ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
LE TABELLE DEGLI UFFICI GIUDIZIARI - parte terza - Organizzazione degli uffici giudicanti di merito
di Gianfranco Gilardi
Sommario: 1. Contenuto delle tabelle. Organizzazione degli uffici giudicanti di merito - 1.1. La composizione dell’ufficio, la ripartizione per settori e l’eventuale suddivisione in sezioni - 1.2. Le sezioni specializzate - 1.3. Direttive riguardanti le Corti di appello - 1.4. Gli incarichi direttivi e semidirettivi. Organizzazione del lavoro nelle sezioni - 1.5. Criteri di assegnazione dei magistrati - 1.6. Permanenza massima nei posti tabellari - 1.7. I criteri di assegnazione degli affari. - 1.8. Funzioni particolari - 2. Giudici onorari - 3. Supplenze, applicazioni e tabelle infradistrettuali.
1. Contenuto delle tabelle. Organizzazione degli uffici giudicanti di merito
1.1. La composizione dell’ufficio, la ripartizione per settori e l’eventuale suddivisione in sezioni
Dalle tabelle deve risultare innanzi tutto la composizione dell’ufficio, la ripartizione dei magistrati tra il settore civile e quello penale (tenendo conto delle esigenze determinate dalla qualità e quantità degli affari, come esaminate nella relazione organizzativa generale dell’ufficio e ferma la necessità di considerare autonomamente, sotto il profilo organizzativo, il settore relativo alle controversie di lavoro), l’eventuale suddivisione in sezioni[1], la costituzione di ognuna delle quali, fatta eccezione per la sezione g.i.p./g.u.p., richiede l’assegnazione di non meno di cinque magistrati, escluso il presidente di sezione, ai sensi dell’art. art. 46, quinto comma ord. giud[2].
Per gli uffici di più ridotte dimensioni sono possibili, purché giustificate da concrete e motivate esigenze di funzionalità del servizio, sezioni composte da cinque magistrati compreso il presidente.
La determinazione del numero delle sezioni e dei magistrati assegnati a ciascuna di esse deve avvenire sulla base di specifiche esigenze organizzative, tenendo conto degli altri strumenti previsti per far fronte alle esigenze di servizio e, specificamente, della possibilità, derivante dalla normativa sulle tabelle infradistrettuali[3], di disporre in via ordinaria l’assegnazione congiunta di magistrati a più uffici aventi la medesima competenza, e di quella di avvalersi dell’apporto collaborativo dei giudici onorari nei limiti e per le attività previste dagli articoli 179 e 180 della circolare.
La situazione concreta dei singoli uffici e le esigenze di funzionalità del servizio debbono presiedere alla ripartizione del lavoro tra le diverse sezioni, con possibilità di attribuire ad una stessa sezione affari sia civili sia penali solo qualora il numero dei procedimenti sia tale da non giustificare la trattazione esclusiva di una soltanto delle due materie.
All’interno delle sezioni i magistrati svolgeranno funzioni sia collegiali sia monocratiche, potendo essere destinati a svolgere in via esclusiva funzioni collegiali o monocratiche in ragione di concrete esigenze organizzative dell’ufficio o di specifiche condizioni personali; e ciò vale anche per i magistrati ordinari al termine del tirocinio.
Per le funzioni particolari di magistrato collaboratore nel coordinamento dell’ufficio del giudice di pace; referente informatico[4] e magistrato di riferimento per l’informatica; referente per la formazione; componente della Struttura tecnica per l’organizzazione; componente dei Consigli giudiziari e del Consiglio direttivo della Corte di cassazione; di commissario agli usi civici cfr., infra, il par. 6.8.
1.2. Le sezioni specializzate
Oltre alla naturale ripartizione tra il settore penale e quello civile, nell’organizzazione degli uffici deve essere favorito l’affinamento di competenze specialistiche per materie omogenee e predeterminate. La costituzione, ove possibile, di sezioni specializzate, e l’accorpamento per materie omogenee (ovvero, comunque, di ruoli specializzati) sono considerati al riguardo i modelli organizzativi più idonei, secondo le indicazioni contenute negli artt. 56 - 58 della circolare[5].
Regole specifiche sono poi dettate:
- per la sezione lavoro ed i magistrati che vi sono destinati (artt.61- 62);
- per quelle addette alla materia della famiglia e dei diritti della persona (art. 63);
- per le sezioni specializzate in materia di impresa (artt. 64 - 66) istituite con il d.lgs. n. 168/2003 (così come sostituito dall'articolo 2, comma 1, lett. d, del d.l. n. 1/2012 convertito, con modificazioni, nella legge n. 27/2012, n. 27) presso i Tribunali e le Corti d'appello di Ancona, Bari, Bologna, Brescia, Cagliari, Campobasso, Catania, Catanzaro, Firenze, Genova, L’Aquila, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Trento, Trieste e Venezia; presso il Tribunale e della Corte di Appello (sezione distaccata) di Bolzano; presso il Tribunale e la Corte d'appello di Torino per il territorio compreso nella regione Valle d'Aosta/Vallé d'Aoste;
- per le sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea in relazione alle materie di cui all’art. 3 del d.l. n. 13/2017 convertito, con modificazioni, nella legge n. 46/2017 e successive modifiche, operanti presso i Tribunali distrettuali (artt. 67-69);
- per la sezione g.i.p./g.u.p., da istituire in tutti i tribunali organizzati in opiù di due sezioni e che, nei casi in cui non sia diretta da un Presidente di sezione, è coordinata da un magistrato designato ai sensi dell’art. 71 della circolare[6](artt. 70 - 74);
- per la sezione o le sezioni del tribunale incaricate della decisione sulle richieste di riesame e appello delle misure cautelari personali o reali ex artt. 309, 10, 312 bis e 324 c.p.p.) (artt.75 -77)[7];
- per la composizione ed il funzionamento del collegio di cui all’art. 1 legge cost. 1/1989 (c.d. “tribunale dei Ministri”), da prevedere nella proposta tabellare relativa al tribunale del capoluogo di ogni distretto di Corte d’appello (artt.78 -81)[8].
1.3. Direttive riguardanti le Corti di appello
Anche alle Corti d’appello si applicano, in quanto compatibili, le regole organizzative dettate per i tribunali (tra cui, in particolare, quelle relative alla specializzazione), con specifiche previsioni volte a favorire la composizione specializzata per la sezione che giudica sulle impugnazioni dei provvedimenti del Tribunale per i minorenni ed alla quale sono attribuite le altre funzioni previste dal c.p.p. nei procedimenti a carico di imputati minorenni, e per la sezione o i collegi incaricati della trattazione dei ricorsi di cui alla legge 89/ 2001 (equa riparazione in caso di violazione del termine di ragionevole durata del processo. Amplius, artt. 82 - 83 della circolare).
1.4. Gli incarichi direttivi e semidirettivi. Organizzazione del lavoro nelle sezioni
Nel capo III della circolare, agli artt. 84 – 108 è contenuta la disciplina concernente i compiti dei presidenti di Corte di Appello e dei presidenti di tribunale, ribadendosi tra l’altro la regola secondo cui nelle proposte tabellari dovrà essere predeterminata, con la specificazione dell’entità e dell’impegno relativi, l’attività giudiziaria ad essi riservata[9]; la direzione della sezione e la presidenza dei collegi che il Presidente del tribunale, se l’ufficio è organizzato in sezioni, intenda riservare a se stesso; sempre nei tribunali organizzati in sezioni, le attività di direzione dell’ufficio ex art. 47 ord. giud. che il Presidente del Tribunale intenda esercitare direttamente e quelle, invece, per le quali ritenga di farsi coadiuvare dai Presidenti di sezione con specifico incarico di coordinamento conferito ai sensi dell’articolo 98[10]; la delega per le funzioni presidenziali in materia di famiglia garantendo le modalità necessarie ad assicurare il coordinamento con gli altri giudici assegnati al settore; la previsione secondo cui l’assegnazione di più presidenti di sezione ad una stessa sezione può essere ammessa solo quando tutte le sezioni, civili e penali, abbiano un presidente e la presenza di più presidenti trovi giustificazione in base al numero dei magistrati addetti alla sezione e alla natura e quantità delle materie trattate e quelle secondo cui l’assegnazione allo stesso magistrato della presidenza di più sezioni può essere giustificata solo allorché non sia possibile assegnare un presidente a ciascuna sezione; l’indicazione del lavoro giudiziario cui i Presidenti di sezione debbono necessariamente concorrere[11].
Nella circolare vengono espressamente richiamati i compiti che i presidenti di sezione di Tribunale, oltre al lavoro giudiziario nella misura indicata, sono tenuti ad esercitare ai sensi dell’art. 47-quater ord. giud., sorvegliando l'andamento dei servizi di cancelleria ed ausiliari; distribuendo il lavoro tra i giudici e vigilando sulla loro attività; curando lo scambio di informazioni sulle esperienze giurisprudenziali all'interno della sezione; coordinando le ferie dei magistrati appartenenti alla sezione; collaborando con il Presidente del tribunale nell'attività di direzione dell'ufficio anche per il raggiungimento degli obiettivi del documento organizzativo generale; verificando annualmente lo stato di realizzazione dell’obiettivo di riduzione delle pendenze di cui all’articolo 7, comma 1, lett. b) con riferimento al ruolo di ciascun giudice. Nella proposta tabellare debbono essere altresì indicate le modalità organizzative con le quali i Presidenti di sezione intendono realizzare lo scambio di informazioni sulle esperienze giurisprudenziali all’interno delle sezioni e verificare l’andamento del servizio, allo scopo di raccogliere suggerimenti e approntare i più opportuni rimedi, con la precisazione che tra i magistrati assegnati alla sezione deve essere realizzato, anche con modalità telematiche e con cadenza almeno bimestrale, un incontro di cui deve essere data tempestiva comunicazione al dirigente dell’ufficio, al quale è inviata una relazione sull’esito delle riunioni con allegati i relativi verbali.
Con riguardo ai presidenti di sezione di Corte d’appello, ai quali si applicano in quanto compatibili le disposizioni dettate per i presidenti di tribunale, viene precisato che essi debbono provvedere – secondo le modalità indicate nel documento organizzativo generale - a una selezione preliminare delle impugnazioni, in ragione della data di iscrizione a ruolo, dell'importanza delle questioni proposte e di una definizione anticipata del procedimento, con la precisazione che nelle sezioni penali la selezione deve essere effettuata ai fini dell'eventuale immediata dichiarazione di inammissibilità a norma dell’articolo 591 c.p.p., dell'eventuale applicazione dell’articolo 568, quinto comma, c.p.p., o delle ulteriori possibili decisioni camerali a norma dell’articolo 599 c.p.p.[12]
Negli artt. 99 e 100 sono indicati i criteri per la designazione del magistrato destinato a sostituire il Presidente del tribunale in caso di mancanza o impedimento.
È infine da evidenziare che negli uffici di grandi dimensioni, i presidenti di tribunale e di corte di appello che non possano avvalersi dei presidenti di sezione, hanno la possibilità di farsi coadiuvare da magistrati che collaborano a specifiche attività presidenziali non espressamente riservate ai presidenti di sezione (cfr. gli artt. 107 e 108 della circolare, ove si precisa tra l’altro che l’incarico di collaborazione può durare un anno, ed è rinnovabile una sola volta.
Richiamando considerazioni già svolte in altre occasioni[13], pare opportuno ribadire infatti che le funzioni direttive non potrebbero essere compiutamente ed efficacemente esercitate senza un metodo partecipativo ed al di fuori di una gestione collegiale, di cui è parte essenziale, soprattutto negli uffici di maggiori dimensioni, un appropriato sistema di deleghe volto non solo ad agevolare e ad assicurare effettività allo svolgimento di quelle funzioni, ma insieme a coinvolgere in un’opera di diffusa responsabilizzazione i molteplici attori che, a vario titolo, concorrono all’amministrazione della giustizia. Il metodo partecipativo, la gestione collegiale e un appropriato sistema di deleghe che coinvolga anche i magistrati non investiti di funzioni semidirettive e che – sul versante delle figure amministrative – ha portato, in diversi uffici, alla creazione di interrelazioni concentriche tra la figura del dirigente e i direttori amministrativi, tra questi e i funzionari addetti ai diversi settori, tra i funzionari e i responsabili delle cancellerie, non solo hanno contribuito a creare una rete diffusa di responsabilizzazione, favorendo e incentivando una visione unitaria dei problemi dell’ufficio e dando maggior senso anche al lavoro individuale (una rete tanto più preziosa quanto più sono andate crescendo le difficoltà organizzative causate dalla scarsità delle risorse), ma hanno costituito una concreta palestra di esercitazione, che vale per tanti versi a sdrammatizzare la questione (tornata ad essere particolarmente accesa in questi tempi in cui è tornata a riproporsi con forza, ed anche a causa di gravi e note vicende, la necessità di contrastare la spinta al “carrierismo”[14]) degli incarichi semidirettivi e della “tabellarizzazione” da alcuni auspicata. Tutto ciò giova, nel contempo, a costituire un importante strumento di formazione e un prezioso veicolo di informazione rispetto ai pareri che i consigli giudiziari sono chiamati a esprimere e alle scelte che il CSM è tenuto a effettuare all’atto del conferimento dei relativi incarichi; ed in un sistema in cui la formazione professionale è particolarmente curata e incentivata anche con riguardo alle funzioni direttive, e nel cui ambito i tramutamenti dei magistrati dall’uno all’altro ufficio si dimostrano idonei a funzionare essi stessi quale veicolo di scambio delle prassi organizzative (senza necessità di ricorrere alla nomina a dirigente di un magistrato proveniente da altro ufficio per assicurare tale finalità), potrebbe prendere consistenza la previsione secondo cui la nomina del dirigente ad un determinato ufficio venga effettuata attribuendo - pur restando nell’ambito di una procedura concorsuale - un peso particolare all’appartenenza del magistrato, in base ad un numero di anni da stabilire, a quell’ufficio, sul presupposto che ciò possa assicurare una migliore conoscenza dei problemi a questo relativi.
Tale criterio varrebbe a stemperare la spinta carrieristica, incentivando la dedizione al servizio per i magistrati che, all’interno di un determinato ufficio, si proponessero di presentare domanda alle funzioni di dirigente, (temporaneamente) diverse ma allineate orizzontalmente a quelle esercitate in precedenza. Quanto alla nomina dei semidirettivi, a parte l’opportunità di una riduzione del numero relativo, che appare esorbitante rispetto alle necessità organizzative[15], nel contesto più sopra descritto non sembrerebbe da escludere a priori e, comunque, meriterebbe un approfondimento l’ipotesi di una “tabellarizzazione” secondo criteri di rotazione interna all’ufficio.
Alla giusta preoccupazione di innescare in questo modo il rischio di accentuazione di improprie gerarchie interne, accentuando i poteri del capo dell’ufficio, potrebbe essere data risposta rendendo più tempestivo e rigoroso il controllo tabellare da parte dei consigli giudiziari prima e del CSM dopo, prevedendo eventualmente una corsia prioritaria alla parte delle proposte tabellari dedicate alla designazione dei semidirettivi. Mantenendo invece, l’attuale sistema concorsuale di nomina, anche con riguardo agli incarichi semidirettivi dovrebbe essere attribuito un rilievo specifico all’appartenenza del magistrato all’ufficio ed alla conoscenza che dei relativi problemi egli abbia acquisito, tenuto conto di una determinata anzianità di permanenza nell’ufficio medesimo.
1.5. Criteri di assegnazione dei magistrati
I magistrati addetti agli uffici giudiziari non possono essere trasferiti, senza il loro consenso, ad una sezione o ad un settore di servizio diversi da quello al quale sono assegnati, salvo che ricorrano le ipotesi di trasferimento d’ufficio di cui all’ art. 153 della circolare[16].
L’assegnazione dei magistrati alle diverse sezioni e ai diversi settori del servizio[17], attualmente regolata dagli artt. 109-145 della circolare della circolare che mirano a favorire “una ragionata e moderata mobilità interna che, accanto alla valorizzazione delle specializzazioni, assicuri la diffusione delle competenze”, avviene sulla base di concorsi interni[18], i quali presuppongono la pubblicazione della vacanza del posto da ricoprire e la comunicazione a tutti i magistrati dell’ufficio legittimati a proporre domanda, ivi compresi quelli che vi siano destinati dal Consiglio e che non vi abbiano ancora preso possesso[19]. Nel dare comunicazione dei posti da coprire - con modalità tali da assicurare l’effettiva conoscenza ed indicando nel bando la data da cui si è determinata la vacanza - il dirigente dell’ufficio deve invitare tutti gli interessati a proporre domanda di assegnazione o di tramutamento mediante il sistema informatico anche per posti diversi da quelli indicati nel bando, pur se attualmente non vacanti; in tal caso le domande potranno essere accolte limitatamente alla copertura dei posti rimasti scoperti per effetto di trasferimenti e non mantengono efficacia per i successivi concorsi[20]. Per esigenze di servizio, da motivare espressamente nella proposta tabellare, l’efficacia del provvedimento di tramutamento può essere differita al momento in cui il posto lasciato vacante sia stato a sua volta ricoperto con l’assegnazione di altro magistrato. Il differimento non può comunque superare il termine massimo di sei mesi.
L’assegnazione alle diverse sezioni ed ai diversi settori del servizio, nel caso in cui vi siano più aspiranti all’assegnazione o al tramutamento, avviene sulla base dei seguenti criteri.
Nel caso in cui vi siano più aspiranti, ai fini dell’assegnazione o del tramutamento si tiene conto dell’attitudine all’esercizio delle funzioni inerenti al posto da coprire, criterio che nell’assegnazione di posti diversi da quelli indicati negli artt. 127, 128, 129 e 130 della circolare (funzioni di Gip/Gup; posti che comportino la trattazione di procedimenti in materia di famiglia, lavoro, società, esecuzioni, fallimento e immigrazione; sezioni specializzate in materia d’impresa; sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea), si applica soltanto in mancanza di aspiranti con un’anzianità di ruolo di otto anni superiore agli altri; diversamente, prevale in ogni caso l’anzianità di ruolo[21].
Per l’assegnazione dei posti indicati negli artt. 127, 128, 129 e 130, a parità di requisiti attitudinali ivi indicati prevale in ogni caso l’anzianità di ruolo.
Nella valutazione delle attitudini viene attribuito particolare rilievo alle specifiche competenze e materie trattate dal magistrato e qualificanti in relazione al posto messo a concorso; e sono preferiti i magistrati che abbiano maturato esperienze nella giurisdizione relative ad aree o materie uguali od omogenee al posto da ricoprire. Viene attribuita prevalenza ai magistrati aventi una specifica esperienza nel settore del posto da coprire, privilegiando la specializzazione in materia civile per i posti che comportino esercizio della giurisdizione civile, e in materia penale per i posti che comportino esercizio della giurisdizione penale[22].
Nell’assegnazione dei magistrati trasferiti presso il Tribunale e provenienti da un ufficio di Procura, si applica la disposizione di cui all’articolo 13, quarto comma, del d.lgs. n. 160/2006, n. 160[23]. La successiva attribuzione di funzioni penali non è ammessa prima del decorso di cinque anni.
L’assegnazione dei magistrati deve essere effettuata avendo riguardo altresì alle incompatibilità disciplinate dagli articoli 18 e 19 del r.d. n. 12/1941, n. 12 e casi analoghi di cui alla Circolare P.12940 del 25 maggio 2007, e precisando, conseguentemente, i settori ai quali è necessario non destinarli.
La proposta di assegnazione o di tramutamento deve essere adeguatamente motivata, anche con attribuzione di specifici punteggi con riguardo ai singoli criteri, mediante l’indicazione delle ragioni che hanno condotto all’individuazione del magistrato prescelto, e la puntuale enunciazione degli elementi da cui risultano le qualità professionali generiche e specifiche che lo rendono idoneo a ricoprire il posto messo a concorso, valutate in comparazione a ciascuno degli altri concorrenti. Essa deve contenere per ciascun posto una graduatoria completa in relazione ad ogni aspirante, e va comunicata per iscritto a tutti coloro che hanno presentato domanda.
Criteri specifici valgono poi per l’assegnazione dei magistrati di nuova destinazione (artt. 137-138); per la riassegnazione al medesimo ufficio a seguito di ridestinazione alle funzioni giudiziarie dopo un precedente collocamento fuori ruolo (art. 139 della circolare, ove è previsto che il magistrato sia assegnato alla destinazione tabellare di provenienza, se vacante[24]); per l’assegnazione di presidenti di sezione (art. 141) e per quella dei magistrati all’atto del conferimento delle funzioni giurisdizionali (artt. 142-145), che le circolari circondano di particolari cautele al fine di individuarle - insieme alle sedi di destinazione - già durante lo svolgimento del tirocinio[25].
Possono svolgere le funzioni di giudice incaricato dei provvedimenti previsti per la fase delle indagini preliminari nonché di giudice dell'udienza preliminare solamente i magistrati che hanno svolto per almeno due anni funzioni di giudice del dibattimento o funzioni ad esse equiparate ai sensi dell’art. 114, secondo comma della circolare.
La proposta di assegnazione o di tramutamento deve essere adeguatamente motivata, anche con attribuzione di specifici punteggi relativamente ai singoli criteri, mediante l’indicazione delle ragioni che hanno condotto all’individuazione del magistrato prescelto, e la puntuale enunciazione degli elementi da cui risultano le qualità professionali generiche e specifiche che lo rendono idoneo a ricoprire il posto messo a concorso, valutate in comparazione a ciascuno degli altri concorrenti. Essa deve contenere per ciascun posto una graduatoria completa in relazione ad ogni aspirante, e va comunicata per iscritto a tutti coloro che hanno presentato domanda.
In base all’art. 122 della circolare, è possibile lo scambio di posti quando non vi ostino esigenze di servizio e non risultino pregiudicate le posizioni degli altri magistrati dell’ufficio che avrebbero diritto ad essere preferiti nei concorsi per la copertura dei posti scambiati.
La situazione dei magistrati donna in gravidanza e quella dei magistrati che provvedano alla cura di figli minori in via esclusiva o prevalente costituiscono oggetto di specifiche previsioni dirette a rendere compatibili le necessità organizzative con le esigenze familiari e i doveri di assistenza verso la prole (cfr., infra, il par. 10 e gli artt. artt. 256-270 della circolare sul benessere organizzativo, la tutela della genitorialità e quella della salute, in cui sono contemplate anche la situazione dei magistrati aventi documentati motivi di salute che possano impedire loro lo svolgimento di alcune attività di ufficio, e quella dei magistrati che siano genitori di prole con situazione di handicap grave accertata ai sensi della legge 104/1992).
1.6. Permanenza massima nei posti tabellari
Salvo che non si vertesse in presenza di funzioni specializzate per legge, come ad esempio quelle relative ai posti specializzati di giudice del lavoro, in base alle direttive impartite dal Csm già da diversi anni la permanenza del magistrato per periodi eccessivamente prolungati (comunque superiori ai dieci anni) era ammessa soltanto nell’ipotesi in cui il trasferimento ad altro posto del medesimo ufficio potesse provocare disservizi significativi, mentre era da escludere in ogni caso quando si trattasse delle sezioni fallimentari, di quelle che si occupavano della materia societaria e delle sezioni distaccate.
La temporaneità nell’esercizio delle funzioni è stata poi espressamente introdotta dalla riforma dell’ordinamento giudiziario (supra, par. 4) che, generalizzando la previsione della durata massima già prevista per il g.i.p./g.u.p. dalla legge, e che il Csm aveva anticipato in via più generale con le circolari sulla tabelle “ha ritenuto opportuno proporre una figura di magistrato non identificabile nel lungo periodo con un’unica funzione, promuovendo al tempo stesso la circolarità dei singoli incarichi e l’arricchimento professionale che ne consegue, grazie alla positiva trattazione di diverse materie”.
La permanenza massima del magistrato nel medesimo incarico è ora disciplinata dal regolamento del Consiglio Superiore della Magistratura in data il 13 marzo 2008 e succ. mod., regolamento emanato sulla base della delega legislativa ed al quale fa esplicito riferimento l’art. 146 dell’attuale circolare sulle tabelle.
Il limite di permanenza massima non trova applicazione nei confronti:
- dei magistrati che svolgono funzioni di legittimità sia in Corte di cassazione sia nella Procura Generale presso la Corte di cassazione, trattandosi di Uffici in cui non si esercitano funzioni di primo e secondo grado, le uniche esplicitamente indicate dalla legge;
- dei magistrati addetti all’Ufficio del massimario e del ruolo della Corte di cassazione, trattandosi di articolazione interna alla Suprema Corte con funzioni di supporto rispetto all’attività svolta dai giudici di legittimità, a cui la disciplina dei termini massimi di permanenza non si applica per esplicito dettato normativo;
- dei magistrati facenti parte della Direzione Nazionale Antimafia, le cui funzioni (qualificate nella precedente versione dell’art.11, 4° co. d. lgs. 160 del 2006 come requirenti di secondo grado), nel nuovo testo dell’art. 10, 13° co. del d. lgs. medesimo, come sostituito dall’art. 2, 4° co. della legge 111/2007 vengono individuate come direttive requirenti di coordinamento, così distinguendosi dalle funzioni requirenti e giudicanti di primo e secondo grado, le uniche soggette ai limiti di permanenza massima;
- dei magistrati distrettuali requirenti e giudicanti, relativamente ai quali non è configurabile una posizione tabellare.
Sono inoltre esclusi:
- i magistrati addetti agli uffici requirenti di secondo grado, posto che l’art. 19 della legge 111/2007 menziona i termini massimi di permanenza soltanto in relazione ai gruppi di lavoro, struttura organizzativa che non si attaglia alle Procure Generali;
- i giudici presso il tribunale ordinario composto da un’unica sezione, fatta eccezione per le posizioni tabellari - cui si applica il termine di permanenza massimo - di giudice fallimentare, giudice addetto alle esecuzioni civili, g.i.p./g.u.p., g.i.p. in via esclusiva, g.u.p. in via esclusiva;
- il giudice del lavoro di pianta organica;
- il giudice presso il tribunale per i minorenni, fatta eccezione per chi svolga funzioni esclusive di g.i.p../g.u.p.;
- il giudice presso l’ufficio di sorveglianza;
- il sostituto procuratore della Repubblica presso un ufficio di procura composto da magistrati in numero fino a otto unità compreso il procuratore della Repubblica;
- il giudice presso la corte d’appello composta da un’unica sezione.
Il termine di permanenza massima è fissato, in via generale, in dieci anni.
Gli artt. 150-152 della circolare contengono le disposizioni volte ad assicurare la permanenza massima nel medesimo incarico.
La proroga di cui all’art. 19 d.lg. n. 160/2006 per la trattazione degli affari pendenti è disposta dal Csm su richiesta adeguatamente motivata e documentata del dirigente dell’Ufficio, da presentarsi almeno sei mesi prima della scadenza del termine massimo di permanenza.
Determinano l'efficacia sospensiva dei termini di permanenza massima nella stessa posizione tabellare: il periodo di astensione obbligatoria per maternità e quella facoltativa per un periodo superiore a tre mesi; il periodo di astensione facoltativa per maternità qualora, anche se intervallato da ferie e/o malattie, unito al periodo di astensione obbligatoria, determini una assenza continuativa dal lavoro per maternità nel complesso superiore ai tre mesi; i periodi superiori a tre mesi trascorsi in congedo straordinario, in supplenza e in applicazione a tempo pieno; tutte le altre ipotesi in cui, per effetto di provvedimenti di esonero totale dal lavoro deliberati dal CSM e/o oggetto di specifica previsione di Legge, il magistrato risulti effettivamente assente dall’ufficio per un periodo continuativo superiore a mesi sei. La sospensione dei termini di permanenza massima non potrà comunque avere durata complessiva superiore agli anni due.
Il magistrato trasferito a seguito del superamento dei termini massimi può tornare nella medesima posizione tabellare o nello stesso gruppo di lavoro soltanto dopo che siano trascorsi cinque anni dalla presa di possesso nel nuovo incarico.
1.7. I criteri di assegnazione degli affari
I principi di buona amministrazione, e la garanzia del giudice naturale, potrebbero essere elusi in mancanza non solo di regole generali dirette ad assicurare la trasparenza e l’obiettività delle procedure nell’assegnazione dei magistrati alle diverse sezioni o ai diversi settori del servizio, ma anche di regole volte a sottrarre alla discrezionalità dei dirigenti l’assegnazione degli affari alle diverse articolazioni interne degli uffici ed ai singoli magistrati. Ed è per questo che il Csm, fin dalla circolare n. 5520/1977 (supra, par. 3) e con direttive sempre più precise (cfr., attualmente, gli artt.157-174 della circolare per il triennio…..), ha prescritto che gli affari debbono essere assegnati alle sezioni, ai collegi ed ai giudici, monocratici ovvero componenti i collegi (ivi compresi i presidenti degli uffici ed i presidenti delle sezioni) in base a criteri oggettivi e predeterminati, e che qualora la stessa materia sia assegnata a più sezioni (ovvero, nel caso di sezione unica, a più giudici) debbono essere indicati i criteri di ripartizione degli affari della materia tra le diverse sezioni ed i diversi magistrati[26].
Tra i magistrati, com’è naturale, possono esservi diversi livelli di capacità ed un diverso grado di preparazione; ma a tali esigenze occorre far fronte non con la discrezionalità del “capo”, quanto invece con strumenti diretti a garantire la professionalità, la formazione, la specializzazione, la corretta applicazione dei criteri di accesso alle sezioni ed ai diversi settori del servizio. La garanzia del giudice naturale non consiste per l’utente nel fatto che la sua causa sia trattata dal giudice più bravo in assoluto, ma nel fatto che, qualunque sia il giudice che la sorte gli riserva, egli potrà comunque contare su un giudice professionalmente adeguato[27].
Peraltro i criteri di assegnazione degli affari, in caso di comprovate esigenze di servizio, possono essere derogati con provvedimenti adeguatamente e specificamente motivati.
Nel caso di provvedimenti diretti a riequilibrare i carichi di lavoro -in base alla procedura, nei limiti ed alle condizioni di cui agli artt. 167-170 della circolare - vanno indicate le ragioni di servizio che li giustificano[28], in base a criteri a loro volta oggettivi e predeterminati che dovranno, in particolare, mirare a consentire la definizione prioritaria dei procedimenti assicurando, al contempo, la conservazione dell’attività processuale già svolta.
La scelta della distribuzione degli affari tra i magistrati addetti alla sezione lavoro, atteso che essi sono tutti qualificati da omogenea competenza, deve avvenire in base a criteri automatici, salvi i correttivi diretti ad assicurare evidenti esigenze di funzionalità (ad esempio, cause connesse da riunire), nonché a garantire la genuinità dell’automatismo, al fine di evitare sia la prevedibilità dell’assegnazione, sia la possibilità che il sistema automatico venga utilizzato in modo da consentire la scelta del giudice ad opera della parte.
Criteri specifici sono previsti per ripartizione degli affari all’interno dell’ufficio g.i.p./g.u.p., negli uffici minorili e nei Tribunali ed uffici di sorveglianza (artt. 164-166) sempre tuttavia con la salvaguardia dei principi di obiettività e predeterminazione i quali implicano altresì (artt. 190-202) che siano preventivamente individuate le regole in base alle quali provvedere alla sostituzione dei magistrati assenti, impediti, astenuti o ricusati, alla formazione dei calendari e dei ruoli delle udienze, sia monocratiche sia collegiali[29], ed alla composizione dei collegi[30]: calendari e udienze che nel settore penale debbono essere predisposti anche in base ad opportuni criteri di raccordo tra le Procure, gli Uffici g.i.p., i Tribunali, il Dirigente della cancelleria ed il Presidente dell’Ordine degli avvocati, al fine di garantire le esigenze di continuità ed il miglior utilizzo delle risorse della procura come indicato nell’art. art. 192 della circolare.
Regole particolari, nell’ambito di tali disposizioni, sono dettate con riguardo alla precostituzione dei collegi negli uffici minorili, nei tribunali di sorveglianza, nelle sezioni di sorveglianza, nelle sezioni agrarie, e con riguardo ai collegi bis per le Corti di assise e per le Corti di assise d’appello.
È infine previsto che di uno stesso collegio non possa far parte più di un magistrato applicato ai sensi dell’articolo 110, quinto comma, del r. d. n. 12/1941, salvo che si tratti di applicazioni disposte ai sensi degli articoli 17 e 18 della circolare consiliare del 20 giugno 2018 dettata in materia; che di uno stesso collegio non possa far parte più di un magistrato supplente ai sensi dell’articolo 97, quarto comma r. d. citato, mentre vi possono far parte un magistrato applicato e uno supplente; che di uno stesso collegio possono far parte più magistrati coassegnati o più magistrati distrettuali, ovvero un magistrato applicato e uno o più coassegnati o magistrati distrettuali, oppure un supplente e uno o più magistrati coassegnati o distrettuali.
In base all’art. 268 della circolare non possono essere assegnati affari al magistrato nel periodo di congedo di maternità, paternità o parentale di cui agli artt. 16,17, 28 e 32 t.u. 151/2001, salvo che si provveda alla sua sostituzione[31].
Specifiche disposizioni (artt. 171-174 della circolare) attengono poi ai provvedimenti da adottare al fine di prevenire o porre rimedio ai casi di significativo ritardo nel deposito dei provvedimenti da parte dei magistrati addetti all’ufficio.
1.8. Funzioni particolari
Negli artt. 203- 219 sono dettate disposizioni specifiche con riguardo ai criteri di scelta del magistrato collaboratore nel coordinamento dell’ufficio del giudice di pace; dei referenti informatici e dei magistrati di riferimento per l’informatica, con la specificazione della loro posizione tabellare all’interno dell’ufficio[32]; del referente per la formazione. con la specificazione della sua posizione tabellare all’interno dell’ufficio[33]; del componente della Struttura tecnica per l’organizzazione[34] (Sto); di componente dei Consigli giudiziari e del Consiglio direttivo della Corte di cassazione[35]; di commissari agli usi civici [36].
2. Giudici onorari
Nel Capo VII della circolare sono contenute le disposizioni relative ai giudici onorai che tengono conto degli sviluppi normativi in materia e che, probabilmente, dovranno subire ulteriori modificazioni quando il quadro relativo alla magistratura onoraria sarà finalmente definito con un progetto chiaro, preciso e coerente da parte del legislatore.
Gli artt. 176 e 177 disciplinano la destinazione nell’ufficio per il processo, costituito ai sensi dell’articolo 10 della circolare, dei giudici onorari di pace nominati dopo l’entrata in vigore del d. lgs.n. 116/2017 nonché – per quelli in servizio presso il tribunale già in data anteriore - l’assegnazione di procedimenti[37] e la possibilità di integrare i collegi, nei limiti consentiti dagli articoli 11, 12 e 30 del medesimo d.lgs. n. 116/2017[38].
Per quanto concerne l’attività giurisdizionale dei giudici onorari di pace nominati dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 116/2017, l’assegnazione di procedimenti civili e penali e la destinazione nei collegi civili e penali può svolgersi soltanto se ricorrono i presupposti indicati nell’art. 179 della circolare, attuativo degli articoli 11 e 12 del decreto legislativo citato, che consente tra l’altro – a determinate condizioni – la possibilità per i giudici onorari di essere nominati nei collegi come relatori dei procedimenti ed estensori dei relativi provvedimenti.
Le funzioni di coordinatore e di referente dei giudici onorari in servizio presso il tribunale sono esercitate dal presidente dell’Ufficio o, su sua delega, da un presidente di sezione.
L’utilizzo dei giudici onorari di pace nell’ufficio per il processo è disciplinato dall’art. 180 della circolare, ove sono richiamate le funzioni di cui all’articolo 10, comma 10, del d.lgs. n 116/2017, tra le quali deve essere dato particolare rilievo alla predisposizione delle minute dei provvedimenti[39].
La supplenza da parte dei giudici onorari di pace, nei casi di assenza o impedimento temporanei dei giudici professionali, può avvenire solo in presenza di specifiche esigenze di servizio e nei limiti indicati dall’art. 180 della circolare[40] .
Nelle proposte tabellari debbono essere specificati i criteri oggettivi e predeterminati di assegnazione degli affari devoluti ai giudici onorari e di sostituzione dei giudici professionali (art. 182 della circolare).
Gli artt. 183 -188 contengono poi le indicazioni relative alla destinazione ed alle funzioni dei giudici ausiliari di Corte d’appello”, ma sul punto occorre tener conto della sentenza n.17/2021con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime le norme che hanno previsto, come magistrati onorari, i giudici ausiliari presso le Corti d’appello, precisando tuttavia – al fine di evitare il grave pregiudizio all'esercizio della funzione giurisdizionale che deriverebbe dall'annullamento delle decisioni pronunciate con la partecipazione dei giudici ausiliari – che le corti d'appello potranno continuare ad avvalersene fino a quando il legislatore non avrà posto mano alla riforma organica della magistratura onoraria, comunque entro e non oltre il termine del 31 ottobre 2025.
Con l’art. 189, infine. i dirigenti degli uffici giudiziari, sia in sede centrale, sia in sede decentrata, sono chiamati a favorire le attività dirette alla formazione professionale dei giudici onorari.
3. Supplenze, applicazioni e tabelle infradistrettuali
Per far fronte alle esigenze di servizio sono previsti gli istituti della supplenza e dell’applicazione, il primo dei quali permette di porre rimedio all’assenza o all’impedimento temporaneo di un magistrato, mediante la sua sostituzione in via contingente e temporanea, con altro magistrato che fa parte del medesimo ufficio ovvero - nel caso di tabella infradistrettuale - di altri uffici del medesimo distretto, mentre l’”applicazione” determina l’inserimento, sempre in via temporanea, di un magistrato all’interno di un ufficio, indipendentemente dalla integrale copertura del relativo organico e dalla assenza o impedimento di magistrati ad esso appartenenti, sempre che le esigenze di quest’ultimo ufficio siano imprescindibili e prevalenti. I provvedimenti di supplenza ed applicazione possono essere adottati solo nel rispetto di specifici presupposti ed in base a regole procedimentali che il Csm ha disciplinato analiticamente nelle proprie circolari, e vanno sottoposti a controllo dello stesso Consiglio.
Sono possibili anche applicazioni di magistrati di un distretto ad uffici di un distretto diversi (c.d. applicazioni extradistrettuali) alle condizioni e nei limiti indicati dall’art. 110 ord. giud. e succ. modificazioni.
La materia è stata negli ultimi anni disciplinata dal CSM con una prima circolare in tema di “applicazioni, supplenze, tabelle infradistrettuali e magistrati distrettuali” che ha inserito organicamente i diversi istituti in un apposito ed autonomo corpus regolamentare (circolare n. P. 19197/2011 del 27 luglio 2011 e succ.mod. di cui alla circolare n P. 8377/2013 del 19 aprile 2013, mediante la quale è stato introdotto anche l’istituto dell’”assegnazione interna” (capo III, art. 17) e, quindi, con successiva circolare deliberata il 20 giugno 2018[41].
Nei tratti principali la disciplina della supplenza, la cui durata deve sempre avvenire per un periodo e/o in relazione ad attività determinate, e non può superare in alcun caso i sei mesi, è la seguente:
- possono essere destinati a svolgere compiti di supplenza di magistrati mancanti o impediti solo i magistrati professionali, con l’osservanza dei requisiti per l’espletamento delle funzioni monocratiche penali e di g.i.p./g.u.p., e quelli con qualifica inferiore alla prima valutazione solo nell’ipotesi in cui non sia possibile provvedere con magistrati di qualifica superiore, mentre l’utilizzazione dei giudici onorari di pace in supplenza dei giudici professionali deve avvenire in conformità a quanto previsto dall’art. 181 della circolare:
- le proposte tabellari, anche infradistrettuali, devono indicare specificamente, in forma nominativa o con altri criteri oggettivi, i magistrati destinati a svolgere compiti di supplenza, in modo da permettere l’automatica identificazione del supplente per ciascun magistrato;
- il magistrato destinato in supplenza è incaricato della trattazione degli affari assegnati al magistrato assente o impedito, partecipa alle udienze che questi avrebbe dovuto tenere e continua a svolgere i compiti che rientrano nelle funzioni assegnategli, secondo le previsioni di tabella ed i turni di servizio riguardanti sia il magistrato supplente sia il magistrato sostituito.
- alla mancanza ed all’impedimento temporaneo deve porsi rimedio tramite la supplenza interna (provvedendo, per le funzioni monocratiche, mediante magistrati professionali ovvero mediante magistrati onorari compatibilmente con i limiti di legge previsti per il loro utilizzo), mentre alla supplenza infradistrettuale è possibile fare ricorso solo nel caso in cui la mancanza o l’impedimento si presuma di durata superiore a sette giorni.
La supplenza di durata superiore a sessanta giorni deve essere disposta solo qualora non sia possibile provvedere mediante l’assegnazione congiunta, mentre la supplenza esterna può essere disposta soltanto qualora non sia possibile provvedere mediante quella interna;
- la supplenza disposta in base alle previsioni tabellari ovvero a norme di legge determina il subentro “ope legis” del supplente nelle funzioni svolte dal magistrato assente o impedito, mentre negli altri casi è disposta con provvedimento specifico e motivato e comporta l’adozione del procedimento di variazione tabellare soltanto nel caso di durata superiore a sessanta giorni (anche per effetto di più provvedimenti successivi di supplenza) ovvero nel caso in cui, in concomitanza con l'attuazione della supplenza o anche per effetto di essa, si renda opportuna l’adozione di modifica delle tabelle o dei turni di servizio;
- il potere di disporre la supplenza interna spetta al dirigente dell’ufficio, e quello di disporre la supplenza infradistrettuale dal Presidente della Corte d’appello per gli uffici giudicanti e dal Procuratore generale per gli uffici requirenti;
- nell’adozione del provvedimento di supplenza, il dirigente deve assicurare, eventualmente anche mediante rotazioni, che il supplente continui a svolgere, sia pure “part time”, i compiti connessi al proprio ufficio;
- l’adozione del provvedimento non richiede il consenso del magistrato designato quale supplente. Peraltro, ove non esistano specifiche e motivate ragioni di urgenza, tutti i magistrati dell’ufficio devono essere posti in condizione di manifestare il loro consenso, segnalando eventualmente i titoli preferenziali, ovvero indicando i motivi che potrebbero rendere opportuna la loro designazione, ed il supplente deve essere scelto tra i magistrati che hanno prestato il loro consenso, salvo che ragioni di servizio ed esigenze organizzative, da indicare espressamente, non impongano una differente soluzione;
- il provvedimento di supplenza, con le eventuali osservazioni dell’interessato, deve essere trasmesso per il previsto parere al Consiglio giudiziario e quindi insieme alle eventuali osservazioni dei magistrati interessati al Consiglio superiore della magistratura per l’approvazione.
Non debbono essere trasmessi i decreti di supplenza meramente esecutivi delle previsioni tabellari, nei confronti dei quali non siano state proposte osservazioni, e quelli non meramente esecutivi se di durata fino a sessanta giorni nel caso in cui non vi siano state osservazioni e il Consiglio giudiziario abbia espresso parere favorevole all’unanimità.
Regole specifiche sono dettate con riguardo alle supplenze infradistrettuali (titolo IV, capo II della circolare)[42] le quali consentono di destinare in sostituzione del magistrato mancante o impedito un magistrato appartenente ad un ufficio diverso compreso nella medesima tabella infradistrettuale e quivi indicato in modo da assicurare la sostituzione con criteri di automatismo, alle supplenze dei titolari di funzioni direttive e semidirettive (artt. 37-39), a quella esterna per la Corte d’appello (art. 42) ed a quelle dei componenti privati di organi giudiziari specializzati (art. 43).
Per quanto concerne, poi, l’applicazione, la quale comporta l'attribuzione al magistrato applicato di funzioni che divengono sue proprie, anche quando coincidono con quelle di cui era precedentemente titolare un altro magistrato temporaneamente assente o impedito e che, se disposta a tempo pieno, determina il temporaneo abbandono dell'ufficio di cui il magistrato applicato è titolare, si osserva che:
- salvo quanto precisato negli artt. 107 e 108, possono essere destinati in applicazione infradistrettuale tutti i magistrati in servizio[43];
- l’applicazione può essere infradistrettuale o extradistrettuale, secondo che il magistrato destinato in applicazione faccia parte o no di un ufficio compreso nello stesso distretto dell’ufficio di destinazione.
L’applicazione infradistrettuale può essere disposta soltanto qualora si accerti l’impossibilità di provvedere mediante l’assegnazione interna o l’assegnazione congiunta dei magistrati a due o più uffici prevista dalla tabelle infradistrettuali o mediante l’assegnazione di un magistrato distrettuale, e quella extradistrettuale solo quando si accerti l’impossibilità di soddisfare le esigenze di servizio con i magistrati che già operano nel medesimo distretto della Corte d’appello;
- l’applicazione implica, di regola, una variazione tabellare e, se del caso, una variazione dei turni d’udienza o di servizio, nonché, eventualmente, anche una variazione tabellare relativa all'ufficio di provenienza.
Essa non può superare la durata di un anno, e per necessità dell’ufficio al quale il magistrato è applicato può essere rinnovata per un periodo non superiore ad un anno;
- il procedimento per l’adozione dei provvedimenti di applicazione endodistrettuale è regolato dagli artt. 97 e segg. della circolare;
- l’applicazione extradistrettuale può essere disposta, indipendentemente dall’integrale copertura dell’organico dell’ufficio, quando le esigenze di servizio dell’ufficio di destinazione sono imprescindibili e prevalenti rispetto a quelle dell’ufficio di provenienza e non sia possibile farvi fronte con la supplenza, anche infradistrettuale, l’assegnazione interna, la coassegnazione infradistrettuale oppure mediante l’assegnazione di un magistrato distrettuale o l’applicazione infradistrettuale.
L’istituto è regolato dagli artt. 109 e segg. della circolare, dove è tra l’altro previsto che l’applicazione extradistrettuale non può avere durata superiore ad un anno (con possibilità di proroga per un periodo non superiore ad un altro anno nei casi di necessità dell’ufficio al quale il magistrato è applicato[44]) e che è disposta dal Consiglio Superiore della Magistratura, su richiesta motivata del Ministero della Giustizia ovvero del Presidente o, rispettivamente, del Procuratore Generale presso la Corte di Appello nel cui distretto ha sede l'organo o l'ufficio al quale si riferisce l'applicazione, sentito il Consiglio Giudiziario del distretto nel quale presta servizio il magistrato che dovrebbe essere applicato.
Cfr., amplius, gli artt. 131 e 132 per le applicazioni in esito a trasferimento ad altro distretto, e per la definizione di uno o più processi già incardinati; gli artt. 133 - 160 per i magistrati distrettuali: gli art. 149 e segg. per l’applicazione dei magistrati requirenti ai fini della trattazione di procedimenti riguardanti delitti di criminalità organizzata o con finalità di terrorismo e in materia di misure di prevenzione; gli artt. 161-166 per le applicazioni presso le sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea; gli artt. 167-172 per le disposizioni speciali relative alle Corti d’assise; agli Uffici di sorveglianza; agli uffici minorili; ai magistrati assegnati alla trattazione delle controversie di lavoro; per gli uffici in cui è stata disposta l’avocazione a causa del mancato esercizio dell’azione penale; per gli uffici giudiziari della provincia di Bolzano.
Delle misure destinate ad assicurare la funzionalità del servizio giudiziario fanno parte anche le previsioni relative ai magistrati distrettuali, istituiti con gli artt. 4 – 8 della legge n. 48/2001 (“Aumento del ruolo organico e disciplina dell’accesso in magistratura”), al fine di far fronte alle assenze dei magistrati dal servizio che fisiologicamente si verificano per cause diverse e che provocano significativi disfunzioni nella gestione dei ruoli dei procedimenti[45], e che compongono una pianta organica autonoma presso ciascun distretto di Corte di appello, distinta per le funzioni giudicanti e per quelle requirenti [46].
[1] L’indicazione dell’organico sezionale deve ricomprendere anche i posti non coperti,
[2] Nei casi in cui vi siano esigenze di riconversione, il magistrato assegnato a una sezione civile o penale può essere a sua domanda coassegnato parzialmente ad altra sezione o a diverso settore per finalità formative. La coassegnazione non dà diritto ad esonero, salvo che in caso di coassegnazione a diverso settore; in quest’ultimo caso, il magistrato ha diritto a un esonero del 20% dell’attività relativa al settore di provenienza, per un tempo non superiore ai tre mesi antecedenti alla data di presa di possesso.
Nella composizione della sezione sono indicati anche i giudici onorari assegnati alla sezione stessa nonché i componenti privati.
[3] Cfr. infra, par. 8
[4] I referenti informatici, la cui nomina trae origine dal d. lg. 39/1993 (che prevedeva l’individuazione di un responsabile per i servizi informativi automatizzati per ogni amministrazione e prescriveva anche l’ individuazione di dirigenti amministrativi che coordinassero i sistemi informativi sotto la direzione del primo) e dal d.p.r. 748/1994 n. 748 sulla progettazione, sviluppo e gestione dei sistemi informativi automatizzati dell'Amministrazione della giustizia, vennero designati per la prima volta con circolare del 2 febbraio 1995 che dispose l’inserimento delle relative figure nelle tabelle di composizione degli uffici. Con circolare del 10 novembre 1995 furono definite più analiticamente le competenze dei magistrati referenti per l'informatica ai quali furono quindi trasferite, mediante circolare del 17 luglio 1997, le competenze già attribuite agli U.D.A.
Con risoluzione del 7 giugno 2000 il ruolo dei referenti per l'informatica è stato ridefinito, valorizzandone, tra l'altro, le funzioni di formazione e aggiornamento, di cura e impulso dei progetti e dell'attività di informatizzazione, nonché di vigilanza della situazione logistica degli uffici giudiziari in funzione dell'efficienza dei sistemi informatici. Con delibera del 3 luglio 2003 il Csm si è proposto di attualizzare i compiti e le prospettive del referente informatico le cui funzioni, per la verità, non sono state valorizzate come sarebbe stato necessario.
[5] Nei tribunali organizzati con una sola sezione civile ed una sola sezione penale è possibile istituire singoli ruoli specializzati cui sono attribuite specifiche materie, purché l’analisi dei flussi lo consenta e nel rispetto di quanto stabilito dall’articolo 57, comma 2 della circolare volto a garantire comunque la trattazione della stessa materia da parte di più di un magistrato.
In tale ipotesi, alla scadenza del termine di permanenza massimo nella medesima posizione tabellare, è possibile la permanenza all’interno della stessa sezione, a condizione che il nuovo ruolo tratti materie diverse almeno per il 60 % del carico, in modo tale da determinare un effettivo e prevalente cambiamento della specializzazione che, compatibilmente con l’analisi dei flussi, deve essere tendenzialmente il più ampio possibile.
[6] Alle sezioni Gip/Gup dei tribunali, per assicurarne la piena funzionalità tenuto conto, in particolare, dei compiti gravanti sul tribunale capoluogo del distretto e delle attuali competenze del giudice per le indagini preliminari e del giudice dell’udienza preliminare, è assegnato un numero di magistrati adeguato alle esigenze e ai flussi degli affari, e non inferiore ad un terzo rispetto al numero di magistrati previsti in organico presso la relativa Procura della Repubblica e a un decimo rispetto all’organico dell'intero tribunale. Tale percentuale - al fine di assicurare la massima celerità nella trattazione dei procedimenti di cui all’articolo 51, 3 - bis c.p.p - è maggiorata in misura non inferiore ai 2/5 rispetto all’organico della Procura per gli uffici del tribunale capoluogo del distretto presso il quale opera la direzione distrettuale antimafia; ed ai magistrati destinati alla sezione GIP/GUP non devono essere assegnate funzioni di giudice del dibattimento, salvi i casi di oggettiva impossibilità di provvedere altrimenti, da motivare con indicazione espressa delle ragioni che non permettono di adottare una diversa soluzione. La sezione del giudice per le indagini preliminari e per l’udienza preliminare non può essere articolata componendo la sezione con ruoli separati per le funzioni del giudice per le indagini preliminari e quelle del giudice dell’udienza preliminare. Il divieto non opera per i tribunali per i minorenni (amplius, art. 74 della circolare).
[7] Ove è previsto tra l’altro che i criteri organizzativi della sezione debbono mirare a permettere la formazione di più collegi, facendo in modo che siano chiamati a farne parte tutti i magistrati assegnati alla sezione stessa, al fine di evitare possibili situazioni di incompatibilità e di assicurare comunque - ove la dimensione dell’ufficio e la concreta situazione dell’organico non consentano l’istituzione di una sezione autonoma - criteri di rotazione, concentrando, ove possibile, in capo al medesimo collegio tutti i ricorsi relativi al medesimo procedimento e garantendo in ogni caso che il giudice chiamato a decidere l’impugnazione avverso le ordinanze cautelari non faccia parte del collegio del dibattimento.
[8] Al sorteggio per la costituzione del collegio partecipano tutti i magistrati in servizio nel distretto, compresi i magistrati dei tribunali per i minorenni e quelli dei tribunali di sorveglianza, che hanno conseguito almeno la seconda valutazione di professionalità, con funzioni direttive, semidirettive e di giudice, mentre ne restano esclusi i magistrati addetti alle procure della Repubblica.
[9] L’entità dell’esonero dal lavoro giudiziario è commisurata all’impegno richiesto per i compiti di direzione dell’ufficio, anche in considerazione del numero dei magistrati dell’ufficio e della presenza di presidenti di sezione e dei compiti ad essi assegnati. In ogni caso, negli uffici di grandi dimensioni (cfr. art. 85, quarto comma della circolare) l’esonero dal lavoro giudiziario non può essere superiore al 90%, e negli altri uffici al 70%, del lavoro dei magistrati dell’ufficio.
Per quanto concerne il Presidente della sezione ed il Presidente aggiunto della sezione Gip cfr. l’art. 102 della circolare.
[10] Si tratta di incarichi consistenti nella direzione di più sezioni che trattano materie omogenee; nel coordinamento di uno o più settori dei servizi o di gestione del personale; in ogni altra attività collaborativa in tutti i settori nei quali essa sia ritenuta opportuna.
[11] L’esonero dal lavoro non può superare il 50% degli affari assegnati ai magistrati della sezione quando quest’ultima abbia un solo presidente, ed al 25% in caso di assegnazione ad essa di più presidenti.
[12] I risultati di tale attività sono valutati ai fini della conferma nelle funzioni direttive o semidirettive ai sensi degli articoli 45 e 46 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160.
[13] Cfr. Magistrati e “carriera”: ritrovare l'orgoglio delle funzioni "ordinarie", richiamato in nota 9; Carlo Verardi e l’attualità del suo esempio, in Speciali di Questione Giustizia, ottobre 2019,http://questionegiustizia.it/articolo/carlo-maria-verardi-e-l-attualita-del-suo-esempio.
[14] Rinvio per richiami al mio La crisi dell’associazionismo giudiziario e la necessità di risalire la china, in Questione Giustizia, 3 ottobre 2019 https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-crisi-dell-associazionismo-giudiziario-e-la-necessita-di-risalire-la-china
[15] Tenendo conto altresì, come ricordato, della possibilità, almeno per gli uffici di più grandi dimensioni, di organizzare le sezioni secondo aree tematiche più ampie e quella di avvalersi della figura dei magistrati collaboratori.
[16] Il magistrato trasferito ad altro ufficio o ad altra posizione tabellare o collocato fuori ruolo trasmette al presidente di sezione o, laddove non previsto in organico, al dirigente dell’ufficio, sintetica relazione sullo stato del ruolo, evidenziando eventuali urgenze e le controversie di maggiori complessità. Tale relazione deve essere poi trasmessa, a cura del dirigente dell’ufficio, al magistrato che sia subentrato, in tutto o in parte, nel ruolo del magistrato trasferito. Il mancato adempimento da parte del magistrato al dovere in esame è preso in considerazione in sede di valutazione di professionalità e negli ulteriori pareri attitudinali demandati al Consiglio Giudiziario.
[17] Anche quando si tratta dell’istituzione di nuove sezioni, di accorpamento o soppressione di sezioni o collegi, che i dirigenti dell’ufficio possono proporre per esigenze di servizio, così come - a fronte di una evidente riduzione del numero e delle pendenze complessive di una sezione o di un settore - può essere disposta la sospensione dell’attività di una o più sezioni, ovvero di uno o più collegi, con la destinazione dei magistrati assegnati ad altre sezioni o a collegi (amplius, art. 134-136 della circolare).
[18] I concorsi ordinari sono svolti almeno due volte l’anno e in modo da assicurare il coordinamento con le pubblicazioni dei posti di tramutamento ordinario deliberati dal Csm e in essi debbono confluire anche i concorsi relativi ai trasferimenti ai sensi degli articoli 148, 149 e 150 della circolare.
[19] Il magistrato non può essere assegnato ad altra sezione o ad altro settore di servizio se non siano decorsi almeno due anni dal giorno in cui ha preso effettivo possesso della posizione tabellare cui è attualmente addetto, salvo eccezioni per comprovate e motivate esigenze di servizio e salva l’ipotesi in cui la stessa sia stata ritardata per effetto del posticipato possesso disposto ai sensi dell’articolo 10-bis del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12. Nel caso in cui il magistrato sia stato assegnato o tramutato d’ufficio. l’assegnazione ad altra sezione o settore dell’ufficio può avvenire decorso un anno dall’effettiva presa di possesso. Il termine, annuale o biennale, deve essere calcolato con riferimento alla data in cui si è verificata effettivamente la vacanza del posto da ricoprire, indipendentemente dal momento in cui il dirigente dell’ufficio decida di provvedere alla sua copertura.
Non è legittimato a partecipare al bando di concorso dell’ufficio di appartenenza chi si trova in applicazione extradistrettuale con durata residua pari o superiore a quattro mesi calcolata alla data di scadenza del bando.
[20] Nel caso di presentazione di domande per più posti, deve essere indicato, a pena d’inammissibilità, l'ordine di preferenza. Non è ammessa la revoca della domanda dopo l'assegnazione di uno dei posti richiesti.
[21] Per anzianità di ruolo s’intende quella determinata dal decreto ministeriale di nomina e, all’interno del medesimo decreto ministeriale di nomina, dalla collocazione nella relativa graduatoria di concorso. Per ulteriori specificazioni, cfr. l’art. 125, quarto comma della circolare
[22] Nella valutazione delle attitudini non si tiene conto dell’esperienza maturata a seguito della destinazione in assegnazione interna ai sensi dell’art. 138, comma 2 della circolare.
[23] In base al quale il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all'interno dello stesso distretto, all'interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all'atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.
[24] Tale disposizione si applica, se richiesto dall’interessato, anche nel caso di cessazione da un incarico direttivo o semidirettivo e di riassegnazione all’ufficio occupato prima del conferimento dell’incarico direttivo o semidirettivo, come pure nel caso di cessazione da un incarico semidirettivo e di permanenza nel medesimo ufficio ove il magistrato svolgeva detto incarico, fermo il termine decennale di cui al Regolamento approvato in data 13 marzo 2008 e successive modifiche.
[25] Subito dopo la comunicazione relativa all’elenco delle sedi da assegnare ai magistrati ordinari in tirocinio, i dirigenti degli uffici interessati individuano i posti da riservare loro, tenendo conto delle esigenze generali dell’ufficio e professionali degli assegnatari, comunicando gli esiti dei concorsi interni al Consiglio Superiore della Magistratura, con indicazione della tipologia di affari dei ruoli da ricoprire. I posti così individuati sono immediatamente assegnati consentendo ai magistrati ordinari in tirocinio destinati all’ufficio la scelta, in ordine di ruolo. Le proposte di variazione tabellare, la cui efficacia resta differita alla data in cui gli stessi, completato il periodo di tirocinio, prenderanno possesso dell’ufficio assegnatogli, sono senza indugio comunicate, al Consiglio Superiore della Magistratura, al Consiglio giudiziario competente e ai magistrati interessati. Esse sono vincolanti e non possono essere successivamente modificate o derogate (con provvedimento da comunicare tempestivamente al Consiglio giudiziario e al Consiglio Superiore della Magistratura, che può annullarlo ove non lo ritenga giustificato) se non per gravi motivi di servizio dell’ufficio o di salute del magistrato non altrimenti superabili.
La violazione di tale disposizione è segnalata ai titolari dell’azione disciplinare.
I magistrati ordinari all’esito del tirocinio non possono esser destinati alle funzioni di giudice per le indagini preliminari e di giudice dell’udienza preliminare, salvo che non ricorrano imprescindibili e prevalenti esigenze di servizio, da rappresentare al Consiglio Superiore della Magistratura con richiesta motivata subito dopo la comunicazione relativa all’elenco delle sedi da assegnare ai magistrati ordinari in tirocinio. La deroga non è possibile ove nell’ufficio vi siano magistrati che abbiano maturato i requisiti di cui all’articolo 111, commi 1 e 2.
[26] L’assegnazione alle sezioni viene fatta dal magistrato dirigente dell’ufficio; all’interno delle sezioni, dai rispettivi presidenti di sezioni ovvero al magistrato che la dirige ai sensi dell’articolo 47 quater r. d. n. 12/1941.
In caso di ricorso a strumenti informatici automatizzati di assegnazione degli affari, il dirigente vigila sul rispetto dei criteri oggettivi e predeterminati contenuti nella proposta tabellare, nonché sull’equa e funzionale distribuzione del carico di lavoro, tenuto conto della quantità e della qualità degli affari assegnati.
[27] Il presidente del collegio tiene conto della specifica condizione soggettiva del magistrato e non assegna la redazione del provvedimento quando il termine di deposito venga a scadere nel periodo di astensione obbligatoria per maternità. Trova inoltre applicazione l’articolo 268 della circolare sul divieto di assegnazione di affari nel periodo di congedo di maternità, paternità o parentale.
[28] Ragioni tra le quali rientra anche l’esigenza di definire i procedimenti che abbiano superato i termini di cui all’articolo 2, comma 2 bis, legge n.89/2001 (cd. legge Pinto), nonché i procedimenti di cui all’articolo 19, d. lgs. 1° settembre 2011, n. 150 (in tema di riconoscimento della protezione internazionale),
[29] Nella circolare si precisa che in ogni distretto le proposte tabellari negli uffici giudicanti, sia in primo sia in secondo grado, debbono contenere l’indicazione di almeno sei giorni liberi di udienza per ogni anno, da destinare alle esigenze della formazione decentrata.
[30] L'autonomia nell’organizzazione e nella gestione delle udienze riconosciuta al giudice civile dagli articoli 175 e 168 bis, quinto comma c.p.c. e dagli articoli 81 e 81 bis disp. att. c.p.c. non esclude che il magistrato sia tenuto a celebrare le udienze individuate nel progetto tabellare, salve motivate e specifiche esigenze da comunicare tempestivamente al capo dell’ufficio.
[31] L’ingiustificata violazione di tale divieto è valutata ai fini della conferma del dirigente o del conferimento di ulteriori incarichi.
[32] La proposta tabellare deve indicare la misura e le modalità relative alla concreta applicazione dell’eventuale riduzione dal lavoro ordinario, che può consistere anche nell’esenzione da specifiche attività, così come previsto dall’articolo 6 della circolare in materia di magistrati referenti distrettuali e dei magistrati di riferimento per l’innovazione (RID e MAGRIF).
[33] Nella proposta tabellare deve essere precisato se il referente abbia a disposizione una struttura organizzativa e da quali risorse, materiali ed umane, sia composta. Il referente per la formazione usufruisce di un esonero parziale dall’attività giurisdizionale ordinaria, che tiene conto dell’ampiezza del distretto e può consistere in una percentuale non inferiore al 10% e non superiore al 25% del carico di lavoro. L’esonero non è rinunciabile, e l’incarico è incompatibile con quello di referente informatico.
[34] La proposta tabellare deve indicare le funzioni giudiziarie che essi svolgono, la misura dell’effettivo esonero parziale dall’attività giudiziaria ordinaria, stabilita nel 25%.
L’esonero non è rinunciabile, e l’incarico è incompatibile con quello di referente informatico, di referente per la formazione e di componente del Consiglio giudiziario o del Consiglio direttivo della Corte di cassazione.
[35] L’incarico di componente del Consiglio giudiziario o del Consiglio direttivo della Corte di cassazione è incompatibile con quello di referente informatico, di referente per la formazione, di componente del Comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura e di componente della struttura tecnica per l’organizzazione. Il magistrato che venga eletto componente del Consiglio giudiziario o del Consiglio direttivo della Corte di cassazione direttivo deve rinunciare, entro la prima seduta, agli incarichi non cumulabili (tra cui rientrano quelli di collaborazione ex articolo 28 del R.A.C. del Consiglio Superiore della Magistratura) di cui sia titolare, operando in mancanza la decadenza automatica dagli incarichi diversi da quello di componente del Consiglio giudiziario o del Consiglio direttivo della Corte di cassazione; e non può concorrere per il conferimento di uno degli incarichi non cumulabili per tutto il periodo di durata della consiliatura o fino alle loro anticipate dimissioni.
[37] Non possono essere comunque assegnati ai giudici onorari di pace:
- per il settore civile: a) i procedimenti cautelari e possessori, fatta eccezione per le domande proposte nel corso della causa di merito e del giudizio petitorio nonché dei procedimenti di competenza del giudice dell’esecuzione nei casi previsti dal secondo comma dell’articolo 615 del codice di procedura civile e dal secondo comma dell’articolo 617 del medesimo codice nei limiti della fase cautelare; b) i procedimenti di impugnazione avverso i provvedimenti del giudice di pace; c) i procedimenti in materia di rapporti di lavoro e di previdenza ed assistenza obbligatorie; d) i procedimenti in materia societaria e fallimentare; e) i procedimenti in materia di famiglia; f) i procedimenti in materia di protezione internazionale;
- per il settore penale:
a) i procedimenti diversi da quelli previsti dall’articolo 550 del codice di procedura penale; b) le funzioni di giudice per le indagini preliminari e di giudice dell’udienza preliminare; c) i giudizi di appello avverso i provvedimenti emessi dal giudice di pace; d) i procedimenti di cui all’articolo 558 del codice di procedura penale e il conseguente giudizio.
[38] Relativamente ai collegi civili, i giudici onorari di pace possono essere inseriti – ma non come relatori o estensori di provvedimenti - nei collegi concernenti le materie di cui all’articolo 11, comma 6, del decreto legislativo n. 116/2017 e la materia della famiglia, ivi compresi i collegi per i procedimenti di cui all’articolo 710 del codice di procedura civile ed all’articolo 9 della legge n. 898/1970, mentre ne è preclusa la possibilità di destinazione ai collegi relativi alla materia fallimentare ed alle sezioni specializzate, ivi compresa la protezione internazionale
Per quanto concerne i collegi penali, i giudici onorari di pace non possono essere inseriti nei collegi del tribunale del riesame ovvero qualora si proceda per i reati indicati nell’articolo 407, comma 2, lett. a), del codice di procedura penale.
[39] Nel settore civile e del lavoro il giudice professionale può delegare ai giudici onorari, concordando ove possibile le direttive cui essi dovranno attenersi, le attività istruttorie indicate all’articolo 10, comma 11, del d.lgs. n. 116/2017, la pronuncia di provvedimenti definitori nei casi indicati dall’articolo 10, comma 12, del medesimo d.lgs., con la precisazione che può trattarsi anche di cause di lavoro aventi ad oggetto il mero pagamento di somme di danaro, purché non connesse a domande di natura costitutiva ed a cause in materia di licenziamento.
[40] Ove è previsto che, in ogni caso, i giudici onorari di pace non possono essere destinati in supplenza per ragioni relative al complessivo carico di lavoro ovvero alle vacanze nell’organico dei giudici professionali.
[41] Le tabelle infradistrettuali sono state introdotte dalla legge 4 maggio 1988, n. 133 (recante tra l’altro “incentivi ai magistrati trasferiti o destinati d’ufficio a sedi disagiate”), che ha modificato l’art. 7 bis ord. giud. al fine di assicurare un più adeguato funzionamento degli uffici giudiziari requirenti e giudicanti. Esse consentono l’assegnazione congiunta di magistrati a due o più uffici nonché la supplenza di magistrati appartenenti ad uffici tra loro accorpati, allo scopo di assicurare maggiore possibilità di funzionamento soprattutto agli uffici di più piccole dimensioni. In base alla tabella infradistrettuale il magistrato può essere assegnato anche a più uffici aventi la medesima attribuzione o competenza, ma la sede di servizio principale, ad ogni effetto giuridico ed economico, é l'ufficio del cui organico egli fa parte. Gli uffici giudiziari rientranti nella medesima tabella infradistrettuali sono stati individuati dal Csm con delibera dell’8 luglio 1998 sulla base dei criteri determinati dalla legge (l’organico complessivo degli uffici ricompresi non deve essere inferiore alle quindici unità per gli uffici giudicanti; le tabelle infradistrettuali debbono essere formate privilegiando l'accorpamento tra loro degli uffici con organico fino ad otto unità se giudicanti e fino a quattro unità se requirenti; nelle esigenze di funzionalità degli uffici si deve tener conto delle cause di incompatibilità funzionali dei magistrati; si deve tener conto altresì delle caratteristiche geomorfologiche dei luoghi e dei collegamenti viari, in modo da determinare il minor onere per l'erario).
Le tabelle infradistrettuali, introdotte con la finalità di sopperire almeno in parte ai problemi di funzionalità degli Uffici giudiziari, risentono non solo dei limiti conseguenti all’impossibilità di sopperire con rimedi apparenti alla necessità di interventi strutturali e coerenti sul piano delle risorse, ma anche dello spirito burocratico che ne caratterizza - a livello della stessa normazione regolamentare da parte del CSM - la concreta attuazione, stentando a crescere una visione capace di assumerle come fattore stabile e permanente di un’organizzazione, in cui la logica della mera comparazione numerica degli affari, della quantità delle pendenze, dell’entità delle coperture e scoperture degli organici, pur rilevante e significativa, ceda il passo a valutazioni più approfondite idonee a giustificare le scelte con riguardo agli effetti complessivamente determinati in ordine al funzionamento della giustizia nell’intero distretto.
Verso tale visione dovrebbero spingere, tra l’altro, non solo il processo telematico, che in alcune sedi giudiziarie ha dato origine anche alla formazione di protocolli distrettuali e che, in realtà, postula esigenze di uniformità sull’intero territorio nazionale, ma anche le conferenze distrettuali sui criteri di priorità nella trattazione degli affari penali, di cui alla delibere del CSM richiamate infra, al par. 11 e, segnatamente, in nota 110.
Sul tema del processo civile telematico il CSM è intervenuto in più occasioni, per favorirne l’attuazione e verificarne lo stato di realizzazione. Cfr. tra le più recenti, la Relazione sullo stato della giustizia penale telematica e la Relazione sullo stato della giustizia civile telematica, di cui alle delibere in data 9 gennaio 2019. Cfr, inoltre, in argomento - e sempre tra le delibere più recenti - la circolare in materia di magistrati referenti distrettuali e magistrati di riferimento per l’innovazione (RID e MAGRIF) approvata il 6 novembre 2019.
[42] Salvo che ricorrano particolari esigenze di servizio che rendano necessario provvedere diversamente, le supplenze infradistrettuali possono essere disposte esclusivamente nei casi nei quali la mancanza o l’impedimento del magistrato sia destinato a protrarsi per più di sette giorni, non sono soggette al vincolo della "medesima competenza" stabilito per l’assegnazione congiunta, vengono adottate con provvedimento di competenza dei presidenti di Corte d’appello e dei Procuratori generali, su richiesta del dirigente dell’ufficio di destinazione del supplente, sentito il dirigente dell’ufficio di provenienza; debbono essere adeguatamente motivate e sono sottoposte - qualora non costituiscano mera attuazione della previsione tabellare – al parere del Consiglio giudiziario ed all’approvazione del Consiglio superiore della magistratura.
[43] Nei casi in cui non sia possibile provvedere con magistrati di qualifica superiore, i magistrati che non abbiano conseguito la prima valutazione di professionalità possono essere applicati solo dopi il decorso del promo anno dalla presa di possesso nell’ufficio di titolarità e per svolgere esclusivamente le stesse funzioni eserciate nell’ufficio di provenienza.
Non possono essere applicati magistrati che esercitano funzioni direttive o semidirettive, salvo i magistrati che svolgono funzioni semidirettive in soprannumero i quali, invece, poteranno essere applicati conservando le funzioni precedentemente svolte.
[44] In casi di eccezionale rilevanza, l’applicazione può essere disposta – limitatamente alla trattazione dei soli procedimenti per uno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3 bis del codice di procedura penale – per un ulteriore periodo massimo di un anno.
[45] In base alla legge istitutiva i magistrati distrettuali possono essere utilizzati in sostituzione di magistrati assenti dal servizio in una delle ipotesi contemplate dagli artt. 5 (aspettativa per malattia o per altra causa; astensione obbligatoria o facoltativa dal lavoro per gravidanza o maternità ovvero le altre ipotesi disciplinate dalla legge 8 marzo 2000, n. 53; tramutamento ai sensi dell’articolo 192 r. d. 12/1941 non contestuale all’esecuzione del provvedimento di trasferimento di altro magistrato nel posto lasciato scoperto; sospensione cautelare dal servizio in pendenza di procedimento penale o disciplinare; esonero dalle funzioni giudiziarie o giurisdizionali deliberato ai sensi dell’articolo 125-ter r. d. 12/1941 e succ. mod.) e 7 (applicazione in uno degli uffici del distretto, possibile solo in mancanza dei presupposti previsti per l’assegnazione in sostituzione di un magistrato assente ovvero in compiti – del tutto residuali - di ausilio al Consiglio giudiziario).
[46] Alla legge istitutiva dei magistrati distrettuali ha fatto seguito il D.M. 23 gennaio 2003, con il quale il Ministro della giustizia ha determinato un primo quantitativo complessivo degli organici in 103 unità, di cui 72 giudicanti e 31 requirenti. Con Circolare n. P-13726/2003 del 4 luglio 2003 il Csm ha dettato le prime direttive in ordine ai criteri ed alle forme di utilizzazione dei magistrati distrettuali.
Nel recente PNRR (Piano nazionale di resistenza e resilienza viene ricordato l’incremento della dotazione organica dei magistrati, pari a 600 unità, previsto dalla Legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Legge di Bilancio 2019) all'articolo 1, comma 379, e l’istituzione di un contingente distrettuale di magistrati (pari a 176 unità) destinato ad ovviare alle “criticità di rendimento” rilevate in determinati uffici giudiziari.
Accertamento penale ed accertamento amministrativo in caso di lottizzazione abusiva (Nota a Consiglio di Stato, sez. VI, 19 luglio 2021, n. 5403) di Maria Baldari
sommario: 1. Premessa. – 2. Il fatto e la vicenda giudiziaria. – 3. La decisione del Consiglio di Stato. – 4. La lottizzazione abusiva tra diritto penale e diritto amministrativo. – 5. Considerazioni conclusive e spunti di riflessione.
1. Premessa
Con la sentenza che qui si annota il Consiglio di Stato, ritenendo infondate le censure avanzate dagli appellanti, compie talune importanti precisazioni in merito alle differenze tra accertamento in sede penale e in sede amministrativa della lottizzazione abusiva.
L’illecito de quo, sebbene abbia frequentemente suscitato l’attenzione sia della dottrina che della giurisprudenza, risulta qui analizzato in relazione ad un profilo peculiare che ne rende opportuno l’approfondimento.
2. Il fatto e la vicenda giudiziaria
Nel 2008 gli appellanti acquistavano un terreno agricolo sito nel Comune di Olbia, collocato in un’area classificata con la destinazione urbanistica Zona E- Agricola[1].
A distanza di circa tre anni, gli stessi cedevano una parte ad un familiare e in un secondo momento effettuavano, sulla restante porzione, alcune opere di miglioramento fondiario. Tali ultime venivano dapprima certificate da un agronomo e successivamente verificate, mediante sopralluogo, dal Comune di Olbia.
In seguito, sempre nell’ambito del miglioramento fondiario del terreno, gli appellanti presentavano un progetto edilizio concernente la realizzazione di una casa colonica, ottenendone il relativo permesso nell’aprile 2015.
Con ordinanza n. 26 del 17/10/2015 il Comune di Olbia disponeva la sospensione dei lavori di lottizzazione abusiva sull’area, inclusa la proprietà degli appellanti. Questi ultimi impugnavano tale provvedimento dinnanzi al T.a.r. Sardegna.
Con sentenza n. 1065/2018 il T.a.r. respingeva il ricorso; avverso la sentenza, gli originari ricorrenti proponevano appello per i seguenti motivi.
Con il primo motivo, gli appellanti lamentavano la violazione e l’errata applicazione dell’art. 30 del D.P.R. n. 380/2001, ritenendo che gli argomenti valorizzati dall’amministrazione non fossero sufficienti a dimostrare l’intento illecito.
Dalla vendita delle due proprietà, isolatamente considerata, non potrebbe infatti ricavarsi in modo inequivoco la destinazione a scopo edificatorio né, quindi, una ipotesi di lottizzazione abusiva. E ciò anche in considerazione del fatto che non vi sarebbe alcun riscontro della realizzazione di opere in violazione degli strumenti urbanistici; anzi, gli interventi di miglioramento fondiario sarebbero stati ritenuti dallo stesso Comune di Olbia conformi ai parametri urbanistico-edilizi generali e alle previsioni di cui all’art. 13-bis, L.R. 23 ottobre 2009, n. 4[2].
Inoltre, la consistenza e le modalità del frazionamento sarebbe avvenuta in modo conforme alle prescrizioni dettate dal programma di fabbricazione comunale e regionale, secondo una estensione non inferiore al cd. lotto minimo.
Ancora, difformemente da quanto dichiarato in sentenza, gli appellanti sostenevano che la presenza di una strada per l’accesso ai lotti frazionati - peraltro preesistente all’acquisto effettuato nel 2008 - non potesse costituire, in assenza di ulteriori indici, elemento idoneo da cui dedurre l’esistenza di un fenomeno lottizzatorio.
Con il secondo motivo gli appellanti deducevano inoltre la violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990, denunciando la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento la cui ricezione avrebbe consentito loro di far valere - tramite osservazioni, critiche e deduzioni - la totale infondatezza dell’illecito già nella fase formativa del provvedimento amministrativo.
3. La decisione del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato, nel rigettare i motivi di gravame, precisa innanzitutto come ai sensi dell’art. 30 del D.P.R. n. 380/2001[3] possano in astratto configurarsi due diverse tipologie di lottizzazione abusiva: una di natura “materiale” e un’altra di carattere “formale o cartolare”.
La prima si verifica allorquando vengano realizzate opere che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia dei terreni, in violazione delle prescrizioni urbanistiche ovvero in assenza della necessaria autorizzazione. La seconda si configura quando, pur non essendo ancora avvenuta una trasformazione di carattere materiale, se ne siano già realizzati i presupposti: vale a dire il frazionamento, la vendita o altri atti ad essi equiparati in lotti che evidenzino in modo non equivoco la destinazione ad uso edificatorio.
L’interesse protetto dalla norma è quello a garantire un ordinato sviluppo urbanistico del tessuto urbano, in coerenza con le scelte espresse negli strumenti urbanistici ed in particolare nel piano attuativo. Quest’ultimo svolge infatti la funzione di precisare zona per zona «le indicazioni di assetto e sviluppo urbanistico complessivo contenute nel piano regolatore, di attuarle gradatamente e razionalmente e di garantire che ogni zona disponga di “assetto ed attrezzature rispondenti agli insediamenti”, ovvero delle opere di urbanizzazione»[4]. In siffatto contesto, la lottizzazione abusiva sottrae all’amministrazione il suo potere di pianificazione attuativa.
La giurisprudenza ha delineato poi una ulteriore ipotesi di lottizzazione cd. “mista” che si caratterizza per la compresenza delle attività materiali e negoziali indicate dall’art. 30 D.P.R. n. 380/2001. Tale eventualità si configura nelle ipotesi in cui si verifichi «un’attività negoziale di frazionamento di un terreno in lotti seguita dalla edificazione dello stesso terreno»[5].
Proprio quest’ultima sembra essere la situazione su cui si fonda il provvedimento impugnato[6], non potendo essere accolti i motivi di appello con cui veniva prospettata la separata sussistenza di una lottizzazione materiale e di una cartolare[7].
I giudici di Palazzo Spada si preoccupano poi di chiarire – e su tale aspetto, su cui si tornerà più avanti, si fonda l’interesse per la pronuncia in commento - come l’oggetto del giudizio sia rappresentato dal provvedimento amministrativo, allo scopo di verificarne la legittimità. Tale precisazione si rende necessaria a fronte della parziale sovrapposizione del sindacato del giudice amministrativo rispetto a quello svolto, con riferimento alla fattispecie criminosa di cui all’art. 44 D.P.R. n. 380/2001, dal giudice penale.
Nel processo finalizzato ad accertare la responsabilità penale dell’imputato, infatti, risulta necessario il raggiungimento della prova oltre ogni ragionevole dubbio. Di contro, proprio in ragione dell’assenza di una connotazione penalistica delle conseguenze derivanti dal provvedimento impugnato, il sindacato del g.a. dovrebbe essere effettuato secondo il canone di credibilità razionale della decisione amministrativa.
E, sotto tale profilo, la giurisprudenza ha precisato come i principi costituzionali e sovranazionali di buona fede e di presunzione di non colpevolezza possano venire in rilievo in relazione alla applicazione della sanzione penale accessoria della confisca urbanistica di cui all’art. 44 del D.P.R. n. 380/2001, ma non anche al fine della irrogazione della sanzione amministrativa prevista dall’art. 30, co. 8 del D.P.R. n. 380/2001[8].
Tanto chiarito, i giudici ritengono che dai fatti globalmente considerati emergano elementi gravi, precisi e concordanti che attestano l’integrazione dell’illecito e, quindi, la finalità abusiva degli autori[9].
L’insieme delle circostanze accertate dalla p.a. denota infatti l’intento di mutare la destinazione agricola dell’area in spregio agli strumenti urbanistici che la disciplinano. Il provvedimento impugnato trova un adeguato supporto istruttorio negli elementi fattuali, senza che i motivi addotti dagli appellanti siano idonei ad inficiarne la coerenza logica[10].
Risulta inoltre significativo che il frazionamento dell’area abbia comportato la formazione di lotti di dimensioni inferiori rispetto al minimo previsto dall’art. 13bis della L.R. n. 4/2009 e all’art. 3 del D.P.G.R. 3 agosto 1994, n. 228[11]. Parimenti rilevante appare la circostanza che gli acquirenti non fossero imprenditori agricoli.
Peraltro, secondo la giurisprudenza prevalente, non occorre che gli elementi comprovanti la presenza di una lottizzazione cartolare siano tutti presenti, essendo sufficiente che ve ne sia anche uno solo – nel caso di specie consistente nella vendita e nell’ulteriore frazionamento in lotti di ridotte dimensioni - purché rilevante ed idoneo a comprovare, con margini di plausibile veridicità, la volontà di procedere a lottizzazione[12].
Né può assumere rilievo la circostanza che gli appellanti abbiano ottenuto l’autorizzazione ad eseguire singole opere edilizie, poiché a rilevare sono non tanto le singole porzioni isolatamente considerate quanto piuttosto lo stravolgimento della destinazione di zona nel suo complesso[13].
Da ultimo, la connessione funzionale tra edificazione e costruzione agricola del fondo risultava smentita da un lato, dalla rilevazione di 100 piante di ulivo a fronte delle 200 dichiarate nella relazione agronomica; dall’altro, dalla prevalenza di zona incolte e improduttive del terreno, da cui si evince una attività agricola di tipo “hobbistico”.
Per quanto attiene infine al secondo motivo di appello relativo alla asserita violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990, il Consiglio riteneva infondata anche tale censura. Innanzitutto, in quanto per il procedimento in esame parte della giurisprudenza esclude la necessità della comunicazione di avvio[14]; in secondo luogo, poiché nell’ordinanza n. 26 del 17 ottobre 2016 del Comune si dava atto che la comunicazione di avvio fosse stata inviata ad entrambi gli appellanti.
4. La lottizzazione abusiva tra diritto penale e diritto amministrativo
La fattispecie incriminatrice di lottizzazione abusiva[15] è descritta dall’art. 30, co. 1 D.P.R. n. 380/2001 il quale, con una norma di carattere definitorio, ne indica le caratteristiche strutturali[16]. La sanzione penale, che si aggiunge alla sanzione amministrativa di cui all’art. 30, co. 8 del D.P.R. n. 380/2001[17], è fissata invece dall’art. 44, co. 1 lett. c)[18].
L’aspetto maggiormente problematico della figura in esame concerne, tradizionalmente, la configurabilità del reato de quo nelle ipotesi in cui l’autorizzazione, pur essendo stata concessa, presenti profili di illegittimità; questione, tale ultima, che si inserisce nella più ampia tematica relativa al sindacato del giudice penale sugli atti amministrativi con effetti in malam partem[19].
Sul punto, giova sinteticamente ricordare come inizialmente la tesi prevalente fosse quella cd. “processualistica”, in ossequio alla quale il giudice dovrebbe limitarsi alla verifica circa l’esistenza dell’atto sulla base della esteriorità formale, con conseguente utilizzo dell’istituto della disapplicazione exart. 5 l. 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E[20].
A far data dalla storica sentenza Giordano[21] si afferma invece l’idea, rimasta pressoché immutata fino ad ora[22], della natura sostanziale della questione in esame. Da tale premessa deriva la conseguenza che il giudice possa valutare la sussistenza dell’atto quale elemento normativo della fattispecie e conoscerne la eventuale illegittimità, in maniera non dissimile da quanto accade con gli altri elementi essenziali della fattispecie criminosa[23]. E ciò anche quando, secondo una ricostruzione prospettata in via interpretativa, l'illegittimità dell'atto amministrativo non sia espressamente contemplata dalla disposizione incriminatrice quale componente del reato[24].
Con riferimento specifico alla lottizzazione abusiva, è stata a tal proposito elaborata la tesi del reato “a consumazione alternativa”, configurabile cioè sia in caso di difetto di autorizzazione sia nel caso in cui questa contrasti con la legge o gli strumenti urbanistici[25].
Anche in tal caso il giudice non effettua alcuna disapplicazione del provvedimento amministrativo ma «si limita ad accertare la conformità del fatto concreto alla fattispecie astratta descrittiva del reato, poiché una volta che constati il contrasto tra la lottizzazione considerata e la normativa urbanistica, giunge all’accertamento dell’abusività della lottizzazione prescindendo da qualunque giudizio sull’autorizzazione» [26].
Il caso esaminato dal Consiglio di Stato attiene tuttavia ad un profilo che, sebbene collegato al tema indicato, non appare del tutto coincidente con esso. In particolare, nella vicenda sottoposta all’attenzione dei giudici di Palazzo Spada, trattandosi di un giudizio generale di legittimità, l’oggetto è rappresentato proprio dal provvedimento amministrativo medesimo.
In relazione al sindacato del giudice amministrativo non vengono in rilievo i medesimi limiti ai quali va incontro il giudice penale, né può applicarsi il principio processualpenalistico di cui all’art. 533 c.p.p. che richiede il raggiungimento della prova oltre ogni ragionevole dubbio.
Infatti, mentre il giudizio penale concerne l’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, cui consegue l’applicazione di una misura restrittiva della libertà personale; il giudizio amministrativo attiene invece alla legittimità del provvedimento stesso. Da tale diversità deriva allora l’impossibilità di far valere nell’ambito del processo amministrativo principi propri del diritto penale, ed in particolare, secondo quanto prospettato dagli appellanti, il principio di buona fede e di presunzione di non colpevolezza[27].
Il procedimento penale ed il procedimento amministrativo, sebbene destinati ad incidere sullo stesso bene giuridico, proseguono “su binari paralleli”, in ragione della profonda diversità che attiene alla causa petendi. Del resto, lo stesso Consiglio di Stato aveva in passato chiarito come la comminazione di sanzioni sul piano amministrativo ai sensi dell’art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 non richieda alcuna pregiudiziale verifica circa la sussistenza della responsabilità penale ai sensi dell’art. 44, lett. c) del D.P.R. n. 380/2001[28].
In un passaggio della motivazione, il Consiglio di Stato fa poi rapido accenno alla eventualità di giungere a conclusioni diverse nelle ipotesi in cui il provvedimento impugnato dovesse assumere dei risvolti penalistici. Tale ultima puntualizzazione appare opportuna alla luce dell’orientamento, di derivazione sovranazionale, tendente all’applicazione dello statuto giuridico proprio delle pene anche alle sanzioni amministrative aventi natura sostanzialmente penale[29]. La questione tuttavia non risulta approfondita in ragione della mancata prospettazione in tal senso, ad opera degli appellanti, in relazione alla misura di cui all’art. 30. co. 8 del D.P.R. n. 380/2001.
5. Considerazioni conclusive e spunti di riflessione
Come si è tentato di chiarire, la sentenza in commento si preoccupa di mettere in evidenza le diversità del perimetro di indagine del giudice penale rispetto a quelle del giudice amministrativo, avendo cura di specificare come quest’ultimo abbia accesso diretto al provvedimento.
Secondo il Consiglio di Stato, il sindacato del giudice amministrativo attiene infatti «alla piena conoscenza del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’amministrazione, al fine di verificare l’esattezza materiale degli elementi di prova invocati dall’amministrazione, la loro affidabilità e la loro coerenza», secondo il canone di valutazione «di credibilità razionale della decisione amministrativa alla luce degli elementi posti dall’amministrazione a giustificazione della stessa»[30].
Tali precisazioni, sebbene siano da salutare con favore nella misura in cui sgombrano il campo da incertezze interpretative, non appaiono tuttavia risolutive della totalità dei problemi.
Una volta appurato che l’oggetto del giudizio amministrativo sia il provvedimento e la sua eventuale illegittimità, si ripropone infatti la questione inerente al tipo di sindacato esperibile dal g.a. sulla discrezionalità amministrativa, la quale può essere “pura” o “tecnica”[31]. A tale ripartizione, com’è noto, corrisponde una diversa intensità di sindacato sull’operato della p.a., che si mostra più incisivo nel caso di discrezionalità tecnica[32].
Il tema, poi, si complica ulteriormente ove si consideri come non sia agevole qualificare il tipo di discrezionalità di cui gode l’ente locale in materia di pianificazione edilizia.
Al riguardo, secondo una prima tesi si tratterebbe di una discrezionalità di tipo “misto”, nella quale si fondono elementi di discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa[33]. Il potere esercitato dall'Amministrazione dovrebbe tenere conto non soltanto dei vari interessi, pubblici e privati, che possono venire in rilievo nella valutazione, ma altresì di una serie di profili tecnici[34].
Aderendo a tale orientamento, pertanto, il tipo di sindacato si differenzierebbe a seconda dello specifico profilo attenzionato: nella prima fase, la discrezionalità tecnica sarebbe infatti censurabile fino all’errore o alla inattendibilità scientifica della soluzione prescelta; nella seconda fase, invece, la discrezionalità pura incontrerebbe il solo limite dell’eccesso di potere.
La tesi ormai prevalente ritiene tuttavia che il potere della p.a. in materia di pianificazione edilizia sia riconducibile ad una discrezionalità “pura” di carattere piuttosto ampio, che sembra sfociare in uno spazio di elevata libertà a favore dell’ente locale[35].
In quest’ottica, allora, il sindacato sarebbe piuttosto “debole”, potendo il g.a. verificare, al più, la presenza di una figura sintomatica dell’eccesso di potere senza disporre, invece, degli strumenti necessari per vagliare appieno le scelte compiute dalla p.a.
In base ad una massima ormai consolidata, infatti, «le scelte effettuate dall'Amministrazione Pubblica nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità» [36].
Ma, se così è, la pregnanza del controllo sul provvedimento edilizio da parte del giudice amministrativo - tanto enfatizzata dalla sentenza in commento – sembra destinata, almeno in parte, ad essere ridimenzionata.
[1] Secondo il Programma di Fabbricazione, nell’area in questione sarebbero ammessi «fabbricati ed impianti destinati alla produzione agricola o zootecnica del fondo, all’itticoltura, alla valorizzazione e alla trasformazione delle produzioni aziendali, nonché fabbricati residenziali per imprenditori e conduttori agricoli».
[2] Ai sensi della quale occorre la presenza di una effettiva connessione funzionale tra l’edificazione e la conduzione agricola e zootecnica del fondo.
[3] «Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti ,denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio».
[4] Cons. di Stato, sez. VI, 19 luglio 2021 n. 5403, punto 9.
[5] Così Cass., Sez. III, n. 6080 del 7/02/2008.
[6] Il giudice di primo grado aveva infatti ravvisato la sussistenza di una lottizzazione abusiva “mista”, ricavabile «dal frazionamento di tre macro lotti a destinazione agricola in venticinque lotti, nella creazione di una strada abusiva di collegamento di tutti i nuovi lotti, nella vendita di questi ultimi e nell’inizio sugli stessi di attività edilizia, nella maggior parte dei casi senza titolo autorizzatorio».
[7] In particolare, la tesi degli appellanti distingueva i singoli momenti: da un lato, quello del frazionamento e della vendita; dall’altro, quello della parziale edificazione di taluni lotti. Per il Consiglio di Stato, tali momenti dovrebbero invece essere intesti come tasselli del complessivo disegno lottizzatorio, posto in essere in spregio alla destinazione impressa alla zona dal P.R.G. Cfr., in tal senso, CGARS Sez. giur. n. 93 del 8 febbraio 2021 secondo cui «la lottizzazione abusiva è un fenomeno unitario che trascende la consistenza delle singole opere di cui si compone e talora ne prescinde, come nel caso del mutamento di destinazione d’uso di complessi edilizi regolarmente assentiti, e assume rilevanza giuridica per l’impatto che determina sul territorio interferendo con l’attività di pianificazione, conservazione dei valori paesistici e ambientali, dotazione e dimensionamento degli standard, di guisa che la diversa conformazione materiale che deriva dall’attività di lottizzazione, se non rimossa, da un lato impedisce la realizzazione del diverso progetto urbanistico stabilito dagli organi preposti al governo del territorio, dall’altro impone l’adeguamento delle infrastrutture esistenti o la realizzazione di nuove per far fronte al carico urbanistico derivante dalla lottizzazione».
[8] Così Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 2018, n. 1878; Cons. Stato, sez. II, 17 maggio 2019, n. 3196; Cons. Stato, sez. II, 24 giugno 2019, n.4320, CGARS Sez. giur. n. 93 del 8 febbraio 2021.
[9] Nello specifico, dal rapporto n. 56070 del 13 giugno 2016 redatto dagli agenti comunali emergevano le seguenti circostanze: tra il 2008 e il 2009 nel territorio comunale classificato come Zona E- Agricola il proprietario dei mappali originari aveva provveduto alla realizzazione di una strada sterrata, al frazionamento di tre lotti di terreno fino a generare 25 lotti e alla successiva stipulazione di altrettanti atti di compravendita; la strada, realizzata senza alcun titolo edilizio e non censita in Catasto, risultava oggetto di servitù di passaggio in tutti gli atti di compravendita dei singoli lotti; le superfici dei mappali frazionati variavano da un massimo di HA 1.29.93 ad un minimo di Ha 00.05.30 (con la sola eccezione di un terreno di superficie pari a Ha 03.00.00); quattro dei 25 lotti risultavano edificati; l’amministrazione era intervenuta con due provvedimenti di diniego di altrettante istanze di concessione edilizia per la realizzazione di edifici ad uso residenziale nonché con un annullamento in autotutela di un titolo autorizzatorio erroneamente emanato, tutti motivati con riferimento ad un fenomeno lottizzatorio abusivo nella zona in esame; sui terreni in esame era stata riscontrata la presenza di piccoli manufatti ma non di attività agricole o zootecniche connesse con la destinazione urbanistica della zona agricola; il succedersi di richieste di concessione edilizia sui lotti in questione nel periodo successivo alla entrata in vigore della Legge Regionale n.4/2009 la quale aveva ripristinato l’edificabilità nella zone E con lotto minimo di 1 ettaro.
[10] In particolare, con riferimento all’obiezione secondo cui dalle mappe non potrebbe essere escluso che il fondo fosse collegato alla viabilità pubblica già prima della realizzazione della strada abusiva, la p.a. aveva provveduto a depositare apposita documentazione che sconfessava la tesi degli appellanti. Tale documentazione dimostrava infatti come prima del 2008 non fosse presente alcuna via pubblica di accesso al Mappale oggetto di causa e che l’unico accesso alla proprietà dei ricorrenti avvenisse per il tramite della abusiva strada sterrata non censita al Catasto, la quale costituisce oggetto di servitù di passaggio nell’atto di compravendita. La realizzazione abusiva della strada che collega i vari lotti rappresenterebbe pertanto un idoneo elemento probatorio dell’intento lottizzatorio.
[11] Nello specifico, la superficie minima di intervento era fissata in un ettaro, salvo per quanto riguarda la destinazione per impianti serricoli, impianti orticoli in pieno campo e impianti vivaistici, per i quali era stabilita in ettari 0,50.
[12] In particolare, la vendita di lotti di ridotte dimensioni contraddiceva esplicitamente la vocazione agricola del terreno in quanto, nella logica del mercato agricolo, possedere un terreno di notevoli dimensioni risulta maggiormente proficuo; il frazionamento planimetrico del fondo, pertanto, farebbe emergere l’intento di voler procedere a lottizzazione abusiva. Sul punto, cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV del 11.7.2016 n. 3073; v. anche Corte Cass. n. 389 del 25/05/1990 che ha ritenuto idonei elementi attestanti la lottizzazione «la predisposizione di un piano di frazionamento, nella superficie esigua di ogni singola frazione - poco compatibile con una utilizzazione agricola del terreno acquistato - nella appartenenza a famiglia contadina solo di due dei tredici acquirenti, nella prossimità del terreno frazionato rispetto all'abitato»; nella medesima direzione, v. anche, più di recente, Corte Cass. 15205 del 15/11/2019 relativa alla realizzazione di edifici residenziali in zona agricola, mediante frazionamenti ed accorpamenti di fondi non contigui, asserviti per soddisfare il requisito della estensione minima del lotto, da parte di soggetti privi del requisito necessario di imprenditore agricolo.
[13] Cfr. Cons. St., n. 26 del 18 gennaio 2016. Peraltro, in occasione del sopralluogo seguito dagli agenti del Comune in data 10/03/2016 era stata riscontrata la presenza, oltre che del menzionato edificio residenziale, anche di una serie di opere ulteriori eseguite in assenza di Scia e di permesso di costruire, ed in particolare di: un pozzo, una cisterna idrica, un tubolare un cemento per l’attraversamento di un piccolo corso d’acqua presente all’interno del lotto e uno scavo di sbancamanto di notevoli dimensioni.
[14] Cfr. in tal senso Cons. Stato, Sez. IV, n. 3073/2016.
[15] Per un maggiore approfondimento della fattispecie de qua si rinvia, fra gli altri, a De Gioia -Casa, Violazioni edilizie. Responsabilità e sanzioni amministrative e penali. Effetti civili. Profili fiscali, Torino, 2011; G. Trapani, La circolazione giuridica dei terreni: analisi delle linee direttrici dello statuto di tali beni, in Riv. notariato, fasc.6, 2003, pag. 1483; F. Parente, Trasformazione del territorio e tipologie lottizzatorie abusive, in Riv. notariato, fasc.5, 2003, pag. 1145.
[16] Come anticipato, la lottizzazione può attuarsi sia con opere « che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione », sia mediante « il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio ». Viene così delineata la distinzione di fondo tra la lottizzazione abusiva cd. “materiale” e quella cd. “negoziale” (o “cartolare”).
[17] Consistente nella acquisizione coattiva dell’immobile al patrimonio del Comune.
[18]Il quale prevede l’arresto fino a due anni e l’ammenda da €15.493 a €51.645.
[19] In argomento, si rinvia, fra gli altri, a F. De Leonardis, Il sindacato del giudice penale sugli atti di autorizzazione e concessione: alcune riflessioni “partendo dalla fine”, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc.4, 2020, pag. 893; G. Tropea, Concessioni balneari e diritto europeo: nuovi “lati oscuri” della disapplicazione del giudice penale, nota a Cass. pen., sez. III, 12 aprile 2019, n. 25993, in www.dirittifondamentali.it, n. 1/2020; Id., Aree di non sindacabilità e principio di giustiziabilità dell’azione amministrativa, in Diritto Costituzionale, n. 3/2018; F. Francario, Illecito urbanistico e edilizio e cosa giudicata. Spunti per una ridefinizione della regola del rapporto tra processo penale ed amministrativo, in Riv. giur. ed., 2015, 99; B. Tonoletti, La pubblica amministrazione sperduta nel labirinto della giustizia penale, in Riv. trim. dir. pubbl., 2019, 77; G. Contento, Il sindacato del giudice penale sugli atti amministrativi, con particolare riferimento agli atti discrezionali, in Quad. csm, 1, 1991; A. Romano, La disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice civile, in Diritto Processuale Amministrativo, 1983, 22; F. R. Villata, “Disapplicazione” dei provvedimenti amministrativi e processo penale, Milano, 1980.
[20] Cfr. in tal senso Cass., sez. III, 15 febbraio 1960, Guidi; Cass., sez. III, 16 marzo 1970, Agnello; Cass., sez. VI, 7 dicembre 1984, Ambrogi; sez. III, 10 gennaio 1984, Tortorella; Cass., sez. III, 13 marzo 1985, Meraviglia; 31 marzo 1986, Ainora. In dottrina, si rinvia a A. Cioffi, Il problema della legittimità nell'ordinamento amministrativo, Padova, 2012; A. Romano, A proposito dei vigenti artt. 19 e 20 della l. n. 241/90: divagazioni sull'autonomia dell'amministrazione, in Dir. amm., 2006, 490 ss.; Id., voce “Autonomia” nel diritto pubblico, in Dig. disc. pubbl., II, Torino, 1987, 31 ss.; S. Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947.
[21] Cass., Sez. Un., 31 gennaio 1987, n. 3.
[22] Cfr, fra le altre, Cass., sez. III, 19 luglio 1994, Cremona; 30 giugno 1995, n. 17565, Di Pasquale; 29 settembre 1994, n. 1822, Ruotolo; 3 maggio 1996, n. 4421, Oberto; 20 luglio 1996, n. 7310, Vené; 23 dicembre 1997, n. 11988, Controzzi; sez. III, 21 marzo 2006, n. 21487, Tantillo; 28 settembre 2006, n. 40425, Consiglio; 2 ottobre 2007, n. 41620, Emelino; 9 maggio 2008, n. 28225, Di Stefano; 27 giugno 2008, n. 35389, Gallo; 13 gennaio 2009, n. 9177, Corvino; 20 gennaio 2009, n. 14504, Sansebastiano e altri; 2 luglio 2009, n. 34809, Giombini e altro; 14 luglio 2010, n. 35391, Di Domenico; 16 febbraio 2012, n. 28545, Cinti; 14 maggio 2013, n. 37847, Sonni; 16 giugno 2015, n. 36366, Faiola.
[23]Cfr. G. Cocco, Dalla disapplicazione dell'atto amministrativo alla disapplicazione della fattispecie incriminatrice - I parte, in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc.1, 2021, pag. 6; Id., Dalla disapplicazione dell'atto amministrativo alla disapplicazione della fattispecie incriminatrice - II parte, in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc.2, 2021, pag. 358; R. Garofoli, Il controllo giudiziale, amministrativo e penale dell’amministrazione, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, fasc.2, 2020, pag. 405; B. Tonoletti, la pubblica amministrazione sperduta nel labirinto della giustizia penale, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, fasc.1, 2019, pag. 76; G.D. Comporti, E. Morlino, La difficile convivenza tra azione penale e funzione amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2019; R. Tumbiolo, Il sindacato del Giudice penale sul titolo edilizio e paesaggistico: dal profilo formale a quello di legittimità, in Rivista Giuridica dell'Ambiente, fasc.6, 2013, pag. 705; R. Villata, Le Sezioni Unite della Cassazione penale mettono fine alla c.d. «disapplicazione» della concessione edilizia (assente) illegittima nel processo penale, in Diritto Processuale Amministrativo, 1987, 441 ss.
[24] Peraltro, se in occasione della sentenza “Giordano” del 1987 le SU ritennero insussistente il reato edilizio in caso di concessione illegittima, identificando come bene giuridico tutelato dalla norma la sottoposizione dell’attività edilizia al preventivo controllo della p.a.; nella successiva sentenza “Borgia” del 1993 le stesse SU giunsero a conclusioni opposte, e ciò sulla base di una diversa connotazione del bene giuridico, individuato questa volta nella tutela dell’assetto del territorio in conformità alla normativa urbanistica.
[25] Sul punto cfr. D. Guidi, Lottizzazione abusiva e sindacato del giudice penale sulle decisioni degli enti territoriali in materia di pianificazione attuativa, in Riv. giur. edil., 2019, 353; G.D. Comporti - E. Morlino, La difficile convivenza tra azione penale e funzione amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2019.
[26] Così Sez. Un., 8 febbraio 2002, n. 5115. Secondo le Sezioni Unite infatti è la «descrizione normativa del reato di lottizzazione abusiva, che impone un riscontro diretto di tutti gli elementi che concorrono a determinare la condotta criminosa; di tal che il giudice penale, nel valutare la liceità di un intervento edilizio, deve verificarne la conformità a tutti i parametri di legalità fissati dalla legge, dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dalla concessione edificatoria, indipendentemente dalla circostanza che la lottizzazione sia o meno autorizzata».
[27] In questo senso, v. Cons. di Stato, sez. II, 17 maggio 2019, n. 3196; Cons. Stato, sez. II, 24 giugno 2019, n.4320, CGARS Sez. giur. n. 93 del 8 febbraio 2021.
[28] Sul punto, cfr. Cons. di Stato, Sez. VI, 23 marzo 2018, n. 1878.
[29] Tale tematica è stata oggetto di recente approfondimento da parte della letteratura giuridica; fra gli altri, si rinvia a F. Goisis, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, Torino, 2018; G. Martini, Potere sanzionatorio della PA e diritti dell’uomo. I vincoli CEDU all’amministrazione repressiva, Napoli 2018; S.L. Vitale, Le sanzioni amministrative tra diritto nazionale e diritto europeo, Giappichelli, Torino, 2018; P. Cerbo, La nozione di sanzione amministrativa e la disciplina applicabile, in A. Cagnazzo - S. Toschei - F.F. Tuccari (a cura di), La sanzione amministrativa, Milano, 2016; Cagnazzo- Toschei, La sanzione amministrativa. Principi generali, Giappichelli, 2012.
[30] Cons. di Stato, sez. VI, 19 luglio 2021 n. 5403, punto 10.
[31]Appare appena il caso di precisare che la discrezionalità è detta “pura” quando la p.a. è tenuta ad effettuare valutazioni di opportunità e di convenienza nella scelta della misura più idonea a soddisfare le finalità pubbliche perseguite; la discrezionalità è invece definita “tecnica” quando la p.a. verifica, sulla base di canoni scientifici e tecnici, la presenza dei presupposti necessari ai fini della emanazione di un determinato atto. Sull’argomento la letteratura è ricca; fra gli altri, si rinvia a R. Villata - M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2017; G. Tropea, La discrezionalità amministrativa tra semplificazioni e liberalizzazioni, anche alla luce della legge n. 124/2015, in Dir. amm., n. 1-2/2016; B. Giliberti, Il merito amministrativo, Padova, 2013; F. Merusi, Ragionevolezza e discrezionalità amministrativa, Napoli, 2011; G.C. Spattini, Le decisioni tecniche dell'amministrazione e il sindacato giurisdizionale, in Dir. proc. amm., 2011, 133 ss.; F. Cintioli, Discrezionalità tecnica (dir. amm.), in Enc. dir., Annali, II, Milano, 2008, 484 ss.; F. Volpe, Discrezionalità tecnica e presupposti dell'atto amministrativo, in Dir. proc. amm., 2008, 791 ss.; A. Giusti, Contributo allo studio di un concetto ancora indeterminato. La discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione,Napoli, 2007; A. Travi, Il giudice amministrativo e le questioni tecnico-scientifiche: formule nuove e vecchie soluzioni, in Dir. pubbl., 2004, 439 ss.; L. Perfetti, Ancora sul sindacato giudiziale sulla discrezionalità tecnica, in Foro amm., 2000, 424 ss.
[32]Nello specifico, mentre nel caso della discrezionalità “pura” il giudice, lungi dall’ingerirsi nelle scelte di merito della p.a., può esercitare al più un controllo estrinseco sui profili di legittimità dell'azione pubblica correlati all'eccesso di potere, basandosi sulle cd. “figure sintomatiche”; in relazione alla discrezionalità tecnica egli può invece spingersi a sindacare la correttezza delle regole tecniche applicate nonché dell’iter logico seguito nel compimento della valutazione. Cfr. G. Sigismondi, Eccesso di potere e clausole generali. Modelli di sindacato sul potere pubblico e sui poteri privati a confronto, Napoli, 2012; S. Giacchetti, Discrezionalità amministrativa e controllo giudiziario nell'attuale fase evolutiva dell'ordinamento, in V. Parisio (a cura di), Potere discrezionale e controllo giudiziario, Milano, 1998, 241 ss.
[33]Da un lato, infatti, nel valutare in sede di pianificazione urbanistica se determinate opere edilizie debbano essere realizzate con intervento “diretto” (con convenzione o meno) oppure previa adozione di un “piano di lottizzazione” (o con altra tipologia di piano attuativo), il Comune compie una valutazione che non può prescindere da cognizioni e criteri di natura tecnica. Dall'altro lato, una volta esaurito l'apprezzamento dei fatti sulla base di una corretta individuazione e applicazione delle regole tecnico-specialistiche di settore, l'ente locale resta libero di individuare il tipo di intervento più opportuno per il miglior perseguimento dell'interesse pubblico. In questo senso, v. T.A.R. Piemonte, Sez. II, 9 maggio 2014 n. 821; T.A.R. Basilicata, Sez. I, 7 dicembre 2017 n. 758.
[34] Peraltro, la categoria concettuale della “discrezionalità mista” è stata espressamente riconosciuta anche dal Consiglio di Stato, Sez. VI, 30 giugno 2011 n. 3884; Sez. VI, 25 febbraio 2013 n. 1129.
[35] La pianificazione urbanistica sarebbe oggetto di una discrezionalità “peculiare”, individuata nella comparazione e ponderazione di interessi localizzati sul territorio ed avrebbe come destinatari una pluralità indefinita di soggetti. In questo senso, cfr. S. Civitarese - P. Urbani, Diritto urbanistico. Organizzazione e rapporti, Giappichelli, 2020; G. Pagliari, Manuale di diritto urbanistico, Giuffrè, 2019; G. Mengoli, Manuale di diritto urbanistico, Giuffrè, 2014; G. Cartei, La disciplina dei vincoli paesaggistici: regime dei beni ed esercizio della funzione amministrativa, in Urbanistica e Paesaggio, a cura di G. Cugurra, E. Ferrari, G. Pagliari, Napoli, 2005.
[36] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 3 luglio 2018 n. 4071; Id. Sez. IV, 16 febbraio 2018 n. 991; Id., 18 agosto 2017 n. 4033; T.A.R. Sicilia, Sez. I, 21 agosto 2018 n. 1722; T.A.R. Sardegna, Sez. II, 26 settembre 2017 n. 593; Cons. Stato, Sez. IV, 11 ottobre 2017 n. 4707. In dottrina, cfr. P. Lombardi, Il Governo del Territorio tra politica e amministrazione, Milano, 2012; G. Scoca, La discrezionalità nel pensiero di Giannini e nella dottrina successiva, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000.
Processo penale e accertamento della causalità agli effetti civili
di Aniello Nappi
1. Con la sentenza n. 182 del 2021 la Corte costituzionale, nel dichiarare infondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 578 c.p.p., ha affermato che il giudice dell’impugnazione penale, quando deve pronunciarsi sull’azione civile in presenza di un’estinzione del reato per prescrizione o amnistia, «non accerta la causalità penalistica che lega la condotta (azione od omissione) all'evento in base alla regola dell'”alto grado di probabilità logica” (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 10 luglio-11 settembre 2002, n. 30328). Per l'illecito civile vale, invece, il criterio del "più probabile che non" o della "probabilità prevalente" che consente di ritenere adeguatamente dimostrata (e dunque processualmente provata) una determinata ipotesi fattuale se essa, avuto riguardo ai complessivi risultati delle prove dichiarative e documentali, appare più probabile di ogni altra ipotesi e in particolare dell'ipotesi contraria (in tal senso è la giurisprudenza a partire da Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 11 gennaio 2008, n. 576, n. 581, n. 582 e n. 584)».
In realtà non v’è alcun dubbio che lo standard probatorio richiesto nel processo penale per l’accoglimento della domanda del pubblico ministero sia più elevato di quello richiesto nel processo civile per l’accoglimento della domanda dell’attore. Del resto è anche in questa prospettiva che l’art. 193 c.p.p. esclude l’applicazione nel processo penale dei «limiti di prova stabiliti dalle leggi civili, eccettuati quelli che riguardano lo stato di famiglia e di cittadinanza».
Tuttavia la giurisprudenza civile, inclusa quella evocata dalla Corte costituzionale, è concorde nel senso che anche ai fini della «responsabilità civile aquiliana, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili» (Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576, m. 600899, Cass., sez. III, 11 maggio 2009, n. 10741, m. 608391, Cass., sez. III, 8 luglio 2010, n. 16123, m. 613967). Sicché, «fermo restando il diverso regime probatorio tra il processo penale, ove vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio", e quello civile, in cui opera la regola della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non", lo standard di cd. certezza probabilistica in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla cd. probabilità quantitativa della frequenza di un evento, che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato, secondo la cd. probabilità logica, nell'ambito degli elementi di conferma, e, nel contempo, nell'esclusione di quelli alternativi, disponibili in relazione al caso concreto» (Cass., sez. L, 3 gennaio 2017, n. 47, m. 642263, Cass., sez. I, 30 giugno 2021, n. 18584, m. 661816).
Occorre dunque tener ben distinto il problema della dimensione logica della causalità, identica per la responsabilità sia civile sia penale, da quello dei diversi standard probatori richiesti per il suo accertamento: standard che riguardano la prova non solo del fatto causante e del fatto causato, ma anche della cosiddetta legge di copertura, il criterio di inferenza e di giudizio che permette di affermare che fu proprio il supposto fatto causante a produrre il fatto dannoso, l'evento indesiderato.
Il problema dell’accertamento solo probabilistico, anziché al di là di ogni ragionevole dubbio, può riguardare dunque l'esistenza della legge di copertura, non può riguardare il contenuto e la portata di questa legge, che deve valere sempre in termini di condizionalità necessaria, se si vuole parlare correttamente di causalità, rimanendo fedeli alla evocata teoria condizionalistica.
Come si è ben chiarito in dottrina, «un enunciato che connette due fatti in termini di probabilità, affermando che l’esistenza dell’uno rende probabile l’esistenza dell’altro, non è equivalente ad un enunciato che connette due fatti affermando che uno è causa dell’altro» (M. TARUFFO, La prova del nesso causale, in Riv. crit. dir. priv., 2006, p. 101 e s.). La teoria condizionalistica, in quanto definizione logica della causalità, spiega appunto qual è l’uso corretto del concetto di causa: un fatto che non sia condizione necessaria di un evento non ne può essere considerato causa; e il rapporto di condizionalità necessaria può essere enunciato solo sulla base di una legge di copertura generale o quasi generale (M. TARUFFO, La prova del nesso causale, in Riv. crit. dir. priv., 2006, p. 101 e s.).
Nel processo penale l’esistenza della legge di copertura deve essere dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio; nel processo civile può essere ritenuta sufficiente anche la dimostrazione in termini solo probabilistici di una legge di copertura pur sempre formulata in termini generali, perché ad esempio fondata su una teoria scientifica ancora controversa.
2. Questa conclusione ha importanti conseguenze quando occorra accertare il nesso di causalità ai fini del riconoscimento della responsabilità civile nell’ambito o nel seguito di un processo penale.
2.1. Nel giudizio penale di primo grado non è possibile scindere l’accertamento della responsabilità civile dall’accertamento della responsabilità penale, perché l’art. 538 c.p.p. prevede che solo quando pronuncia sentenza di condanna il giudice penale può decidere sulla domanda per le restituzioni e per il risarcimento del danno. Quando pronuncia sentenza di assoluzione o di proscioglimento, il giudice penale di primo grado non può riconoscere la responsabilità civile neppure nei casi in cui l’esclusione della responsabilità penale non lo precluderebbe.
2.2. Secondo l’interpretazione ribadita dalla Corte costituzionale nella stessa sentenza n. 182 del 2021, anche nei giudizi di impugnazione penale promossi ai soli fini civili l’accertamento della responsabilità civile non è scindibile dall’accertamento della responsabilità penale, cui il giudice deve sempre procedere indipendentemente dalla possibile efficacia extrapenale della sentenza di proscioglimento impugnata, perché l'art. 576 c.p.p. non distingue tra le formule di proscioglimento che ammettono l'impugnazione. Infatti, nel prevedere l'impugnazione ai soli effetti civili della sentenza di proscioglimento, l'art. 576 c.p.p esclude certamente la possibilità che la parte civile ottenga in appello una condanna penale in sostituzione del proscioglimento deciso dal giudice di primo grado, ma riconosce la possibilità che la domanda civile venga accolta con una naturale pronuncia di condanna alle restituzioni o al risarcimento del danno: anche quando il giudice dell’impugnazione debba dichiarare l’estinzione del reato (Cass., sez. III, 18 ottobre 2016, Sdolzini, m. 268894); e anche quando l’estinzione fosse stata dichiarata o confermata con la sentenza impugnata (Cass., sez. un., 28 marzo 2019, Massaria, m. 275953).
Insomma, secondo quanto prevede l’art. 576 c.p.p., la parte civile è legittimata a impugnare la decisione che ne abbia rigettato le conclusioni, indipendentemente dall’efficacia che quella decisione possa avere nel giudizio civile (C. cost., n. 176/2019). Era con il codice abrogato che, in mancanza di una norma come l’attuale art. 576 c.p.p., la Corte costituzionale aveva riconosciuto alla parte civile il diritto di ricorrere per cassazione a norma dell’art. 111 Cost., se la decisione poteva pregiudicarne la difesa nel giudizio civile. Con il codice vigente l’interesse a impugnare va verificato con riferimento al processo penale in corso, non con riferimento a un eventuale successivo giudizio civile, perché è l’art. 576 c.p.p., non l’art. 111 Cost., a legittimare la parte civile all’impugnazione (NAPPI, Nuova guida al codice di procedura penale, §74.2.4, www.guidanappi.it).
Sicché l’art. 576 c.p.p. deroga all’art. 538 c.p.p., perché ammette il riconoscimento della responsabilità civile benché non possa essere pronunciata condanna ai fini penali.
2.3. Analogamente prevede l’art. 578 bis c.p.p. per il caso in cui sia stata «ordinata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell'articolo 240 bis del codice penale e da altre disposizioni di legge o la confisca prevista dall'articolo 322-ter del codice penale». In questi casi infatti «il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull'impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell'imputato». La disposizione si giustifica in ragione del fatto che la confisca in casi particolari è ammessa dall’art. 240 bis e dall’art. 322 ter c.p. solo se vi sia condanna per alcuno dei reati elencati. Sicché l’art. 578 bis c.p.p. rende possibile la conferma in sede di impugnazione della confisca già disposta in primo grado, anche quando l’estinzione del reato precluda la conferma della condanna, ove venga riconosciuta la responsabilità penale dell’imputato.
Anche in questo caso v’è dunque un accertamento incidentale della responsabilità penale, non finalizzato all’irrogazione di una sanzione penale bensì alla conferma di una misura di sicurezza; come nel caso previsto dall’art. 576 c.p.p., in cui v’è un accertamento incidentale della responsabilità penale finalizzato esclusivamente al riconoscimento della responsabilità civile (C. cost., n. 176/2019, Cass., sez. III, 18 ottobre 2016, Sdolzini, m. 268894).
2.4. Secondo quanto ha chiarito la Corte costituzionale con la sentenza n. 182 del 2021, invece, nessun accertamento nemmeno incidentale della responsabilità penale è richiesto dall’art. 578 c.p.p., che legittima il giudice dell’impugnazione penale all’accertamento della sola responsabilità civile dell’imputato, quando, investito dell’impugnazione proposta contro una sentenza di condanna in primo grado o in appello, debba dichiarare non doversi procedere ai fini penali per la sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione o per amnistia.
Sicché anche l’art. 578 c.p.p., come l’art. 576 c.p.p., deroga alla norma dettata per il giudizio di primo grado dall’art. 538 c.p.p., consentendo una pronuncia sull’azione civile pur in mancanza di una pronuncia di condanna agli effetti penali. Ma mentre l’art. 576 c.p.p. esige un accertamento incidentale della responsabilità penale dell’imputato prosciolto, l’art. 578 c.p.p. esclude qualsiasi accertamento della responsabilità penale dell’imputato già condannato in primo grado.
Con l’art. 578 c.p.p. v’è dunque una scissione tra accertamento della responsabilità penale e accertamento della responsabilità civile, perché il giudice dell’impugnazione penale potrà pronunciare condanna agli effetti civili anche nel caso in cui la responsabilità penale sarebbe stata da escludere indipendentemente dall’estinzione del reato. Quel che non sarebbe mai stato possibile nel giudizio di primo grado diviene possibile nel giudizio di impugnazione, a fini di economia processuale. Ed è questa scissione del giudizio sulla responsabilità penale dal giudizio sulla responsabilità civile che rende rilevante la differenza degli standard probatori richiesti ai fini dei due diversi giudizi.
Il giudice dell’impugnazione penale, pur decidendo per il resto secondo le regole del proprio processo, dovrà dunque attenersi allo standard probatorio del processo civile. Se si tratterà del giudice d’appello, si pronuncerà sull’azione civile a norma degli art. 539 e s. c.p.p., accogliendo o rigettando nel merito la domanda della parte civile. Se si tratterà della Corte di cassazione, verificherà se la motivazione in fatto esibita dal giudice del merito sia censurabile a norma degli art. 606 e 609 c.p.p.
Ciò cui la scissione dei giudizi di responsabilità assegna rilevanza, infatti, è la differenza dei due standard probatori, che attengono ovviamente al giudizio di fatto, sul quale la Corte di cassazione ha un sindacato limitato alla motivazione.
2.5. L'art. 622 c.p.p. prevede infine che la Corte di cassazione possa disporre l'annullamento con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d'appello non solo quando l'annullamento interessi soltanto le disposizioni o i capi della sentenza riguardanti l'azione civile ma anche quando accolga il ricorso proposto ai soli effetti civili contro una sentenza di proscioglimento. E questa norma, che presuppone la possibilità di una pronuncia d'appello sulla sola domanda civile, non può essere considerata solo un «lapsus normativo», come riteneva il compianto prof. Cordero, nel presupposto che le sentenze di proscioglimento siano impugnabili dalla parte civile solo quando ne subirebbe effetti extrapenali sfavorevoli, come con il codice abrogato. L’art. 622 c.p.p. è del tutto coerente con la previsione dell’art. 576 c.p.p., così come interpretato dalla Corte costituzionale e dalle Sezioni unite della Corte di cassazione.
L’art. 622 c.p.p. prevede dunque una più radicale separazione del giudizio civile dal giudizio penale, con la conseguenza che la decisione sull’azione civile avverrà non solo sulla base del suo proprio standard probatorio ma anche in conformità alle norme del codice di procedura civile. Se con l’art. 578 c.p.p. l’accertamento della responsabilità civile è pur sempre regolato dalle norme del codice di procedura penale, benché in conformità allo standard probatorio proprio della giudizio civile, con l’art. 622 c.p.p. anche il rito dell’accertamento sarà quello civile.
È controverso se la sentenza di annullamento ex art. 622 c.p.p. abbia effetti vincolanti nel giudizio civile di rinvio, come afferma talora la giurisprudenza penale (Cass., sez. IV, 17 gennaio 2019, Borsi, m. 275266, Cass., sez. IV, 16 novembre 2018, De Santis, m. 274831), o non ne abbia, come afferma la giurisprudenza civile (Cass., sez. III, 12 giugno 2019, n. 15859, m. 654290, Cass., sez. III, 25 giugno 2019, n. 16916, m. 654433). Ma questo secondo orientamento, benché non ritenuto implausibile neppure dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 182 del 2021, non è condivisibile.
Può accadere infatti che l’annullamento ai sensi dell’art. 622 c.p.p. sia disposto perché la Corte di cassazione ha considerato inadeguata la legge di copertura esibita dal giudice penale del merito quale criterio di accertamento della causalità. La censura non riguarderebbe dunque un giudizio di fatto circa l’effettiva esistenza della legge di copertura ma un giudizio di diritto circa l’idoneità della legge di copertura ipotizzata dal giudice penale di merito. Con la conseguenza che il giudice civile di merito non potrebbe affermare, al contrario, che l’ipotizzata legge di copertura sia idonea, così violando lo stesso art. 384 c.p.c.
Come s’è detto, la giurisprudenza civile ritiene che la dimensione logica della causalità sia identica per la responsabilità civile e per la responsabilità penale, essendo regolata per entrambe le responsabilità dagli art. 40 e 41 c.p.: non si vede perché la sentenza di annullamento per violazione degli art. 40 e 41 c.p. pronunciata ai sensi dell’art. 622 c.p.p. non debba vincolare il giudice civile del rinvio.
Neoliberismo concorsuale e le svalutazioni competitive: il mercato delle regole
di Pasquale Liccardo
Sommario: 1. Premessa - 2. La semplificazione infinita - 3. Autopoietismo societario e misure protettive - 4. Conclusioni.
1. Premessa
Si propone qui un primo esame del Decreto-Legge 24 agosto 2021, n. 118 negli snodi fondativi della “composizione negoziata della crisi d’impresa” (artt. 2 e ss.) che si assume costituiscano un nuovo incipit del nostro ordinamento concorsuale, per poi evidenziarne i possibili richiami teorici e le linee ispiratrici di fondo: in tale quadro, si procede a una lettura ab externo degli istituti di nuovo conio, rimandando ad altra sede ogni analisi di dettaglio.
La Relazione al D.L. n. 118 assume a motivo dell’intervento l’emergenza Covid che imporrebbe il superamento dei meccanismi previsti dal codice della crisi, come l’allerta (sia interna che esterna) e gli strumenti di soluzione negoziata della crisi, assumendosi espressamente che la loro complessità non consentirebbe quella necessaria “gradualità nella gestione della crisi che è richiesta dalla situazione determinata dalla pandemia”, sottolineando altresì come “il rinvio dell’allerta esterna disposto con l’articolo 5, comma 14, del decreto-legge 22 marzo 2021, n. 41, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 maggio 2021, n. 69, ha inciso in maniera rilevante sul complessivo impianto delineato del Codice della crisi d’impresa privandolo di una fase sulla quale sono stati pensati e costruiti altri istituti disciplinati dallo stesso Codice, tra i quali il concordato preventivo”.
Dalla stessa Relazione emerge un intento di complessiva ricodificazione degli strumenti di governo della crisi d’ impresa in ragione dell’emergenza Covid, ulteriormente motivato dall’ impossibilità di mantenere nel medio periodo la disciplina della legge fallimentare del 1942 per l’esposizione dello Stato italiano alla procedura di infrazione per il mancato recepimento della direttiva UE 2019/1023[1] con la conseguente necessità della sua ricezione entro il 17 luglio 2022, termine questo peraltro già prorogato su richiesta inoltrata alla Commissione Europea.
Vedremo subito che la semplificazione introdotta costituisce un fragile miraggio del legislatore dell’urgenza e che ogni richiamo legittimante alle previsioni comunitarie della Direttiva UE 2019/1023 risulta sostanzialmente tradito da una riscrittura valoriale degli spazi istituzionali fino a oggi riservati anche dal CCII alle articolazioni del diritto concorsuale tanto nella fase negoziata quanto nella fase più strettamente procedurale: non senza considerare come la Commissione Rordorf avesse avuto modo di prendere visione della Proposta 0359 del 2016 che ne anticipava in massima parte le linee ispiratrici, giungendo pertanto alla codificazione di un sistema concorsuale coerente che le indicazioni operate in sede comunitaria sia dalla Direttiva n. 1132/2017 sia dalla successiva Direttiva UE Insolvency n. 1023/2019.
2. La semplificazione infinita
La composizione negoziata della crisi di impresa richiama nel suo incipit l’esperienza normativa ormai regressiva del Codice della Crisi (art. 19), con l’istanza formulata dall’imprenditore che assuma di versare in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico finanziario che rendono probabile la crisi o l’insolvenza, richiedendo la nomina di un esperto che agevoli le trattative con il ceto creditorio “ed eventuali altri soggetti interessati”, al fine di individuare una soluzione per il superamento della crisi, anche mediante il trasferimento dell’azienda o di rami di essa: rispetto alla previsione del codice della crisi. Si tratta, all’evidenza, di un’innovazione di sicuro significato concorsuale, sia perché apre alle trattative anche con eventuali altri soggetti interessati sia perché si individua come possibile oggetto delle trattative il trasferimento coattivo dell’azienda o di suoi rami (“senza gli effetti di cui all’articolo 2560, secondo comma, del codice civile”, art. 10, comma1, lett. d) ovverosia un esito del tutto estraneo alla previsione codicistica che aveva come unico esito positivo possibile la sola stipulazione di un accordo di diritto comune quand’anche avesse ad oggetto il trasferimento dell’azienda: si tratta, all’evidenza, di una trasmigrazione di significato istituzionale proprio delle sole procedure concorsuali nella fase negoziata, non previsto dalla Direttiva, riconducibile quindi ad una scelta lucidamente operata dalla Commissione anche con riferimento agli snodi successivi del concordato semplificato (art. 18).
Del pari, l’esito negativo della composizione negoziata è caratterizzato dall’assoluta irrilevanza concorsuale della archiviazione del procedimento, in quanto la relazione negativa dell’esperto o la chiusura della procedura per scadenza del lungo termine pure previsto (180 gg.) può al massimo comportare la cessazione degli effetti delle misure protettive e cautelari concesse da parte del giudice (artt. 6 e 7 dello stesso intervento riformatore), senza peraltro alcuna segnalazione al Pubblico Ministero pure prevista dall’art. 22 del CCII: sempre l’imprenditore potrà presentare nei sessanta giorni successivi un concordato per la liquidazione dei beni a norma dell’art. 18 dello stesso decreto.
Un’ultima considerazione: già nella relazione illustrativa al decreto legislativo di attuazione della legge delega 19 ottobre 2017 n. 153, l’intento di “semplificare l’attuale testo normativo, per molti aspetti troppo complicato e farraginoso” era ben presente e opportunamente considerato dalla Commissione, proponendosi una riarticolazione valoriale degli istituti della composizione negoziale della crisi e delle procedure minori tutta protesa alla tempestiva emersione e al consapevole governo della crisi imprenditoriale.
Ben altri dovevano essere gli interventi rivolti alla semplificazione reale del conflitto da insolvenza, quali ad esempio individuati dalla stessa legge delega del 2017 nel farraginoso sistema dei privilegi generali e speciali e nella ricostruzione del capitale semantico della giuridicità concorsuale per il tramite di un sistema informativo concorsuale votato alla contestualizzazione dell’azione esercitata da ogni attore sociale nel conflitto.
La sola idea della semplificazione non può pertanto sorreggere le ragioni dell’intervento riformatore proposto in via d’urgenza con la normativa in esame, che va pertanto correttamente ricondotto alle teorie di deregulation neoliberista del diritto fallimentare d’oltre oceano[2] ormai superate dopo la crisi finanziaria del 2008 e i danni collaterali prodotti sul sistema economico mondiale.
3. Autopoietismo societario e misure protettive
Gli elementi di maggiore novità che è dato cogliere ad una prima lettura, sia sotto il profilo del diritto commerciale che del diritto concorsuale, sono delineati negli artt. 6 - 9 dell’intervento riformatore.
E invero, all’art. 8 si prevede espressamente che l’imprenditore possa dichiarare che “dalla pubblicazione dell’istanza sino alla conclusione delle trattative o alla sua archiviazione, non si applicano gli artt. 2446, secondo e terzo comma, secondo e terzo comma, 2447, 2482-bis, quarto, quinto e sesto comma e 2482-ter del codice civile, e la non operatività della causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, primo comma, n. 4), e 2545-duodecies del codice civile. Su istanza del debitore, il provvedimento può essere pubblicato nel registro delle imprese”.
Pur nel presente quadro emergenziale[3], appaiono evidenti i motivi di perplessità insiti nella previsione in esame, laddove si considerino anche i limiti posti alla sterilizzazione delle perdite dalla normativa Covid (esercizio 2020) e al presidio codicistico costituito dalla normativa in tema di redazione ed approvazione del bilancio.
La novità proposta è nell’autopoietismo della sospensione degli istituti di diritto societario sopra richiamati, con l’iscrizione del loro regime all’interno delle misure protettive, laddove nel codice della crisi la sospensione costituiva una delle misure protettive della composizione assistita che andava concessa dal giudice (art. 20, comma 4°).
La previsione non è imposta dall’attuazione della Direttiva che lascia agli Stati membri ampio margine di manovra[4] .
Non si tratta solo della scelta autonomamente proposta dal legislatore del DL 118, della disattivazione delle regola “ricapitalizza o liquida” del diritto societario quanto piuttosto della sostituzione alla normativa presidiale sia societaria che concorsuale, di un potere di gestione quanto mai ampio dell’imprenditore in crisi che conserva la gestione ordinaria e straordinaria dell’impresa (art. 9) senza alcun tendenziale obbligo conservativo ordinariamente previsto dall’art 2486 c.c.: nella sola ipotesi in cui l’imprenditore ritenga probabile l’insolvenza, la sua gestione deve evitare la realizzazione di un pregiudizio alla sostenibilità economico finanziaria dell’attività, concetto anche questo di nuovo conio e di assoluta elasticità descrizionale. La sostenibilità economica non è oggetto di definizione né nel CCII, né nei documenti dei DDCC, né nella letteratura economico aziendale: cosicché esso può essere inteso come redditività, efficienza, economicità, riequilibrio, condizione economica di equilibrio prospettica, e quindi richiamare parametri valutativi diversificati, come tali privi di ogni ancoraggio concettuale ed operativo ai fini della loro successiva valutazione di coerenza.
Né può dirsi che la previsione in esame sia frutto della ricezione della normativa comunitaria in quanto l’art 5 della Direttiva prevede espressamente che “ Gli stati membri provvedono affinché il debitore che accede alla procedure di ristrutturazione preventiva mantenga il controllo totale o parziale dei suoi attivi e della gestione corrente dell’impresa”, consentendo pertanto agli stati membri : i) di prevedere comunque forme di controllo sugli attivi ; ii) di ribadire e di rafforzare la vigenza dei criteri di generale presidio societario previsti dal codice civile all’art 2486 c.c., in coerenza con quanto la letteratura aziendale ha evidenziato sulla necessità di arginare i rischi di moral hazard nelle crisi economiche[5].
Il mutamento di paradigma rispetto alla previsione codicistica dell’art 2486 c.c. è evidente, laddove al valore presidiale insito nella “conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale”, si sostituisce il ben più indeterminato paradigma della sostenibilità economico finanziaria dell’impresa su cui successivamente innescare le valutazioni invero minori di cui all’art. 12, comma 4, dell’intervento in esame. A motivo quasi di beffa concorsuale, si afferma che “nelle ipotesi disciplinate dai commi 1, 2 e 3 resta ferma la responsabilità dell’imprenditore per gli atti compiuti”, ben sapendo che: i) il perimetro valutativo delle scelte sarà assicurato dalla semplice sostenibilità economico finanziaria, parametro questo ben diverso rispetto alla più estesa business judgement rule conservativa operante ex art. 2486 c.c. su cui ormai esiste un diritto vivente fortemente articolato per indicazioni teoriche e massime giurisdizionali[6]; ii) l’aggressione concorsuale per il tramite delle azioni espletate dalle curatele fallimentari non vale ad operare se non una minima reintegrazione del danno arrecato alla massa dei creditori, come è di notoria evidenza a tutti gli operatori del settore nei procedimenti in essere che raramente riescono a soddisfare i primi privilegiati.
Il cambio di passo appare invero notevole e altrettanto irragionevole in quanto contrariamente ad ogni principio di diritto societario, in una fase di (solamente) probabile crisi o insolvenza (art. 2), si demanda la vigenza presidiale degli istituti in esame alla semplice scelta del soggetto onerato, senza alcun vaglio selettivo degli interessi lesi dalla loro sospensione, vaglio che pure fino a pochi mesi addietro, all’atto della stesura del codice della crisi andava operata dal giudice nel corso del procedimento di composizione assistita della crisi ( art. 20 ): non senza ricordare come l’automatismo della loro introduzione veniva opportunamente riservato alle sole procedure concorsuali minori ( id est. domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione ex art. 64 CCII e domanda di concordato preventivo ex art. 89) nelle quali il presidio ordinario degli interessi tutelati dalla disciplina di diritto comune era comunque assicurato dal perimetro di operatività delle stesse procedure, con gli strumenti di intervento propri delle tecniche autorizzative e di controllo andamentale. La trasmigrazione di significato istituzionale è evidente.
Del pari, lo stesso imprenditore può richiedere l’adozione di ulteriori misure protettive e di provvedimenti cautelari necessari per condurre a termine le trattative ( art. 7 ), demandandosi al giudice la conferma, modifica e revoca delle misure protettive e la concessione della misure cautelari.
Il CCII operava una netta distinzione tra misure protettive e misure cautelari, in quanto alle prime demandava la sola funzione di evitare il pregiudizio alle trattative potenzialmente insito nell’azione promossa dei creditori, laddove le misure cautelari erano solo “ i provvedimenti cautelari emessi dal giudice competente a tutela del patrimonio e dell'impresa del debitore che appaiano secondo le circostanze più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti delle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza” ( art 2 CCII) .[7]
A norma dell’art 7, 4° comma, le misure protettive e le misure cautelari richieste dall’imprenditore possono incidere sui diritti di terzi, richiedendo pertanto la instaurazione del contraddittorio.
Nulla si dice sulle misure cautelari richieste e se del caso ottenute dal ceto creditorio a norma dell’art 15, 8° comma che la sospensione del procedimento di fallimento, dovrebbe comunque vanificare ex nunc; e nulla si dice sulle misure cautelari che possono essere richieste dai creditori nel tempo della negoziazione in quanto la previsione normativa non li legittima ad alcuna misura cautelare in danno nella fase, qualunque sia la condotta dell’imprenditore anche in frode : il contenuto unico della fase negoziale sotto il profilo cautelare è unilateralmente determinato dallo stesso imprenditore che potrà richiedere in danno dei terzi creditori, i provvedimenti necessari alle trattative unilateralmente introdotte, pur in presenza di un conclamato stato di dissesto e del danno già irrimediabilmente patito dalle controparti. Del resto è indicativo che solo nel concordato semplificato ( art 18, 8° comma ) e non nella fase di composizione negoziata della crisi, si opera un rimando in quanto compatibile ad una serie di disposizioni del concordato ordinario tra cui l’art 173 l fall, richiamo del tutto tardivo ed improduttivo in quanto l’indeterminatezza dei criteri di riferimento gestionale della fase negoziata riduce ogni spazio di operatività alla nozione di frode.
La velocità olimpionica (10 giorni per la fissazione dell’udienza) e telematica ( per videoconferenza) prevista dalla riforma per la conferma, modifica e revoca delle misure protettive si scontrerà con il numero delle procedure esecutive e delle istruttorie prefallimentari in essere presso ogni ufficio giudiziario, innescando una moltiplicazione numerica delle istanze di accesso al procedimento di composizione negoziata anche a procedure esecutive e prefallimentari in essere ( non potendosi emettere sentenze di fallimento fino alla conclusione delle trattative, art. 6, comma 4 ) per la sola circostanza che consente una complessiva restaurazione dei poteri gestionali ordinari e straordinari in capo all’imprenditore per un tempo estremamente ampio ( che può giungere fino a 240 gg., art. 7, 5 comma ) normalmente negata nelle procedure esecutive e concorsuali.
Il tempo del mercato assume così una dimensione rilevante, ordinariamente superiore per un bimestre alla previsione del CCII ( art 19, 1° comma), tempo che sarà raramente interrotto dal possibile parere negativo di un esperto in quanto parere insignificante perché apre alla semplice archiviazione della composizione negoziata: la storica fragilità del tessuto produttivo delle PMI come censita dalla diffusa analisi economica proposta fin dagli anni 90[8] e le necessità insite nel governo concorsuale del consolidamento di dinamiche imprenditoriali all’altezza delle sfide dei mercati globalizzati risultano pertanto oscurate in favore di un ritorno al passato grave ed immotivato.
Ma occorre dire altro: le “misure protettive” previste dall’art 6, al 5° comma espressamente prevedono una diversa ed ulteriore misura protettiva, in quanto i creditori interessati dalle misure protettive (ovverosia potenzialmente tutti) “non possono unilateralmente rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti o provocarne la risoluzione , né anticiparne la scadenza o modificarli in danno dell’imprenditore per il solo fatto del mancato pagamento dei loro crediti” (art 6, 5 comma) .
La disposizione in esame riproduce quanto previsto dalla Direttiva (art. 7, Conseguenze della sospensione delle azioni esecutive individuali) che peraltro demandava agli Stati membri la scelta tra contratti pendenti essenziali (di cui peraltro offriva una definizione abbastanza precisa) o contratti non essenziali, scelta non operata dal legislatore della riforma che conferisce alla gestione imprenditoriale una ampiezza invasiva della posizione dei terzi contraenti mai prima riscontrata.
Ad un primo esame, appare corretto assumere che si tratti di una misura protettiva di diritto sostanziale di nuovo conio, come tale – al pari delle altre misure protettive – autopoietica, capace di anestetizzare gli strumenti di tutela ed autotutela contrattuale di diritto comune (artt. 1186 e 1460 c.c.) quand’anche contrattualmente previste (cc.dd. clausole ipso facto): in quanto misura di diritto sostanziale, non è devolvibile in conferma, modifica o revoca da parte del Tribunale assistendo l’imprenditore per tutto il tempo necessario alle trattative dallo stesso unilateralmente introdotte (dai 120 ai 240 gg) ; in altri termini, dalla lettura della norma, l’imprenditore in probabile crisi per la sola formulazione dell’istanza di negoziazione, ha diritto di richiedere anche in via cautelare, ove necessario, l’adempimento dei contratti in essere senza che le controparti possano opporre il precedente inadempimento e senza avere alcuna garanzia di adempimento futuro se non nella certificazione rilasciata a norma del comma 2, lett.e) sulla risanabilità della impresa, quand’anche onerosa e altamente rischiosa per le controparti[9].
Del pari, colpisce la collocazione operata dal legislatore della riforma, all’interno delle misure protettive laddove la Direttiva opportunamente ne prevedeva l’introduzione all’art 7, comma 4° , come “Conseguenza della sospensione delle azioni esecutive individuali”.
La ricezione della previsione europea doveva pertanto essere più cauta, usufruendo: i) della distinzione tra contratti essenziali e non essenziali all’esercizio dell’impresa, importante per definire un perimetro quantomai delimitato alla misura, altrimenti rimessa al semplice arbitrio del ricorrente esercitabile su un numero ampio ed indeterminato di contratti; ii) della previsione per la quale è consentito agli stati membri di “conferire a tali creditori adeguate garanzie per evitare che subiscano un ingiusto pregiudizio in conseguenza di tale comma”, garanzie non riconducibili alla salvifica ed inutile prededuzione.
La norma andrà necessariamente costituzionalizzata in sede applicativa in relazione : i) alle condotte concretamente realizzate dalle parti in corso di rapporto (ad es., acquisto di beni di rilevante valore economico poco prima del deposito dell’ istanza di composizione negoziata) ; ii) alla posizione contrattuale delle singole controparti, essendo evidente la distanza, anche di posizione costituzionale, esistente tra la grande Utility e il piccolo artigiano, chiamati entrambi allo stesso sostegno alla attività di composizione negoziata della crisi con ben diversi riflessi sulla sostenibilità della propria impresa. Altrimenti intesa, nella forma generalizzata recepita, si tratta di una sorta di esecuzione forzosa dei contratti propria delle economie di guerra, mai prima conosciuta dal nostro ordinamento civile e concorsuale, non ricercata dalla stessa direttiva che evidentemente mirava ad assicurare un sostegno alle sole ipotesi ragionevoli di composizione della crisi , non semplicemente autocertificate. Né la possibilità di anticipata revoca da parte del giudice delle misure protettive e cautelari art. 7, comma 6°), varrà a reintegrare le parti nella lesione da loro inutilmente patita, per quanto forzosamente assicurato al risanamento.
È del pari previsto che “l’esperto possa invitare le parti rideterminare seconda buonafede, il contenuto dei contrati ad esecuzione continuata o periodica, ovvero ad esecuzione differita, se la prestazione è divenuta eccessivamente onerosa per effetto della pandemia SARS-Cov. (art. 10, comma 2°), salva rideterminazione iussu iudicis, dovendo ritenersi che l’eccessiva onerosità oggetto di considerazione da parte dell’esperto, sia solo quella dell’imprenditore in negoziazione e non quella della controparte.
Ma occorre dire altro: è facile ritenere che un’impresa abbia un numero piuttosto elevato di contratti in essere per le quali possa operare la misura protettiva in esame. In caso di inadempimento generalizzato delle controparti, dovrà intervenire il giudice a garantire in via cautelare, il rispetto della regola posta, sentendo i terzi incisi dalla misura protettiva in esame: il miraggio della semplificazione introduce il suo opposto, ovverosia la moltiplicazione dei procedimenti, innestando fenomeni di opportunismo processuale mai troppo deprecati .
Nel merito ulteriore, non è dato comprendere il valore assegnato alla dichiarazione avente valore di autocertificazione, della sanabilità della impresa sulla base di criteri di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’ art 7, lett d): si introduce così una nuova autocertificazione (non attestazione, si noti) estranea al tessuto linguistico vigente[10], non richiamata dall’art. 236 bis l. fall., come tale penalmente irrilevante, mirandosi per tale via alla consapevole reintroduzione di aree di impunità di cui si era evidenziata l’ assoluta gravità all’atto della emanazione dell’art 236 bis l. fall. operata in via d’urgenza nel 2012[11] allorquando il fenomeno epidemico delle facili attestazioni aveva assunto rilevanza gravemente lesiva dell’ordinamento concorsuale.
L’evanescenza dei criteri direttivi della gestione imprenditoriale nella fase è del pari evidente laddove si pone a carico dell’imprenditore la sola comunicazione all’esperto degli atti di straordinaria amministrazione e dei pagamenti eseguiti che (sempre a suo insindacabile giudizio) “non siano coerenti rispetto alle trattative o alle prospettive di risanamento”: a fronte di tali atti incoerenti, l’esperto potrà solo manifestare il proprio dissenso all’imprenditore medesimo e all’organo di controllo, senza alcun effetto sull’atto laddove concluso, se non quello connesso all’ iscrizione del proprio dissenso nel registro delle imprese. L’incoerenza degli atti oscura la frode, mai censita dal legislatore del DL 118, ben presente invece nel codice della crisi (art. 20, 5° comma): due visioni del mondo si susseguono a breve distanza di tempo, in una traslazione valoriale raramente conosciuta dal nostro ordinamento nei termini indicati.
Come si vede, la crisi non costituisce motivo di arginamento dei poteri dell’imprenditore, nella funzionalizzazione doverosa prevista dal codice civile ex art. 2486 c.c., aprendo così la strada all’opportunismo concorsuale da sempre criticato dalla migliore scienza aziendale[12].
La semplice apertura di un procedura di composizione assistita restaura per intero, i poteri gestionali dell’imprenditore cui è rimessa in via esclusiva la scelta della segnalazione delle operazioni e dei pagamenti ritenuti incoerenti, innescando l’ inedito meccanismo di sterilizzazione della loro rilevanza concorsuale e della loro valenza penale predisposto dall’art 12 del decreto in esame: non sono soggetti a revocatoria di cui all’art 67 gli atti di gestione ordinaria compiuti dopo l’accettazione dell’esperto “ purché coerenti con l’andamento delle trattative e nella prospettiva del risanamento dell’impresa valutata dall’esperto ai sensi dell’art 5, comma 5”, essendo assoggettabili solo gli atti di straordinaria amministrazione e i pagamenti operati successivamente alla accettazione dell’incarico per i quali l’esperto abbia manifestato il proprio dissenso ovvero il tribunale abbia rigettato la propria autorizzazione nei limitati casi in cui la stessa è necessaria ai sensi dell’art 10, 1° comma .
Regime analogo è previsto dall’art 12, 5° comma per l’esenzione penale quanto alle disposizioni di cui all’art 216 terzo comma e 217 l. fall., esenzione assicurata per ogni operazione compiuta dall’imprenditore successivamente alla nomina dell’esperto, quand’anche oggetto di riserva da parte dell’esperto.
Rispetto alla esenzione prevista dalla legge fallimentare (artt. 67 e 217 bis l. fall.) il mutamento di regime è evidente in quanto in luogo della relazione di necessaria derivazione esecutiva tra atto e piano attestato, concordato o accordo di ristrutturazione, si sostituisce la ben più ampia ed indeterminata nozione di coerenza momentanea dell’attività realizzata rispetto alle trattive in corso e alle prospettive di risanamento, paradigma questo ben diverso rispetto alla razionalità programmatica del piano presente in tutte le procedure minori. Si amplia così, indiscriminatamente l’area dell’irrilevanza concorsuale e della esenzione penale delle condotte realizzate dall’imprenditore in crisi: non a giudizio degli organi della procedura instaurata nel paradigma costitutivo delle procedure concorsuali come pure articolato nello statuto revocatorio previsto dall’art. 67, comma 3° lett.d) ed e) l. fall. e 166, comma 3° lett. d ed e) CCII; non a giudizio del giudice penale nella valutazione di derivazione esecutiva tra atto e attestazione, accordo di ristrutturazione e concordato; ma a giudizio dell’esperto, interprete momentaneo della crisi d’impresa cui viene demandata un’elastica ed indeterminata valutazione di coerenza temporale (cfr. art. 12 5° comma. 9).
La trasmigrazione di significato istituzionale è anche qui evidente, soprattutto laddove si consideri il contesto di riferimento pan-contrattualistico nel quale l’esperto è chiamato ad operare, la debolezza di parametri valutativi sopra richiamati, l’assenza di presidio istituzionale all’atto della chiusura della fase, l’irrilevanza di ogni riserva sulla validità ed efficacia degli atti compiuti.
In altri termini, gli esiti e le valutazioni degli organi della procedura quanto a reintegrazione dell’attivo e ad esercizio dell’azione penale dipenderanno per la loro stessa formulazione, dal giudizio eventualmente formulato dall’esperto, rimettendosi allo stesso, al di fuori di ogni presidio della giuridicità concorsuale, il valore e la consistenza della tutela assicurata anche in sede penale, dalla procedura concorsuale successivamente instaurata: il valore sociale della procedura instaurata dipenderà quindi da chi sia stato chiamato ad assolvere al ruolo di esperto che privo di ogni potere di interlocuzione e segnalazione all’autorità giudiziaria (cfr. art 9, commi 4 e 5), dovrà decidere nella sua solitudine onnipotente, il futuro concorsuale delle procedure instaurate quanto a reintegrazione degli attivi e a rilevanza penale delle condotte. E quanto questa solitudine onnipotente sia in contrasto con i principi costituzionali non risulta in alcun modo vagliato, anzi silenziosamente e consapevolmente eluso.
Del resto, che si voglia in ogni modo depotenziare il sistema concorsuale delle tutele predisposte oggi dalla legge fallimentare e dal codice della crisi appare del tutto evidente laddove si limitano gli atti di intervento autorizzativo del Tribunale (art. 10) ai soli finanziamenti di terzi e di soci in prededuzione (art. 10, comma 1°, lett. a) ,b) e c) ) e alla vendita coattiva dell’azienda o di suoi rami (senza gli effetti dell’art 2560 c.c., secondo comma), senza alcuna possibilità di interruzione per “atti di frode” realizzati per la fase di composizione, interruzione invece pure prevista dall’art 20 comma 4° CCII.
Anche qui il depotenziamento concorsuale della relazione con il mercato nella vendita dell’azienda o di suoi rami appare evidente: la lunga stagione delle autorizzazioni alle vendite competitive in corso di concordato che si era istaurata in forza dell’intervento normativo pure operato nel 2015[13] con il consenso unanime dello stesso ceto imprenditoriale in ragione degli evidenti effetti distorsivi insiti nelle gestione liquidatoria dei concordati cc.dd .chiusi volge al tramonto in ragione della restaurazione operata in favore della piena titolarità della relazione con il mercato riconosciuta in capo all’imprenditore e alle modalità dallo stesso prescelte per la valorizzazione dei beni e per l’instaurazione della relazione con il mercato, ampliando così immotivatamente l’area degli opportunismi liquidatori che si era opportunamente arginata.
Del resto, gli esiti semplificati della fase negoziale (art. 11) sono indicativi dell’intento di semplificazione neoliberista perseguito: la relazione dell’esperto a fondamento dell’accordo per la continuità biennale (art 11, 1° comma lett. a), ovvero la moratoria (art. 11 lett. b) , gli accordi attestanti (art.11, lett. c) avranno poco spazio di azione, come dimostra ad una mera indagine numerica, la storia recente dei piani attestati e degli accordi di ristrutturazione, laddove si vuole assicurare nuova centralità ad un nuova forma di concordato. La reintroduzione del concordato semplificato costituisce l’ultima evidenza dell’operazione di complessiva restaurazione neoliberista delle procedure concorsuali proposta con il decreto in quanto: i) depotenzia nuovamente ogni meccanismo partecipativo dell’adunanza - che pure si era visto reintegrato nel proprio valore decisionale dalla modifica dell’art 178 l. fall. operata solo nel 2015 - in favore della logica binaria della opposizione, tanto deprecata per l’allocazione sul ceto creditorio di costi ulteriori rispetto alle perdite già maturate: il silenzio è quantomeno non costa nulla; ii) il sistema processuale che presidiava la ricostruzione della cause e circostanze del dissesto risulta per intero eluso, cosicché non sono consentite valutazioni aventi ad oggetto la storia dell’impresa insolvente, le ragioni del suo dissesto, il valore delle condotte osservate dall’imprenditore al manifestarsi della crisi; iii) ogni limite valoriale alla soddisfazione del ceto creditorio risulta significativamente omesso, superato nel semplicismo valutativo dell’assenza di pregiudizio (art 18, 5° comma) rispetto alla liquidazione fallimentare che, si noti, potrà essere unilateralmente svuotata dallo stesso esperto con il suo silenzio quanto a condotte poste in essere dall’imprenditore nella fase di negoziazione.
Il ruolo preponderante dell’esperto rispetto all’ausiliario nominato dal Tribunale testimonia anche qui, una trasmigrazione di significato istituzionale quale declassamento valoriale dell’azione giudiziaria: si potranno formulare proposte concordatarie al massimo ribasso con buona pace di ogni valore sociale sotteso alle istituzioni della giuridicità concorsuale; e si potrà dare corso alle vendite preconfezionate a norma dell’art 19 D.L. 118, “verificata l’assenza di soluzioni migliori sul mercato”, interrompendo ogni processo di veridizione del mercato insito negli esperimenti di vendita previsti dagli artt. 163 bis e 182 L fall.
Il mercato delle soluzioni “migliori” si sostituisce agli esperimenti di vendita e alla selezione quantitativa delle offerte: la soluzione negoziata della crisi, a differenza del codice della crisi, invade il sistema concorsuale pubblico appropriandosi di suoi istituti esclusivi e anestetizzando ogni sua propensione alla giuridificazione concreta dell’economico.
Si tratta, nell’intento del legislatore del D.L. 118, di una procedura onnivora in quanto sostituirà tendenzialmente ogni altro strumento concorsuale, perché: i) rispetto al sistema responsabilizzante dei piani e delle attestazioni proprio delle procedure concorsuali minori, consentirà un margine tendenzialmente illimitato di azione e di indirizzo nella fase, selezionando unilateralmente gli interlocutori e riabilitando logiche opportunistiche d’azione, impossibili nella gestione ordinaria e straordinaria dell’impresa ad es. in concordato; ii) assicura un vantaggio competitivo alla negoziazione rispetto alla introduzione diretta delle procedure minori che saranno chiamate a recepirne acriticamente il risultato in quanto mai incardinate per intero per qualità delle informazioni censite per stime operate, per storia del dissesto analizzata, per ricomposizione analitica del ceto creditorio interessato, per rilevanza delle funzioni assolte dagli organi della procedura, degradati alle funzioni di mero ausilio del giudice.
Un’ultima annotazione: si provvede opportunamente ad una determinazione per fasce del compenso dovuto all’esperto, stabilendo altresì un tetto massimo e facendo peraltro gravare sullo stesso ogni onere professionale ulteriore per ausiliari dallo stesso nominati, senza peraltro che si operi una altrettanta opportuna e doverosa parametrazione dei compensi dovuti ai professionisti che assistono l’imprenditore, cui viceversa viene lasciato una libertà illimitata di incarico e di spesa, rilevante per la massa dei creditori quand’anche privilegiato nel successivo concorso, Eppure ai tavoli internazionali, l’Italia era additata come uno dei paesi più dispendiosi per i costi professionali esterni delle procedure concorsuali : un semplice report delle procedure concorsuali maggiori e medie operato dal Ministero con richiesta agli uffici giudiziari consentirebbe di censire il costo e di intervenire opportunamente anche su tale fronte.
Non senza evidenziare come l’intervento riformatore consente al tribunale la nomina di un semplice ausiliario ex art 68 c.p.c. tanto nella fase di composizione negoziale della crisi che nel successivo concordato semplificato, spostando pertanto tutto il valore delle professioni concorsuali fuori degli uffici giudiziari. Anche questo depotenziamento professionale costituisce un dato di assoluta rilevanza sistemica che andava considerato, in un quadro teorico che sempre più ha riscoperto ed attualizzato la tutela regolatoria delle istituzioni della giuridicità facendo propri i richiami dell’economia istituzionale.[14]
4. Conclusioni
In esito a queste prime note, appare invero evidente il tentativo di superare una stagione concorsuale precedente che aveva dato ingresso ad un riposizionamento strategico delle istituzioni della giuridicità concorsuale quantomai ampio e condiviso, i cui risultati erano rifluiti nel codice della crisi. Si tratta in tutta evidenza, di un’operazione di complessivo riposizionamento di istituti propri della concorsualità minore fuori dalle istituzioni della giuridicità concorsuale senza alcun limite intrinseco e controllo ab externo, cosicché a differenza che nel codice della crisi, dopo la composizione dispositiva della crisi qualunque ne sia l’esito, alle istituzioni della concorsualità non resterà che una formale presa d’atto di quanto aliunde realizzato: la forma dell’acqua[15], ovverosia la forma che l’acqua assume a seconda del contenitore in cui è versata. Non senza considerare che la negoziazione può essere propulsiva solo se coerentemente decifrata e delimitata, in quanto “la dinamica del contratto non può colmare l’asimmetria informativa connaturata a ogni rapporto economico, al contrario tende a formalizzarla”[16].
Si tratta di una nuova ed estremistica formulazione del neoliberismo concorsuale che non assume a paradigma costitutivo l’impresa come delineata dall’art 3 del codice della crisi, coerente con uno scenario internazionale nel quale l’impresa stessa è chiamata costantemente alla riformulazione delle proprie condizioni di esistenza valoriale in una competizione sempre più incentrata prioritariamente sulla qualità dei prodotti e delle strategie : è in altri termini estraneo al tessuto normativo in esame, ogni valutazione del contesto storico economico in cui si colloca l’impresa italiana come vissuta nell’economia dei distretti negli anni 90 ed oggi riarticolata nella sua formulazione più significativa nella sua relazione con i mercati globali propria del c.d. quarto capitalismo.
L’analisi economica ha da tempo evidenziato la necessità di superare il nanismo imprenditoriale per il tramite di spinte alla crescita consapevole del fare impresa, da attuarsi anche per il tramite di una riformulazione del proprio statuto dimensionale da perseguirsi anche per il tramite del sistema concorsuale capace di sorreggere ab externo anche tale crescita allocativa [17]. L’emersione precoce della crisi che pure costituiva il tratto distintivo forte del sistema concorsuale del CCII, non si propone nel D.L. 118 come paradigma organizzativo necessitato dell’impresa del terzo millennio ma come opzione meramente discrezionale dell’imprenditore che va liberato nella crisi da ogni vincolo concorsuale in essere o potenziale.
Si tratta di una svalutazione competitiva del sistema concorsuale paragonabile alle svalutazioni competitive degli anni 90: così come attuato dalle autorità monetarie nel passato per assicurare competitività internazionale alle imprese italiane inefficienti, si provoca il deprezzamento dell’intero sistema concorsuale per favorire la conservazione acritica di un tessuto imprenditoriale in crisi senza considerare i costi diretti ed indiretti accollati al sistema complessivo del paese, aprendo così la strada ad una concorrenza concorsuale quantomai deleteria per il tessuto imprenditoriale sano. Rispetto all’ alternativa codicistica posta dalla regola legale del «ricapitalizza o liquida» prevista dall’art 2446 ultimo comma, la composizione negoziata della crisi si propone come alternativa concretamente praticabile all’atto della semplice “probabilità di una crisi” in quanto lascia di fatto inalterati i codici distintivi della gestione imprenditoriale, ricollocandola opportunisticamente nella relazione con il ceto creditorio per consentire di coglierne con le asimmetrie informative, le possibili debolezze e i vantaggi locupletativi connessi[18] .
Del resto, non risulta mai troppo evidenziato come gli esiti di una procedura di rinegoziazione del debito costituiscano pur sempre “sopravvenienze attive” che, al pari del conferimento operato a copertura delle perdite, opereranno come voce del patrimonio dell’impresa. La nuova regola sarà dunque ricapitalizza o liquida o rinegozia, cosicché l’impresa in crisi si rinsalda e consolida nei propri assets non per nuovo capitale di rischio ma per il capitale indirettamente versato dal ceto creditorio nella negoziazione: i rischi di una selezione avversa concorsuale [19]risultano di palmare evidenza, come la letteratura economica ormai insegna innescando fenomeni di concorrenza concorsuale delle imprese in crisi sul tessuto produttivo sano da sempre analizzati e contrastati dalla letteratura economica di settore.
La crisi Covid e la necessità di attuazione della direttiva europea sono solo motivazioni apparenti di un tale intervento controriformatore che mira alla riformulazione complessiva del “paradigma” del diritto dell’impresa elettivamente riformulato dal CCII, innescando processi di precarizzazione delle aspettative contrattuali a tutto vantaggio di un trasformismo imprenditoriale votato alla sua preservazione qualsiasi sia il danno arrecato al sistema economico del paese: del resto, il valore-fine tutelato dalla stessa direttiva è sempre quello della tutela dei creditori per il tramite della conservazione dei compendi nei soli limiti in cui ne costituisca strumento, essendo quantomeno improprio assegnare alla conservazione dell’impresa un improprio assunto valoriale autopropulsivo per il mercato unico. E d’altro canto, se la logica di contrasto al Covid imponesse tale “capovolgimento valoriale” quale quello prospettato dall’intervento in esame, non si capisce come mai l’Unione non ha subito messo in cantiere una revisione della Direttiva orientata in tale direzione.
Con il D.L. in esame, si depotenziano i sistemi e i luoghi di veridizione[20] concorsuale in favore di non luoghi per loro natura non sistematici, onnivori in quanto capaci di incidere negativamente sul valore della giurisdizione successiva per il solo fatto di essere abilitati ad una relazione precedente con l’impresa in crisi quand’anche improduttiva ai fini del risanamento della impresa in crisi: il valore del tempo e delle dinamiche temporali dei luoghi di veridizione giuridica dell’insolvenza risulta invero del tutto rovesciato, senza che la somma complessiva dei costi e dei tempi giustifichi razionalmente una politica concorsuale a così gravosa incidenza sul tessuto produttivo sano del paese. Il costo della deregolation concorsuale proposta appare chiaro laddove si abbia riguardo anche alla recente storia delle crisi economiche e alla indispensabilità per il corretto funzionamento del mercato, dell’azione di presidio esercitata dalle istituzioni della giuridicità concorsuale[21].
Ancora una volta dopo l’esperienza negativa delle attestazioni e dei concordati preconfezionati, si riformula un paradigma che vede all’opera il mercato negoziatore come tribunale economico, che abilita più soggetti privati alla loro interlocuzione per quanto ricoperti da appena un velo di terzietà (vedi esperto), in una moltiplicazione apparente di senso concorsuale non sorretta da alcun estremo di ufficialità accertativa, con un aumento di costi e senza alcuna obbligazione di risultato : si tratta di una ipotesi fortemente eversiva del sistema anche costituzionale delle tutele e del fondamento sociale della moderna impresa, epilogo provinciale di un neoliberismo economico ormai da tempo non più imperante nel quadro teorico interno ed internazionale. La concezione liberale dello Stato non presuppone il totale ritiro del diritto dallo spazio ove si svolgono le negoziazioni[22] bensì il suo contrario in quanto è necessario che l’ordinamento tuteli le strutture del mercato con norme imperative e non derogabili dai negoziatori, soprattutto preservando l’autenticità del conflitto dalle asimmetrie informative e dagli opportunismi concorrenziali, anche per il tramite del presidio assicurato dalle istituzioni della giuridicità concorsuale.
Guido Rossi, con severa lucidità, ha scritto[23]: “ se si considera che in questa zona – nella zona cioè sottoposta alle libere e in qualche misura sempre arbitrarie , scelte degli amministratori – si possono commettere in totale impunità abusi molto più gravi di quelli derivanti dal mancato adempimento di obblighi e doveri prescritti per legge, si comincia ad avere una idea più precisa di ciò che il diritto può ( soprattutto di ciò che non può ) fare per garantire ai nostri mercati un coefficiente minimo di correttezza e trasparenza”.
Non resta che resistere, resistere, resistere.
[1]Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l'esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l'efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1132 (direttiva sulla ristrutturazione e sull'insolvenza) (Testo rilevante ai fini del SEE).
[2]Baird D. e Rasmussen R. The End of BankRuptcy, Stanford Law Review, 55 2002; per una critica feroce, si veda Stiglitz J, Bancarotta. L’economia globale in caduta libera, 2010, pagg. 283 e ss.
[3] Non si ignora il quadro normativo di riferimento come recentemente innervato dall’intervento operato dal legislatore COVID attraverso la Legge di Bilancio 2021 (L. 30.12.2020, n. 178, in G.U. n. 322 del 30.12.2020) con la quale, in linea con le misure a sostegno delle imprese e gli incentivi premiali ad esse concessi, sono state temporaneamente sterilizzate le perdite emerse nell'esercizio 2020, permettendo così il loro riassorbimento in un arco temporale di cinque anni (in sede di approvazione del bilancio al 31.12.2025), purché espressamente indicate nella nota integrativa con specifica indicazione della loro origine. Sul punto Bini, Dibattito sulle novità introdotte dal legislatore in tema di bilanci e di valutazioni per contrastare l'emergenza Covid, in Soc., 2021, 200; Busani, Quinquennio di grazia per le perdite emerse nel 2020, in Soc., 2021, 201 ss.
[4] Considerando 96: Gli Stati membri non dovrebbero essere tenuti a derogare al diritto societario, interamente o parzialmente, per un periodo di tempo indeterminato o limitato, se garantiscono che le prescrizioni di diritto societario non possano compromettere l'efficacia del processo di ristrutturazione o purché dispongano di altri strumenti ugualmente efficaci per garantire che gli azionisti non ostacolino indebitamente l'adozione o l'attuazione di un piano di ristrutturazione che potrebbe ripristinare la sostenibilità economica dell'impresa. In questo contesto, gli Stati membri dovrebbero attribuire particolare importanza all'efficacia delle disposizioni sulla sospensione delle azioni esecutive individuali e sull'omologazione del piano di ristrutturazione, che non dovrebbero essere indebitamente pregiudicate dalle convocazioni o dai risultati dell'assemblea degli azionisti.
[5] Stiglitz, Bancarotta. L’Economia globale in caduta libera, cit., pagg. 218 e ss.
[6] Per le sentenze più recenti, si veda ex multis Cass. Ord. 12 marzo 2012 n. 3902; Cass. 12 agosto 2009 n. 1823; Irrera, Assetti organizzativi adeguati e governo delle società di capitali, Milano 2005.
[7] Scarselli G., Le misure cautelari e protettive del nuovo codice della crisi dell'impresa, in Judicium.it. che opportunamente rileva che mentre le misure cautelari di cui al CCII sono corrispondenti a quelle presenti nel diritto civile, le misure protettive rappresentano una assoluta novità poiché con esse non si chiede al giudice un provvedimento in funzione di un diritto, ma un provvedimento “contra ius in funzione della regolazione della crisi” Pagni, La tutela cautelare del patrimonio e dell'impresa nell'art. 15 l. fall. alla luce della novità della l. 7 agosto 2012, n°134, in Diritto delle imprese in crisi e tutela cautelare, a cura di Fimmanò, Milano, 2012, 438; Fabiani, Le misure cautelari e protettive nel codice della crisi d’impresa, in Riv. dir. proc., 2019, 851.
[8] Onida, Se il piccolo non cresce: piccole e medie imprese italiane in affanno, Il Mulino, 2004.
[9] Sula valore presidiale di tali norme, si veda per tutti Galletti D, La ripartizione del rischio di insolvenza, 2006.
[10] Treccani : Nel linguaggio burocr., dichiarazione o attestazione eseguita dal cittadino sotto la propria responsabilità. Può riferirsi a dati anagrafici o al possesso di requisiti e sostituisce il certificato rilasciato dall’ufficio competente. Per estens., il modulo (o il foglio) che la contiene.
[11] L’art 236 bis è stato infatti introdotto dall'art. 33 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134.
[12] Sulle criticità comportamentali dell’imprenditore e del management nelle aziende in crisi e sui limiti soggettivi di proposizione di efficaci percorsi di risanamento, si veda Luigi Guatri, Crisi e risanamento delle imprese, Giuffré, Milano, 1986; Paolo Bastia, Crisi aziendali e piani di risanamento, Giappichelli, Torno, 2019.Sergio Sciarelli, La crisi d’impresa. Il percorso gestionale di risanamento nelle piccole e medie imprese, Cedam, Padova, 1996. Si veda altresì il recente documento del CNDCEC, Principi di attestazione dei piani di risanamento, dicembre 2020, in particolare a pag. 47 (in collaborazione con l’AIDEA, Accademia Italiana di Economia Aziendale).
[13] Articolo aggiunto dall'art. 2, comma 1, del D.L. 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2015 n. 132. Si ricordano i casi La Perla e San Raffaele come vendite preconfezionate inefficienti.
[14] North Douglass, Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia, Bologna 1994 , in particolare, pagg. 87 e ss.
[15] The Shape of water di Gulliermo Del Toro.
[16] G. Rossi, I, Gioco delle regole, 2006, pag.42.
[17] Si veda sul punto, Amatori, F., La grande impresa, in Storia d'Italia. Annali, vol. XV, L'industria (a cura di F. Amatori, D. Bigazzi, R. Giannetti, L. Segreto), Torino: Einaudi, 1999, pp. 691-753. Il Quarto Capitalismo. Un profilo Italiano; Andrea Colli, Pierluigi Ciocca, Ricchi per sempre, 2020; A. Giunta, Rossi S., Cosa sa fare l’Italia, Bari 2017.
[18] G. Rossi, Il conflitto epidemico, pag. 41 “ Quando gli interessi in gioco da individuali passano a essere collettivi, e riguardano intere categorie di loro diritti, l’autotutela contrattuale non è più sufficiente ad evitare che l’opportunismo dei “forti” schiacci gli interessi dei deboli”.” E più avanti , “ Nelle situazioni giuridiche complesse che riguardano interessi diffusi, l’uso dello strumento contrattuale può dunque produrre effetti opposti a quelli desiderati”.
[19] Sulle tematiche della selezione avversa e dell’azzardo morale , Stglitz J., Informazione, Economia pubblica e macroeconomia, 2002.
[20] Foucault, Nascita della biopolitica, Milano, Feltrinelli 2005, p.32.
[21] Rossi S., Controtempo. L’Italia nella crisi mondiale, 2009, soprattutto 48 e ss.
[22] Irti N. L’ordine giuridico del mercato, Bari, Ferri G.B. La cultura del contratto e le strutture del mercato, in Riv. Dir. Comm. 1997, I, pp 843; Lipari n.” Spirito liberista” e “spirito di solidarietà” in Riv. Trim. dir. Proc. Civ. 1997, 23.
[23] Rossi G., Il conflitto epidemico, 2003, pag.37.
Coltivazione di cannabis e uso “terapeutico”
(Nota a Tribunale Arezzo, 11 dicembre 2020 e Tribunale Arezzo, 26.4.2021)
di Lorenzo Miazzi
Sommario: 1. Cannabis: uso ricreativo, uso medico, uso terapeutico - 2. Il nuovo orientamento sulla coltivazione e l’uso terapeutico - 3. Il fatto esaminato e la sentenza di condanna - 4. La sentenza di assoluzione - 5. Gli elementi di contrasto fra le due sentenze - 6. Ma come interpretare le “dimensioni minime” nell’uso terapeutico?
1. Cannabis: uso ricreativo, uso medico, uso terapeutico
Si è fatta una certa confusione sulla vicenda Di Benedetto – malato di artrite reumatoide che coltivava marijuana per affrontare la sua malattia – assolto dal tribunale di Arezzo con una sentenza che, secondo il messaggio mediatico, legittima l’uso terapeutico della marijuana.[1] Non è esattamente così.
Preliminarmente va ricordata in sintesi la differenza tra l'uso definito “terapeutico” e quello definito “ricreativo” (o ludico), differenza che nell’uso concreto si riflette sia nei dosaggi utilizzati che nei tipi di pianta[2]. Rispetto alla produzione e reperimento, la cannabis “terapeutica” è prodotta sulla base di autorizzazioni che disciplinano l'iter produttivo e l'immissione in commercio (che è di un farmaco di norma reperibile solo in farmacia) tramite canali istituzionali; quella “a uso ricreativo” invece è prodotta in modo illegale, distribuita attraverso canali non ufficiali e non controllati sul piano scientifico.
Occorre quindi accertare quale uso è quello dichiarato da Di Benedetto: che non è un uso ricreativo, ma non è nemmeno un “uso terapeutico”.
Innanzitutto, non vi è piena corrispondenza fra il significato di “uso terapeutico” della cannabis nella normativa, nel linguaggio giudiziario e nel dibattito politico. Quanto alla normativa sugli stupefacenti, l’art. 42 del D.P.R. n. 309/1990 prevede che: “E' consentito l'uso terapeutico di preparati medicinali a base di sostanze stupefacenti o psicotrope ((...)), debitamente prescritti secondo le necessità di cura in relazione alle particolari condizioni patologiche del soggetto.” Dunque, l’uso terapeutico è quello non di marijuana, ma di medicinali a base di marijuana: e c’è una netta differenza. Come dimostra il successivo art. 73 che consente ai medici di prescrivere solo “i medicinali compresi nella tabella dei medicinali, sezione A, di cui all'articolo 14, su apposito ricettario” stabilendo inoltre una lunga serie di obblighi e di procedure per la prescrizione. E l’art. 83 punisce le “prescrizioni abusive” con le pene previste dall'art. 73, commi 1, e 5, cioè come lo spaccio[3].
Non è corretto parlare di uso terapeutico della marijuana nemmeno sotto il profilo medico, non trattandosi esattamente di una terapia. Con Decreto Ministeriale del 2013 è stata data anche nel nostro paese la possibilità ai Medici Chirurghi e Veterinari di prescrivere Cannabis Medica[4]; secondo il Ministero della Salute, “l’uso medico della Cannabis non può essere considerato una terapia propriamente detta, bensì un trattamento sintomatico”, adatto ad alleviare numerose patologie.
Anche la giurisprudenza si è più volte occupata dell’uso terapeutico, prescritto dai medici, con rigoroso inquadramento della fattispecie: la somministrazione di preparati medicinali a base di sostanze stupefacenti è consentita, ai sensi dell'art. 72, co. 2, solo qualora il medico agisca effettivamente per finalità terapeutiche, praticando un trattamento prescritto ai sensi dell'art. 43 e coerente, secondo le conoscenze scientifiche del momento, con gli obiettivi clinici perseguiti[5].
In sintesi: la cannabis non è una terapia ma un palliativo; non cura malattie ma ne allevia il dolore[6]; il suo utilizzo viene correttamente definito “uso medico”.
Va preso atto però che il termine “uso terapeutico” ha assunto, nel linguaggio corrente ma anche in quello giudiziario, un significato più ampio che comprende anche quello medico; perciò si adopererà il temine in senso ampio anche in questo contributo (dato che le stesse sentenze commentate lo usano in tal modo).
2. Il nuovo orientamento sulla coltivazione e l’uso terapeutico
Dunque, in sintesi, nel caso di chi come Di Benedetto coltiva marijuana per poi farne – secondo la dizione imprecisa ma ormai sdoganata - uso terapeutico, ci si riferisce più correttamente alla coltivazione personale con destinazione della sostanza ad uso medico. Una fattispecie che, in presenza di una presa di posizione granitica delle Sezioni Unite che ritenevano comunque vietata (a differenza della detenzione) ogni coltivazione, in passato era sempre stata sanzionata penalmente.
Su questo orientamento, più volte ribadito e più volte criticato, è piombato nel 2019 un revirement della Suprema Corte che ha affermato, riguardo alla coltivazione di sostanze stupefacenti, che non sono riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore[7].
La sentenza decide direttamente (è il caso di merito) la fattispecie del coltivatore che destina la cannabis prodotta al personale ed esclusivo uso ricreativo; elenca le circostanze (in sintesi: “le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, (...) le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti”) accertate le quali il giudice dovrà decidere se la coltivazione appaia “destinata in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.
Ma la portata innovativa della pronuncia è inevitabilmente molto più ampia, andando a interessare tutti i fenomeni di fatto collegati alla coltivazione di chi poi utilizza o consuma il prodotto, che devono essere affrontati dai giudici di merito.
Una prima fattispecie già esaminata riguarda la c.d. coltivazione di gruppo per uso ricreativo, rispetto alla quale una prima pronuncia, visto che la sentenza “Caruso” parla di “coltivazione … destinata in via esclusiva all’uso personale”, ritiene che anche la coltivazione effettuata da più persone possa essere scriminata quando avviene nella forma specifica del mandato a coltivare per ottenere una sostanza destinata a un uso “esclusivamente personale in comune” da parte di tutti componenti del gruppo, per conto e su mandato dei quali è stata coltivata[8].
Una seconda fattispecie che viene ora all’attenzione, e con grande clamore mediatico, è quella della coltivazione di cannabis non autorizzata e destinata ad un uso non ricreativo ma asseritamente medico, attribuita all’imputato De Benedetto.
Un inciso sul clamore mediatico: la vicenda De Benedetto è diventata la bandiera di chi ha promosso il disegno di legge sull’uso terapeutico della cannabis (stralciato nel finale della scorsa legislatura - sperando in una più facile approvazione - dalla più generale legge sulla depenalizzazione e legalizzazione dell’uso ricreativo della cannabis). Un disegno di legge approvato con grande maggioranza alla Camera (con 317 voti a favore e 40 contrari) ma inaspettatamente bloccato all’esame del Senato che non procedette all’approvazione definitiva entro la fine della legislatura[9]. Attualmente la legge non sembra essere nell’agenda politica.
3. Il fatto esaminato e la sentenza di condanna
Walter Di Benedetto risulta affetto da artrite reumatoide da oltre 35 anni e curava la malattia con cannabis terapeutica regolarmente prescritta. Pur essendo da anni in possesso di una regolare prescrizione medica, si era messo a coltivare la cannabis – affermava – perché il Sistema Sanitario non riusciva ad assicurargli il quantitativo di terapia necessaria a combattere i dolori causati dalla sua patologia. Detto per inciso, si può definire “fatto notorio” che in Italia la cannabis a uso medico è legale dal 2007 ma, a causa dello scarso quantitativo prodotto dallo Stato, la distribuzione è spesso insufficiente e, banalmente, molto spesso il farmaco non si trova in farmacia. “Non ho tempo di aspettare una giustizia che ha sbagliato il suo obiettivo. Il dolore non aspetta” aveva detto Walter De Benedetto, con una frase poi divenuta lo slogan della battaglia da lui rappresentata.
Il fatto venne alla luce il 3 ottobre 2019 quando un amico di Walter, Marco Bracciali, venne sorpreso con l’innaffiatoio in mano mentre dava acqua alle piante di canapa nel terreno a Ripa di Olmo. Il De Benedetto affermò subito che la coltivazione era sua e la droga prodotta era per lui. Nella serra vennero rinvenute 15 piante, alcune alte due metri e mezzo, altre in vaso, del peso di 19.450 grammi per potenziali 17.148 dosi. Nell’essiccatoio di legno vennero trovate 163 infiorescenze per 800 grammi (potenziali 3.046 dosi); come dotazione un trimmer (per la lavorazione), ventilatori e altri utensili. Bracciali venne arrestato in flagranza e Di Benedetto rinviato a giudizio.
Il giudice della direttissima, trattata dopo la convalida dell’arresto con rito abbreviato, ha condannato il Bracciali, che è stato ritenuto colpevole del reato di “coltivazione non autorizzata di sostanza stupefacente”: un anno, due mesi e venti giorni le pena[10].
Rilevano le osservazioni fatte dal giudice sulle condizioni in fatto della serra di Ripa di Olmo, confrontandosi con i parametri delle SS.UU: in sentenza si evidenziano le “modalità industriose” della coltivazione, “caratterizzata da laboriosità e operosità costante” con una tecnica “attenta e ingegnosa”. Quanto alla serra, viene ritenuta una struttura “artigianale” ma non “rudimentale”. In sostanza, il giudice non mette in dubbio la malattia di De Benedetto né il fatto che beneficiasse di una terapia analgesica; la condanna si basa invece sulle dimensioni della coltivazione, poiché quanto rinvenuto “supera di gran lunga le esigenze di consumo personale di De Benedetto” e costituisce quel “pericolo presunto” previsto e punito dal reato di coltivazione.
Il giudice si pone l’interrogativo se quella era una scorta “a lunga durata”, una “riserva” per “dosi massicce” da assumere nel tempo. La risposta è negativa ed esclude che le potenziali 20 mila dosi fossero per “le esigenze di un ipotetico consumatore singolo”. L’imputato va condannato perché è accertata la sua “partecipazione piena, cosciente e decisiva” alla coltivazione, che rimane reato anche se per uso medico: “Non è la mera destinazione del prodotto ad uso terapeutico che da sola può valere a privare il fatto di offensività in concreto”, afferma il giudice, in quanto la coltivazione di cannabis è un “reato di pericolo presunto”[11].
4. La sentenza di assoluzione
De Benedetto come si è detto venne rinviato a giudizio, che si svolse con il rito abbreviato, all’esito del quale l’imputato è stato assolto dal GUP perché il fatto non sussiste[12].
Nel processo, i difensori hanno prodotto documentazione con un parere di un esperto che sostiene che il quantitativo di piante e lo sviluppo di dosi, che inizialmente sembrava esagerato, fosse in realtà dimensionato all'utilizzo del solo De Benedetto.
Il dato quantitativo è quindi importante: l’accusa era di aver coltivato piante per complessivi 5.024 grammi di marijuana, contenenti 507,82 grammi di principio attivo Thc per la capacità potenziale di 20.283 dosi (calcolo effettuato secondo il d.m. 11.4.2006 – decaduto e non riproposto – per il quale con un grammo di principio attivo Thc si possono ottenere 40 dosi singole[13]), dato quantitativo non contestato e confermato in sentenza.
Il consulente tecnico dell’imputato ha affermato che in base ai dosaggi indicati dai medici che lo hanno seguito, la dose necessaria a De Benedetto per avere efficacia clinica è “fissata in una quantità giornaliera di almeno 2.000 mg di thc”. Conseguentemente, è il caso di osservare, se fosse accettata questa deduzione quanto sequestrato sarebbe equivalso a (507,82 gr. : 2) 253 dosi giornaliere consumate da De Benedetto.
La sentenza esamina attentamente l’inquadramento giuridico della coltivazione per uso personale, evidenziando che “la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti integra un reato di pericolo, idoneo ad attentare al bene della salute dei singoli, per il solo fatto di accrescere indiscriminatamente i quantitativi disponibili sul mercato”; ricostruisce la vicenda della qualificazione giuridica della coltivazione nella giurisprudenza della Suprema Corte sino alla recente SS.UU. 12348/2019, ritenendo la sussistenza della offensività in astratto. Applicando questi principi alla vicenda di merito, afferma che la coltivazione non può ritenersi penalmente irrilevante in quanto la coltivazione del De Benedetto non appare di minime dimensioni per il numero di piante e il quantitativo sequestrato.
Tuttavia giunto alla verifica della sussistenza della offensività in concreto della condotta, la sentenza si discosta nettamente dalla concezione dominante. Infatti il giudice ritiene che i principi affermati dalla corte di cassazione nelle sentenze citate non possono trovare applicazione alla vicenda concreta per le peculiarità della medesima. Quei principi presuppongono che si versi in ipotesi di coltivazione per finalità ludico-ricreative; nel caso di De Benedetto, invece, appare verosimile che egli - già autorizzato a curarsi con farmaci a base di cannabis – abbia coltivato le piante di marijuana per finalità “terapeutiche”.
Il giudice individua il bene protetto dalla legislazione sugli stupefacenti nella salute pubblica[14]; quindi ritiene che l’art. 73 D.P.R. n. 309/1990 vada interpretato in combinato disposto con l’art. 32 della Costituzione, il quale “tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività…”. Conseguentemente, in assenza di una normativa primaria che escluda la punibilità della coltivazione\detenzione quando finalizzata all’uso terapeutico, l’art. 73 D.P.R. n. 309/1990 non può applicarsi perché in contrasto con l’art. 32 Cost. “avente carattere immediatamente precettivo”. Il fatto dunque è inoffensivo in quanto ammesso dall’ordinamento giuridico che non può sanzionare una condotta tutelata dalla Costituzione[15].
Nel caso di De Benedetto, l’inefficacia della terapia medica convenzionale ha reso necessaria una integrazione, secondo un protocollo approvato, con la cannabis “medica”; la carenza di questa ha comportato brusche interruzioni della terapia cannabica, determinando il riacutizzarsi del dolore; in queste circostanze, è “lecito dubitare” che, pur in assenza delle previste autorizzazioni ministeriali, la condotta di coltivazione “fosse connotata dalla necessaria offensività in concreto”[16].
In conclusione, è insufficiente o contraddittoria la prova della sussistenza del fatto come incriminato.
5. Gli elementi di contrasto fra le due sentenze
Le due sentenze, ben collegate al fatto e ben motivate, escludono entrambe – pur essendo accertato che il Bracciali aveva collaborato – la fattispecie della coltivazione di gruppo; ed escludono che si tratti di una coltivazione con dimensioni minime. Giungono però su queste basi a conclusioni opposte.
La sentenza Bracciali, in presenza di una coltivazione di dimensioni non minime, ritiene che ciò obblighi alla condanna di chi coltiva oltre il proprio stretto uso, perché il reato è di pericolo presunto[17]. Non mettendo in dubbio che “il De Benedetto attingesse alla sostanza prodotta, al fine di lenire i propri dolori”, il giudice ritiene per la quantità di principio attivo non possa ragionevolmente parlare di costituzione di una riserva per l’uso personale, “tenuto conto che il quantitativo di principio attivo di partenza è sicuramente sproporzionato rispetto alle immediate esigenze di un ipotetico consumatore singolo, e considerato che la coltivazione era ancora in essere”.
La sentenza De Benedetto invece rende compatibile la condotta contestata con la normativa incriminatrice, escludendo la tipicità, con un percorso assai articolato che si basa sul contrasto con i principi costituzionali. La sentenza conferma l’offensività in astratto della condotta contestata, riconducibile all’art. 73; ma esclude radicalmente la punibilità per le coltivazioni per uso terapeutico in quanto tale destinazione “impone un’interpretazione totalmente diversa delle norme incriminatrici”, pena l’incostituzionalità per conflitto con l’art. 32 Cost.. Infine, mancando la prova di una destinazione diversa, conclude per la insussistenza del fatto per prova insufficiente della offensività in concreto.
Entrambe le sentenze ritengono irrilevante che l’imputato – in quanto costretto su una sedia a rotelle – non avesse proceduto alla diretta coltivazione delle piante, atteso che Bracciali è accusato di aver agito in concorso e Di Benedetto è chiamato a rispondere di essersi fatto aiutare da terzi in tale attività, pur riconoscendo la piena e consapevole riconducibilità a sé dell’intera coltivazione.
Questo passaggio sottolinea la questione della compatibilità delle due sentenze. Soprattutto sembra contrastare con i principi cui si appella la sentenza De Benedetto l’affermazione contenuta nella sentenza Bracciali che “la mera destinazione del prodotto ad uso terapeutico da sola non può valere a privare il fatto di offensività in concreto” in quanto la coltivazione di cannabis è un “reato di pericolo presunto”. La condanna si basa perciò sulle dimensioni della coltivazione poiché quanto rinvenuto “supera di gran lunga le esigenze di consumo personale di De Benedetto” e costituisce quel “pericolo presunto” insito nel reato di coltivazione. La sentenza De Benedetto invece esclude la punibilità per le coltivazioni per uso terapeutico.
Si può pertanto dire provvisoriamente che dalle pronunce in commento si può estrarre un orientamento secondo cui “non sussiste il fatto di coltivazione di cannabis di cui all’art. 73 D.P.R. n. 309/1990 per mancanza di offensività in concreto, allorquando la coltivazione, anche non minima, appaia destinata all’uso personale terapeutico, in quanto non idonea a porre a repentaglio il bene giuridico della salute tutelato dall’art. 32 cost.”. Ma sussiste anche un diverso orientamento secondo il quale “la mera destinazione del prodotto ad uso terapeutico di una coltivazione di non minime dimensioni da sola non può valere a privare il fatto di offensività in concreto in quanto la coltivazione di cannabis è un reato di pericolo presunto”.
6. Ma come interpretare le “dimensioni minime” nell’uso terapeutico?
Come si è detto, entrambe le sentenze escludono che si fosse di fronte ad una coltivazione di dimensioni minime secondo le indicazioni delle SS.UU. Può essere però utile, se non necessaria, un’ulteriore riflessione sulla quantificazione delle “dimensioni minime”, e cioè se la stessa si debba sempre fare in termini assoluti, come sembrano fare le sentenze commentate.
Leggendo attentamente le SS.UU. Caruso si rileva che a escludere la coltivazione di cannabis dall’ambito di applicazione della norma penale è la destinazione all’uso personale, mentre quantità e modalità di coltivazione sono (solo) le caratteristiche necessarie. Non è il semplice dato quantitativo[18] ad escludere la rilevanza penale della fattispecie: la scriminante è la destinazione della cannabis ad uso personale, la quantità è solo un indice sintomatico della destinazione.
In questa diversa ottica, è importante evidenziare che nella sentenza delle SS.UU. la quantificazione menzionata come minimezza della coltivazione (lo “scarso numero di piante”) si riferisce all’uso ricreativo di una sola persona; in presenza di un quantitativo non minimo la rilevanza penale può sussistere in quanto è ragionevole ritenere che almeno una parte sarebbe destinata alla “ricreazione” di terzi, attraverso la cessione onerosa o gratuita). Già nella sentenza del Tribunale di Brescia del 14 novembre 2020 il dato quantitativo della minimezza diventa relativo: se il coltivatore è uno, certo, il limite è di poche piante come dicono le SS.UU.; ma se sono un gruppo, si considerano le piante per ogni coltivatore, perciò la piantagione può avere dimensioni assai più ampie.
Per una interpretazione non incongrua e coerente della sentenza Caruso[19] occorre procedere alla misurazione della minimezza non in termini assoluti, ma relativi, non solo rispetto al numero dei coltivatori ma anche al tipo di uso personale: ornamentale, o didattico , o ricreativo, o medico… Se la coltivazione è per finalità ricreative, certamente la piantagione deve avere dimensioni minime secondo le indicazioni delle SS.UU[20]. Se invece le finalità sono terapeutiche, si deve considerare “minimo” il quantitativo necessario a garantire le esigenze curative; e si tratta di una valutazione di merito, da farsi caso per caso considerando il bisogno del soggetto interessato.
Applicando ad esempio tali criteri al caso De Benedetto, emerge che si tratta di una scorta per 250 giorni, cioè otto mesi. Spetta al giudice di merito[21] considerare non incompatibili queste dimensioni con l’uso terapeutico personale, considerando oltre al bisogno soggettivo altresì la cronica assenza di medicine autorizzate e tenendo conto che le “brusche interruzioni” della disponibilità in farmacia non possono essere previste né possono essere rimediate istantaneamente, dato che la coltivazione della cannabis per Thc o Cbd con modalità non professionali richiede molto tempo per completare lo sviluppo[22].
In conclusione, nella scia della sentenza SS.UU. Caruso, che esclude la sussistenza del fatto nel caso di coltivazione minima destinata ad uso personale, si pone la sentenza di merito che ritiene si tratti di uso personale anche se la coltivazione è di gruppo, ampliando la quantificazione delle dimensioni minime. La sentenza De Benedetto esclude comunque la sussistenza del fatto se vi è destinazione all’uso terapeutico, a prescindere dalla minimezza. La sentenza Bracciali giunge a conclusioni opposte, pur richiamando gli stessi principi, escludendo che l’uso terapeutico giustifichi il superamento delle minime dimensioni. Altre soluzioni, come si è visto, sono possibili considerando la destinazione ad uso terapeutico (solo) come un elemento di valutazione della destinazione all’uso personale e quantificando la minimezza rispetto al bisogno del soggetto.
Considerando la varietà della casistica possibile, sarà certamente necessario altro tempo – non solo quello della definitività delle sentenze richiamate - per sedimentare un orientamento della giurisprudenza.
[1] Parlano di “cannabis terapeutica” il 27 aprile 2021 La Repubblica “Arezzo, cannabis terapeutica: assolto Walter De Benedetto. "Me lo sentivo, ero fiducioso" - Era accusato di detenzione e spaccio ma lui soffre di artrite reumatoide e ha sempre sostenuto che le piantine le coltivava per uso personale”; il Corriere di Arezzo “Arezzo, cannabis terapeutica: assolto Walter De Benedetto dall'accusa di coltivazione per la serra di marijuana.”; il Manifesto “Cannabis terapeutica, assolto Walter De Benedetto - La cura viene prima dei divieti. Il tribunale di Arezzo giudica non punibile l’uomo disabile”.
[2] In questo studio si prescinde dall’uso industriale e dagli altri usi previsti dalla legge n. 242\2016.
[3] Per giurisprudenza consolidata della Suprema Corte, la somministrazione di preparati medicinali a base di sostanze stupefacenti è consentita, ai sensi dell'art. 72, comma secondo, d.P.R. n. 309 del 1990, solo qualora il medico agisca effettivamente per finalità terapeutiche, praticando un trattamento debitamente prescritto ai sensi dell'art. 43 del testo unico e coerente, secondo le conoscenze scientifiche del momento, con gli obiettivi clinici perseguiti (Sez. 6, sentenza n. 16581 del 13/03/2013, Narracci, Rv. 256147; Sez. 6 - , Sentenza n. 12198 del 04/12/2019, Angeloni).
[4] Decreto Ministeriale del 23/01/2013 (GU n. 33 del 08/02/2013).
[5] Cass. Sez. 6, Sentenza n. 10169 del 10/02/2016; Sentenza n. 12198 del 04/12/2019, Angeloni; sez. 6, Sentenza n. 16581 del 13/03/2013; Sez. 4, Sentenza n. 13778 del 16/02/2011.
[6] “In considerazione delle evidenze scientifiche fino ad ora prodotte e aggiornabili ogni due anni, si può affermare che l'uso medico della Cannabis non può essere considerato una terapia propriamente detta, bensì un trattamento sintomatico di supporto a quelli standard laddove questi ultimi non abbiano prodotto gli effetti desiderati, abbiano provocato effetti secondari non tollerabili, necessitino di incrementi nel dosaggio che potrebbero determinare la comparsa di effetti indesiderati (effetti collaterali).
Gli impieghi di Cannabis a uso medico riguardano:
eliminazione del dolore (analgesia), in malattie che implicano spasticità associata a dolore resistente alle terapie convenzionali come la sclerosi multipla o le lesioni del midollo spinale
analgesia nel dolore cronico, con particolare riferimento al dolore neurogeno
effetto antinausea e antivomito, che non può essere ottenuto con trattamenti tradizionali in chemioterapia, radioterapia e terapie per HIV
effetto stimolante dell’appetito, che non può essere ottenuto con trattamenti tradizionali, nel deperimento fisico e nella perdita dell'appetito in malati oncologici o affetti da AIDS, nell'anoressia e anoressia nervosa e nel glaucoma resistente alle terapie convenzionali
riduzione dei movimenti involontari del corpo e del viso, che non può essere ottenuta con trattamenti tradizionali nella sindrome di Gilles de la Tourette”.
Raccomandazioni per il medico prescrittore di sostanza vegetale cannabis fm2 infiorescenze - Documento approvato dal gruppo di lavoro previsto dall’Accordo di collaborazione del Ministero della salute e del Ministero della difesa del 18 settembre 2014, in:
https://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pagineAree_4589_listaFile_itemName_2_file.pdf
[7] Sezioni Unite n. 12.348 /20, imp. Caruso (udienza del 19.12.2019, deposito il 16 aprile 2020). Si rinvia per il commento a “Coltivazione di marijuana e uso personale dopo le Sezioni Unite” di Lorenzo Miazzi (parte seconda)”, in questa Rivista, paragrafo 10, in www.giustiziainsieme.it/it/diritto-penale/1027-coltivazione-di-marijuana-e-uso-personale-dopo-le-sezioni-unite-di-lorenzo-miazzi-parte-seconda
[8] Sentenza del Tribunale di Brescia del 14 novembre 2020, depositata il 16 dicembre 2020: “Peraltro, con specifico riferimento agli imputati, può anche parlarsi di “coltivazione di gruppo destinata all’uso personale”, ricorrendo nel caso concreto gli indici richiesti dalla giurisprudenza e dalla dottrina formatasi a seguito delle più volte citate SS.UU. Caruso, ossia che i coltivatori o una parte di essi siano fra gli assuntori del prodotto finito, con la volontà manifestata fin dall’inizio da parte degli stessi di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente alle spese occorrenti per la coltivazione.”. Sentenza riportata e commentata in “L’uso è personale anche se la coltivazione è di gruppo (nota a Tribunale Brescia, 14.11.2020)”, di Lorenzo Miazzi, www.giustiziainsieme.it/it/diritto-penale/1665-l-uso-e-personale-anche-se-la-coltivazione-e-di-gruppo-nota-a-tribunale-brescia-14-11-2020-di-lorenzo-miazzi
[9] Il progetto di legge fissa criteri uniformi per garantire l’accesso alla Cannabis per uso terapeutico, promuove la ricerca scientifica e lo sviluppo di tecniche di produzione. Questi i principali punti del progetto, per quanto rileva in questa vicenda:
CANNABIS A USO TERAPEUTICO. Il medico potrà prescrivere medicinali di origine vegetale a base di cannabis per la terapia del dolore e altri impieghi. La ricetta (oltre a dose, posologia e modalità di assunzione) dovrà recare la durata del singolo trattamento, che non può superare i tre mesi.
MEDICINALI A CARICO DEL SSN. I farmaci a base di cannabis prescritti dal medico per la terapia del dolore e impieghi autorizzati dal ministero della Salute saranno a carico del Servizio sanitario nazionale. Se prescritti per altri impieghi restano al di fuori del regime di rimborsabilità. Vale in ogni caso l’aliquota Iva ridotta al 5 per cento.
PRODUZIONE DI CANNABIS. Coltivazione della cannabis, preparazione e distribuzione alle farmacie sono affidate allo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze. Se necessario può essere autorizzata l’importazione e la coltivazione presso altri enti. Sono stanziate risorse per un milione e 700mila euro.
[10] Sentenza Gup Tribunale di Arezzo, 11 dicembre 2020, dep. 11.3.2021. est. Filippo Ruggiero. Nella motivazione si afferma che i quantitativi di cannabis nella serra sono “sproporzionati ed esagerati rispetto all’esigenza di un consumo personale di De Benedetto”. Il giudice ha valutato come attenuante generica il fatto che Marco B., incensurato, si fosse recato come altre volte alla serra per dare una mano all’amico gravemente malato, ma ha negato l’ipotesi lieve del reato di cui al quinto comma precludendogli la sospensione del processo con la messa alla prova.
[11] E’ il caso di ricordare anche che il giudice non ritiene sussistano i "motivi di particolare valore morale e sociale" di cui all'articolo 62 n.1 del codice penale in quanto "i motivi di tale disposizione possono essere soltanto quelli avvertiti come tali dalla prevalente coscienza collettiva, che allo stato attuale non pare molto sensibile ai temi delle cure palliative, vieppiù ove poste in essere mediante la somministrazione di stupefacenti".
[12] Sentenza 27 aprile 2021, dep. 26.7.2021, est. Fabio Lombardo.
[13] La quantificazione dell’uso personale è prevista dall’art. 73 comma 1 bis, lett. a), inserito dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, art. 4 bis, in sede di conversione del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272. In attuazione di tale previsione, con decreto del Ministro della salute dell'11 aprile 2006, sono stati appunto indicati i "limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope, riferibili ad un uso esclusivamente personale" (QMD: "quantitativi massimi detenibili"). La legge è stata poi dichiarata incostituzionale e il decreto travolto con essa; la nuova legge prevedeva un nuovo decreto, che non è stato emanato.
[14] “Le Sezioni Unite hanno stabilito che il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice è quello della salute individuale o collettiva, la quale trova un solido ancoraggio costituzionale nell’art. 32 della carta fondamentale” (pag. 9).
[15] “… la coltivazione e l’uso di sostanze stupefacenti autoprodotte per finalità esclusivamente curative, in assenza di terapie altrettanto efficaci, in altri termini, rende il fatto – astrattamente conforme alla norma incriminatrice prevista dall’art. 73 tus - del tutto inoffensivo, in quanto ammesso dall’ordinamento giuridico che, in un’ottica di solidarietà umana, non può pretendere il rispetto del precetto e sanzionare penalmente l’autore della condotta di coltivazione” (p. 11).
[16] La sentenza prosegue: “Se, come si è visto, l’art. 73 tus è posto a tutela in primis della salute individuale o collettiva, sarebbe alquanto paradossale – oltre che contrario a ogni forma di umanità e di giustizia – che l’imputato debba essere punito per aver coltivato piante di cannabis con l’unico scopo di tutelare la propria salute e garantirsi in tal modo condizioni di vita più dignitose” (p. 12).
[17] “Posta la natura di reato di pericolo presunto, ciò che rileva sarà quindi una valutazione in ordine all’effettiva entità e alle effettive dimensioni dell’attività di coltivazione. Ciò premesso, quello per cui si procede costituisce un fatto di coltivazione che va senz’altro ricompreso nell’area del penalmente rilevante, attesto che nella specie vengono in rilievo piante conformi al tipo botanico e dall’attitudine a produrre sostanza stupefacente già dimostrata (per avere le piante già prodotto sostanza), e atteso che non si tratta affatto di un’attività di minime dimensioni svolta in forma domestica; emerge piuttosto un’attività di coltivazione condotta secondo modalità industriose, cioè caratterizzate da laboriosità e da un’operosità costante” (p. 11).
[18] Come avviene nella pesca del novellame; nell’evasione fiscale… (L. 14 luglio 1965, n. 963; D.Lvo n. 274/2000).
[19] Che, si ricorda, disapplica la norma penale per le “attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.
[20] Si può ritenere che un numero di piante che non superi la decina può essere considerato “scarso” anche ai fini della non tipicità della coltivazione secondo i principi della sentenza SS.UU. Caruso: cfr. Coltivazione di marijuana e uso personale, cit., par. 15.
[21] Nel caso di De Benedetto il giudice sembra fare implicitamente questa valutazione con esisto positivo; nel caso Bracciali esplicitamente lo si esclude.
[22] Intorno ai due/tre mesi per le autofiorenti e cinque/sette mesi per le piante provenienti da seme normale o femminilizzato, a seconda del tipo di coltura e cura; tempo cui aggiungere un mese per l’essicazione naturale: www.cbdmania.it/blog/le-diverse-fasi-di-crescita-di-una-pianta-di-marijuana
Vedi anche www.zamnesia.net/it/blog-quanto-tempo-ci-vuole-per-coltivare-la-cannabis-n1191 e su questa rivista L’amministrazione della Cannabis ad uso medico di Alice Cauduro
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