuntare l’attenzione al fine di stabilire se sia, o no, opportuno far luogo alla sua previsione
Ora, il difetto, a mio modo di vedere, di tutte queste prese di posizione è dato da un qualche astrattismo che tutte, quale più quale meno, le connota ed accomuna, dovuto alla “decontestualizzazione” – se così posso chiamarla – della questione, vale a dire alla sua considerazione al piano teorico-astratto, senza però prestare specifica attenzione ai singoli contesti politico-istituzionali nei quali la novità in parola dovrebbe inscriversi e spiegare effetti (con ogni probabilità, di vario segno, anche in ragione delle singole vicende processuali in occasione del cui svolgimento essa vedrebbe la luce).
Questa obiezione, che – si badi – si indirizza anche ai detrattori del dissent, laddove fanno rimando ai rischi che esso fa correre considerati senza nondimeno specifico ancoraggio a singole congiunture politiche ed a certe vicende ordinamentali, può a mia opinione valere in relazione ad alcune indagini in chiave comparata venute da tempo alla luce, con le quali si mettono una accanto all’altra, alle volte innaturalmente sovrapponendole tra di loro, esperienze già a prima vista non confrontabili (o, meglio, confrontabili solo con gli opportuni distinguo e, comunque, cum grano salis). E ciò, per la elementare ragione che assai diversi sono appunto i contesti di riferimento, l’organizzazione complessiva del potere, la storia e quant’altro insomma fa di ogni ordinamento un caso a sé, non omologabile, se non con marcate (seppur alle volte non immediatamente visibili) forzature, agli altri[15]. Ciò non significa – è appena il caso qui di esplicitare – che la comparazione cessi per ciò solo di costituire una risorsa preziosa alla quale attingere, anche – per ciò che è ora d’immediato interesse – in prospettiva de iure condendo, laddove si pensi di porre mano alla introduzione anche da noi della novità in parola. Non sarà, tuttavia, mai eccessiva l’avvertenza a verificare se e fin dove la comparazione stessa possa spingersi e dove invece debba, per un suo intrinseco ed insuperabile limite, arrestarsi.
Ciò posto, all’esito di una disincantata riconsiderazione della questione in relazione al nostro ordinamento e – ciò che più conta – alle presenti condizioni politico-istituzionali, a me pare che sia consigliabile molta (forse, somma) cautela prima di incamminarsi speditamente lungo la via che porta all’adozione del dissent, al fine di evitare che quest’ultimo possa riservare sgradite sorprese e dar vita – sia pure involontariamente – ad inconvenienti ai quali non si saprebbe poi come porre rimedio, specificamente laddove dovesse manifestarsi su questioni gravide di valenza politico-istituzionale[16].
Invito, in particolare, a prestare attenzione a due dati, ad oggi anche dalla più avvertita dottrina presi in esame separatamente ma che gioverebbe tornare a riconsiderare nel loro insieme ed a riportarli all’istituto di cui siamo oggi tornati a discutere, se non altro per il fatto che unico è il contesto politico-istituzionale nel quale essi si calano ed inverano.
Il primo è dato da una viepiù marcata e vistosa esasperazione (e persino radicalizzazione) della lotta politica tra gli opposti schieramenti, alla quale peraltro si accompagnano non infrequenti segni d’insofferenza, specie da parte di certe forze politiche, nei riguardi dell’opera di custodia costituzionale svolta dai massimi garanti del sistema, Presidente della Repubblica e Corte costituzionale. È chiaro che la contrapposizione a muso duro fa parte del “gioco” della politica, della recita che ogni giorno si rinnova sulla scena davanti ad una platea di spettatori (componenti la c.d. pubblica opinione) sempre più disorientati, distaccati e – se posso esprimermi in modo franco, scusandomi per l’asprezza del termine – anche alquanto disgustati, specie davanti a certe espressioni della politica stessa. E, invero, da qualche tempo a questa parte lo scontro si è manifestato (e si manifesta) con toni d’inusitata virulenza, accompagnati da un linguaggio inaccettabile in un pubblico confronto, nel quale – ciò che è parimenti grave e sconfortante – con lampante evidenza si specchia una vistosa esiguità di contenuti, di progettazione, di quanto insomma dovrebbe rendere testimonianza, a un tempo, di adesione all’etica pubblica repubblicana cui dà voce la Carta costituzionale, specie nei suoi principi fondamentali, e di cultura istituzionale, oltre che – temo – anche di cultura tout court.
D’altro canto, non è di certo per mero accidente che si diffonda sempre di più a macchia d’olio, da noi come altrove (la qual cosa rende ancora più inquieti), un populismo esasperato, frammisto in alcune sue espressioni ad un nazionalismo becero ed ingenuo, improponibile in un contesto segnato da una integrazione sovranazionale avanzata e da vincoli viepiù stringenti che discendono dalla Comunità internazionale e, ciononostante, fortemente attrattivo nei riguardi di larghi strati della comunità governata. In alcuni Paesi, come negli Stati Uniti di Trump[17], il fenomeno ha raggiunto livelli forse da noi non ancora toccati (anche per le diverse condizioni complessive di contesto); non per ciò, com’è chiaro, c’è tuttavia da stare allegri. La pagina nera scritta oltreoceano con l’occupazione, nel giorno dell’epifania, del Campidoglio da parte di alcuni facinorosi seguaci del Presidente rende una eloquente riprova del fatto che, pure in Paesi considerati un modello di democrazia[18], proprio quando la guardia si abbassa il rischio dello scivolamento e del degrado del populismo in autoritarismo è sempre incombente, malgrado le innegabili risorse di cui il corpo sociale dispone al fine di pararlo[19].
Senza ora indugiare in un’analisi che porterebbe la succinta riflessione che si va ora facendo a deviare eccessivamente dal solco entro il quale è tenuta a stare, a me pare che, al fine di contrastare – come si deve – talune espressioni aggressive, virulenti, scomposte della politica o, quanto meno, tentare di arginarne fin dove possibile i più pericolosi effetti, non giovino di certo manifestazioni sopra il rigo degli organi di garanzia in genere (e, tra questi, il giudice delle leggi), non giovi comunque l’immagine che di sé gli organi in parola possano dare di attori istituzionali sensibili al canto ammaliante di questa o quella sirena politica, secondo occasionali convenienze.
Viene così in rilievo il secondo dei dati ai quali si faceva poc’anzi cenno.
La Corte costituzionale – secondo opinione corrente – sarebbe dotata di una doppia “anima”, politica e giurisdizionale, testimoniata peraltro dalla eterogenea composizione ed estrazione dei suoi membri. Due “anime” chiamate a stare in reciproco, costante equilibrio, per arduo che ne sia il conseguimento e mantenimento.
Ora, a giudizio di molti studiosi che sottopongono a costante monitoraggio gli svolgimenti della giurisprudenza costituzionale, vistosa e crescente è la tendenza a dare fiato ed alimento soprattutto alla prima componente a discapito della seconda[20].
Molti sono i segni che avvalorano questa diagnosi. Si pensi solo alla cura profusa dalla Corte, in forme viepiù varie ed incisive[21], nel coltivare ed accreditare la propria immagine davanti alla pubblica opinione[22], alle visite fatte dai giudici costituzionali ai carcerati e nelle scuole[23], all’apertura fatta alla società civile con la riforma delle norme integrative operata a gennaio dell’anno scorso e, soprattutto, alla invenzione di inusuali, temerarie tecniche decisorie, tra le quali da ultimo quella in due tempi inaugurata in Cappato, afflitta – come si è tentato di mostrare altrove – da una intrinseca, insuperabile contraddizione interna e, per ciò che più conta, espressiva di una manovra che non saprei com’altro chiamare se non come “politica”, nella sua più densa e pregnante accezione, secondo quanto peraltro avvalora per tabulas la circostanza per cui in casi a questo per più aspetti analoghi della tecnica stessa stranamente non si è fatto uso: lampante testimonianza delle oscillazioni marcate, secondo occasionali convenienze, che connotano il complessivo indirizzo della Consulta[24]. Sopra ogni cosa, particolarmente istruttiva appare essere la circostanza per cui la pur incerta linea di confine tra l’area riservata alle valutazioni politico-discrezionali di esclusiva spettanza del legislatore e quella invece rimessa al sindacato della Corte è stata da quest’ultima oltrepassata nella pronunzia di fine-partita emessa in Cappato, col fatto stesso del sostanziale abbandono delle “rime obbligate” di crisafulliana memoria quale limite agli interventi manipolativi in sede di sindacato di costituzionalità, laddove in prima battuta la Corte aveva dichiarato di non poter far subito luogo al rifacimento del tessuto legislativo richiestole proprio in nome della necessaria osservanza della discrezionalità spettante al legislatore[25].
3. Una succinta, sofferta notazione finale
Ecco in questo contesto complessivo segnato da un vistoso iperattivismo del giudice, di cui peraltro si hanno plurime e varie testimonianze (tra le quali, in aggiunta a quelle sopra indicate, anche la tendenza ad un marcato “riaccentramento” del sindacato di costituzionalità[26]), potrebbero maturare le condizioni per l’inaugurazione del dissent, realisticamente – sempre che si abbia e facendo ora nuovamente richiamo ad una delle opzioni sopra accennate – per iniziativa della stessa Corte[27]. Non a caso, d’altronde, un’autorevole dottrina ha, ancora di recente, ragionato della possibile introduzione dell’istituto in parola, legandola all’apertura alla società civile e – mi permetto di aggiungere – alle altre novità sopra indicate[28], rilevandosi la contraddizione resa palese dall’apertura in parola a fronte della chiusura della Corte al proprio interno dovuta alla mancata previsione del dissent[29].
Ebbene, davanti a talune espressioni di una politica deplorevole per modi e contenuti, che non disdegna di mettere in campo qualunque mezzo buono ad attrarre il consenso di una pubblica opinione vistosamente disorientata e soffocata da plurime ed ingravescenti emergenze che segnano l’odierno, sofferto presente, a me pare che convenga lasciare che i riflettori restino accesi – per quanto possibile – solo sui protagonisti della politica stessa, lasciandosi invece in penombra i garanti (e, segnatamente, i giudici) e dandone all’esterno una rappresentazione di fermezza e compattezza dell’operato. In tal modo, essi sarebbero messi in grado di esercitare al meglio, in un clima discreto e appartato, il munus ad essi conferito, senza che le divisioni di cui si abbia al loro interno riscontro si prestino a strumentali manovre[30] volte, a conti fatti, a delegittimare i garanti stessi davanti alla pubblica opinione e, perciò, ad indebolirne l’autorevolezza[31].
Non posso tuttavia chiudere queste succinte notazioni senza confessare ad alta voce di avvertire una certa amarezza e interiore sofferenza nel prendere partito a favore della tesi appena esposta, nella consapevolezza di quanto di buono potrebbe venire dalla introduzione dell’istituto qui nuovamente discusso. La tesi stessa, insomma, si pone quale l’esito, in modo travagliato raggiunto, di un’operazione di bilanciamento tra benefici ed inconvenienti che, nel presente momento storico e con specifico riguardo al nostro ordinamento, potrebbero discendere da un istituto che, ad ogni buon conto, sicuramente seguiterà ad alimentare ulteriori, animati dibattiti. Una tesi, dunque, che – come si è tentato di mostrare – vale per l’odierno contesto che ci si augura possa almeno in parte mutare in melius tra non molto, per quanto – come pure si è veduto – non si riesca a vedere (perlomeno, non riesca a me di vedere) ad oggi alcun segno di una possibile inversione del trend sopra sommariamente descritto. Una vicenda, quella fin qui maturata, che, considerata nei suoi tratti maggiormente salienti (ed inquietanti), rinviene la sua cifra identificante in un sensibile e crescente scostamento da parte dei decisori politici rispetto ai valori che hanno informato la nascita e lo sviluppo delle liberal-democrazie e dello Stato di diritto, ai quali dà voce la nostra Carta costituzionale al pari delle altre venute alla luce dopo l’immane tragedia della seconda grande guerra[32]. Quali poi ne possano essere gli ulteriori sviluppi è questione sommamente complessa e spinosa che richiederebbe uno spazio ed approfondimenti qui non disponibili. Ciò che solo ora può dirsi è che ogni innovazione di ordine istituzionale, quale quella nuovamente discussa, si pone pur sempre quale uno dei tasselli del quadro complessivo; un tassello che pertanto – come si è tentato di mostrare – richiede di essere fatto oggetto di osservazione nell’insieme del quale fa (o farà) parte. Altrimenti, il rischio assai serio che si corre è quello della astrattezza e parzialità (e, per ciò stesso, del carattere comunque forzoso) della prospettiva di studio e, di conseguenza, degli esiti teorico-ricostruttivi alla sua luce raggiunti.
[1] Possono vedersene gli Atti, curati da A. Anzon, nel volume dal titolo L’opinione dissenziente, Giuffrè, Milano 1995.
[2] Da ultimo, anche per indicazioni di letteratura in chiave comparatistica, lo studio di A. Fusco, L’indipendenza dei custodi, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, spec. cap. IV, su cui la recensione di S. Panizza, in Riv. Gruppo di Pisa, 3/2020, 264 ss., ed ivi pure la Replica dell’autrice dell’opera, 268 ss. La vicenda del dissent è stata di recente ripercorsa da D. Tega, La Corte costituzionale allo specchio del dibattito sull’opinione dissenziente, in Quad. cost., 1/2020, 91 ss., e C. Nicolini Coen, Unità e pluralità: il fenomeno delle opinioni separate in una Corte costituzionale, in Pol. dir., 3/2020, 465 ss. Altre indicazioni, a breve.
[3] … annotata da G.L. Gatta, Emergenza Covid e sospensione della prescrizione del reato: la Consulta fa leva sull’art. 159 c.p. per escludere la violazione del principio di irretroattività ribadendo al contempo la natura sostanziale della prescrizione, coperta dalla garanzia dell’art. 25, co. 2 Cost., in Sist. pen. (www.sistemapenale.it), 26 dicembre 2020, e G. Santalucia, La sospensione della prescrizione dei reati in tempi di pandemia. La Corte costituzionale promuove la legislazione dell’emergenza, in Questione giustizia (www.questionegiustizia.it), 11 gennaio 2021, con esplicito riferimento alla questione qui di specifico interesse.
[4] Di A. Fabozzi, per conto de Il Manifesto, 29 dicembre 2020.
[5] Vi aveva già fatto richiamo A. Fusco, Replica, cit. Lo stesso Zanon ha quindi ulteriormente precisato il proprio punto di vista nel corso di un’altra intervista resa a V. Alberta, dal titolo Corte costituzionale e dissenting opinion: fine di un tabù?, per conto de L’Asterisco, trasmessa in streaming e visibile su Youtube, il 5 gennaio 2021.
[6] Su ciò, di recente e per tutti, ancora A. Fusco, L’indipendenza dei custodi, cit., 112 ss., nonché S. Panizza, Could there be an Italian Way for Introducing Dissenting Opinions? The Decision-Making Process in the Italian Constitutional Court through Discrepancies between the Rapporteur Judge and the Opinion-writer Judge, in AA.VV., The Dissenting Opinion. Selected Essays, a cura di N. Zanon - G. Ragone, Giuffré Francis Lefebvre, Milano 2019, 101 ss., e, soprattutto, ora, l’accurato saggio monografico di B. Caravita, Ai margini della dissenting opinion. Lo “strano caso” della sostituzione del relatore nel giudizio costituzionale, in corso di stampa per i tipi della Giappichelli di Torino, che ha riscontrato ottantasette casi di sostituzione dal 1988 ad oggi, sottoponendoli a scrupolosa analisi.
[7] La dottrina più avvertita, d’altronde, aveva già rilevato la differenza non meramente formale che si dà tra un “dissenso” palesato e tuttavia non accompagnato da alcuna motivazione a suo sostegno ed una vera e propria “opinione dissenziente” che della motivazione stessa invece risulta dotata [S. Panizza, I recenti casi di discrepanza (meramente episodici?) tra giudice relatore e giudice redattore, in Quad. cost., 3/2007, 601].
[8] … tra i quali, quello del passaggio dalla Consulta al Quirinale di S. Mattarella, sostituito nella redazione di due decisioni (nn. 17 e 18 del 2015) o in altri casi ancora, quale una indisposizione dovuta a problemi di salute, e via dicendo (casi tutti su cui richiama l’attenzione B. Caravita, op. cit.).
[9] … qui nuovamente inteso nella sua più larga accezione, comprensivo dunque tanto delle opinioni dissenzienti in senso stretto, quanto di quelle concorrenti.
[10] Nella ormai nutrita lett. e limitando ora i richiami unicamente ad alcuni dei principali contributi, dopo AA.VV., Le opinioni dei giudici costituzionali e internazionali, a cura di C. Mortati, Giuffrè, Milano 1964, e AA.VV., L’opinione dissenziente, cit., v., almeno, S. Panizza, L’introduzione dell’opinione dissenziente nel sistema di giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino 1998; A. Di Martino, Le opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali. Uno studio comparativo, Jovene, Napoli 2016; K. Kelemen, Judicial Dissent in European Constitutional Courts. A Comparative and Legal Perspective, Routledge, London 2018; E. Ferioli, Dissenso e dialogo nella giustizia costituzionale, Wolters Kluwer - Cedam, Milano 2018; A. Fusco, L’indipendenza dei custodi, cit., 97 ss.; AA.VV., The dissenting opinion. Selected Essays, cit. Un chiaro quadro di sintesi è stato anni addietro rappresentato da S. Cassese, Una lezione sulla cosiddetta opinione dissenziente, in Quad. cost., 4/2009, 973 ss., spec. 980 ss. e, più di recente, dagli scritti sopra richiamati di D. Tega e B. Caravita, nonché, nella manualistica, da E. Malfatti - S. Panizza - R. Romboli, Giustizia costituzionale6, Giappichelli, Torino 2018, 76 ss.; G. Zagrebelsky - V. Marcenò, Giustizia costituzionale, II, Oggetti, procedimenti, decisioni2, Il Mulino, Bologna 2018, 43 ss., e A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, Giappichelli, Torino 2019, 77 ss. Infine, in prospettiva giusfilosofica, M. Jori, Dissenting opinions: short philosophical considerations, in Lo Stato, 11/2018, 37 ss.
[11] Di recente, v., volendo, A. Ruggeri - A. Spadaro, op. et loc. ult. cit.
[12] E, invero, il ventaglio è stato aperto a tutto campo, alcuni ritenendo essere allo scopo necessaria una legge costituzionale, altri optando a favore di una legge comune, altri ancora giudicando sufficiente una innovazione frutto di autonormazione da parte della Corte e, infine, prospettandosi persino la eventualità che essa si abbia ope juris prudentiae (riassuntivamente, da ultimo, v., ancora una volta, lo scritto di B. Caravita, sopra cit., ult. par.). Come che sia di ciò, c’è da dire che la questione sembra invero peccare di una certa astrattezza, ove si convenga a riguardo del fatto che appare poco verosimile l’ipotesi che sia impugnata e quindi caducata la legge comune, allo scopo eventualmente adottata, per lo specifico aspetto che avrebbe indebitamente preso il posto ora della legge costituzionale (se ritenuta necessaria) ora dell’atto di autonormazione della Corte costituzionale. Se, poi, la disciplina in parola dovesse aversi per mezzo di quest’ultimo, in tesi giudicato inadeguato allo scopo, nuovamente non si capirebbe davanti a chi possa essere impugnato né è pensabile che il suo annullamento possa aversi per mano della stessa Corte, vuoi per il fatto che quest’ultima assai difficilmente rinnegherebbe se stessa e vuoi perché comunque ogni decisione della Corte è sottratta – come si sa – a forma alcuna di gravame (art. 137, ult. c., Cost.). Infine, quest’ultimo argomento può ovviamente essere addotto anche per il caso che l’introduzione del dissent si abbia per via giurisprudenziale.
[13] Sulle non poche, vessate questioni che si pongono in relazione alla parte motiva delle decisioni dei giudici in genere e di quelli costituzionali in ispecie, con specifico riguardo alle tecniche argomentative usualmente adoperate, v., per tutti, AA.VV., La motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, a mia cura, Giappichelli, Torino 1994, e A. Saitta, Logica e retorica nella motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 1996. Per un raffronto con le tecniche interpretative e argomentative di common law, v. il contributo di V. Varano, Regola del precedente, overruling,giustizia predittiva, in AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il diritto giurisprudenziale, a cura di V. Messerini - R. Romboli - E. Rossi - A. Sperti - R. Tarchi, University Press, Pisa 2020, 173 ss.; pure ivi, V. Fredianelli, L’uso del precedente interno da parte della Corte suprema statunitense: la vicenda del prospective overruling, 221 ss., e V. Barsotti, Diritto giurisprudenziale e comparazione giuridica, 245 ss., e, ora, G. Romeo, L’argomentazione costituzionale di common law, Giappichelli, Torino 2020.
[14] Ma, su ciò, v. l’articolato svolgimento argomentativo che è nel libro, sopra richiamato, di A. Fusco. Sull’indipendenza delle Corti si dispone ormai di una messe copiosa di scritti, ulteriormente alimentata – com’è chiaro – dalle recenti, tristi esperienze maturate in Polonia ed Ungheria (per tutti, G. Pitruzzella - O. Pollicino - M. Bassini, Corti europee e democrazia. Rule of law, indipendenza e accountability, Bocconi ed., Milano 2019).
[15] Si pensi solo, per fare il primo esempio che viene in mente, alla Spagna ed agli Stati Uniti che nulla, o quasi, hanno a conti fatti in comune e che tuttavia assai di frequente sono riportati ad uno stesso “insieme” in relazione all’istituto di cui si discute.
[16] Penso, ad es., a quelle relative alla disciplina elettorale ed al vespaio di polemiche che sempre si accompagnano alle decisioni che le hanno ad oggetto, particolarmente animate – come si sa – anche tra gli studiosi, per non dire delle reazioni scomposte che non di rado si hanno in ambienti politici in relazione agli esiti del sindacato di costituzionalità.
[17] … sulla cui esperienza, nell’alluvione di scritti, di recente e per tutti, D.L. Kriner, Trump, Populism and the Resilience of the American Costitutional System, in Costituzionalismo (www.costituzionalismo.it), 3/2020, 8 gennaio 2021, 44 ss.
[18] … a mia opinione, a torto, se non altro per le perduranti discriminazioni e i laceranti conflitti sociali che ne segnano la struttura e minano le fondamenta [eloquente, al riguardo, il pungente commento di L. Ventura, Democrazia in America?, in La Costituzione info (www.laCostituzione.info), 9 gennaio 2021; pure ivi, v., utilmente, A. Morelli, Non scomodiamo Voltaire a proposito di Trump e dei social, 10 gennaio 2021; inoltre, B. Caravita, Davanti ad un mondo che cambia chi è più pericoloso tra Trump e Zuckerberg? Alla ricerca di una risposta che penetri nei meccanismi che governano la nostra vita in rete, Editoriale, in Federalismi (www.federalismi.it), 1/2021, 13 gennaio 2021].
[19] Sui rischi ai quali in siffatto contesto si trova esposta in particolare la giustizia, v., ora, F. Vecchio, Pericolo populista e riforma della giustizia. A proposito di alcune insoddisfacenti proposte di riforma dell’obbligatorietà dell’azione penale, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 1/2021, 12 gennaio 2021, 65 ss.
[20] Riferimenti possono aversi dal mio Stato di diritto sovranazionale e Stato di diritto interno: simul stabunt vel simul cadent, in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies (www.fsjeurostudies.eu), 3/2020, 15 novembre 2020, 44 in nt. 76.
[21] … anche avvalendosi dei grandi mezzi di comunicazione. E così, si considerino solo, in aggiunta alle annuali Conferenze-stampa dei Presidenti, i comunicati-stampa [dei quali, al pari delle opinioni dissenzienti, si è discusso se giovino o nuocciano alla motivazione delle pronunzie della Corte (A. Celotto, I “comunicati stampa” aiutano o danneggiano la motivazione delle decisioni?, in Giur. cost., 5/2009, 3728 ss.) e dei quali, nondimeno, non si negano gli effetti che possono spiegare a plurimi piani di esperienza: ex plurimis, v. A. Gragnani, Comunicati-stampa dal Palazzo della Consulta anziché provvedimenti cautelari della Corte costituzionale? Sugli “effetti preliminari” della dichiarazione d’incostituzionalità, in Giur. cost., 1/2013, 531 ss., e G. D’Amico, Comunicazione e persuasione a Palazzo della Consulta: i comunicati stampa e le «voci di dentro» tra tradizione e innovazione, in Dir. soc., 2/2018, 237 ss.; cfr., poi, i punti di vista dei partecipanti al forum su I comunicati stampa che è in Riv. Gruppo di Pisa (www.gruppodipisa.it), 1/2020]; e si consideri, inoltre, la recente invenzione de La libreria dei podcast della Corte costituzionale, teletrasmessi ed accompagnati da brani musicali accuratamente selezionati.
[22] La questione è da tempo all’attenzione degli studiosi: per un quadro di sintesi, dopo M. Fiorillo, Corte costituzionale e opinione pubblica, in AA.VV., Corte costituzionale e processi di decisione politica, a cura di V. Tondi della Mura - M. Carducci - R. G. Rodio, Giappichelli, Torino 2005, 90 ss., e A. Rauti, che ne ha trattato a più riprese (ad es., in “Il tuo nome soltanto m’è nemico...”. “Linguaggio” e “convenzioni” nel dialogo tra Corte costituzionale e opinione pubblica, in AA.VV., “Effettività” e “seguito” delle tecniche decisorie della Corte costituzionale, a cura di R. Bin - G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi, ESI, Napoli 2006, 581 ss.), v., di recente, D. Chinni, La comunicazione della Corte costituzionale: risvolti giuridici e legittimazione politica, in Dir. soc., 2/2018, 255 ss., e, nella stessa Rivista, A. Sperti, Corte costituzionale e opinione pubblica, 4/2019, 735 ss. Da una prospettiva di ordine generale, interessanti spunti teorico-ricostruttivi sono offerti da A.I. Arena, L’esternazione del pubblico potere, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, spec. 171 ss.; v., inoltre, utilmente, AA.VV., Potere e opinione pubblica. Gli organi costituzionali dinanzi alle sfide del web, Editoriale Scientifica, Napoli 2019.
[23] … che, per vero, sollevano qualche perplessità per il mero fatto oggettivo della somiglianza con analoghe iniziative assunte da esponenti del mondo politico, prestandosi di conseguenza alla critica strumentale di mirare allo scopo di catturare un consenso che dovrebbe restare estraneo al munus spettante alla Corte quale organo giurisdizionale (sia pure sui generis). Tanto più, poi, che, al fine della risoluzione delle questioni portate alla sua cognizione, la Corte dispone di strumenti d’indagine utilmente azionabili in ragione dei casi, ai quali nulla aggiungono le visite in parola.
Ora, a me pare che di tutto la Corte, nella presente travagliata congiuntura, abbia bisogno fuorché di alimentare quel pur diffuso sentire, cui si è appena fatto cenno, espressivo del timore che il delicatissimo equilibrio tra l’“anima” giurisdizionale e l’“anima” politica in essa compresenti possa definitivamente alterarsi a discapito della prima ed a beneficio della seconda, con imprevedibili conseguenze idonee a spiegarsi a raggiera per l’intero assetto istituzionale e – ciò che più importa – al piano dei rapporti tra apparato governante e comunità governata (insomma e in breve, a carico della c.d. “forma di Stato”, più e prima ancora che della “forma di governo”).
[24] Ho, ancora di recente, anticipato il mio pensiero al riguardo nel corso di un breve intervento al quale si è quindi richiamato N. Zanon, nella sua relazione, dal titolo I rapporti tra la Corte costituzionale e il legislatore alla luce di alcune recenti tendenze giurisprudenziali, al Seminario su Un riaccentramento del giudizio costituzionale? I nuovi spazi del giudice delle leggi, tra Corti europee e giudici comuni, svoltosi presso l’Università “La Sapienza” di Roma il 13 novembre scorso, § 5, ospitata unitamente agli altri contributi da Federalismi (www.federalismi.it).
[25] Una sensibile dottrina ha efficacemente descritto la svolta giurisprudenziale avutasi con Cappato, discorrendo di un passaggio dalle “rime obbligate” ai “versi sciolti” (D. Tega, La Corte nel contesto. Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, Bononia University Press, Bologna 2020, 101 ss.); e non è inopportuno qui pure segnalare come un autorevole studioso e giudice costituzionale, F. Modugno, Le novità della giurisprudenza costituzionale, in Lo Stato, 14/2020, 101 ss., spec. 115, abbia rilevato il “progressivo commiato dal teorema delle ‘rime obbligate’”.
[26] … a riguardo del quale faccio qui richiamo, in aggiunta alla monografia di D. Tega, sopra cit., solo dei contributi al Seminario su Il sistema “accentrato” di costituzionalità, tenutosi a Pisa il 25 ottobre 2019, i cui Atti sono stati editi, a cura di G. Campanelli - G. Famiglietti - R. Romboli, per i tipi della Editoriale Scientifica di Napoli nel 2020, nonché degli altri al Seminario su Un riaccentramento del giudizio costituzionale? I nuovi spazi del giudice delle leggi, tra Corti europee e giudici comuni, cit.
[27] Questa eventualità è prospettata anche da D. Tega, La Corte costituzionale allo specchio del dibattito sull’opinione dissenziente, cit., 91 ss.
[28] R. Romboli, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, in AA.VV., Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2017-2019), a cura dello stesso R., Giappichelli, Torino 2020, 92, dove se ne prefigura altresì la realizzazione nella forma minima della indicazione del numero dei voti favorevoli e contrari, al fine di evitare infondate illazioni formulate circa il reale esito del giudizio (una innovazione, questa, che per vero non darebbe modo di conoscere il punto di vista di chi dissente, con i risvolti positivi e negativi che ne discendono). Ivi, si affaccia altresì l’ipotesi che la Corte possa essere dotata del potere di differire nel tempo l’effetto ablativo conseguente all’accertamento della incostituzionalità della norma sindacata, così come si ha in altri ordinamenti. Una innovazione, quest’ultima, nondimeno, non strettamente legata a quella di cui ora si discute e che, ad ogni buon conto, al fine di essere fatta a modo, richiede – a me pare – una esplicita modifica dell’art. 136 della Carta.
[29] B. Caravita, nelle conclusioni del suo documentato studio su Ai margini della dissenting opinion, cit.
[30] Per amore di verità, non credo, ad ogni buon conto, che dalle divisioni stesse, pur laddove portate alla luce del sole, possa trarre ulteriore alimento l’inerzia del legislatore nel dare seguito alle sollecitazioni ricevute dai giudici al fine di colmare annose e gravi lacune della legislazione; o, meglio, qualora dovesse aversene riscontro, non credo che avrebbe un particolare rilievo in relazione allo stato attuale delle cose. E ciò, per la elementare ragione che il seguito stesso, già oggi senza il dissent, appare essere assai insoddisfacente, per non dire poi dei casi di frustrazione degli effetti del giudicato costituzionale dovuti alla riproduzione con legge della disciplina normativa dapprima caducata.
[31] Efficacemente argomentato, in particolare, è l’invito alla prudenza indirizzato ai fautori della novità in parola da G. Zagrebelsky - V. Marcenò, Giustizia costituzionale, II, cit., 47, laddove si rileva che “le incognite sono tante; la soluzione delle incognite, incerta; l’influenza di fattori culturali, grande; l’esemplarità delle altrui esperienze, non determinante; la prevedibilità degli effetti, minima. In questo contesto, stare a quello che abbiamo, difendere il principio di collegialità come si è strutturato finora; non prestare troppo orecchio a presunte esigenze di modernizzazione e trasparenza; difendere la Corte come collegio contro il dissolvimento a favore di singole personalità appare finora, ancora, la soluzione più prudente”.
[32] È poi chiaro che i valori stessi si sono tradotti in forme espressive non poco differenziate tra di loro, nel passaggio dall’uno all’altro ordinamento, così come si sono inverati in modi parimenti, complessivamente diversi, pur dandosi nondimeno alcuni tratti generalissimi comuni. Non a caso, d’altronde, si fa al riguardo riferimento a “tradizioni costituzionali comuni” agli ordinamenti degli Stati membri dell’Unione europea, veicolate dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Altro discorso è, poi, quello che porta a dover riconoscere che le tradizioni stesse, per come vengono ad affermarsi per mano del giudice dell’Unione, possano essere (ed effettivamente siano) non autenticamente “comuni” (assai istruttive le vicende in corso in Ungheria e Polonia); ma, di tutto ciò – com’è chiaro – in altri luoghi.