A chi spetta dire la parola “Fine”: commento alla pronuncia del Tribunale di Belluno del 4 novembre 2021 in materia di fine vita
di Daria Passaro
Sommario: 1. Il filo sottile della vita di Samantha D’Incà. Liberi di scegliere “un atto d’amore” - 2. Commento alla pronuncia del Tribunale di Belluno del 4 novembre 2021. Fondamento normativo-giurisprudenziale e riflessioni a margine - 3. Note di aggiornamento in tema di fine vita: l’autorizzazione al primo suicidio assistito in Italia tra innovazione e incertezze applicative.
1. Il filo sottile della vita di Samantha D’Incà. Liberi di scegliere “un atto d’amore”
La materia del fine vita, vista al microscopio, si presenta come una fitta rete di pronunce giurisprudenziali, timide disposizioni legislative, innumerevoli casi pratici sottoposti al vaglio del giurista, della politica, della religione, della bioetica e dell’opinione pubblica. Dietro queste maglie c’è la vita appesa a un filo di pazienti la cui sorte è “rimessa”, in qualche modo, al ruolo dei giudici che, nella perdurante assenza di un’esauriente legge sul punto, all’occasione sono chiamati a dettare la “giustizia sostanziale” del caso concretamente rivolto alla loro attenzione.
Alle spalle della pronuncia del Tribunale di Belluno, intervenuta lo scorso 4 novembre, risiede la storia di fine vita di Samantha D’Incà, una giovane di appena trent’anni in condizione di coma irreversibile dal 6 dicembre 2020, a seguito di grave infezione batterica successiva ad un intervento di routine per una banale rottura di femore. Samantha attualmente vive attaccata a una macchina in una Rsa di Belluno, secondo il parere dei medici senza alcuna concreta possibilità di miglioramento delle prospettive di vita.
La condizione di Samantha ha spinto i genitori a chiedere la nomina urgente di un amministratore di sostegno chiamato a compiere le valutazioni relative ai trattamenti sanitari necessari per la sua sopravvivenza.
Precisamente, il padre Giorgio ha chiesto di assumere la nomina di amministratore in favore della figlia, con l’espresso potere di rifiutare per conto di lei le cure di mantenimento in vita - ivi comprese la nutrizione e/o idratazione artificiale - nonché di assumere le determinazioni del caso in ordine alla sedazione palliativa profonda associata alla terapia del dolore.
L’iter intrapreso dai familiari ha richiesto, ai fini di una completa valutazione da parte del Tribunale di Belluno, l’acquisizione di considerazioni qualificate da parte di specialisti in materia, tra i quali figura il Prof. Leopold Saltuari dell’Università di Innsbruck, chiamato a relazionare in ordine alle potenzialità riabilitative della beneficiaria. Il dott. Saltuari ha chiarito come la remissione ad una condizione di autonomia debba escludersi con convinzione, lo stato di coscienza di Samantha dovendosi qualificare come status vegetativo di vigilanza privo di coscienza.
Alla medesima conclusione è pervenuta, in seguito alle osservazioni eseguite presso l’Ospedale di Vipiteno nell’agosto 2021, la dott.ssa A. Alibrandi sull’invariabilità della diagnosi relativa al disturbo di coscienza, ribadendo l’impossibilità di formulare ipotesi prognostiche favorevoli a un recupero funzionale.
Nel settembre 2021, è infine intervenuto sulla questione il Comitato Etico per la Pratica Clinica dell’U.L.S.S. n. 1 Dolomiti, precisando che Samantha, nutrita artificialmente mediante una sonda inserita nello stomaco attraverso la parete addominale (PEG), ormai non risponderebbe a stimoli né verbali né visivi.
Rebus sic stantibus, considerata la probabilità del verificarsi di complicanze e di una mancata risposta alle terapie messe in atto, il Comitato ha espresso l’opportunità di procedere alla sedazione palliativa profonda, palesando la necessità di nominare un amministratore di sostegno chiamato a prestare il necessario consenso informato sul punto. La condizione clinica descritta e l’analisi dei profili bioetici emergenti suggerirebbero, a ben vedere, di non escludere una desistenza dal trattamento di nutrizione artificiale, supportata da un necessario percorso palliativo, dietro necessaria condivisione con i familiari e con l’amministratore di sostegno da nominarsi.
In ogni caso, per quanto afferisce alla ricostruzione delle volontà della donna, in linea con quanto previsto dalla legge n. 219 del 2017 e dai principi stabiliti dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 21748/2007, il Comitato ha sottolineato la necessità di procedere ad una ricostruzione quanto più solida e genuina possibile, mediante l’analisi complessiva di tutti gli elementi utili.
Sulla base delle intervenute determinazioni qualificate, il padre di Samantha ha rinnovato la richiesta di essere nominato amministratore di sostegno in favore della figlia, con espressa attribuzione del potere di assumere le decisioni e prestare il consenso idoneo a interrompere le attuali terapie ed i trattamenti di sostegno vitale. Il consenso rileverebbe altresì per selezionare, di concerto con i medici, le modalità di sospensione di tali trattamenti e di sedazione palliativa profonda, alla luce del quadro clinico e del parere del Comitato Etico.
Ebbene, dopo quasi un anno in stato vegetativo, con la pronuncia del Tribunale di Belluno del 4 novembre - nella forma di un decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno in capo al richiedente - si è definita la vicenda giudiziaria della trentenne di Feltre, il tribunale autorizzando il padre a “staccarle la spina”, previo parere dei medici.
Per meglio dire, sebbene il giudice tutelare chiarisca che la decisione sul fine vita per Samantha debba essere in concreto assunta dai medici - melius dietro loro parere - non può non intravedersi nel provvedimento in esame una delibera dalla portata storica, rivoluzionaria perché dimostra che anche senza disposizioni scritte le volontà possono e devono essere rispettate. Una decisione pronta a tenere vivo il dibattito sulla complessa questione del fine vita, vieppiù in considerazione delle sopraggiunte novità in tema di autorizzazione al suicidio assistito.
La decisione del Tribunale di Belluno rimbomba nelle parole dei familiari di Samantha, memori della solidarietà manifestata dalla figlia nei noti casi di fine vita di Eluana Englaro e Dj Fabo, e a tutti gli effetti appare come la concessione di un “atto d’amore”, la libertà di scegliere la fine quando “la vita in un letto, tra dolori e sofferenze, non è più vita, non è dignità, ma soltanto patimento”.
2. Commento alla pronuncia del Tribunale di Belluno: fondamento normativo-giurisprudenziale e riflessioni a margine
Il percorso argomentativo intrapreso dal Tribunale di Belluno nella vicenda giudiziaria di Samantha D’Incà si pone a conclusione di una minuziosa disamina delle disposizioni normative e delle chiarificazioni giurisprudenziali sul punto.
Il giudice di Belluno, in prima battuta, evidenzia che la legge 22 dicembre 2017 n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – attuativa dei principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea – tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all'autodeterminazione della persona, stabilendo che nessun trattamento sanitario possa essere iniziato o proseguito senza il consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge. A tal fine, sono considerati trattamenti sanitari- in quanto tali rinunciabili- anche la nutrizione e idratazione artificiali, consistendo nella somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici.
La possibilità che ad assumere tali determinazioni sia un amministratore di sostegno sorge all'art. 3, comma 4, della stessa legge, disponendo che, nel caso in cui sia stato nominato un ads la cui nomina preveda l'assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall’ads ovvero solo da quest'ultimo, purché si tenga conto della volontà del beneficiario, in riferimento al suo grado di capacità di intendere e di volere.
Nondimeno, un evidente limite al raggio di azione dell’amministratore è sancito al comma 5, che precisa che, qualora l’ads, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT), rifiuti le cure proposte mentre il medico le ritenga appropriate e necessarie, la decisione debba essere rimessa al giudice tutelare.
A tal riguardo, il Tribunale rinvia alla sentenza della Corte Costituzionale 13 giugno 2019, n. 144, che ha chiarito come l’esegesi dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge n. 219 del 2017, non consenta di affermare che il conferimento della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario rechi ex se, automaticamente e necessariamente, il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita. Lungi da qualsivoglia automatismo, le norme sopra menzionate si limiterebbero a disciplinare il caso in cui l’amministratore di sostegno abbia ricevuto anche tale potere, spettando solo al giudice tutelare, in ogni caso, attribuirglielo in occasione della nomina, sempre che in concreto ne ricorra l’esigenza. Detta prerogativa in capo al giudice tutelare comporta che lo stesso verifichi la sussistenza di condizioni di salute tali da rendere necessaria una decisione sull’accettazione ovvero il rifiuto dei trattamenti sanitari di sostegno vitale.
La questione in esame, in linea con l’analisi del giudice di Belluno, si inquadra pacificamente in una nuova dimensione del concetto di salute, da intendersi non come mera assenza di malattia, bensì come stato di completo benessere psico-fisico. Ed è in questo contesto che la giurisprudenza richiamata dal Tribunale afferma la necessità che il consenso all’interruzione dei trattamenti sanitari, manifestato dal “rappresentante legale” del soggetto incapace, sia effettivamente espressivo della volontà dell’interessato.
Invero, la volontà del paziente deve ricostruirsi sulla base delle sue precedenti dichiarazioni e della sua personalità, del suo stile di vita e dei suoi convincimenti etico-religiosi, risultanti da elementi di prova chiari, univoci e convincenti, affinché sia garantita una decisione nell'esclusivo interesse dell'incapace. Si tratterebbe, dunque, della ricerca del best interest, l’ads dovendo assumere le decisioni non "al posto" dell'incapace né "per" l'incapace, ma "con" l'incapace, ricostruendo quanto più minuziosamente possibile la presunta volontà del paziente prima di cadere in stato di coscienza.
Una ricerca di notevole complessità, che mira a indagare i desideri espressi dal paziente prima della perdita della coscienza ovvero a desumere la volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche.
Forte di tali precedenti giurisprudenziali, il giudice di Belluno ha ribadito la necessità – in assenza di espresse Disposizioni Anticipate di Trattamento redatte nelle forme previste dall’art. 4 della legge 22 dicembre 2017 n. 219 – di procedere alla ricostruzione della volontà di Samantha, sulla base delle dichiarazioni rese dai familiari dell’interessata nel corso del procedimento.
Sul punto, il padre della beneficiaria ha riferito la ferma volontà di Samantha, emersa limpidamente nel corso della vita vissuta accanto alla famiglia, di non essere lasciata in condizioni di coma nel caso in cui si fosse trovata tenuta in vita da macchinari, in assenza di una possibilità di risveglio; in spregio a qualsiasi accanimento su chi non è in grado di esprimere la propria volontà. Un trattamento di questo tipo, nella ricostruita volontà di Samantha, sarebbe egoista e disumano.
Nondimeno, il Tribunale ha specificato come solamente a seguito della proposta di trattamento sanitario, formulata dal medico nell’interesse del beneficiario, l’amministratore di sostegno sia chiamato ed autorizzato – in forza di uno specifico provvedimento emesso dal giudice tutelare – ad esprimere (o rifiutare) il consenso informato riguardo alle cure proposte ed ai trattamenti necessari al sostegno vitale, senza che all’attribuzione del potere di prestare (o negare) tale consenso possa ricollegarsi quello di revocare un consenso già prestato o di sollecitare attivamente l’interruzione di tali trattamenti.
E ciò a maggior ragione in un caso come quello in esame, ove la beneficiaria del trattamento di sostegno vitale, da meno di un anno in uno stato vegetativo dichiarato irreversibile, ha appena trent’anni e non ha redatto espresse disposizioni anticipate di trattamento. Tali circostanze hanno imposto al giudice di applicare un principio generale di precauzione, ancor prima di ogni considerazione di carattere etico, atto ad accogliere un’interpretazione necessariamente restrittiva delle disposizioni della legge 22 dicembre 2017, n. 219.
Dopo aver delineato il quadro normativo-giurisprudenziale sopra ricostruito, il giudice ha nominato e attribuito all'amministratore di sostegno i poteri necessari alla cura e assistenza di Samantha e alla sua rappresentanza in via esclusiva, ivi compreso il potere di esprimere, in nome e per conto di lei, il consenso informato al compimento di tutte le necessarie attività diagnostiche, terapeutiche o chirurgiche.
Per quel che rileva maggiormente, è stato altresì’ attribuito all’ads il potere di prestare il consenso all’eventuale interruzione delle attuali terapie e dei trattamenti di mantenimento in vita della stessa, compresa la desistenza dalla nutrizione artificiale somministrata mediante PEG, purché a seguito di specifica proposta dei medici aventi in cura la paziente. I sanitari, difatti, in tanto potranno proporre interventi in tale direzione in quanto sussistano le condizioni di un severo aggravamento e di mancata risposta alle cure erogabili ovvero in presenza di rischi di complicanze, così come ribadito dal Comitato Etico per la Pratica Clinica dell’U.L.S.S. n. 1 Dolomiti.
Questa precisazione impone di scegliere, in concerto con i medici, le modalità di interruzione dei trattamenti ed il percorso di sedazione palliativa profonda idoneo a evitare qualsiasi fonte di sofferenza o dolore. Per converso, deve escludersi il conferimento di un autonomo potere di revoca del consenso (nonché di impulso all’interruzione) rispetto ai trattamenti di sostegno vitale attualmente in corso.
La disamina dell’iter logico argomentativo disegnato dal giudice tutelare del Tribunale di Belluno consente di trarre almeno due conclusioni di immediata percezione.
In primo luogo, la circostanza per cui dietro il consenso all’interruzione di trattamenti vitali si pone un’imprescindibile attività di concerto con i sanitari interessati - i soli a poter dare impulso e proposta alle procedure di interruzione - dimostra come il giudice abbia inteso sottrarre le determinazioni del caso a qualsiasi forma di automatismo e di arbitrarietà da parte dell’ads nominato. Come a voler sancire che, fermo il riconoscimento del potere di rifiutare i trattamenti salvavita, la parola Fine può essere pronunciata allorquando sussista la vigilanza, il concerto e l’osservazione da parte di soggetti “terzi e qualificati”.
La seconda conclusione che si legge marcatamente tra le righe delle dodici pagine del provvedimento, emergendo in formula limpida, è l’importanza delle Disposizioni Anticipate di Trattamento.
La ormai nota novità introdotta dalla Legge n. 219/2017 in merito alle D.A.T. appare di estrema rilevanza perché consente di esprimere anticipatamente le proprie volontà in ordine ai trattamenti sanitari, con una dichiarazione efficace per il futuro nell’ipotesi cui sopravvenga un’incapacità di autodeterminarsi. Il sanitario è, per ciò solo, tenuto al rispetto delle disposizioni anticipate di trattamento e può disattenderle, in accordo con il fiduciario, solo nel caso in cui appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica del paziente, ovvero per sopravvenienza di terapie non prevedibili al momento della redazione, idonee a garantire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita del paziente.
Nel panorama del fine vita, il ricorso alle DAT dimostra la sua urgenza soprattutto in casi come quello di Samantha, ove prestabilire anticipatamente punti fermi mette la persona in condizione di confrontarsi con un medico che le spieghi i trattamenti da ricevere o non in caso di futura incapacità di autodeterminazione, e/o con uno psicologo, trattandosi di una scelta che in larga misura dipende dai propri valori e dai limiti che si decide di fissare.
Un colloquio, quello sulle Dat, che parte sempre dalla persona, dalle sue conoscenze e da domande specifiche, soprattutto quando non si abbia una ferma conoscenza della legge, ma un forte desiderio di autodeterminazione. Redigere le DAT si traduce, allora, in una decisa espressione di autodeterminazione personale, imprescindibile per non lasciare ad altri il peso di scelte che possono essere difficilissime e che rischiano, fatalmente, di discostarsi dalla volontà dell’interessato, affinché spetti a lui e solo a lui dire la parola Fine.
3. Note di aggiornamento in tema di fine vita: l’autorizzazione al primo suicidio assistito in Italia tra innovazione e incertezze applicative
La storia di Samantha, stavolta osservata da lontano, non porta alla luce il solo tema delle DAT ma, in una prospettiva più ampia, tutto il macro-cosmo del fine vita, che al suo interno ricomprende almeno due grandi fenomeni: quello dell’eutanasia legale, in relazione al quale in Italia è in corso un iter referendario volto alla parziale abolizione dell’art. 579 c.p. nella fattispecie del reato di omicidio del consenziente, sì da consentire le pratiche di eutanasia attiva; quello del suicidio assistito, per cui recentemente si è compiuta un’innovazione tanto notevole quanto foriera di incertezze applicative.
Per meglio dire, lo scorso 23 novembre il comitato etico dell’azienda sanitaria delle Marche ha autorizzato il suicidio assistito di Mario, un paziente tetraplegico immobilizzato da dieci anni a causa di un incidente stradale e in condizioni irreversibili, dopo che a giugno il Tribunale di Ancona aveva ordinato di verificare se esistessero o meno le condizioni necessarie a tal fine. Il giudice anconetano aveva così riconosciuto in capo a Mario un vero e proprio “diritto all’accertamento” dei presupposti ritenuti necessari secondo la Corte Costituzionale.
Per la prima volta in Italia un’azienda sanitaria locale ha autorizzato il suicidio assistito ed applicato un’importante sentenza della Consulta del 2019 - pronunciata in relazione al noto caso Fabo e al processo in capo al leader radicale Marco Cappato - secondo la quale non è punibile il mero aiuto alla realizzazione di un proposito suicidario autonomamente cristallizzatosi, purché siano rispettate alcune condizioni.
La decisione dell’ASL Marche si innesta nella vicenda di fine vita di Mario, la cui richiesta di suicidio assistito era stata avanzata nell’agosto del 2020 e inizialmente respinta dall’ASL, rifiutandosi di attivare le procedure di accertamento indicate dalla sentenza della Corte Costituzionale per la non punibilità degli interventi di aiuto al suicidio. Tali condizioni impongono che il paziente, tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sia affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze psico-fisiche che egli reputa intollerabili.
Mario aveva quindi presentato un’istanza al Tribunale di Ancona, che in un primo momento aveva ribadito le ragioni dell’ASL e pur riconoscendo nel paziente i requisiti previsti dalla Consulta, non aveva ritenuto possibile obbligare gli operatori sanitari a garantire il diritto al suicidio assistito.
L’uomo aveva quindi presentato un ulteriore reclamo, a seguito del quale il Tribunale di Ancona aveva ribaltato la precedente decisione e ordinato all’azienda sanitaria delle Marche non di garantire il suicidio assistito bensì di verificare i criteri utili alla non punibilità dell’aiuto al suicidio.
Pertanto, il comitato etico dell’azienda, organismo indipendente di medici e psicologi chiamato a garantire la tutela dei diritti dei pazienti, ha riconosciuto nel paziente la sussistenza delle condizioni imposte dalla Consulta per l’accesso al suicidio assistito, specificando, tuttavia, che restano da individuare le modalità di attuazione.
Per meglio delineare il macro-cosmo del fine vita, deve precisarsi che il suicidio assistito è altro dall’eutanasia, nel suicidio assistito il farmaco necessario a uccidersi venendo autonomamente assunto dal paziente. Nell’eutanasia, per contro, il medico riveste un ruolo attivo e determinante, provvedendo a somministrare direttamente il farmaco e non limitandosi a sospendere le cure o i macchinari salvavita.
Dal punto di vista della normazione dei fenomeni delineati, attualmente in Italia manca una disciplina legislativa tanto dell’eutanasia attiva quanto del suicidio assistito, venendo in rilievo la sola sentenza della Corte Costituzionale sul caso Cappato. Per converso, l’eutanasia passiva, da intendersi come mero rifiuto delle cure, è consentita e regolata dalla legge sul testamento biologico.
Per quanto attiene all’eutanasia attiva, si ribadisce, è in corso la proposta di un referendum per cui a ottobre sono state depositate alla Corte di Cassazione più di un milione di firme e che se venisse autorizzato dovrebbe svolgersi il prossimo anno, abrogando una parte dell’articolo 579 del codice penale, in modo da consentire le pratiche eutanasiche “attive”.
È evidente che, l’intervenuto riconoscimento dell’aiuto al suicidio, per quanto rivoluzionario, lasci aperte e sospese notevoli incertezze sulle modalità attuative. Nel caso di specie, Mario nella sua richiesta aveva fatto una proposta sul farmaco da somministrare per accedere al suicidio assistito (il tiopentone sodico) e sul dosaggio da utilizzare, ma il comitato ha avanzato molteplici perplessità, sostenendo che il dosaggio richiesto (20 grammi) costituirebbe una quantità non supportata da letteratura scientifica e rilevando che la richiesta sarebbe manchevole delle specifiche modalità con cui procedere tecnicamente alla somministrazione.
Nell’orbita di tali incertezze, dopo la decisione del comitato etico dell’Asur, la Regione Marche ha comunicato che dovrà essere il tribunale di Ancona, con nuova decisione, a determinare se il paziente tetraplegico potrà avere diritto al suicidio medicalmente assistito; quasi a rivelare un’amara verità, che ad ogni prudente passo avanti in tema di fine vita debba seguire qualche diffidente passo indietro, qualche passaggio di testimone ai giudici che, ancora una volta, sono chiamati a “dettare legge”.
Del resto, il problema principale in materia permane quello legislativo, mancando una legge sul suicidio assistito, dietro il silenzio del Parlamento e la ritrosia, più o meno espressa, dei partiti politici. Sebbene una proposta di legge in materia di morte volontaria medicalmente assistita sia all’esame delle commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera, c’è la concreta possibilità che prima dell’approvazione della legge si concluda l’iter referendario sull’eutanasia legale.
Se questo è lo stadio attuale del fine vita in Italia, allora le storie di Dj Fabo, ieri, di Samantha D’Incà, oggi, di Mario, ancora, rivelano un unico dato di fatto: nell’incerto macro-cosmo del fine vita, l’unica certezza pare essere rappresentata dal ricorso al “rinvio indietro” ai giudici, chiamati a dare corso ad una “giurisprudenza creativa”, quella che ad oggi sembra essere l’unica a decidere davvero a chi (e come) spetti pronunciare la parola Fine.
Riferimenti
1) Corte Costituzionale, sentenza del 13 giugno 2019, n. 144;
2) Corte Costituzionale, sentenza del 25 settembre 2019, n. 242;
3) Corte di Cassazione, sentenza del 4 ottobre 2007 n. 21748;
4) Legge sul Consenso Informato e sulle DAT del 22 dicembre 2017 n. 219, pubblicata in G.U. del 16 gennaio 2018, n. 12;
5) Passaro D., Lo scenario italiano del fine vita, in Giustizia Insieme, 15 aprile 2019;
6) Passaro D., A sostegno e a difesa della persona umana: il diritto al rifiuto delle cure tra poteri dell’ADS e prerogative del giudice tutelare., in Giustizia Insieme , 24 marzo 2020;
7) Passaro D., La rivoluzione “clandestina” dopo il caso Dj Fabo: commento alla sentenza del Tribunale di Ancona del 9 giugno 2021, in Giustizia Insieme, 9 luglio 2021;
8) Tribunale di Ancona, ordinanza del 9 giugno 2021.