ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ripudio islamico: riflessioni - anche extravagantes - a proposito di vulnerabilità
di Maria Giovanna Ruo
Sommario:1. Donne ripudiate: soggetti vulnerabili e violazione dei diritti fondamentali. - 2.Il caso concreto. - 3.L’iter argomentativo della Suprema Corte-Cass.n. 16804 del 7 agosto 2020 - 4.Corte di giustizia e ripudio. - 5.Ripudio e contrarietà all’ordine pubblico. - 6.Islam, matrimonio, ripudio, diritti delle minoranze, inconciliabilità di sistemi. - 7. I cd. “divorzi d’argento”: vulnerabilità delle donne anziane divorziate e necessità di tutela rafforzata.
1. Donne ripudiate: soggetti vulnerabili e violazione dei diritti fondamentali.
Talaq…talaq…talaq: con questa formula sacramentale, scandita per tre volte (o in alcuni ordinamenti anche una sola volta), in molti Paesi islamici il marito, esercitando il diritto potestativo che gli viene attribuito dalla sharia, può sciogliere il matrimonio dalla moglie; questa non sono non può opporsi ma, secondo leggi e tradizioni di alcuni tra tali Paesi, può anche non esserne consapevole, potendo avvenire il tutto senza che lei ne sia nemmeno informata.
Le formule possono variare ma, contenendo espressamente il termine talàq (o simili), esprimono la chiara volontà del marito di porre fine al matrimonio che, secondo ordinamenti sharaitici, comporta l’autorità maritale sulla sposa. Si tratta quindi di atto unilaterale di volontà del marito che può delegare a terzi -e persino alla moglie nel contratto matrimoniale, concedendole che sia lei stessa autoripudiarsi- a porre fine al matrimonio. Ma nulla di simile per la donna, cui non è riconosciuto analogo diritto.
L’autorità giudiziaria -quando interviene (e si tratta per lo più di tribunali religiosi)- si limita a prendere atto, a omologare, prescindendo dalla vocatio della moglie soggetto vulnerabile alle mercè della volontà del marito cui non è nemmeno riconosciuta alcuna possibilità di tutelarsi e difendersi.
Quale rilevanza ed efficacia tali atti e provvedimenti possono avere nel nostro ordinamento i cui cardini sono i principi di uguaglianza, pari dignità dei coniugi, contraddittorio e diritti di difesa?
La Suprema Corte è tornata sulla questione con la sentenza n. 16804 del 7 agosto 2020 che conclude l’iter giurisprudenziale ormai consolidato da anni, affermandone infatti inefficacia e irrilevanza, in ragione alla loro contrarietà all’ordine pubblico per violazione di principi costituzionali e di diritti fondamentali della persona sia sul piano sostanziale sia su quello processuale.
2.Il caso concreto.
La vicenda esistenziale e processuale alla base del provvedimento di riferimento riguarda due cittadini, entrambi italiani e giordani, la cui unione era stata celebrata con rito sharaitico nel loro paese di provenienza. Il marito era poi comparso dinanzi al giudice del Tribunale religioso di Nablus occidentale, perchè venisse “registrato il divorzio di primo grado” dalla moglie. Tale domanda di divorzio consisteva nella registrazione, assente la moglie, di una domanda formulata dal marito alla presenza di due testimoni; veniva quindi emessa sentenza non definitiva di scioglimento del matrimonio, con l’avvertimento che, decorso il periodo legale in difetto di decisione del marito di “risposare” la donna (ovvero di riunirsi a lei con nuovo contratto di matrimonio), il divorzio sarebbe divenuto definitivo. Successivamente la moglie, informata dell’ “istanza di divorzio di primo grado” del coniuge, si era presentata accompagnata dalla madre; le era stata personalmente comunicata la richiesta del marito. Decorsi tre mesi, il divorzio “senza presenza o accettazione della moglie”, era divenuto definitivo, a seguito di pronuncia, del medesimo Tribunale sharaitico ed era stato rilasciato al marito il nulla osta al nuovo matrimonio.
Il provvedimento non definitivo, con il quale il Tribunale di Nablus aveva pronunciato lo scioglimento del matrimonio, era stato poi trascritto nei Registri di Stato Civile di Roma su richiesta dell’uomo. La moglie aveva quindi adito la Corte di Appello capitolina per ottenere la cancellazione della trascrizione del provvedimento dai registri dello stato civile, a motivo delle sue non definitività e contrarietà all’ordine pubblico e del contrasto del ripudio islamico con i principi della nostra Carta costituzionale. La Corte d’Appello aveva accolto il ricorso, ordinando all’Ufficiale di Stato civile di cancellare la trascrizione della sentenza. Il marito aveva quindi presentato ricorso per Cassazione per 4 motivi, esaminati congiuntamente dalla Suprema Corte in quanto connessi. Erano state presentate conclusioni scritte dal Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione, dott.ssa Luisa De Renzis, che aveva chiesto il rigetto del ricorso. La Suprema Corte, dopo aver disposto approfondimenti circa la normativa palestinese applicabile, ha rigettato il ricorso.
3.L’iter argomentativo della Suprema Corte-Cass.n. 16804 del 7 agosto 2020-.
La Cassazione, nell’esaminare congiuntamente i quattro motivi di ricorso in quanto connessi, ricostruisce l’istituto del “ripudio”, sottolineando come anche negli stati in cui è stato proceduralizzato -perdendo il suo carattere meramente negoziale- tuttavia l’Autorità che interviene ha funzioni di omologazione, talvolta decisorie, ma comunque “limitate a recepire la volontà unilaterale del marito” con l’emanazione di un provvedimento che incorpora il ripudio con funzioni di omologa e presa d’atto. Esamina le norme interne rilevanti (artt. 64 e 65 l. 218/1995 e art. 18 D.P.R. 396/2000) ai fini del riconoscimento di efficacia nel nostro ordinamento di provvedimenti stranieri. Ricostruisce la giurisprudenza interna ed europea in materie di riconoscimento di provvedimenti stranieri di scioglimento del matrimonio.
Il riconoscimento dei provvedimenti stranieri è infatti regolato dagli artt. 64 e sgg. della l. 218/1995. Per i provvedimenti stranieri in materia personale e familiare, occorre l’annotazione in pubblici registri in Italia. L’autorità preposta “dovrà operare un giudizio, ancorché non tecnicamente delibativo, di riconoscibilità a fini attuativi”: dovrà, cioè, verificare la sussistenza dei requisiti previsti dalla L. n. 218 del 1995 cit., artt. 64 e 65. Per le sentenze (art. 64: non contrarietà all’ordine pubblico e dei diritti di difesa); per gli altri provvedimenti in materia personale o familiare (art. 65: anche che assunti dalle autorità dello Stato la cui legge sia quella richiamata dalle norme di conflitto: Cass. 17463/201), assume altresì rilievo il D.P.R. 396/2000, art. 18 secondo cui “gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico”. Se l’Ufficiale di stato civile rifiuta la trascrizione, l’interessato “deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile… presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento”. Nella fattispecie, peraltro, l’Ufficiale di stato civile aveva invece proceduto all’annotazione della sentenza non definitiva di divorzio, non ravvisando contrarietà all’ordine pubblico.
Necessaria quindi la verifica della compatibilità del provvedimento straniero di cui viene richiesta la trascrizione con l’ordine pubblico: a tale fine -secondo la Suprema Corte- è richiesta una “valutazione ampia, comprensiva non solo dei principi fondamentali della Costituzione e dei principi sovranazionali ma anche delle leggi ordinarie e delle norme codicistiche”. Tale operazione ermeneutica che, necessariamente procedendo dal caso singolo, deve però approdare ad un inquadramento sistematico, per consentire un ordine di priorità nell’equo bilanciamento dei valori in gioco (Cass., SS.UU., sent. n. 12193/2019).
4.Corte di giustizia e ripudio.
Ricostruita la propria giurisprudenza in materia di riconoscimento di provvedimenti stranieri di divorzio, e rilevato come la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non si sia ancora pronunciata in materia relativamente alla parità di condizioni tra i coniugi nel divorzio, la Cassazione si sofferma su Corte di Giustizia, 20 dicembre 2017, resa nel procedimento Soha Sahyouni contro Raja Mamisch. La questione riguardava una coppia di cittadini con doppia cittadinanza sia siriana che tedesca, i quali avevano contratto matrimonio islamico in Siria. Il marito aveva ottenuto da un tribunale sharaitico provvedimento dichiarativo dello scioglimento del matrimonio, in forza della sua dichiarazione unilaterale di divorzio e ne richiedeva il riconoscimento nell’ordinamento tedesco. In quel caso la moglie aveva anche sottoscritto un documento che attestava l’avvenuto adempimento nei suoi confronti degli obblighi del marito dipendenti dal contratto di matrimonio e dalla dichiarazione di ripudio, quasi accettandolo implicitamente. Il riconoscimento degli effetti civili della pronunzia di divorzio siriana era stato concesso dal Tribunale competente di Monaco di Baviera. I giudici d’appello hanno ritenuto di proporre rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia in ordine, anzitutto, all’applicazione del Regolamento n. 1259/2010 anche al c.d. divorzio privato, pronunciato dinanzi ad un tribunale religioso sulla base della Sharia. In caso di risposta affermativa alla prima questione e quindi di ritenuta applicazione del regolamento (Reg. n. 1259/2010), si sarebbero poste ulteriori questioni: a) se occorra fondarsi in astratto su un confronto dal quale risulti che la legge applicabile a norma dell’art. 8 riconosce il diritto di accedere al divorzio anche all’altro coniuge, ma lo subordina – in ragione del sesso di tale coniuge – a condizioni procedurali e sostanziali diverse da quelle valevoli per l’accesso al divorzio del primo coniuge, oppure b) se l’applicabilità della disposizione sia subordinata alla condizione che l’applicazione della legge straniera astrattamente discriminatoria sia anche nel singolo caso – in concreto – discriminatoria; c) in caso di risposta affermativa alla seconda alternativa della seconda questione, se il consenso al divorzio prestato dal coniuge discriminato – anche mediante la sua accettazione di prestazioni compensative – costituisca già un motivo per disapplicare la disposizione sopra citata”. La Corte di giustizia aveva escluso l’applicabilità dei citati Regolamenti europei a provvedimenti di Tribunali religiosi, pur essendo le loro pronunce riconosciute dall’ordinamento dello Stato in cui operano, cosicché le questioni subordinate non avevano ricevuto risposta. Tuttavia la Suprema Corte richiama sulle stesse le conclusioni dell’Avvocato generale, il quale aveva rilevato come sia sufficiente ad impedire l’applicabilità della legge straniera negli ordinamenti europei la violazione astratta del principio di non discriminazione e che nemmeno l’accettazione dell’indennità connessa al ripudio da parte della donna discriminata abbia valore ai fini di tale applicabilità, in quanto il principio di non discriminazione deve intendersi sottratto alla libera disponibilità delle parti (in ragione di ciò l’Avvocato generale aveva concluso nel senso dell’irrilevanza, sull’applicabilità del divieto di cui all’art. 10 del Regolamento, della circostanza che il coniuge discriminato avesse accettato l’indennità).
5.Ripudio e contrarietà all’ordine pubblico.
In concreto, nel caso in esame alla Suprema Corte di Cassazione rileva come, anche se era stata prevista nel territorio giordano-palestinese una legge più garantista (legge n. 3 del 2011 che avrebbe rinnovato l’istituto con un sostanziale riequilibrio delle posizioni dei coniugi all’interno del procedimento ma che non era formalmente entrata in vigore), non era però stata applicata al caso concreto cui, viceversa, era stata applicata la normativa di cui alle leggi n. 31 del 1959, n. 61 del 1976, prive di garanzie per la donna ripudiata.
Nella fattispecie la domanda di divorzio del marito era stata accolta dal Tribunale shariatico o sharaitico, sulla base della semplice presa d’atto della di lui volontà; la pronuncia era divenuta definitiva successivamente alla notifica del provvedimento alla moglie e decorso del termine di legge. Si tratta quindi -secondo la Cassazione- di un atto di autonomia privata autenticato o certificato dall’autorità religiosa competente, la cui contrarietà all’ordine pubblico internazionale è evidente, sia sotto il profilo sostanziale (sperequazione delle posizioni dei due coniugi con evidente sbilanciamento in sfavore della donna, oggetto del ripudio e non facoltizzata all’esercizio di diritto equivalente; assenza di valutazione della cessazione della comunione materiale e spirituale) e processuale (assenza di contraddittorio e di diritti di difesa).
In rapida successione, la Cassazione è tornata a occuparsi di “ripudio” questa volta -per analoghi motivi- accogliendo invece il ricorso di un uomo in un caso di divorzio iraniano, cassando la sentenza della Corte di appello di Bari e rinviando alla stessa in diversa composizione. Anche nel caso di cui si occupa la Suprema Corte nella sentenza 17170 del 14 agosto 2020, la Corte di appello baresina aveva ordinato la cancellazione della sentenza del tribunale iraniano, ma la Cassazione censura il provvedimento sotto il profilo motivazionale, espressamente richiamando la propria giurisprudenza in materia di ordine pubblico internazionale e affermando che il giudice della delibazione, nel riconoscere le sentenze nell’ordinamento interno, deve verificare se siano stati soddisfatti “i principi sostanziali dell’ordinamento relativi anche al procedimento anche relativi al procedimento formativo della decisione” e quindi se nel procedimento dinnanzi al giudice straniero siano stati rispettati i diritti della difesa. La Corte di appello di Bari si era limitata ad affermare che il divorzio iraniano per il suo carattere unilaterale e arbitrario non si discosta dal ripudio, senza espresso riferimento agli effetti dell’atto nell’ordinamento interno individuando correttamente il limite dell’ordine pubblico che, nell’attuale fase storico-sociale “si identifica nel complesso dei valori discendenti dalla Costituzione e dalle fonti internazionali e sovranazionali dettati a tutela dei diritti fondamentali per il modo in cui essi si attuano attraverso il diritto vivente…” Cass., 19599/2016). Insomma non è la non coincidenza degli istituti stranieri con quelli italiani che costituisce il limite dell’ordine pubblico internazionale ma il conflitto con i valori fondanti.
6.Islam, matrimonio, ripudio, diritti delle minoranze, inconciliabilità di sistemi.
I gruppi di mussulmani che si stanziano in Italia hanno una forte identità culturale e religiosa e, come ricorda M. E. Ruggiano (Il ripudio della moglie voluto dalla Sharia e la contrarietà al diritto italiano, in Familia) citando a sua volta M. Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Bologna, 2006, “L’Islam rappresenta una cultura, un assetto di potere, una ideologia ampia e articolata e per questo definita «una concezione della vita, del mondo, della società, della natura, dell’uomo e di Dio olistica e onnicomprensiva» ma è anche una religione che contiene regole sia di tipo spirituale che temporale e che, grazie a queste ultime, ha elaborato, nel tempo, un ordinamento giuridico”.
Il diritto matrimoniale islamico si fonda su principi inconciliabili con il nostro sistema che sono all’origine del problema del ripudio. Per il diritto islamico, pur nelle sue diversificazioni che dipendono da una serie di fattori storici e sociali, il matrimonio trae origine da un contratto bilaterale nel quale però diritti e doveri sono sbilanciati o, meglio, nella prospettiva di tale cultura, hanno un equilibrio particolare, alieno dalla prospettiva della nostra sensibilità giuridica. Con tale contratto il marito acquisisce infatti diritti sulla persona della moglie (godimento sessuale e autorità maritale) mentre la moglie godrà dei donativi obnuziali obbligatori e del soddisfacimento dei bisogni materiali. Tale disuguaglianza di posizioni si estrinseca quindi anche e proprio nel ripudio, in cui il marito può porre fine al vincolo coniugale con una semplice dichiarazione verbale, nonostante il Corano veda con sfavore il ripudio (Maometto lo definisce “la cosa più odiosa al cospetto di Dio”). Vi è da ricordare che tale istituto islamico, anche nei sistemi sharaitici, non è l’unico istituto in ragione del quale il matrimonio possa venir meno: oltre ai casi di nullità, vi sono anche divorzio giudiziale e divorzio per mutuo consenso.
All’interno delle comunità mussulmane vi è la forte consapevolezza della propria identità, da custodire gelosamente, anche quando tale identità confligge con l’assetto culturale del Paese ospitante. Chi ha avuto la possibilità di incontrare dal proprio tavolo di lavoro difensivo (ottimo punto di osservazione) tali fenomeni, ha constatato una duplice tensione nelle donne mussulmane: il desiderio di integrazione e di “occidentalizzazione” nella parità dei diritti, accanto al desiderio di forte affermazione della propria identità religiosa, giuridica, culturale. Si verifica nella realtà esistenziale delle donne mussulmane migrate in Italia -e soprattutto nelle cd. “seconde generazioni” nate in Italia e vissute nel nostro Paese accanto a coetanei con (identità religiosa ormai estremamente “sfumata” ma) forte senso dei propri diritti e consapevolezza della propria libertà personale- da una parte quasi la necessità di differenziazione nella proclamazione della propria identità religiosa e culturale, dall’altra altrettanta necessità di omologazione nel godimento dei diritti fondamentali.
Tutto ciò porta a interrogarsi, con l’incremento dei fenomeni migratori, sui temi dell’identità etnica, culturale e religiosa, anche avendo presente il fatto che i mussulmani possono essere definiti minoranza vulnerabile in Italia. Da una parte i valori irrinunciabili della nostra società democratica. Dall’altra i diritti all’identità etnica, culturale e religiosa di migranti che si stanziano in un Paese dalle tradizioni e dall’attualità culturale divaricante rispetto alle loro.
Nel Rapporto di monitoraggio della protezione minoranze nell’Unione Europea, realizzato da >span class="spelle">Eumap e presentato nel nostro Paese d’intesa con “A Buon Diritto. Associazione per le libertà” si legge che in Italia i musulmani – circa 700mila persone - vivono “difficoltà quotidiane nel cammino dell’integrazione… il fatto che sul piano giuridico e normativo l’Italia si trovi in buona posizione verso l’applicazione della Direttiva Ue sulla parità di trattamento indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica non basta”, nota il Rapporto Osi curato dal professor Silvio Ferrari, precisando che “la legislazione in vigore non viene applicata in maniera soddisfacente per molte ragioni: tra esse, il fatto che le sue norme sono poco conosciute sia dalle comunità di immigrati che dai diversi apparati e funzionari dell’amministrazione. Inoltre, l’assenza di una Intesa – ovvero di un accordo formale tra Stato e comunità islamiche - rende assai difficile la piena espressione della propria identità religiosa”. Non è inoltre da sottovalutare il fatto che secondo una scuola di pensiero -se non dominante tuttavia statisticamente rilevante- gli immigrati (quelli musulmani, in particolare) rappresentino una minaccia per l’identità nazionale; siano responsabili – nel loro insieme - di un deterioramento della sicurezza pubblica; non siano integrabili nella società italiana” (http://www.edscuola.it/archivio/handicap/mussulmani_in_italia.htm). Recenti tragici eventi hanno riportato in emersione radicali differenze strutturalmente inconciliabili con l’attuale assetto valoriale della nostra società: l’uccisione di giovani donne da parte delle loro famiglie integraliste islamiche punite per aver rifiutato il matrimonio precoce e combinato (peraltro espressamente vietato anche dalla Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne -detta Convenzione di Istanbul- adottata dal Consiglio d’Europa l’11 maggio 2011 come pratica di violenza di genere).
Afferma però sempre il citato rapporto che “L’insufficiente conoscenza della straordinaria diversità delle comunità musulmane presenti nel Paese fa sì che la maggioranza della popolazione italiana non distingua, quando parla di Islam, tra i diversi gruppi musulmani”. Peraltro, comportamenti violenti e inaccettabili hanno come conseguenza la crescente “islamofobia” che a sua volta può contribuire a produrre il risultato, non voluto ma comunque negativo, di rafforzare l’identità musulmana attorno a un sentimento condiviso di vulnerabilità, esclusione e incomprensione da parte della società di accoglienza accentuando fenomeni di fanatismo.
Vi è da sottolineare che proprio il pensiero laico porta a distinguere tra fede e fanatismo e integralismo religioso e che è sempre da tenere presente che l’omologazione tra questi due piani è mistificante e foriera di lacerazioni pregiudizievoli per la società civile e democratica. Fenomeni di fanatismo (come la caccia alle streghe, per parlare di questioni che investono da vicino la storia dei Paesi europei) non qualificano l’identità religiosa, ma ne costituiscono deviazioni patologiche.
Tutto ciò -ovviamente- non assorbe e tantomeno annulla il fatto che il ripudio per la sua intrinseca natura sia inconciliabile con il nostro sistema giuridico perché violativo di suoi valori fondanti e che provvedimenti discriminatori e violativi di diritti fondamentali della donna ripudiata -soggetto vulnerabile calpestato nella sua dignità e identità, privata del suo status senza nemmeno aver diritto ad essere informata di quanto sta avvenendo- non possano trovare ingresso nel nostro sistema, ma suscita riflessione sulle possibili modalità di integrazione e convivenza tra persone e sistemi: il confine tra ciò che è accettabile e ciò che invece fa parte dei principi non negoziabili e le modalità di tradurre tutto ciò in una società e una cultura non escludenti ma accoglienti, terreno necessario per una pacifica convivenza.
7. I cd. “divorzi d’argento”: vulnerabilità delle donne anziane divorziate e necessità di tutela rafforzata
A chi scrive è capitato anche di domandarsi se talvolta nella nostra stessa società, per una singolare eterogenesi dei fini, attraverso percorsi giuridici completamente diversi, non si verifichino fenomeni che, nella sensibilità delle fragili protagoniste, sono vissute come omologhe al ripudio. Mi riferisco ai cd. “divorzi d’argento” e cioè a quel fenomeno di separazioni e divorzi in età molto matura, oltre i 60 anni, in crescente diffusione, dovuto all’allungarsi dell’età media e quindi del prolungarsi della vita di coppia oltre i precedenti traguardi pluriennali. Il nido vuoto (la fuoriuscita dei figli dalla vita familiare) acuisce il senso di disagio interno alla coppia coniugale, la perdita di senso e può, sempre con maggiore frequenza, portare i protagonisti maschili a rivolgersi al di fuori cercando nuove compagnie, più giovani, attraenti, stimolanti. Molte donne subiscono così il trauma di un divorzio nella terza e talvolta quarta età vissuto come vero e proprio abbandono, avvertito esistenzialmente come ripudio, senza rimedio, dopo una vita di affidamento nella storia di coppia.
Certo si è ben consapevoli che si tratta di fenomeni assolutamente non assimilabili al ripudio sul piano giuridico: la donna ultrasessantenne ha diritti sostanziali e processuali identici a quelli dell’uomo. Libera di ricostruirsi una vita esattamente come lui. Il tutto avviene in esito a un processo in cui entrambi hanno pari diritti di difesa e possono contraddire, eccepire, articolare, chiedere, argomentare; un universo giuridico e umano sideralmente distante da quello del ripudio. Tuttavia è nozione consolidata che il principio di uguaglianza non si traduca in pari opportunità se queste sono previste solo astrattamente e, di fatto, le condizioni di base siano così tanto diverse da renderne la previsione astratta inattuabile nel concreto: in questi casi nella sostanza il riconoscimento di pari diritti si tradurrebbe in una vuota formalità. E nel concreto la natura è discriminatoria: le donne ultrasessantenni divorziate per iniziativa e scelta dell’ex marito, il cui libero esercizio è principio che non tollera opposizione e limiti, non hanno le sue stesse opportunità di ricostruirsi un’esistenza affettiva e, avendo fatto affidamento sull’unione coniugale in una prospettiva durevole per tutta la vita, si ritrovano sole e reiette negli anni difficili dell’anzianità, della fragilità, della solitudine.
Una prospettiva da tenere presente nella riforma dell’assegno divorzile, laddove la durata del matrimonio e dell’età degli ex coniugi nei cd. “divorzi d’argento” dovrebbero essere elementi necessariamente considerati e valorizzati in quella “terza via” per l’assegno divorzile di cui parlava Mirzia Bianca nel suo saggio in questa stessa rivista qualche settimana fa (Giustizia insieme, 14 maggio 2021).
Paradossi giurisprudenziali
di Aniello Nappi
La parte civile costituita in un processo penale per infortunio sul lavoro propone appello contro la sentenza del tribunale che ha assolto per insussistenza del fatto l’imprenditore imputato.
La corte d’appello riconosce alla testimonianza della persona offesa l’attendibilità negata dal tribunale; e condanna l’imputato ai soli effetti civili, senza previa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
Ricorre per cassazione l’imputato e deduce violazione dell’ art. 603, comma 3 bis c.p.p., lamentando che il giudice di appello abbia ribaltato la decisione assolutoria di primo grado sulla base di una diversa valutazione di attendibilità della deposizione testimoniale della persona offesa, senza previa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
Del giudizio di legittimità vengono investite le Sezioni unite penali, perché, indiscussa l’applicabilità dell’art. 603, comma 3 bis c.p.p. anche nel caso di appello ai soli effetti civili, è controverso se il conseguente annullamento della decisione assunta senza previa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale debba essere disposto con rinvio al giudice penale, a norma dell’art. 623 c.p.p., o al giudice civile a norma dell’art. 622 c.p.p.
Secondo una parte della giurisprudenza, infatti, il rinvio va disposto al giudice civile a norma dell’art. 622 c.p.p. in ogni caso in cui non sia più in discussione la responsabilità penale dell’imputato.
Secondo altro orientamento giurisprudenziale invece il rinvio va disposto al giudice penale a norma dell’art. 623 c.p.p. anche quando sia in discussione la responsabilità solo civile dell’imputato, che va accertata nel rispetto delle norme che regolano il giusto processo penale.
Dopo una puntuale ricostruzione della giurisprudenza e delle sue implicazioni, le Sezioni unite hanno ritenuto fondato il primo orientamento.
Cass., sez. un., 28 gennaio 2021, Cremonini, depositata il 4 giugno 2021, ha infatti enunciato il seguente principio di diritto: «in caso di annullamento ai soli effetti civili, da parte della Corte di cassazione, per la mancata rinnovazione in appello di prova dichiarativa ritenuta decisiva, della sentenza che in accoglimento dell'appello della parte civile avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, abbia condannato l'imputato al risarcimento del danno, il rinvio per il nuovo giudizio va disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello». E ha altresì precisato che dinanzi al giudice del rinvio vanno applicate le norme del codice di procedura civile.
Sennonché questa giurisprudenza è palesemente paradossale, laddove impone alla Corte di cassazione di annullare la decisione d’appello per la violazione di una norma che non dovrà essere osservata nel giudizio di rinvio. Non v’è infatti alcuna utilità né alcuna logica nel censurare la violazione di una norma che non si pretende poi di vedere osservata.
E’ in questi paradossi che si smarrisce il senso della amministrazione della giustizia nel nostro paese.
Tuttavia non è neppure ragionevole l’orientamento giurisprudenziale opposto, laddove pretende di trattenere davanti al giudice penale una controversia che ha ormai connotazioni esclusivamente civilistiche. Non è discutibile infatti che la "ratio" dell’art. 622 c.p.p. sia appunto quella di evitare ulteriori interventi del giudice penale ove non vi sia più nulla da accertare agli effetti penali.
All’origine di questa impasse interpretativa non può dunque esservi che un “errore”: vale a dire l’affermazione che «il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l'istruzione dibattimentale, anche d'ufficio» (Cass., sez. un., 28 aprile 2016, Dasgupta, m. 267489).
Come si è già rilevato in questa rivista ( C. Citterio Rivive il principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale?), in realtà, l’art. 603, comma 3 bis c.p.p. prevede espressamente che solo «nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale». L’affermazione di Cass., sez. un., 28 aprile 2016, Dasgupta, m. 267489, come quella conforme di Cass., sez. un., 19 gennaio 2017, Patalano, m. 269787, precede l’inserimento nell’art. 603 c.p.p. del comma 3 bis (che si applica a decorrere dal 3 agosto 2017). Ed è stata ribadita dalla giurisprudenza successiva solo in ragione dell’affermazione che «il disposto dell'art. 603, comma 3-bis, c.p.p., nel disciplinare il caso di riforma della decisione di primo grado su appello del pubblico ministero, non esclude la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale nel caso di ribaltamento di tale decisione ai soli effetti civili» (Cass., sez. VI, 12 febbraio 2019, Caprara, m. 275167, Cass., sez. V, 4 aprile 2019, Clemente, m. 276933, Cass., sez. V, 15 aprile 2019, Gatto, m. 277000).
Sennonché qui non si tratta di stabilire se la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sia possibile anche in caso di appello ai soli fini civili. Si tratta invece di stabilire se la rinnovazione possa essere considerata obbligatoria, in mancanza di qualsiasi base normativa di un tale obbligo.
E’ vero che viene qui «in rilievo la garanzia del giusto processo a favore dell'imputato coinvolto nel procedimento penale, dove i meccanismi e le regole di formazione della prova non conoscono distinzioni a seconda degli interessi in gioco, pur se di natura esclusivamente civilistica» (Cass., sez. V, 18 febbraio 2020, Menna, m. 279255). Ma questo argomento vale quando l’accertamento delle due responsabilità sia contestuale; non quando sia in discussione solo la responsabilità civile.
Le sezioni unite ricordano anche che è controverso se la sentenza di annullamento ex art. 622 c.p.p. abbia effetti vincolanti nel giudizio civile di rinvio, come afferma la giurisprudenza penale (Cass., sez. IV, 17 gennaio 2019, Borsi, m. 275266, Cass., sez. IV, 16 novembre 2018, De Santis, m. 274831), o non ne abbia, come afferma la giurisprudenza civile, per cui il giudice civile «applica le regole processuali e probatorie proprie del processo civile e, conseguentemente, adotta, in tema di nesso eziologico tra condotta ed evento di danno, il criterio causale del "più proba-bile che non" e non quello penalistico dell'alto grado di probabilità logica, anche a prescindere dalle contrarie indicazioni eventualmente contenute nella sentenza penale di rinvio» (Cass., sez. III, 12 giugno 2019, n. 15859, m. 654290, Cass., sez. III, 25 giugno 2019, n. 16916, m. 654433).
Sembrerebbe tuttavia ragionevole che, ferma l’efficacia vincolante della sentenza di cassazione, il rito debba essere quello del processo civile, ma i parametri di responsabilità debbano essere quelli del codice penale, considerato che non sono diversi da quelli del codice civile.
Secondo la giurisprudenza civile, infatti, anche ai fini della responsabilità civile la causalità va definita in termini condizionalitici. Sicché «un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo» (Cass., sez. I, 30 aprile 2010, n. 10607, m. 612764). Si è così riconosciuto che anche ai fini della «responsabilità civile aquiliana, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p.», secondo la teoria della condicio sine qua non (Cass., sez. I, 8 luglio 2010, n. 16123, m. 613967).
Ciò nondimeno questa stessa giurisprudenza ammette una «diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo pe-nale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dub-bio"»(Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576, m. 600899.).
Tuttavia, come s'è ben chiarito in dottrina, quando si discute di responsabilità, occorre accertare sempre tre fatti: il fatto causante, il fatto causato e la legge di copertura, il criterio di inferenza e di giudizio che permette di affermare che fu proprio il supposto fatto causante a produrre il fatto dannoso, l'evento indesiderato(M. TARUFFO, La prova del nesso causale, in Riv. crit. dir. priv., 2006, p. 101 e s.).
Sicché la sentenza penale di annullamento con rinvio a norma dell’art. 622 c.p.p. non potrà ovviamente vincolare il giudice civile per le modalità di accertamento di questi fatti, ma potrà certamente vincolarlo quanto alla nozione di causalità.
Tornando a ripensare al dissent nei giudizi di costituzionalità (spunti offerti da un libro recente)*
di Antonio Ruggeri
Sommario: 1. I casi di sostituzione del relatore per la redazione della decisione: un trend in aumento, indicativo – a quanto pare – di un disagio crescente avvertito in seno al collegio, pur laddove la sostituzione stessa non riguardi casi di coscienza - 2. La c.d. “apertura della Corte alla società civile” e la crescente tendenza all’innalzamento del tasso di “politicità” dei giudizi di costituzionalità quale cornice entro la quale dovrebbe iscriversi la previsione del dissent e il timore che, in un quadro siffatto, l’istituto possa essere innaturalmente piegato a strumentali utilizzi, forieri di guasti più ancora che di benefici, senza peraltro che ne abbia un sicuro guadagno la parte motiva delle decisioni emesse dalla Consulta - 3. Uscire dal “guado”, senza però che sia chiaro quale sia la via giusta da battere per conseguire la meta - 4. I rischi che fa correre la eventuale introduzione del dissent nel presente quadro politico-istituzionale.
1. I casi di sostituzione del relatore per la redazione della decisione: un trend in aumento, indicativo – a quanto pare – di un disagio crescente avvertito in seno al collegio, pur laddove la sostituzione stessa non riguardi casi di coscienza
Desidero far precedere la succinta riflessione che mi accingo a svolgere da una confessione ad alta voce.
Rileggendo il libro di B. Caravita[1] che ci dà oggi modo di tornare a confrontarci sulla spinosa questione relativa alla eventuale introduzione del dissent nei giudizi davanti alla Corte costituzionale[2], ho provato una sensazione strana, già per vero avvertita in altre occasioni, come quella di un bambino che spia dal buco di una serratura e scopre un mondo che gli era rimasto dapprima nascosto. A volte, infatti, sono proprio le “microquestioni” – se così posso chiamarle – ad aprire gli occhi su quelle di maggior rilievo, ad oggi irrisolte ovvero risolte ma in modo non del tutto appagante, sì da non fugare alcuni dubbi che lasciano l’amaro in bocca anche a chi vede affermata la tesi nella quale si riconosce.
La sostituzione del giudice relatore per la redazione della decisione è una di queste.
Ad una prima (ma, appunto, erronea) impressione, la questione parrebbe presentarsi assai circoscritta quanto all’ambito materiale sul quale si situa e rende manifesta, come pure per ciò che concerne gli effetti di ordine istituzionale che possono discenderne; è, però, una questione sullo sfondo della quale stanno formidabili interrogativi ai quali la teoria costituzionale ad oggi non è riuscita a dare persuasive risposte.
In fondo, parrebbe esserne avvertita anche la dottrina che ha animatamente discusso (e seguita a discutere) al proprio interno in merito allo strumento o agli strumenti di normazione da mettere in campo al fine della introduzione del dissent, in ispecie quella parte di essa che caldeggia il ricorso alla legge costituzionale: a sottolineare, appunto, come possa risultarne modificata – e lascio, per il momento, insoluto il quesito se in meglio o in peggio – la posizione della Corte nel sistema, con immediati riflessi sulle relazioni che la stessa intrattiene con gli altri operatori istituzionali.
Tornerò sul punto, di non secondario rilievo, tra non molto.
Il libro del quale siamo oggi chiamati a discutere, nondimeno, per un verso, ripropone interrogativi antichi e, per un altro verso, ne pone di nuovi, col fatto stesso del modo con cui lo studio è stato metodicamente impostato e portato quindi ai suoi naturali e conseguenti svolgimenti.
Come ho già rilevato in altra occasione, si tratta di un autentico opus primum, per il taglio sperimentale che lo connota, essendosi fatto luogo ad un’accurata ricognizione di tutti i casi di sostituzione registratisi negli ultimi trent’anni, alla illustrazione dei loro connotati più salienti, alla loro sistemazione.
Gli esiti dello studio condotto sono di particolare interesse sotto più aspetti.
In primo luogo, pur presentandosi il fenomeno della sostituzione non particolarmente frequente, ugualmente è forse improprio definirlo – come molte volte si è fatto (e si fa) – “raro” o, addirittura, “rarissimo”[3]. I quasi novanta casi scrutinati da C. costituiscono, infatti, pur sempre un campionario idoneo a dare indicazioni di non poco significato. Inoltre (e vengo al secondo aspetto), si tratta di casi che vanno via via crescendo. Basti solo pensare che nel solo 2020 se ne sono avuti cinque, quasi cioè la metà di quelli registratisi nei sei anni immediatamente precedenti (dodici dal 2015 al 2019)[4].
Il punto induce ad una prima riflessione, aprendosi peraltro a valutazione di vario segno, da un canto ponendosi quale indice esteriore attendibile di viepiù frequenti dissensi e vere e proprie spaccature in seno al collegio, non soltanto – si badi – su questioni di particolare rilievo, coinvolgenti – come suol dirsi – la “coscienza” dei giudici, ma anche su altre di minor peso. Lo stesso C., nel tirare le fila del discorso svolto, fa notare – a mia opinione, giustamente – come talune sostituzioni risultino francamente inspiegabili (85); è pur vero, però, che gli arcana imperii, proprio perché tali, restano il più delle volte impenetrabili e sfuggenti ad ogni tentativo, per accurato che sia, di decifrazione.
La crescita del trend potrebbe anche significare una marcata (e, appunto, vistosa) insofferenza di questo o quel giudice a restare nell’ombra, imprigionato dalla segretezza del voto.
D’altronde, è risaputo che la questione del dissent, che peraltro – come si sa – ciclicamente riaffiora per poi seguitare, con andamento carsico, a restare sommersa, è tornata a riproporsi dopo che un autorevole membro del collegio non ha taciuto il proprio disagio dovuto alla mancata previsione dell’istituto, denunziandolo pubblicamente[5].
Sta di fatto che in seno alla Corte parrebbe oggi riscontrarsi un fermento di cui, ancora fino a pochi anni addietro, non v’era traccia, perlomeno non traspariva all’esterno con la stessa evidenza di oggi; un supplemento di riflessione sul punto, nel quadro di una complessiva riconsiderazione delle più salienti esperienze e tendenze concernenti l’organo e il ruolo che mostra di voler esercitare nel tempo presente, sarebbe, dunque, di particolare interesse[6], come pure lo è interrogarsi sul perché i giudici sempre più di frequente avvertano il bisogno di avere una visibilità che fino ad ieri non manifestavano.
Qui, com’è chiaro, il discorso si lega a doppio filo a quella “apertura alla società civile” – com’è usualmente chiamata –, alla quale si è fatto luogo nel tempo a noi più vicino, nella varietà delle forme e degli effetti che le è propria, sulla quale mi limiterò qui a svolgere solo una rapida notazione, rimandando ad altri luoghi di riflessione scientifica nei quali se n’è detto con maggiore estensione. Un’apertura che, poi, per la sua parte, avvalora una generale tendenza alla emersione, a volte in modo particolarmente vigoroso e vistoso, dell’“anima” politica rispetto a quella giurisdizionale[7], con conseguente alterazione dell’equilibrio, per vero strutturalmente precario, nel quale esse, secondo modello, sarebbero tenute a stare, segnando in modo originale i complessivi sviluppi delle esperienze processuali maturate presso la Consulta e marcandone dunque le differenze rispetto ad analoghe esperienze venute alla luce presso organi giurisdizionali diversi.
Se ne dirà meglio a breve. Per il momento, è interessante notare come il dato numerico non insignificante di casi di sostituzione che risulta dall’indagine condotta da C. dia conferma del fatto che non tutti i casi stessi possono essere assunti ad indice di un dissenso tale da non consentire al relatore di far luogo alla stesura della decisione. A parte i due casi, del tutto peculiari, avutisi al tempo della elezione di Mattarella quale Presidente della Repubblica[8], il numero delle sostituzioni e la varietà dei casi in cui se n’è avuto riscontro testimoniano che, in aggiunta all’ipotesi del dissenso, anche altre ragioni potrebbero avere determinato la messa in atto della misura in parola.
Tutto ciò, al tirar delle somme, rende evidente la inadeguatezza della sostituzione ut sic a dar voce al dissenso.
Il giudizio che ne dà C. è tranciante. La qualifica una “forma dimezzata di dissenting opinion … insoddisfacente, inefficiente, autoreferenziale, fonte di nessuna chiarezza e, soprattutto, di nessun avanzamento delle conoscenze e della discussione” (86)[9].
Forse, come è stato di recente osservato da una sensibile dottrina[10], più che di un dissent vero e proprio, sarebbe giusto discorrere – perlomeno in relazione ad alcuni casi[11] – di una sorta di “obiezione di coscienza” del singolo giudice, che peraltro non può esternare le ragioni che la sostengono, se non in sede scientifica[12], sempre che – mi permetto di aggiungere – sia davvero provato che il dissenso sia la causa della sostituzione, cosa altamente probabile ma appunto non del tutto sicura[13].
Il relatore, nondimeno, si trova pur sempre in una posizione più vantaggiosa rispetto a quella in cui stanno gli altri componenti il collegio, i quali non dispongono di alcun mezzo, se non appunto quello scientifico, per illustrare le ragioni dell’orientamento adottato in occasione della trattazione della singola controversia. La qual cosa poi, per vero, qualche problema lo pone in ordine alla parità di condizioni in cui, secondo modello, stanno tutti i componenti il collegio[14]. Né vale, ovviamente, obiettare che, a turno, ciascun giudice potrà regolarsi allo stesso modo, dal momento che ciò che solo conta è il riconoscimento, che si ha a beneficio unicamente del relatore e non pure degli altri giudici rimasti in minoranza, di poter in qualche modo far conoscere il proprio dissenso, seppur nella forma – come si è veduto – complessivamente inappagante di cui qui si discorre.
2. La c.d. “apertura della Corte alla società civile” e la crescente tendenza all’innalzamento del tasso di “politicità” dei giudizi di costituzionalità quale cornice entro la quale dovrebbe iscriversi la previsione del dissent e il timore che, in un quadro siffatto, l’istituto possa essere innaturalmente piegato a strumentali utilizzi, forieri di guasti più ancora che di benefici, senza peraltro che ne abbia un sicuro guadagno la parte motiva delle decisioni emesse dalla Consulta
Lo studio della sostituzione – tiene a precisare C., 96 – non intende portare argomenti né a favore né contro l’introduzione del dissent; si tratta, nondimeno, di una neutralità apparente, per una duplice ragione. In primo luogo, per il fatto che – si chiarisce senza mezzi termini, 95 – “non si può rimanere in mezzo al guado”; e, siccome non è pensabile che possa farsi a meno della sostituzione, se ne ha che o dovrebbero cambiarsi le regole in merito alla sottoscrizione delle decisioni (magari tornando all’antico della sottoscrizione da parte di tutti i giudici ovvero facendo comunque a meno di menzionare l’autore della redazione) oppure non rimarrebbe appunto che andare avanti e far luogo alla previsione del dissent (che pure – come si sa – potrebbe aversi in varie forme e con parimenti varia intensità di effetti). E, tra i due corni dell’alternativa, è sicuro che C. si senta maggiormente attratto dal secondo piuttosto che dal primo[15].
In secondo luogo, l’intero impianto dello studio in parola spinge – a me pare – verso quest’ultimo esito, secondo quanto è peraltro ora avvalorato dalle puntuali risposte date da C. al forum della Rivista del Gruppo di Pisa, già richiamato.
Ne dà sicura conferma il rilievo della contraddizione che, a suo avviso, sarebbe insita nell’apertura della Corte verso l’esterno, sopra già accennata, allo stesso tempo in cui “rimane – malamente – chiusa all’interno”: una soluzione, dunque, giudicata “ormai difficilmente accettabile” (87).
Quest’ultimo rilievo, tuttavia, non mi persuade del tutto, pur convenendo – come dicevo – a riguardo del fatto che la crescita dei casi di sostituzione s’inscriva in un quadro complessivo segnato da una studiata, crescente visibilità, speciale attenzione nei riguardi della pubblica opinione e, soprattutto, da una marcata sottolineatura dei tratti di “politicità” dei giudizi emessi dalla Consulta.
Ancora di recente, peraltro, anche altri studiosi si sono dichiarati dell’idea che sarebbe “una forzatura collocare il tema della possibile introduzione del dissent entro la tendenza della Corte ad ‘aprirsi alla società’…”[16].
Dal mio canto, mi permetto di aggiungere una duplice notazione al riguardo.
La prima è che si dà qui per scontato che “l’apertura della Corte alla società civile” – come si è soliti chiamarla – sia, in ogni sua forma ed aspetto, cosa buona e giusta, dandosi dunque per dimostrato ciò che invece richiede di esserlo. Sarei piuttosto tentato di riprendere l’antico e saggio aforisma secondo cui errare humanum est, perseverare diabolicum…
E, invero, mi sfugge – come ho già osservato altrove – la ratio delle visite alle carceri o alle scuole che, in realtà, somigliano molto da presso (ed anzi, a conti fatti, in tutto coincidono) con pratiche cui fanno di frequente luogo esponenti politici al fine di catturare e mantenere il consenso di cui hanno costante e disperato bisogno. Francamente, fatico a vedere (e, anzi, non vedo affatto) cosa aggiungano o tolgano le visite in parola a ciò che è necessario per la risoluzione delle questioni portate alla cognizione della Corte, tanto più che quest’ultima – come tutti sanno – dispone di poteri istruttori di cui ha fatto (e fa) uso alla bisogna.
Il vero è che le esperienze in parola s’inscrivono in un quadro complessivo che vede oggi fortemente sovraesposta l’immagine della Corte e che la stessa accredita sempre di più come somigliante e talora persino indistinguibile rispetto a quella dei decisori politici. Ne danno una eloquente e, a mia opinione, preoccupante testimonianza il sostanziale accantonamento del limite del rispetto della discrezionalità del legislatore[17], per un verso, e, per un altro verso, la invenzione di tecniche decisorie inusuali e viepiù particolarmente incisive, quale quella inaugurata in Cappato e, ancora da ultimo, messa in campo nella vicenda dell’ergastolo ostativo.
A conti fatti, la Corte indirizza al legislatore ed agli operatori tutti, così come alla pubblica opinione, il messaggio di essere pronta a fare in tutto e per tutto le veci del legislatore stesso, in tal modo incoraggiando peraltro i giudici a prospettare questioni volte persino al sostanziale rifacimento di una disciplina data, in buona sostanza senza ormai più limite di sorta.
La cosa – come si è tentato di argomentare altrove – è particolarmente inquietante, assistendosi alla messa da canto del principio della separazione dei poteri, con grave pregiudizio per l’idea stessa di Costituzione, quale mirabilmente scolpita nel famoso art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789.
Ora, occorre chiedersi quali utilizzi del dissent potrebbero farsi in un contesto che – piaccia o no (ed a me non piace per nulla) – risulta caratterizzato dalla sostanziale fungibilità dei ruoli istituzionali. È chiaro, infatti, che, ammettendosi in tesi la eventualità che la Corte possa porre (così come in casi sempre più frequenti pone) mano al rifacimento di discipline positive in difetto dell’intervento regolatore del legislatore, se ne ha che, per un verso, potrebbero essere viepiù sollecitati i giudici a chiedere alla Corte di farvi luogo, nel mentre (e per un altro verso) potrebbe risultare ancora più acceso e politicamente connotato il confronto in seno al collegio, testimoniato proprio dalle opinioni minoritarie, esse pure dunque venute a formazione in numero crescente.
Insomma, temo che possa assistersi all’impianto di una spirale perversa: il dissent presentandosi in non pochi casi a tinte forti, politicamente colorate, e concorrendo per la sua parte ad innalzare ulteriormente il tasso di “politicità” che è di già vistoso nelle più recenti esperienze di giustizia costituzionale e quest’ultimo, poi, ulteriormente agevolando la crescita del secondo.
Il timore è, poi, che il dissent sia strumentalmente ed innaturalmente piegato allo scopo di catturare e preservare il consenso di larghi strati della pubblica opinione nei riguardi della Corte e del suo operato. Non a caso, d’altronde, ancora da ultimo una sensibile dottrina[18] si è espressa nel senso che, nella presente congiuntura storica, è proprio a mezzo dell’apertura alla società civile, cui si è fatta sopra parola, che la Corte in significativa misura riesce a centrare l’obiettivo di “rilegittimarsi” senza sosta.
Qui, però, il discorso si fa davvero spinoso e tocca – come dicevo già all’inizio della mia riflessione – micidiali questioni di ordine teorico, peraltro gravide di implicazioni di ordine istituzionale di non poco momento.
Senza che – com’è chiaro – se ne possa qui dire con il dovuto approfondimento, tengo solo a precisare che, secondo modello (perlomeno per come ai miei occhi appare), non sono i rapporti diretti con la pubblica opinione o il “consenso sociale”, al quale fa appello la dottrina da ultimo richiamata, a porsi quale fonte di “legittimazione” della Corte e dei suoi giudizi[19], per la elementare ragione che la fonte in parola non è (o non dovrebbe essere) la stessa di quella cui attingono i decisori politici e che, anzi, da quest’ultima va (o dovrebbe andare…) tenuta costantemente distinta. Non viene dal basso, insomma, ma dall’alto (dalla Costituzione, dai valori fondamentali in essa positivizzati e dai principi e dalle regole che vi danno voce) la fonte di legittimazione dell’operato del giudice costituzionale[20].
La seconda notazione che mi preme qui fare è che si intravedono somiglianze tra esperienze che, a mio modo di vedere, sono impropriamente accostate. Le visite suddette o le altre specie di apertura alla società civile sono, infatti, cosa ben diversa rispetto a ciò che può potenzialmente servire ovvero nuocere al giudizio ed ai suoi esiti, se è vero, com’è vero, che i verdetti del giudice costituzionale hanno unicamente bisogno di essere ben fatti, dotati di salde premesse che quindi richiedono di essere portate ai loro lineari e conseguenti svolgimenti. Nulla di più e nulla di meno, dunque.
Ebbene, si fa notare dai fautori della previsione del dissent che la parte motiva delle pronunzie emesse dalla Consulta ne avrebbe un sicuro guadagno, in fatto di linearità e di coerenza, laddove al presente lo sforzo prodotto di dare comunque un qualche rilievo anche alle posizioni assunte dai giudici rimasti in minoranza si traduce sovente in un appesantimento e in un fattore di scollamento interno alla motivazione che dunque risulta, in casi non infrequenti, penalizzata per qualità[21]. Allo stesso tempo, si rileva da parte di molti che le opinioni minoritarie si presterebbero a favorire il revirement giurisprudenziale (cosa che però – si faccia caso – di per sé non è detto che sia sempre un bene…)[22].
Ad ogni buon conto, è di tutta evidenza la circostanza per cui la mancanza del dissent non ha di certo ostacolato i mutamenti, anche radicali, della giurisprudenza non soltanto su questioni di merito ma persino per taluni profili istituzionali anche di centrale rilievo[23].
Per il primo aspetto, poi, occorre distinguere due casi diversi, per disagevole che invero ciò in non pochi casi si dimostri essere. Un conto è infatti la contraddizione interna che si riscontra talvolta nelle pronunzie del tribunale costituzionale ed un’altra cosa invece la elasticità strutturale della decisione e la sua apertura ad ulteriori sviluppi giurisprudenziali, che è cosa di per sé non negativa ed anzi foriera di non pochi benefici.
Il vero è che i fautori della introduzione del dissent tendono ad accreditare l’idea che, grazie ad esso, si centrerebbe l’obiettivo di avere – per dirla con un’attenta studiosa[24] – “motivazioni chiare, semplici, comprensibili, accessibili”, quasi che si dia un rapporto di diretta e necessaria conseguenzialità tra l’una e l’altra cosa. Ciò che, però, a mia opinione, non è affatto provato, l’esperienza piuttosto testimoniando che possono aversi buone o cattive motivazioni, ora le une ed ora le altre, indipendentemente dalla esistenza dell’istituto e dal fatto che, laddove esista, se ne faccia o no utilizzo.
3. Uscire dal “guado”, senza però che sia chiaro quale sia la via giusta da battere per conseguire la meta
Si diceva poc’anzi che, a giudizio di C., occorre comunque uscire dal “guado” o, diciamo pure, dall’ambiguità. Il punto è che, purtroppo, ammesso pure che si abbiano le idee chiare sulla meta, non è affatto sicuro quale sia la via da battere per raggiungerla.
Se n’è avuta, ancora da ultimo, conferma dal forum organizzato dalla Rivista del Gruppo di Pisa, sopra già più volte richiamato, nel corso del quale, per un verso, non sono mancate le espressioni di perplessità in merito alla opportunità di far luogo al dissent senza indugio e, per un altro verso, anche da parte di coloro che vi si sono dichiarati favorevoli si sono avute indicazioni non poco divergenti in merito allo strumento positivo bisognoso di essere messo in campo allo scopo[25].
Ancora una volta, così come era già accaduto in passato[26], il ventaglio è stato dispiegato a tutto campo, prospettandosi la necessità allo scopo ora della legge costituzionale ed ora di quella comune ovvero ammettendosi la sufficienza della disciplina per via di autonormazione prodotta dalla stessa Corte e, magari, della innovazione ope juris prudentiae[27].
Il problema sul piano teorico c’è e sarebbe un grave errore, frutto di autentica miopia, non ammetterne la esistenza; e, tuttavia, come ho fatto notare di recente in altro luogo[28], forse praticamente va ridimensionato. È mia impressione, infatti, che qualunque sia lo strumento utilizzato è improbabile che se ne abbia la contestazione o, peggio, la rimozione in sede giurisdizionale.
Pressoché certo è quest’esito ove si faccia luogo all’adozione di una legge costituzionale (soluzione da me patrocinata già da molti anni[29] e che seguito a ritenere la più rigorosa, a motivo delle implicazioni di ordine istituzionale che possono aversi per effetto della novità in parola). Non si conoscono, infatti, casi di caducazione di leggi costituzionali, al di fuori della peculiare vicenda dello statuto siciliano, peraltro venuto alla luce – come si sa – ancora prima della Carta costituzionale e con questa oggettivamente in molte sue parti non compatibile. Non che ciò non si ritenga astrattamente possibile, alla luce della nota teoria dei limiti alle innovazioni venute alla luce con le procedure di cui all’art. 138; e, tuttavia, la Corte è comprensibilmente restia a far luogo all’annullamento di leggi di forma costituzionale (e, prima ancora, lo sono coloro che potrebbero chiederlo), specie poi laddove dovessero venire a formazione con i più larghi consensi in seno alle assemblee elettive e, forse più ancora, laddove confermate dal voto popolare. Si preferisce, piuttosto, far luogo – come si sa – ad aggiustamenti, anche corposi, per via interpretativa, secondo quanto è stato testimoniato per tabulas dai continui rifacimenti ai quali è andato soggetto il Titolo V e, in genere, l’intera Carta costituzionale, anche nella sua originaria versione, che non è riuscita a sottrarsi alle corpose modifiche tacite alle quali è andata soggetta[30].
Discorso solo in parte diverso parrebbe doversi fare con riguardo alle leggi comuni; e, tuttavia, anche per esse l’ipotesi della caducazione da parte della Corte che si senta lesa o invasa nella propria sfera di competenze dall’atto legislativo, nell’assunto che la introduzione del dissent debba aver luogo per mano della Corte stessa, appare ugualmente alquanto remota, se non pure scartabile a priori.
Molto più realistica è, invece, l’ipotesi che la novità in parola (se proprio ha da venire alla luce…), si abbia per iniziativa della Consulta, in sede di autonormazione ovvero per via giurisprudenziale. Ed anche in questo caso, mi parrebbe assai improbabile che lo stesso giudice costituzionale, eventualmente adito[31], possa tornare sui propri passi, delegittimando a conti fatti se stessa.
Recenti esperienze, alle quali si è poc’anzi fatto cenno, che hanno visto la Corte occupare il campo un tempo dalla stessa ritenuto esclusivamente coltivabile dal legislatore, danno sicura conferma del fatto che le Camere tendono ad assistere inerti all’iperattivismo che connota le più recenti tendenze della giustizia costituzionale. E, francamente, non si vede perché qui le cose dovrebbero andare diversamente, tanto più che la novità di cui ora si discorre si ritiene – a torto – che attenga esclusivamente alle dinamiche del processo costituzionale, restando improduttiva di sostanziali effetti a carico di altri operatori istituzionali (e, segnatamente, di quelli preposti alla direzione politica).
Di contro, proprio la novità stessa potrebbe essere ritenuta vantaggiosa per questi ultimi, dal momento che renderebbe palesi le fratture interne alla Corte e potrebbe pertanto essere sfruttata in ambiente politico secondo occasionali convenienze.
4. I rischi che fa correre la eventuale introduzione del dissent nel presente quadro politico-istituzionale
Quest’ultima notazione, unitamente alla consapevolezza che realisticamente – come si diceva – il dissent può nutrire la speranza di venire alla luce unicamente per iniziativa della Corte, deve indurre ad una seria e disincantata riflessione finale che ora si passa a svolgere con la massima rapidità, avendo avuto già modo di dirne ancora di recente altrove[32].
Ebbene, C. è pienamente avvertito delle conseguenze che, nel bene e nel male, potrebbero aversi a far luogo alla novità in discorso. Affida il suo pensiero ad una serie di puntuali interrogativi formulati nelle considerazioni finali del suo studio, lasciandoli accortamente in sospeso. Ad es., sul versante dei rapporti tra la Corte costituzionale e le Corti europee e le altre massime autorità giurisdizionali di diritto interno, richiama la discussa ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 19598 del settembre 2020, interrogandosi su cosa sarebbe potuto accadere per il caso che la decisione stessa fosse stata fatta oggetto di una o più opinioni dissenzienti (95).
Convengo, ovviamente, sul rilievo della questione; mi chiedo, però, spostando il tiro al piano dei rapporti tra la Corte e gli organi statali d’indirizzo politico, quali scenari potrebbero delinearsi in presenza di opinioni dissenzienti coinvolgenti decisioni della Consulta su leggi elettorali o su altre discipline “scottanti” e gravide di implicazioni per le dinamiche riguardanti la forma di governo e la stessa forma di Stato[33].
Dicevo all’inizio della succinta riflessione che volge ormai alla fine che il dissent mi ricorda il buco della serratura da cui è possibile vedere quanto prima era rimasto nascosto.
Ora, è sicuro che dell’osservazione del contesto complessivo del tempo presente non possa farsi a meno, essendo necessario interrogarsi sugli effetti di sistema che potrebbero conseguire all’introduzione della novità di cui si è oggi nuovamente discorso[34], specie laddove il contesto stesso si presenti gravato da plurimi focolai di tensione istituzionale, veri e propri conflitti (a volte anche assai aspri), porzioni del campo in cui si svolgono le dinamiche istituzionali ad oggi avvolte da una fitta nebbia che impedisce di vedere con chiarezza come le dinamiche stesse prendono forma e quale ne sia l’orientamento e il fine.
Ebbene, in un quadro siffatto consiglierei molta cautela prima di far luogo ad una innovazione, quale quella di cui si è discorso, sicuramente produttiva di non pochi benefici ma anche – in relazione al nostro assetto politico-istituzionale – suscettibile di mostrarsi foriera di svantaggi e di far correre rischi da cui potrebbero scaturire effetti che non si saprebbe poi come circoscrivere nella loro portata, se non pure eliminare del tutto[35].
Viviamo un tempo difficile e, per molti aspetti, sofferto, e non solo per la pandemia che ad oggi ci affligge ed inquieta.
Contrariamente alle rassicuranti e, talora, persino ireniche raffigurazioni che, per comprensibili motivi, autorevoli operatori istituzionali (a partire dal Capo dello Stato) danno del quadro politico-istituzionale e del futuro che l’attende, seguito a ritenere la nostra democrazia fragile, per quanto siano ormai trascorsi tre quarti di secolo dalla nascita della Repubblica; una democrazia al proprio interno ancora non del tutto pacificata e nella quale operano forze politiche dalla irrefrenabile vocazione populista e, in alcune loro espressioni, nazionaliste ad oltranza e venate di autoritarismo[36]; una democrazia in seno alla quale si registra un calo vistoso di fiducia nei riguardi degli operatori di giustizia che hanno – ahimè – perduto una parte consistente della credibilità di cui, ancora fino a poco tempo addietro, godevano[37], senza peraltro che sia chiaro come possa tentarsene il pur parziale recupero; una democrazia, infine, che – come ha segnalato la più avvertita dottrina[38] –, allo stesso tempo in cui rende testimonianza di una grave crisi della rappresentanza[39], ci consegna un’immagine del corpo sociale afflitto al proprio interno dalla medesima crisi, il cui tessuto connettivo appare essere ormai vistosamente sfilacciato e problematicamente ricucibile[40].
Non è, di certo, piacevole restare nel “guado”, per riprende ancora una volta l’efficace metafora di C.; attenzione, però, a non spingersi troppo al largo nel mare procelloso, col rischio di non avere poi la forza per tornare indietro e guadagnare la riva[41].
Torniamo, dunque, a discuterne in tempi migliori, se avremo la fortuna di vederli[42].
* Intervento al webinar di presentazione del libro di B. Caravita, Ai margini della dissenting opinio. Lo “strano caso” della sostituzione del relatore nel giudizio costituzionale, per iniziativa dell’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria e di Federalismi, 8 giugno 2021, alla cui data lo scritto è aggiornato.
[1] … che d’ora innanzi, per ragioni di speditezza, richiamerò con la sola lettera iniziale dell’autore; avverto, inoltre, che farò riferimento alle pagine dello scritto con la sola indicazione del loro numero data nel testo.
[2] La questione – come si sa – è da tempo dibattuta: dopo i noti studi di L. Luatti, Profili costituzionali del voto particolare. L’esperienza del tribunale costituzionale spagnolo, Giuffrè, Milano 1995; S. Panizza, L’introduzione dell’opinione dissenziente nel sistema di giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino 1998; L. Scaffardi, L’introduzione dell’opinione dissenziente nei giudizi costituzionali, in St. parl. pol. cost., 124/1999, 55 ss., e A. Di Martino, Le opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali. Uno studio comparativo, Jovene, Napoli 2016, l’istituto è stato, ancora di recente, fatto oggetto di animate discussioni che – come qui pure per taluni aspetti di vedrà – hanno dato conferma della perdurante esistenza di opinioni reciprocamente distanti e, in relazione a taluni profili anche di cruciale rilievo, frontalmente contrapposte: v., dunque, tra i molti altri, K. Kelemen, Judicial Dissent in European Constitutional Courts. A Comparative and Legal Perspective, Routledge, London 2018; E. Ferioli, Dissenso e dialogo nella giustizia costituzionale, Wolters Kluwer - Cedam, Milano 2018; A. Fusco, L’indipendenza dei custodi, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, spec. cap. IV, e, della stessa, ora, «Ne riparleremo, dunque, tra qualche tempo»: a proposito dell’introduzione delle opinioni separate (e non meramente dissenzienti) vs. l’attuale forma di «dissenso mascherato», in Riv. Guppo di Pisa, 1/2021, 29 aprile 2021, 360 ss.; AA.VV., The Dissenting Opinion. Selected Essays, a cura di N. Zanon - G. Ragone, Giuffré Francis Lefebvre, Milano 2019; D. Tega, La Corte costituzionale allo specchio del dibattito sull’opinione dissenziente, in Quad. cost., 1/2020, 91 ss.; C. Nicolini Coen, Unità e pluralità: il fenomeno delle opinioni separate in una Corte costituzionale, in Pol. dir., 3/2020, 465 ss.; A. Anzon Demmig, Ripensando alle opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali e alla legittimazione della Corte, in Giur. cost., 5/2020, 2571 ss. Infine, i contributi al forum dal titolo Sull’introduzione dell’opinione dissenziente nel giudizio di costituzionalità, organizzato dalla Rivista del Gruppo di Pisa ed ospitato dal fasc. 1/2021, 17 maggio 2021, 383 ss.; D. Camoni, Due importanti lezioni europee per l’introduzione dell’opinione dissenziente nella Corte costituzionale italiana, in Oss. cost. (www.osservatorioaic.it), 3/2021, 1° giugno 2021, 59 ss., e, se si vuole, anche il mio Ancora in tema di opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali: è meglio accendere i riflettori sulla Consulta o lasciarla in penombra?, in questa Rivista, 28 gennaio 2021.
[3] Così, E. Rossi, Relatore, redattore e collegio nel processo costituzionale, in AA.VV., L’organizzazione e il funzionamento della Corte costituzionale, a cura di P. Costanzo, Giappichelli, Torino 1996, 349, richiamato anche da C., 2, in nt. 2.
[4] È pur vero però che alla data di svolgimento del nostro incontro non si è registrato nell’anno in corso neppure un caso di sostituzione; e sarà interessante verificare se si avvererà la previsione fatta da B. Caravita nell’intervento conclusivo dell’incontro stesso, secondo cui potrebbe, prima o poi, accadere che un giudice sostituito per la redazione chieda che sia pubblicata contestualmente alla decisione la sua opinione separata.
[5] Il riferimento – com’è chiaro – è all’intervista resa da N. Zanon ad A. Fabozzi, ed apparsa ne Il Manifesto del 29 dicembre 2020, il cui titolo parla da solo (Zanon: “È tempo che la Corte faccia conoscere l’opinione dissenziente”). Lo stesso giudice ha poi ulteriormente ribadito il proprio orientamento in un’altra intervista resa a V. Alberta, dal titolo Corte costituzionale e dissenting opinion: fine di un tabù?, per conto de L’Asterisco, trasmessa in streaming e visibile su Youtube, il 5 gennaio 2021.
[6] Spinge, d’altronde, in questa direzione proprio lo studio su cui oggi siamo chiamati a confrontarci.
[7] Su ciò il dibattito è in corso da tempo, infittendosi ed animandosi peraltro in particolare misura proprio negli anni a noi più vicini [indicazioni in C. Drigo, Giustizia costituzionale e political question doctrine. Paradigma statunitense e spunti comparatistici, Bononia University Press, Bologna 2012; R. Basile, Anima giurisdizionale e anima politica del giudice delle leggi nell’evoluzione del processo costituzionale, Giuffrè, Milano 2017; AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, a cura di R. Romboli, Giappichelli, Torino 2017; G. Bisogni, La ‘politicità’ del giudizio sulle leggi. Tra le origini costituenti e il dibattito giusteorico contemporaneo, Giappichelli, Torino 2017; M. Raveraira, Il giudizio sulle leggi: la Corte costituzionale sempre più in bilico tra giurisdizione e politica, in Lo Stato, 11/2018, 123 ss.; A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., 2/2019, 251 ss. (nei riguardi del cui pensiero, criticamente, v. R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quad. cost., 4/2019, 757 ss., e, pure ivi, E. Cheli, Corte costituzionale e potere politico. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, 777 ss.), e, dello stesso, ora, Suprematismo giudiziario II. Sul pangiuridicismo costituzionale e sul lato politico della Costituzione, in Federalsimi (www.federalismi.it), 12/2021, 5 maggio 2021, 170 ss.; A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2019, 26 novembre 2019, 154 ss.; M. Nisticò, Corte costituzionale, strategie comunicative e ricorso al web, in AA.VV., Potere e opinione pubblica. Gli organi costituzionali dinanzi alle sfide del web, a cura di D. Chinni, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, 77 ss.; R. Di Maria, Brevi considerazioni sul rapporto fra tutela sostanziale dei diritti (fondamentali) e rispetto delle forme processuali: la Corte costituzionale e gli “animali fantastici”. The final cut, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2020, 7 gennaio 2020, 1 ss.; F. Abruscia, Assetti istituzionali e deroghe processuali, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2020, 23 ottobre 2020, 282 ss.; AA.VV., Una nuova stagione creativa della Corte costituzionale?, a cura di C. Padula, Editoriale Scientifica, Napoli 2020. Infine, se si vuole, anche il mio Dove va la giustizia costituzionale in Italia?, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2021, 16 aprile 2021, 456 ss.
[8] … che, peraltro, non possono neppure annoverarsi con sicurezza quali eccezioni alla regola del dissenso, non potendosi stabilire se Mattarella si sia, o no, trovato in minoranza in occasione dell’adozione delle decisioni in parola.
[9] Il concetto è ribadito nell’intervento svolto da C. al forum organizzato dalla Rivista del Gruppo di Pisa sull’istituto, che può vedersi nel fasc. 1/2021, 419. Di “una ‘via italiana’ criptica e soft” di dissent si discorre in A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, Giappichelli, Torino 2019, 69; similmente, ora, E. Malfatti - S. Panizza - R. Romboli, Giustizia costituzionale7, Giappichelli, Torino 2021, 83 s.
[10] A. Anzon Demmig, Ripensando alle opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali e alla legittimazione della Corte, cit., 2574.
[11] Come C. argomenta efficacemente, non pochi sono tuttavia i casi in cui è del tutto improprio evocare la “coscienza” a giustificazione della sostituzione.
[12] Ovviamente, è fuori discussione che il giudice costituzionale, al pari di ogni altro operatore, disponga di pienezza di libertà di ricerca scientifica. Per problematico che tuttavia sia, in alcune circostanze, tenerne distinte le sue genuine e peculiari espressioni da altre invece ad esse non riportabili in modo appropriato, va ugualmente avvertito che chi è chiamato a compiti di particolare delicatezza e rilievo, qual è appunto il giudice costituzionale, va incontro a limiti di correttezza istituzionale e, forse, riferibili pure al dovere di fedeltà alla Repubblica, in alcune delle sue più salienti manifestazioni, che gli impongono il mantenimento del riserbo in relazione alle modalità di esercizio del munus del quale è titolare. Ne dà sicura conferma, d’altronde, proprio la mancata previsione del dissent che proietta la sua immagine anche fuori della Consulta, richiedendo l’adozione di comportamenti con esso conseguenti.
[13] Giudico questa precisazione meritevole di essere tenuta costantemente presente, dal momento che ogni discorso che si va qui pure facendo con riguardo al rapporto tra sostituzione e dissent resta pur sempre sottoposto alla condizione che l’una sia dovuta all’altro, senza che però se ne possa avere la prova se non nel caso di esternazione resa dallo stesso giudice relatore.
[14] Non c’è, tuttavia, rimedio, a tener ferma la possibilità della sostituzione, di cui comunque in alcuni casi non può farsi a meno, senza tornare all’antico della sottoscrizione di ogni decisione da parte di tutti i giudici (sul punto, anche a breve).
[15] Troviamo infatti scritto che “i benefici, soprattutto per ciò che attiene alla autorevolezza della Corte, che si ricaverebbero da una meditata introduzione della possibilità di esprimere motivatamente una opinione diversa potrebbero essere superiori agli svantaggi provocati da una situazione in cui vi è la contemporanea assenza della dissenting opinion e presenza di una forma incontrollata, dimidiata e autoreferenziale di dissenso” (97).
[16] Così, M. Ruotolo, Intervento al forum cit., 443.
[17] Il punto è di cruciale rilievo e merita un’attenzione ancora maggiore di quella pure fin qui dedicatavi, specie se si considera la vera e propria escalation alla quale si è assistito nel tempo a noi più vicino e che, per vero, parrebbe non conoscere limite di sorta alla sua crescente affermazione [riferimenti al limite in parola ed alle oscillazioni alle quali è andato soggetto fino a pervenire, di recente, al suo sostanziale superamento, possono, tra gli altri, aversi da A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., cit., 154 ss.; C. Panzera, Esercizio sussidiario dei poteri processuali e discrezionalità legislativa nella recente giurisprudenza costituzionale, in Foro it., 3/2020, V, 127 ss.; T. Giovannetti, La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore, in AA.VV., Rileggendo gli Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1987-2019). A Roberto Romboli dai suoi allievi, Giappichelli, Torino 2020, 19 ss.; D. Tega, La Corte nel contesto. Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, Bononia University Press, Bologna 2020, 101 ss.; F. Modugno, Le novità della giurisprudenza costituzionale, in Lo Stato, 14/2020, 101 ss., spec. 115; M.T. Stile, Discrezionalità legislativa e giurisdizionale nei processi evolutivi del costituzionalismo, Editoriale Scientifica, Napoli 2020; A. Matteoni, Legittimità, tenuta logica e valori in gioco nelle “decisioni di incostituzionalità prospettata”: verso un giudizio costituzionale di ottemperanza?, in ConsultaOnLine (www.giurcost.org), 2/2021, 3 maggio 2021, 348 ss., spec. 371 ss. Infine, volendo, anche il mio Dove va la giustizia costituzionale in Italia?, cit., spec. 473 ss., e L. Pesole, La Corte costituzionale oggi, tra apertura e interventismo giurisprudenziale, in Federalismi (www.federalismi.it), 12/2021, 5 maggio 2021, spec. 242 ss.].
[18] D. Tega, Intervento al forum, cit., 444.
[19] Le plurime ed annose questioni che si pongono al piano dei rapporti tra Corte e pubblica opinione sono fatte da tempo oggetto di parimenti plurimi e discordi punti di vista (tra gli altri, v. M. Fiorillo, Corte costituzionale e opinione pubblica, in AA.VV., Corte costituzionale e processi di decisione politica, a cura di V. Tondi della Mura - M. Carducci - R. G. Rodio, Giappichelli, Torino 2005, 90 ss., e A. Rauti, che ne ha discorso in più luoghi di riflessione scientifica, tra i quali “Il tuo nome soltanto m’è nemico...”. “Linguaggio” e “convenzioni” nel dialogo tra Corte costituzionale e opinione pubblica, in AA.VV., “Effettività” e “seguito” delle tecniche decisorie della Corte costituzionale, a cura di R. Bin - G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi, ESI, Napoli 2006, 581 ss.; più di recente, v. D. Chinni, La comunicazione della Corte costituzionale: risvolti giuridici e legittimazione politica, in Dir. soc., 2/2018, 255 ss., e, nella stessa Rivista, A. Sperti, Corte costituzionale e opinione pubblica, 4/2019, 735 ss. Da una prospettiva di ordine generale, v., poi, con riguardo alle esternazioni dei pubblici poteri, A.I. Arena, L’esternazione del pubblico potere, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, spec. 171 ss.
[20] Su ciò, richiamo qui, per tutti, solo gli studi di A. Spadaro, in ispecie il suo Contributo per una teoria della Costituzione, I, Fra democrazia relativista e assolutismo etico, Giuffrè, Milano 1994.
[21] Della motivazione delle decisioni della Corte, per ciò che è e per come dovrebbe essere, si discute – come si sa – da tempo (indicazioni, per tutti, in AA.VV., La motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, a mia cura, Giuffrè, Milano 1994, e A. Saitta, Logica e retorica nella motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 1996; utili spunti a finalità teorico-ricostruttiva sono, inoltre, offerti da D. Galliani, I criceti e la ruota che gira. Il senso costituzionale dell’obbligo di motivazione, in Scritti per Roberto Bin, a cura di C. Bergonzini - A. Cossiri - G. Di Cosimo - A. Guazzarotti - C. Mainardis, Giappichelli, Torino 2019, 684 ss., nonché, in prospettiva comparata, da G. Romeo, L’argomentazione costituzionale di common law, Giappichelli, Torino 2020). Sta di fatto, però, che ogni tentativo volto a correggerne alcune espressioni, perlomeno nei casi in cui si presentino maggiormente devianti dal modello che si suppone debba per esse valere, si infrange nella pratica contro il muro eretto a “copertura” delle pronunzie della Consulta dall’art. 137, ult. c., Cost. Un efficace rimedio agli scostamenti in parola è, a mio modo di vedere, costituito, sullo specifico terreno sul quale maturano le esperienze processuali relativi alla tutela dei diritti fondamentali, dal c.d. “dialogo” tra le Corti (termine, nondimeno, improprio, che richiederebbe non poche precisazioni la cui esposizione però – com’è evidente – non può qui aversi), in ispecie laddove si intrattenga con le Corti europee quali interpreti e garanti esse pure di documenti materialmente (o, come preferisce dire la Consulta, tipicamente) costituzionali, le Carte dei diritti.
[22] Confesso di non disporre di alcuni elementi di conoscenza che sarebbero ai nostri fini preziosi; non sarei, tuttavia, così sicuro che, nei Paesi che conoscono il dissent, si assista a più frequenti mutamenti d’indirizzo rispetto a quelli che non lo hanno sperimentato. Il vero, poi, è che i mutamenti stessi dovrebbero rinvenire giustificazione in dati oggettivi, e segnatamente in una diversa “situazione normativa” sulla quale la Corte sia chiamata a pronunziarsi e che appunto solleciti (e, anzi, imponga) l’aggiustamento, ora più ed ora meno corposo, di un precedente orientamento (della “situazione normativa” quale oggetto dei giudizi di costituzionalità discorrono A. Ruggeri e A. Spadaro, di recente e riassuntivamente nei Lineamenti di giustizia costituzionale6, cit., 101 ss.).
[23] Un solo esempio per tutti: le tecniche di risoluzione delle antinomie tra il diritto (ieri comunitario ed oggi) eurounitario e il diritto interno.
[24] V. Marcenò, Intervento al forum, cit., 438.
[25] V., in particolare, le risposte alla seconda domanda.
[26] … ad es., in occasione del Seminario su L’opinione dissenziente, svoltosi presso la Consulta nel novembre del 1993, i cui Atti, curati da A. Anzon, sono venuti alla luce per i tipi della Giuffrè nel 1995.
[27] … senza, peraltro, trascurare la eventualità del cumulo degli strumenti, pure giudicato possibile: in particolare, ad avviso di G. Repetto, Intervento al forum, cit., 428, l’introduzione dell’istituto per mano della Corte, in sede normativa ovvero per via di prassi, non farebbe da ostacolo alla successiva disciplina legislativa. Non è tuttavia precisato il modo con cui gli strumenti stessi dovrebbero concorrere alla messa a punto dell’istituto, in ispecie se la normativa apprestata dalla legge possa – e, se sì, fino a che punto – prendere il posto di quella eventualmente data per via di autonormazione.
[28] … nel mio Ancora in tema di opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali: è meglio accendere i riflettori sulla Consulta o lasciarla in penombra?, cit., spec. in nt. 12.
[29] … sin dal mio Per la introduzione del dissent nei giudizi di costituzionalità: problemi di tecnica della normazione, Intervento al Seminario su L’opinione dissenziente, cit., 89 ss., e già in Pol. dir., 1994, 299 ss.
[30] … modifiche peraltro estese agli stessi principi fondamentali, con la conseguenza che ciò che si considera impedito al legislatore di revisione costituzionale non lo è, di fatto, al massimo garante della legalità costituzionale. Ciò che equivale – come vado dicendo da tempo – a far di quest’ultimo un autentico potere costituente permanente.
[31] … ad es., dalle Camere in sede di conflitto di attribuzione, sub specie di conflitto da menomazione.
[32] … nel mio Ancora in tema di opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali: è meglio accendere i riflettori sulla Consulta o lasciarla in penombra?, cit.
[33] Riprendo sul punto una preoccupata notazione già svolta nel mio scritto per ultimo cit.
[34] A questa indicazione di metodo si attiene anche altra dottrina, pervenendo tuttavia ad esiti teorico-ricostruttivi assai discosti da quelli ai quali io sono già approdato altrove e che qui pure confermo. Cfr., ad es., al mio punto di vista quello di recente manifestato da G. Repetto, Intervento, cit., 399 ss., il quale, dopo aver avvertito che l’istituto del dissent “risente del momento storico e delle coordinate storico-politiche sulla posizione della Corte nel sistema”, conclude nel senso che gli argomenti favorevoli alla sua introduzione risultino prevalenti su quelli di segno opposto. Contraria si è, invece, dichiarata A. Anzon Demmig, Ripensando alle opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali e alla legittimazione della Corte, cit., 2580 s.
[35] Similmente, nella manualistica, G. Zagrebelsky - V. Marcenò, Giustizia costituzionale, II, Oggetti, procedimenti, decisioni, Il Mulino, Bologna 2018, 43 ss., e, se si vuole, A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, cit., 79 s.
[36] Ammoniscono, da varie angolazioni e con pari varietà di esiti teorico-ricostruttivi, del rischio della sempre temibile degenerazione autoritaria dell’ordinamento i contributi di AA.VV., Crisi dello Stato e involuzione dei processi democratici, a cura di C. Panzera - A. Rauti - C. Salazar - A. Spadaro, Editoriale Scientifica, Napoli 2020, e, più di recente, M. Calamo Specchia, Un prisma costituzionale, la protezione della Costituzione: dalla democrazia “militante” all’autodifesa costituzionale, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 1/2021, 91 ss.
[37] Lo scandalo Palamara è forse la punta più appariscente del fenomeno che ha però origini risalenti e ramificazioni profonde e varietà di espressioni ad oggi, a mia opinione, non sufficientemente esplorate in ogni loro aspetto.
[38] V., part., M. Luciani, Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del rappresentato, in AA.VV., Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, a cura di N. Zanon - F. Biondi, Giuffrè, Milano 2001, 109 ss., e, dello stesso, La massima concentrazione del minimo potere. Governo e attività di governo nelle democrazie contemporanee, in Teoria pol., 2015, 113 ss., spec. 128.
[39] Della condizione svilita in cui versa la rappresentanza politica si discorre nel mio Lo stato comatoso in cui versa la democrazia rappresentativa e le pallide speranze di risveglio legate a nuove regole e regolarità della politica, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2021, 25 gennaio 2021, 124 ss.
[40] Ho trovato particolarmente lucida ed istruttiva la cruda diagnosi fatta nel libello di un’accreditata dottrina romanistica (A. Corbino, La democrazia divenuta problema. Città, cittadini e governo nelle pratiche del nostro tempo, Eurilink University Press, Roma 2020), venuto alla luce in tempi recente, nel quale si rileva come le radici della crisi si rinvengano, prima ancora che nelle istituzioni, nel profondo del corpo sociale. Ed è perciò che – come ho ritenuto di dover osservare altrove – tagliare le erbacce in superficie lasciando però nel terreno le loro radici non soltanto risulti improduttivo ma rischi piuttosto di rafforzarle ancora di più.
[41] Non si trascuri, infine, un punto, con specifico riguardo al caso che l’avvento del dissent si abbia – come dietro prospettato – per mano della stessa Corte; ed è che, laddove i fatti dovessero poi indurre ad un ripensamento della novità dapprima introdotta, si faticherebbe non poco a tornare indietro, per la elementare ragione che, una volta inventata e messa a punto una certa tecnica decisoria che fa dilatare i margini di manovra di cui il giudice costituzionale dispone, quest’ultimo è comprensibilmente restio a restringerli, privandosi di uno strumento già sperimentato. Come si sa, infatti, la tendenza è per il crescente arricchimento e affinamento delle tecniche decisorie, non già per il loro impoverimento ad opera della stessa Corte. Con ogni probabilità, è ingenuo ritenere che il caso nostro possa fare eccezione alla regola.
[42] Lo stesso invito figura già nel titolo di una recente riflessione dedicata al tema da A. Fusco, «Ne riparleremo, dunque, tra qualche tempo»: a proposito dell’introduzione delle opinioni separate (e non meramente dissenzienti) vs. l’attuale forma di «dissenso mascherato», cit., 360 ss.
La prova in giudizio della notifica di atti tributari a destinatario temporaneamente irreperibile. Nota a Cass. Sez. Un. n. 10012 del 2021 di Silvia Marinoni
Sommario: 1. Il caso deciso – 2. Il contrasto giurisprudenziale – 3. La soluzione accolta dalle Sezioni Unite – 4. Alcune considerazioni conclusive.
1. Il caso deciso
Le Sezioni Unite, con sentenza del 15 aprile 2021, n. 10012, sono intervenute in tema di prova giudiziale della regolare notifica eseguita a mezzo posta nei casi di c.d. irreperibilità relativa dando rilievo, mediante un'interpretazione costituzionalmente orientata, alla ratio sottesa alla notificazione, quale procedura volta a portare a conoscenza del destinatario gli atti a questi indirizzati.
La vicenda trae origine dall'emissione da parte di Equitalia Sud S.p.a. di una cartella di pagamento a carico di una contribuente, che la impugnava lamentando la mancata notifica degli avvisi di accertamento prodromici; la ricorrente contestava il perfezionamento della procedura notificatoria sul presupposto dell'omessa produzione in giudizio da parte dell'Agenzia delle Entrate degli avvisi di ricevimento delle raccomandate di avvenuto deposito del plico (C.A.D.).
In primo grado il ricorso non venne accolto dalla C.T.P. di Caserta, la cui pronuncia, a seguito di gravame della contribuente, veniva confermata dalla C.T.R. della Campania sulla base dell'accertata regolarità delle notifiche degli avvisi di accertamento e del mancato assolvimento dell'onere di impugnazione congiunta degli stessi con la cartella esattoriale.
La contribuente proponeva ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, il cui esame poneva il problema di comprendere in quale modo dovesse essere giudizialmente provata la ritualità delle notificazioni compiute a mezzo posta allorché, per la temporanea assenza del destinatario e delle persone abilitate alla ricezione, ovvero per rifiuto di queste, i plichi fossero stati depositati presso l'ufficio postale e fossero decorsi dieci giorni senza il loro ritiro, nonostante apposita comunicazione. Sulla questione, la Quinta Sezione Civile, con ordinanza interlocutoria n. 21714 del 2020[1], evidenziava la sussistenza di un contrasto in seno alla Corte, rimettendo al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione del ricorso alle S.U., la questione di massima di particolare importanza concernente la prova del perfezionamento della notificazione di un atto impositivo mediante l'impiego diretto del servizio postale (art. 14, l. n. 890/1982) nel caso di temporanea assenza del destinatario e dei soggetti abilitati alla ricezione.
2. Il contrasto giurisprudenziale
La risposta al quesito formulato dalla sezione rimettente si intreccia col tentativo della dottrina e della giurisprudenza di individuare il giusto equilibrio tra diritto di agire del notificante e diritto di difendersi del destinatario.
Una parte della giurisprudenza[2] ha sostenuto che, ai fini della ritualità della notifica diretta, è richiesta la prova della sola spedizione della raccomandata e non anche dell'avvenuta ricezione di questa. Viene in rilievo l'espressa e puntuale previsione dell'art. 8, l. n. 890 del 1982, nella parte in cui dispone che la notificazione si ha “comunque” per eseguita decorsi dieci giorni dalla spedizione della raccomandata. La scelta del legislatore, per come interpretata dalla giurisprudenza, è quella di collegare, in via assoluta e generale, il perfezionamento dell'iter notificatorio all'evento 'spedizione' della C.A.D., in particolare dopo dieci giorni dall'invio della raccomandata. Verificatisi tali requisiti, dunque, si realizzerebbe la conoscenza legale dell'atto da parte del destinatario, con ogni conseguenza in ordine agli effetti che da questa teorica conoscenza derivano[3].
Questa tesi si fonda, inoltre, sulla distinzione tra conoscenza e conoscibilità: la notificazione, quale procedimento complesso e strutturato, mira a consentire la sola conoscibilità, per soddisfare la quale sono state imposte al notificante specifiche formalità, fermo restando il dovere di cooperazione del destinatario dell'atto per integrare la sua conoscenza effettiva[4].
Il punto di incontro tra le posizioni contrapposte dei soggetti e i rispettivi diritti è dato dall'obbligo, in caso di mancato recapito al destinatario, di spedire una seconda raccomandata informativa dell'invio della prima racomandata, che costituisce, al tempo stesso, adempimento necessario per il notificante (che deve adoperarsi affinchè il destinatario sia portato a conoscenza dell'esistenza dell'atto) e sufficiente per il notificato (posto in condizione di sapere che vi è un atto a lui indirizzato). Questo bilanciamento, invero, sembrerebbe sortire un duplice effetto: per un verso, incoraggia il notificante ad attivarsi correttamente consapevole del fatto che il rispetto delle formalità legali comporta il perfezionarsi della notifica anche in mancanza del ritiro del piego depositato; per altro verso, riconoscendo al destinatario un termine ragionevole per ritirare il piego, garantisce il diritto di costui “ad essere posto in condizione di conoscere, con l'ordinaria diligenza e senza necessità di effettuare ricerche di particolare complessità, il contenuto dell'atto e l'oggetto della procedura instaurata nei suoi confronti”[5].
Secondo una contrapposto orientamento[6], ai fini della ritualità della notifica a mezzo posta in caso di irreperibilità relativa del destinatario, non è sufficiente provare la spedizione della raccomandata informativa di comunicazione di avvenuto deposito, essendo necessaria la prova dell'avvenuta ricezione di quest'ultima. Tale ricostruzione valorizza il diritto di difesa (art. 24 Cost.) che può essere realmente assicurato solo allorchè le garanzie di conoscibilità dell'atto siano improntate a logiche di effettività. In questa prospettiva, il Collegio rimettente ha enfatizzato il ruolo determinante della C.A.D. rilevando che quando il legislatore ha considerato sufficiente una raccomandata semplice per informare circa l'avvenuta notificazione ha espressamente disposto in tal senso[7], mentre l'art. 8, co.4, l. n. 890/1982 prescrive l'invio di raccomandata “con avviso di ricevimento”.
L'ordinanza interlocutoria ha così posto l'interrogativo sulla necessità o meno di esibire in giudizio l'avviso di ricevimento relativo alla raccomandata contenente la C.A.D. come prova del suo invio, al fine di verificare se effettivamente la comunicazione di avvenuto deposito sia giunta nella sfera di conoscibilità del destinatario. Dalle annotazioni ivi riportate, infatti, potrebbe risultare la mancata consegna dovuta al trasferimento o al decesso del soggetto cui l'atto è indirizzato, o ad altre cause ostative alla sua conoscibilità, che parimenti assumono rilevanza in quanto dimostrano che l'effetto legale collegato al procedimento notificatorio non si è potuto produrre[8].
La diversità di prospettiva che caratterizza la tesi favorevole alla prova della ricezione della C.A.D., oltre a rafforzare la posizione del soggetto cui l'atto è rivolto, determina un mutamento notevole dal punto di vista processuale, che va oltre l'onere probatorio gravante sul notificante, producendo effetti anche sotto il versante temporale, con conseguente allungamento dei termini. Chiarisce, infatti, l'ordinanza di rimessione, che il perfezionamento della notifica per il destinatario con il decorso di dieci giorni dalla spedizione della raccomandata della C.A.D. degrada ad “effetto provvisorio o anticipato, destinato a consolidarsi con l'allegazione dell'avviso di ricevimento, le cui risultanze possono confermare o smentire che la notifica abbia raggiunto lo scopo cui era destinata”. V'è, quindi, un effetto normativo sospensivamente condizionato alla verifica del giudice sull'avviso di ricevimento della seconda raccomandata.
3. La soluzione accolta dalle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 10012 del 2021, hanno avallato l'orientamento più garantista per il destinatario dell'atto, ritenendo che nei casi di sua temporanea assenza nella notifica a mezzo posta devono essere rispettate le formalità prescritte dall'art. 8 l. n. 890 del 1982, ivi incluso l'invio della raccomandata informativa dell'avvenuto deposito degli atti notificandi, di cui deve essere data prova unicamente producendo in giudizio l'avviso di ricevimento della (seconda) raccomandata. La C.A.D. riveste un ruolo essenziale perchè mira a garantire “la conoscibilità, intesa come possibilità di conoscenza effettiva, dell'atto notificando stesso”.
L'iter argomentativo si basa su una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni sulla notifica e si sviluppa lungo due direttrici: la valorizzazione del diritto di difesa nelle varie procedure notificatorie e la pregnante considerazione degli interventi della Corte costituzionale.
Sotto il primo profilo, le Sezioni Unite evidenziano il maggior rigore previsto per la notifica a mezzo posta, in ipotesi di temporanea assenza del destinatario, col deposito presso l'ufficio postale dell'atto notificando rispetto a quello di cui agli artt. 139 c.p.c. e 7, l. n. 890/1982 disciplinanti la consegna a persona diversa dal destinatario, la cui qualità o relazione col primo fonda un maggior affidamento e dunque giustifica una forma di comunicazione dell'avvenuta consegna semplificata, ossia tramite raccomandata “semplice”. Nella notifica a mezzo posta, invece, manca la consegna alle persone abilitate e quindi non sussiste la predetta ragionevole aspettativa che l'atto notificando venga effettivamente conosciuto dal destinatario, sicchè, a fronte del mero deposito presso l'ufficio postale, il legislatore - per assicurare la conoscibilità del destinatario - ha previsto un duplice adempimento ulteriore: l'affissione dell'avviso di deposito nel luogo di notifica e la spedizione di lettera raccomandata con avviso di ricevimento.
Con riguardo al secondo aspetto, ossia al tentativo di interpretare le disposizioni conformemente alle pronunce della Corte costituzionale, le Sezioni Unite estendono la comparazione tra le procedure di cui agli artt. 8 l. n. 890/1982 e 140 c.p.c., accomunate dal medesimo presupposto fattuale della irreperibilità relativa, utilizzando tale ultima disposizione quale tertium comparationis. La sentenza in nota - richiamando la giurisprudenza in tema di notifica da parte dell'ufficiale giudiziario che richiede, ai fini della prova del perfezionamento, la produzione in giudizio dell'avviso di ricevimento della raccomandata informativa[9] - individua una comunanza di ratio tra le due modalità, consistente nel dare al destinatario una ragionevole possibilità di conoscenza della pendenza della notifica di un atto impositivo. Tale assimilazione si fonda sul legame inscindibile che la giurisprudenza individua tra le formalità proprie del procedimento di notifica e il rispetto dei principi costituzionali di azione e difesa (art. 24 Cost.) e di parità delle parti del processo (art. 111, c. 2, Cost.).
L'estensione della logica garantista fatta propria dalla Corte costituzionale alla disciplina contenuta nella legge n. 890 del 1982 finisce con l'individuare un nuovo punto di equilibrio tra le esigenze del destinatario e quelle del notificante, il cui onere processuale viene qualificato come “non vessatorio o problematico”[10]. L'avviso di ricevimento della C.A.D. costituisce, nella prospettiva accolta da Cass. n. 10012 del 2021, l'indefettibile prova di un presupposto implicito dell'effetto di perfezionamento della procedura notificatoria ai sensi dell'art. 8, commi secondo e quarto, l. n. 890/1982 e il cui esame affidato al giudice consente di verificare se la notificazione ha concretamente assolto il suo compito. La valutazione positiva comporta il consolidamento dell'effetto provvisorio dell'avviso de quo, che diviene definitivo, conformemente alla qualificazione della fattispecie come procedimento a formazione progressiva.
4. Alcune considerazioni conclusive
La sentenza in commento, nel ritenere che per provare il perfezionamento della notifica a mezzo posta, nel caso di irreperibilità relativa del destinatario, sia necessaria l'esibizione in giudizio dell'avviso di ricevimento della raccomandata informativa, giunge a subordinare la regolarità del procedimento notificatorio alla concreta verifica, affidata al giudice, che la C.A.D. sia pervenuta al destinatario e che, quindi, costui abbia potuto avere conoscenza effettiva di quanto notificatogli.
V'è da chiedersi se le conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite possano rappresentare un definitivo superamento del contrasto giurisprudenziale che ha giustificato il loro intervento o se, come si immagina, saranno necessari ulteriori chiarimenti.
La Cassazione ha optato per un'interpretazione della disciplina sulla notifica adeguatrice ai principi costituzionali, fornendo una ricostruzione sistematica della normativa attraverso una chiave di lettura che parte della dottrina già da tempo sollecitava, così da evitare un non agevole intervento della Corte costituzionale. In particolare, poichè le disposizioni sulla notifica, pur se contenute in testi di legge diversi, si ispirano alla medesima ratio e devono assolvere la stessa funzione, la ricostruzione accolta contribuisce a rendere più uniforme la disciplina della prova del perfezionamento del procedimento notificatorio nei casi di irreperibilità relativa. Ciò attraverso l'estensione alla notificazione postale della regola elaborata dalla giurisprudenza per la notificazione eseguita tramite ufficiale giudiziario ex art. 140 c.p.c.
L'impianto risultante dalla pronuncia annotata sembra, così, rafforzare il principio di effettività della tutela, di cui il diritto di difesa rappresenta un prius logico imprescindibile. Infatti, l'avvicinamento tra conoscenza legale ed effettiva è volto ad assicurare che il destinatario sia posto nelle condizioni di far valer le proprie ragioni, in un confronto paritario con l'Amministrazione, attraverso l'instaurazione di un contraddittorio. Ciò in armonia con i principi costituzionali (artt. 24 e 111 Cost) oltre che sovranazionali (artt. 41, 47 e 48 Carta dei diritti fondamentali dell'UE)[11].
L'impostazione accolta dalle Sezioni Unite pare coerente anche con l'art. 6 dello Statuto del contribuente, rubricato “Conoscenza degli atti e semplificazione”, il cui comma primo fa carico all'Ufficio finanziario di assicurare “l'effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati” e, nel precisare che “gli atti sono in ogni caso comunicati con modalità idonee a garantire che il loro contenuto non sia conosciuto da soggetti diversi dal loro destinatario”, sembra richiedere che il soggetto al quale sono indirizzati non sia solo posto in condizioni di conoscere, ma abbia piena contezza del loro contenuto. Ciò salvo ritenere che dalla parte finale del comma, a mente del quale “restano ferme le disposizioni in materia di notifica degli atti tributari”, discenda un rapporto di specialità tra queste e l'art. 6 L. n. 212/2000, con prevalenza delle regole sulla notifica.
La soluzione garantista prescelta lascia tuttavia non del tutto chiariti alcuni aspetti: primo fra tutti quello pratico, concernente la fase successiva all'esame del giudice allorchè al corretto (e provato) adempimento del notificante non corrisponda la conoscenza del destinatario. La sentenza, infatti, non chiarisce in modo puntuale quali conseguenze derivino per i soggetti coinvolti nell'iter e per lo stesso atto notificando nei casi di valutazione giudiziale negativa, senza quindi individuare il punto di incontro tra esigenze contrapposte. Le Sezioni Unite, infatti, non si preoccupano di qualificare il vizio che affligge l'atto notificando e, di conseguenza, non si comprende quale sarà la sorte dell'accertamento. Nel caso di specie, invero, in accoglimento del ricorso introduttivo, si è ritenuta nulla la notifica, non avendo l'Agenzia provveduto a dar prova in giudizio dell'avviso di ricevimento della C.A.D.; resta in sospeso, però, cosa succeda nei casi di prova in giudizio della cartolina riportante la notizia, ad esempio, del trasferimento o del decesso.
Perplessità sono state sollevate anche in merito all'interpretazione letterale dell'art. 8, l. n. 890/1982 che sembra ancorare la produzione degli effetti al decorso di dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata contenente l'avviso della tentata notifica e del deposito del piego presso l'ufficio postale, o al ritiro ove anteriore, escludendo un consolidamento successivo degli effetti correlato alla ricezione. La soluzione accolta non consente ulteriori valutazioni in merito alla ratio della dispozione indicata, la cui differente formulazione potrebbe essere frutto di una specifica volontà in tal senso, cosicchè la parificazione, pur ispirata a valide ragioni di tutela del destinatario, si porrebbe proprio in contrasto con la norma. Dubbio, questo, già espresso da Cass. n. 6089/2020 secondo cui le notifiche di cui all'art. 140 c.p.c. si connotano per un regime che si discosta da quello di cui all'art. 8, co. 4, l. n. 890/1982, atteso che, mentre le seconde si perfezionano decorsi dieci giorni dalla spedizione della raccomandata o al momento del ritiro del piego, ove anteriore, viceversa, l'art. 140 c.p.c., all'esito di Corte cost. n. 3 del 2010, fa coincidere tale momento col ricevimento della raccomandata informativa, reputato idoneo a realizzare non l'effettiva conoscenza, ma la conoscibilità del deposito dell'atto presso la casa comunale, ponendo il destinatario in condizione di ottenere la consegna ed eventualmente predisporre le proprie difese nel rispetto dei termini pendenti per la reazione giudiziale. Peraltro, una differente disciplina delle varie modalità di notificazione non darebbe adito, di per sé sola, a dubbi di legittimità costituzionale poichè non è predicabile un dovere del legislatore ordinario di uniformare il trattamento processuale di situazioni assimilabili, essendo consentita una diversa conformazione degli istituti processuali a condizione che non siano lesi i diritti di difesa.
Del resto, come già chiariva l'ordinanza interlocutoria, il meccanismo configurato dall'art. 8 l. n. 890 del 1982, rappresenta una declinazione, peculiare e specifica, della più generica nozione di “conoscenza legale” che segna, giusto l'art. 149 c.p.c., il perfezionamento della notifica postale dal lato del destinatario, nella consapevolezza che, per comprensibili esigenze di funzionalità, il sistema delle notificazioni a mezzo posta non può indefettibilmente esigere la concreta conoscenza dell'atto, ma ne considera sufficiente l'ingresso nella sfera di conoscibilità del soggetto. Questa diversa ricostruzione si fonda su un discrimen netto tra procedimento notificatorio ed eventi successivi, posto che la comunicazione, il cui contenuto concerne unicamente le attività svolte dall'agente postale, senza dare informazione alcuna sull'intrinseco dell'atto notificatorio, configura soltanto una modalità di rafforzamento dell'iter già perfezionatosi.
Ulteriori incertezze sono state formulate in merito non già alla prova della C.A.D., bensì alla necessità stessa del suo invio, che sembrerebbe escluso per la notifica postale diretta, in cui dovrebbe applicarsi il regime postale e non la legge n. 890/1982[12]. Secondo parte della giurisprudenza[13], infatti, la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante cui può essere notificato, ex art. 14 l. n. 890/1982, l'avviso di accertamento senza intermediazione dell'ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, caratterizzata dalla totale assenza di formalità. Peraltro, in base a un comune dato di esperienza, l'avviso di giacenza (modello 26) di cui alla normativa postale - con cui si comunica la mancata consegna e si avvisa del deposito dell'atto presso un determinato ufficio postale ove potrà essere ritirato nei termini, con l'avvertimento che in mancanza si verificherà la compiuta giacenza e l'atto verrà restituito al mittente – viene di regola immesso nella cassetta postale e non spedito a mezzo raccomandata.
Le Sezioni Unite, limitando il loro intervento all'aspetto probatorio, hanno forse perso l'occasione per chiarire il rapporto tra gli artt. 8 e 14 della l. n. 890/1982, al fine di delinearne il reale perimetro applicativo rispetto alle disposizioni di cui al regolamento postale, accogliendo implicitamente quanto statuito nella pronuncia n. 5077 del 2019. Con tale ultima decisione, la Cassazione, dopo aver sottolineato che l'art. 14 l. n. 890/1992 si limita ad estendere agli atti che devono essere notificati al contribuente le stesse modalità previste dalla legge per la notifica a mezzo posta degli atti giudiziari, aveva espressamente escluso un contrasto tra il necessario deposito dell'avviso di ricevimento relativo alla C.A.D. e l'applicabilità del regolamento postale alla raccomandata con cui tale comunicazione viene inviata, ritenendo sussistere un rapporto di complementarietà fra le discipline, le quali, anzichè escludersi, si completano vicendevolmente.
La complessità della questione e le rilevanti ripercussioni che la sentenza in nota potrà avere sul piano sostanziale inducono a considerare non definitivamente risolto il dibattito esistente che, anzi, proprio da questa pronuncia trarrà nuova linfa. Resta da vedere se la giurisprudenza farà piana applicazione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite o troverà margini per rimodularne la portata nei diversi casi posti alla sua attenzione.
[1] Cfr.: M. Bruzzone, Notifiche a mezzo posta e prova della C.A.D.: la parola alle Sezioni Unite, in Giur. Trib., 2021, n.2, 133 e ss.; M. Cancedda, Notifica postale all'“assente” verso il vaglio delle Sezioni Unite; P. Maciocchi, Notifica via posta, regolarità alla prova delle Sezioni Unite, in Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2020, 32.
[2] Cfr. Cass., nn. 4043/2017, 6242/2017, 26945/2017, 13833/2018, 2638/2019, 33070/2019, 33257/2019.
[3] Vedi Cass. n. 26088/2015 e Cass. Sez. Un., n. 1418/2012.
[4] Cfr. Cass. n. 26501/2014; Cass., Se. Un., n. 23675/2014, ove si precisa che “l'effettiva conoscenza dell'atto da parte del destinatario, pur costituendo lo scopo della notificazione, rimane estranea alla sua struttura”.
[5] Cass. Sez. Un., n. 1418/2012.
[6] Cass., nn. 5077/2019, 16601/2019, 6363/2020, 23921/2020, 25140/2020, 26078/2020.
[7] Cfr. artt. 139, c. 3, c.p.c. e 7, c. 3, L. n. 890/1982.
[8] Sulla rilevanza dell'avviso di ricevimento quale documento atto a provare l'esecuzione della notificazione, della data e della persona, si veda Cass. n. 3737/2004 e n. 15374/2018.
[9] Corte cost. nn. 3/2010 e 258/2012, nonché Cass. nn. 9782/2018, 25985/2014, 22132/2009, 627/2008.
[10] Sulla tecnica di bilanciamento fra interessi contrapposti cfr. Cass., Sez. Un., 9 dicembre 2015 n. 24822 che ha individuato i quattro steps da seguire nel giudizio. L'ultimo di questi prevede che se entrambe le parti non sono in colpa, il bilanciamento avviene imponendo un onere di diligenza – o, comunque, una condotta (attiva o omissiva) derivante da un principio di precauzione – alla parte che più agevolmente è in grado di adempiere. In questa prospettiva si comprende l'impostazione seguita dalle Sez. Un. n. 10012/2021 che, traendo la norma dalla disposizione di legge, impone al notificante un onere ulteriore.
[11] Cfr. Corte giust. 12 novembre 1969, C-29/69 Erich Stauder c. Stadt Ulm – Sozialamt, secondo cui il rispetto dei diritti della difesa costituisce un principio fondamentale del diritto dell'Unione di cui il diritto al contraddittorio in qualsiasi procedimento costituisce parte integrante.
[12] Cfr. Cass. n. 17598/2010.
[13] Cass. n. 14501/2016, 29642/2019.
Giustizia e comunicazione. 4)
La cronaca giudiziaria racconta il Paese
Intervista di Andrea Apollonio a Giovanni Bianconi
Prosegue il dibattito promosso da Giustizia Insieme sul tema della comunicazione della e neIla giustizia. Dopo il contributo introduttivo di Giovanni Canzio, il 26 maggio Giustizia Insieme ha intervistato Rosaria Capacchione sul modo e sui modi di fare cronaca giudiziaria; ad intervenire è stato poi, il 1 giugno, Giovanni Melillo, in ordine alla comunicazione dell'ufficio del pubblico ministero. Un tema che "chiama" l'intervista odierna: oggi è infatti la volta della penna di punta del Corriere della Sera, Giovanni Bianconi, una delle firme più autorevoli nel panorama della cronaca giudiziaria italiana. Attento osservatore dell'esercizio del diritto, con i suoi articoli e i suoi libri ha raccontato i due fenomeni criminali italiani più complessi: il terrorismo e la mafia. I suoi editoriali sono il termometro esatto della vita giudiziaria del Paese.
Lei non ha bisogno di presentazioni, e per questo partiamo da una domanda apparentemente banale: che differenza passa tra il giornalismo giudiziario e il giornalismo sportivo, politico, oppure di quello che si occupa di gossip o di affari esteri?
La differenza è che alle altre branche, quelle che ha citato, si applicano soltanto le regole del giornalismo: hai la notizia, la fai uscire, la spieghi, la interpreti.
La cronaca giudiziaria invece deve, o dovrebbe, necessariamente fare ricorso non soltanto a questa dinamica, ma anche alle regole tecniche del processo, che devono essere anch'esse spiegate ai lettori per far capire loro le ragioni di un fatto. La notizia di cui vengo in possesso non posso spiegarla correttamente se non la spiego anche tecnicamente: poi la posso illustrare nei suoi vari risvolti e persino interpretare nella mia prospettiva.
Ad esempio, prima di dare notizia di un avviso di garanzia, devo prima spiegare al lettore di cosa si tratta e come quest'atto sia funzionale alle regole del processo, altrimenti darei un'informazione non corretta, o non correttamente comprensibile per un lettore che di solito non è un esperto di diritto. Credo che la difficoltà maggiore nel mio lavoro stia in questo: non ignorare né banalizzare il dato tecnico ma essere al tempo stesso efficace nel fornire la notizia.
Inoltre, la cronaca giudiziaria è l'unico settore davvero trasversale, che sconfina in tutti gli altri; può diventare, all'occorrenza, cronaca politica, cronaca sportiva (a seconda che la notizia riguardi un politico o un personaggio sportivo), o anche mero gossip, oppure riguardare gli affari esteri: basti pensare a quanto accaduto di recente in Francia, con l'avvenuta cattura dei terroristi politici. La verità è che la giustizia entra ovunque, è quasi un rumore di fondo della società che si racconta.
Almeno dai tempi di Tangentopoli...
No, è sempre stato così. Pensi al caso Moro, alla P2, alle stragi terroristiche e di mafia. Il punto è che la cronaca giudiziaria, almeno nella seconda parte della storia repubblicana, ha spiegato i fenomeni sociali e politici. Attraverso la cronaca giudiziaria si racconta il Paese.
Potremmo dire, al massimo, che da Tangentopoli in poi il giornalismo giudiziario ha fatto più attenzione dell'effetto "extra-giudiziario" di talune indagini e di taluni processi. Ecco, la difficoltà del mio lavoro sta anche in questo: nella spiegazione, che pure bisogna dare, dell'effetto extra-giudiziario che quel dato tecnico-giuridico, ha.
È un concetto interessante, quello di cui parla: "l'effetto extra-giudiziario" del dato tecnico...
Beh, la vicenda della c.d. "loggia Ungheria" dimostra, da ultimo, che a quest'effetto pensano non solo i giornalisti ma anche gli uffici giudiziari, e in particolare le Procure della Repubblica, se è vero che ci si pone il problema se iscrivere o meno una notizia di reato a carico di noti, perché tutti sanno che una indagine del genere può avere un "effetto extra-giudiziario" (e quindi politico e sociale) dirompente. Un Procuratore della Repubblica, questo tipo di problemi, se li pone, tanto che abbiamo assistito - almeno così ci è dato sapere - a scontri all'interno dell'ufficio milanese, in ordine al se iscrivere o non iscrivere (e trasmettere gli atti altrove per competenza) quella notizia di reato: un contrasto che ha a che fare con la sensibilità del singolo magistrato connessa anche all'effetto "extra-giudiziario" di un mero atto.
Non crede che, in questo caso, la sensibilità del singolo magistrato si scontri anche col timore che il dato tecnico-giuridico venga poi strumentalizzato dai canali di informazione?
In effetti, il rischio di strumentalizzazione di una tale notizia è altissimo. Anzi, l'opera di strumentalizzazione può essere considerata pressoché certa...
Mi pare di scorgere, in quest’affermazione, una mancanza di obiettività e lucidità del giornalismo giudiziario italiano.
Ormai ci sono testate che vivono di cronaca giudiziaria "orientata": nel senso che ci sono giornali che si dedicano quasi esclusivamente alla cronaca giudiziaria e la orientano, interpretandola, dando una precisa versione dei fatti in base all’orientamento politico della testata. Ci sono giornali che esistono in quanto c'è una cronaca giudiziaria che ha rilievo politico e quindi la piegano e la interpretano sotto una luce politica.
È normale che sia così?
Secondo me è una degenerazione: è una prosecuzione della lotta politica fatta attraverso l'uso degli atti giudiziari.
Si riferisce alla magistratura?
Prima di dire che i magistrati fanno lotta politica attraverso i loro atti, cosa che bisognerebbe dimostrare, direi, perché mi pare dimostrato, che sono i politici che utilizzano gli atti dei magistrati per fare politica. Invece quando si parla di uso politico della giustizia di solito ci si riferisce ai magistrati: per carità, questo può anche succedere e forse è accaduto, ma penso che in Italia l'uso politico degli atti giudiziari venga fatto principalmente dai politici.
E ciò, peraltro, mi pare emerga anche dall'idea di istituire una "Commissione sull'uso politico della giustizia", come è stato paventato. Tecnicamente poi, la vedo un'idea di difficile esecuzione: su cosa si farebbe l'indagine parlamentare, sulle sentenze? Che cosa si fa, si convocano i magistrati e si chiede perché ha firmato quell'ordinanza o perché e sulla base di quali elementi hanno redatto quella sentenza? Ma come si può pensare una cosa del genere rispettando il principio della separazione dei poteri?
Come sa, quell'idea è figlia delle inchieste che hanno sconvolto la magistratura negli ultimi due anni...
Vedo in giro una grande strumentalizzazione di queste inchieste, che partono dall’ormai noto incontro di consiglieri del Csm con esponenti politici in un albergo romano. Una strumentalizzazione già evidente nella trasformazione di vicende personali in vicende politico-editoriali tese ad orientare in un preciso senso politico i fatti giudiziari, anche di alcuni anni fa. E se queste sono le basi ideologiche della proposta di istituire quella Commissione...
Crede che oggi la comunicazione della giustizia, ed in particolare della giustizia penale, sia corretta e adeguata al periodo storico che viviamo?
La comunicazione in generale delle attività giudiziarie da parte delle procure o altri uffici non può che essere per sua natura inadeguata, strutturalmente inadeguata direi. La comunicazione fatta dalle Procure, o dagli uffici giudiziari, inevitabilmente non può che seguire le regole del codice di procedura penale e degli intenti delle Procure o degli uffici giudiziari: quando accade ci si limita a comunicare la notizia di reato e l'eventuale adozione di provvedimenti. Ma il nostro lavoro, il lavoro dei giornalisti, è spiegare quello che c'è dietro un atto giudiziario, che non è soltanto il fatto giudiziario in sé o il suo risvolto politico, come dicevamo prima, ma anche (senza voler strumentalizzare i fatti) il racconto dei fenomeni che stanno dietro alcuni episodi. Noi attraverso i processi raccontiamo quello che accade in Italia. Questo però non lo può fare un ufficio giudiziario, la cui comunicazione è inevitabilmente stringata, e quindi di per sé inadeguata: l’interpretazione, il racconto spetta alla professionalità dei giornalisti. Io posso utilizzare anche un decreto di archiviazione per descrivere un fatto significativo o esemplificativo di un fenomeno: anche se non si è arrivati ad alcun processo, quell'atto è ugualmente importante e permette a noi giornalisti di interpretare il fenomeno sotteso.
Ravvisa eccessi nelle forme comunicative degli uffici giudiziari?
Per parlare di eccesso nella comunicazione dovrei scendere nel merito dei casi concreti, e poi un giornalista non può essere vincolato ad attenersi o distinguere tra una comunicazione del provvedimento giurisdizionale formalmente corretta ed una che non rispetti le regole "interne", le circolari, le leggi ordinamentali ecc. Cioè, se un giudice legge il dispositivo di una sentenza che ha interesse pubblico perché riguarda un ex ministro, e poi, subito dopo, si fa intervistare da me e rilascia dichiarazioni che in qualche maniera anticipano il contenuto della sentenza che andrà a redigere, io non devo porre il problema se ha fatto bene o ha fatto male, se sta rispettando alla lettera le prescrizioni di legge oppure no. Dalla prospettiva del giornalista , ma direi dell’opinione pubblica, ha fatto bene, perché mi ha spiegato una cosa che è di evidente interesse pubblico, ed io, a mia volta, la rendo fruibile all'opinione pubblica.
È in corso un dibattito sulla compatibilità del principio di innocenza fino a sentenza passata in giudicato con la comunicazione giudiziaria, in specie dopo l'applicazione di misure cautelari. Lei cosa ne pensa?
Questo vorrebbe dire che di certe vicende criminali, di interesse pubblico, non si può dare notizia fino a che non interviene una sentenza passata in giudicato. E prima non se ne deve sapere niente? Mi pare... strano. E' evidente che quella fornita per esempio a seguito di una ordinanza cautelare deve essere una informazione circoscritta a quella che è, una ordinanza di custodia cautelare che evidentemente valorizza per gran parte gli elementi raccolti dall'accusa, senza il contraddittorio e tutto il resto. Questo porta con sé la continenza da parte nostra nel doverlo scrivere e nel dovere essere precisi. E' di nuovo una questione di deontologia professionale.
Spetta a me giornalista ricordare che quella è una ricostruzione necessariamente parziale, perché manca la versione della difesa, e che c'è la presunzione di innocenza, che prima di esprimere un giudizio sulla responsabilità c’è bisogno del vaglio dibattimentale, e tutto il resto. Ma questo è un problema dei giornali e non dei magistrati.
Giovanni Falcone era un grande comunicatore della giustizia e dei fenomeni che combatteva nelle aule d'udienza. Quel tipo di comunicazione della giustizia, pacato e serio, la vede anche oggi? Sarebbe ancora efficace?
C'è da fare una premessa: i tempi di Giovanni Falcone non esistono più, sono molto cambiati. All’epoca c’erano la televisione, i libri e i giornali: e questo era tutto. Adesso esiste il web e la comunicazione social: un fenomeno molto più veloce, che sfugge ad ogni controllo, e molto più complicato da maneggiare. Fare paragoni con quel momento storico è quasi impossibile.
Detto questo, lui viveva in un periodo in cui dare informazioni sulla mafia era vitale per contribuire a sostenere l’opera di contrasto giudiziario a quel fenomeno criminale; Falcone aveva bisogno che i giornali e le tv ne parlassero. Aveva bisogno anche del sostegno della politica (o almeno della non ostilità, per quanto possibile) e dell'opinione pubblica per arrivare ad uno strumentario legislativo adeguato al contrasto del fenomeno (che poi, infatti, si ottenne, soprattutto grazie alla sua opera comunicativa): quindi il fenomeno andava raccontato e andava raccontato bene. Anche perché all’epoca era in atto una controinformazione sull'economia siciliana strozzata dalle indagini o cose simili. Lui aveva necessità di spiegare e raccontare per poter continuare a lavorare.
E oggi?
Difficile vedere qualcuno, oggi, mediaticamente efficace come lui: anche perché lui era efficace nella misura in cui esisteva un vuoto di comunicazione sulla mafia. Quando lui spiega il fenomeno del pentitismo, del tutto nuovo, che mai prima d’allora la giustizia aveva sperimentato, lascia lo spettatore abbacinato, incredulo: perché la figura del collaboratore di giustizia non era mai stata raccontata. E lui la racconta, in tv e sui giornali, perché la politica doveva farsi carico di disciplinare il fenomeno con leggi apposite: e così fu.
Quale potrebbe essere allora, oggi, una comunicazione della giustizia efficace?
Oggi siamo bombardati da informazioni, non sempre utili e non sempre pertinenti; e molte informazioni “orientate” e “sviate”, soprattutto rispetto alla giustizia, come ho detto. Oggi vedo più urgente la necessità di dare una informazione corretta e asciutta per evitare strumentalizzazioni.
Nel mare magnum di notizie non verificabili e di opinioni impazzite, nel generale eccesso di comunicazione insito in tutti gli ambiti e in tutti i settori, l’efficace comunicazione del potere giudiziario è solo quella chirurgica, che eviti al minimo il rischio di confusione e consenta a noi giornalisti di fare bene il nostro lavoro.
Che rapporto ha un giornalista giudiziario con il segreto istruttorio?
Spesso si lavora su notizie coperte ancora da segreto. All’inizio si lavora con piccole informazioni che si costruiscono passo passo. Poi a volte bisogna aspettare, quando capita di avere informazioni che non si possono riportare al momento e bisogna attendere il momento in cui vengono rese ostensibili. Non funziona che uno bussa alla porta, fa la domanda, quelli danno la risposta ed è finita: magari fosse così!
Di solito capita di sapere che c'è una indagine, poi si cerca di saperne qualcosa di più ma spesso e volentieri è impossibile, e comunque molto complicato: la difficoltà del nostro lavoro sta anche nel trattare informazioni che di per sé sono confinate in un circuito “chiuso” come quello del procedimento penale, e allora bisogna cercare di farle uscire - se ostensibili e se di interesse, solo se di interesse pubblico - senza danneggiare l'indagine o il processo, e dopo tutte le verifiche necessarie, avendo la certezza di quello che si scrive.
Quando dice “bussare alla porta”, viene spontanea una domanda, forse troppo personale…
Prego.
Facendo il giornalista di cronaca giudiziaria, talvolta ha la tentazione di voler essere dall'altra parte? Oppure qualche crisi d'identità...
(ride) Io sono contento di aver fatto il giornalista, a volte ho pensato che mi sarebbe piaciuto fare il magistrato, però decidere della libertà delle persone, o anche chiedere di decidere sulla libertà delle persone, mi pare complicato... Ma mi sento ugualmente responsabile dell'informazione che diamo sulle persone, quindi... non è che il peso, la responsabilità di scrivere un articolo che coinvolge la vita di altri sia molto minore. Penso che sono due bei lavori, che talvolta si incrociano, ma che è bene tenere distinti perché sono lavori diversi ed entrambi necessari.
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