ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
NO al sorteggio, SÌ al proporzionale di lista per un autogoverno responsabile
di Paola Filippi
Il 27 e 28 gennaio prossimo i magistrati, iscritti all’associazione nazionale, saranno chiamati a rispondere a due quesiti referendari.
Il primo quesito è: “Vuoi che i candidati al C.S.M. siano scelti mediante sorteggio di un multiplo dei componenti da eleggere?”
Il secondo quesito è: “Quale sistema ritieni preferibile per l’elezione della componente togata del CSM? Ad ispirazione maggioritaria o Ad ispirazione proporzionale”.
Il referendum è stato indetto dal Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati, ai sensi dell’ art. 55 dello Statuto. E’ la prima volta, nella storia della magistratura, che viene indetto un referendum sull’elezione dei componenti togati, elezione prevista – non guasta ricordarlo - dal quarto comma dell’art. 104 della Costituzione.
L’esito del voto - questo sia chiaro - non produrrà alcun effetto sulla disciplina vigente o sulla riforma del sistema elettorale del quale si sta occupando la Commissione Luciani nominata con d.m. 26 marzo 2021- ma offrirà contezza di come la pensa sul punto la maggioranza dei magistrati, questa è la ragione per cui è fondamentale votare.
Attraverso la partecipazione al referendum si darà voce al pensiero collettivo della magistratura, sulla modalità di voto (o di non voto) dei componenti togati e, di riflesso, sull’importanza che si attribuisce alla massima istituzione posta a presidio dell’autonomia, dell’indipendenza e del prestigio della magistratura, organo di rilevanza costituzionale e di alta amministrazione, presieduto dal Presidente della Repubblica.
Perché il referendum abbia un senso è fondamentale votare e votare tutti, come scriveva, Antonio Gramsci “vivere è partecipare” e “l’indifferenza è la materia bruta che strozza l’intelligenza.”
Questo dunque il primo invito: partecipiamo tutti al referendum indetto dall’ANM.
Dallo stesso invito alla partecipazione discende come logico corollario l’invito a votare NO al sorteggio di un multiplo dei componenti da eleggere, e ciò in quanto il sorteggio nega l’esercizio, nella sua pienezza, del diritto dovere attraverso il quale si realizza la prima ed essenziale forma di partecipazione all’autogoverno della magistratura: la scelta della componente togata.
“No” perché nessuna buona soluzione può provenire dal sorteggio, se non la falsa promessa che tutti sono bravi a far tutto.
“No” perché il sorteggio deresponsabilizza elettori e eletti, i primi perché la loro scelta non è determinante in quanto condizionata dal sorteggio, i secondi perchè non dovranno dar conto agli elettori del loro operato in quanto la nomina la devono all’ordalia.
“No” al sorteggio perché la deresponsabilizzazione degli elettori e degli eletti mina alla radice la credibilità all’istituzione.
“No” perché il sistema del sorteggio è incompatibile con la previsione costituzionale dell’elezione dei componenti del Consiglio, previsione che implica una scelta potenzialmente determinante. La lettura dei verbali dell’assemblea costituente offre spunti pregevoli in ordine all’intangibilità del diritto dovere all’elettorato attivo e a quello passivo che ben ne chiarisce la non limitabilità degli stessi.
“No” perché il sorteggio implica pavida rinuncia a trovare una soluzione concreta e efficace alle degenerazioni correntizie.
Gli elettori devono poter scegliere i loro rappresentanti e farlo senza “indicazioni vincolanti di voto”, la lesione della libertà di scelta, diciamocelo con franchezza, si verifica però anche quando i candidati sono scelti dai dirigenti delle correnti e allora il sorteggio, a paragone di un numero di candidati in lista uguale a quello dei componenti da eleggere, appare una stortura non così grave.
L’attuale sistema elettorale – sistema maggioritario con collegio uninominale-, adottato d’urgenza con la legge n. 44 del 2002, allo scopo non celato di “contenere il peso delle correnti” è un classico esempio dell’heterogonie der zwecke di Wilhelm Wundt. Il sistema elettorale introdotto nel 2002 ha, infatti, prodotto l’effetto di rafforzare gli aspetti deviati delle correnti che, con repentino spirito di conservazione, hanno messo in atto meccanismi di scelta apicale e cartelli elettorali per assicurarsi un adeguato numero di seggi.
Si tratta di meccanismi che ben potrebbero essere adottati anche con il sistema maggioritario con pluralità di collegi, ad esempio, tra le correnti più forti potrebbero raggiungersi accordi di desistenze tra territori.
Il sistema maggioritario limita la scelta degli elettori in quanto, al pari del sistema vigente, determina la necessità che le correnti per implementare al massimo l’esito elettorale e evitare dispersioni, concentrino il voto verso pochi prescelti. In generale il sistema maggioritario ha come pregio quello di assicurare stabilità di governo in quanto esclude le minoranze, tema questo estraneo però al governo autonomo della magistratura non condizionato a una permanenza fondata sulla fiducia. L’esclusione delle minoranze elide dunque la massima estensione del pluralismo senza alcun corrispettivo vantaggio.
La scelta dei propri rappresentanti in consiglio da parte dei magistrati, attraverso l’esercizio del diritto di voto - primo e imprescindibile momento attraverso il quale si esercita l’autogoverno della magistratura-, tanto più sarà efficace e determinante ai fini della formazione della componente togata quanto più sarà ampio il confronto elettorale e effettiva la competizione. In quest’ottica il voto di lista, che evita la dispersione del voto, va considerato un utile deterrente ai rischi connessi alle indicazioni di voto provenienti dai dirigenti delle correnti.
Il sistema proporzionale di lista – quale quello previsto per le elezioni dei consigli giudiziari da attuarsi con adeguato accorpamento dei collegi- è un ottimo sistema perché in grado di offrire ampio spazio alla libertà di scelta in favore del collega della porta a fianco le cui idee, in ordine alle scelte che impegnano l’autogoverno, si condividono. E ciò senza che il timore della dispersione del voto -che nel proporzionale di lista va a sommarsi ai fini del calcolo dei seggi in favore del gruppo- convinca l’elettore a rinunciare alla sua libertà di scelta e a seguire indicazioni impartite dall’alto. Si tratta di criticità alla quale - con l’entrata in vigore dell’attuale legge elettorale- prima il Movimento per la Giustizia e poi Area democratica per la giustizia hanno tentato di ovviare attraverso metodi “fuori sistema” indicendo elezioni primarie finalizzate all’individuazione partecipata dei candidati. Elezioni primarie che furono indette dall’Anm per le elezioni della consiliatura 2014-2018.
Con riferimento al secondo quesito l’invito è dunque a votare in favore del sistema elettorale ad ispirazione proporzionale. Un sistema elettorale, non a caso spinto nel primo novecento dalle formazioni politiche di massa, quelle centriste popolari, e quelle di sinistra socialiste. Democraticità e rappresentatività sono i tratti che caratterizzano il sistema proporzionale perché in grado di riprodurre il pluralismo culturale degli elettori.
Il nostro invito a votare, e votare per il sistema ad ispirazione proporzionale è rivolto soprattutto ai giovani magistrati che ci auguriamo condividano il pensiero che il male non è nell’associarsi e nel partecipare, ma piuttosto nell’abbandono della partecipazione, nell’abbandono dell’etica della polis.
E’ l’isolamento che consegue all’abbandono dell’agorà il complice del potere dei pochi e dell’esercizio debosciato dello stesso. Se il qualunquismo vince il governo della magistratura cade in mano di chi, lontano dalla politica ragionevole e trasparente delle decisioni, opera nell’interesse dei suoi accoliti.
Il male che si annida nelle correnti è da individuare allora nella perdita delle idee, degli ideali e dei valori.
Non è il confronto culturale attivo che “ammalora” la magistratura, non è la partecipazione alla vita associativa, bensì la ragione non collettiva che muove il singolo.
E’ la strumentalizzazione del gruppo a fini individuali che, da centro di elaborazione del pensiero, lo trasforma in consorteria che “compete e combatte” per la collocazione dei suoi adepti in centri di potere e soddisfa le ambizioni dei singoli.
Non possiamo far prevalere l’idea che “la migliore qualità per governare sia quella di non voler governare” – come ci avverte Giuseppe Santalucia I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme, ma occorre che per interessi collettivi e pubblici, mai individuali, ci si riappropri degli spazi lasciati in balia del malgoverno di pochi.
La magistratura non deve essere corporativa, autoreferenziale e ripiegata su sé stessa, bensì deve essere impegnata a ricercare soluzioni per il miglior servizio giustizia.
La cura contro il correntismo è nelle mani dalle nuove generazioni di magistrati.
Ma non bisogna farsi illusioni: è dalla determinazione con la quale i giovani magistrati sapranno riappropriarsi dei luoghi dell’elaborazione culturale da porre a servizio della politica delle decisioni consiliari, nonché dalla risolutezza con la quale saranno in grado di ripudiare e emarginare coloro che hanno asservito al carrierismo la partecipazione alla vita associativa che dipende il futuro dell’autonomia del governo della magistratura italiana.
* Rinviamo alla lettura di Migliorare il Csm nella cornice costituzionale di Paola Filippi del quale in questo scritto sono stati ripresi alcuni passaggi.
* Sul tema in questa rivista si legga Riforma del Csm. Le proposte della Commissione Luciani di Edmondo Bruti Liberati; le ragioni della composizione mista e delle modalità di formazione di Francesca Biondi, Il Consiglio superiore della magistratura tra crisi e prospettive di rilancio di Francesco Dal Canto, La rappresentanza di genere nel CSM di Donatella Ferranti, Quale riforma per il CSM? Riflessioni sull’elezione del Vicepresidente e sul rinnovo parziale di Alberto Maria Benedetti e Filippo Donati, I difetti dell’attuale sistema elettorale del CSM: una prospettiva per il futuro prossimo che non metta a rischio l’autonomia della magistratura di Giacomo D'Amico Il metodo elettorale del sorteggio. Appunti sul ruolo storico del sorteggio nella selezione dei titolari di poteri pubblici di Salvo Spagano; Quale sistema elettorale per quale csm di Edmondo Bruti Liberati; Dubbi di legittimità costituzionale sul sistema elettorale dei membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura secondo il "ddl Bonafede" di Antonio Mondini
* Sulla rivista il Ponte La crisi del Csm di Giancarlo Scarpari
Il Consiglio di Stato (e la) nomina (del) Presidente e (del) Presidente aggiunto della Corte di Cassazione (Consiglio di Stato, Sez. V, 14 01 2022 nn. 267 e 268)
Tre candidati eccellenti concorrono per la nomina all’ufficio di Presidente e Presidente aggiunto della Corte di Cassazione.
È pacifico che si tratti di candidati eccellenti e che vi sia stata effettiva comparazione dei rispettivi curricula ai fini della nomina.
È pacifico che non vi siano state violazioni dei criteri di nomina così come predefiniti nel T.U. sulla dirigenza giudiziaria (in ptcl dall’art. 21 che stabilisce che “ «Costituiscono specifici indicatori di attitudine direttiva […]: a) l’adeguato periodo di permanenza nelle funzioni di legittimità almeno protratto per sei anni complessivi anche se non continuativi; b) la partecipazione alle Sezioni Unite; c) l’esperienza maturata all’ufficio spoglio; d) l’esperienze e le competenze organizzative maturate nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, anche con riferimento alla presidenza dei collegi»), nel senso che è pacifico che il CSM abbia deciso in base a questi e non altri criteri.
Nel caso della nomina del Presidente, il Consiglio di Stato ha tuttavia ritenuto insufficientemente motivati i giudizi di prevalenza in quanto privi di “spiegazione concreta e circostanziata” laddove hanno ritenuto sostanzialmente equivalenti esperienze consistentemente diverse (funzioni di legittimità); ovvero privi di ragionevole e compiuta spiegazione dell’esito valutativo perché “l’oggettiva consistenza dei dati curriculari nei termini suindicati avrebbe richiesto una (ben diversa e) più adeguata motivazione in ordine alle conclusioni raggiunte dal Csm: seppure il dato quantitativo-temporale sul possesso degli indicatori specifici non ha infatti valore assorbente e insuperabile, né implica di per sé alcun automatismo sull’esito valutativo, occorre nondimeno una motivazione ragionevole e adeguata per poter giustificare una conclusione difforme dalle (univoche) emergenze dei dati oggettivi” (“partecipazione alle Sezioni Unite); o ancora formulati “ al di là della opinabilità, e cioè del fisiologico esercizio della discrezionalità spettante all’amministrazione nel quadro degli indicatori previsti dal Testo unico” nel momento in cui si è ritenuto che una determinata sezione (la Sesta Civile) rivestisse un ruolo essenziale e strategico quale Sezione filtro perché tale valutazione sarebbe avvenuta “in assenza di criteri (predeterminati) in tal senso nell’ambito del Testo unico” e conduce evidentemente “ben oltre la discrezionalità valutativa nell’apprezzamento dell’uno o dell’altro profilo curriculare” (ufficio spoglio).
Nel caso della nomina del Presidente aggiunto, il Consiglio di Stato ritiene del pari che “l’oggettiva consistenza dei dati curriculari nei termini suindicati avrebbe richiesto una (ben diversa e) più adeguata motivazione in ordine alla conclusione di ritenuta equivalenza dei profili dei candidati, conclusione che non risulta invece allo stato esplicabile né ragionevolmente intellegibile alla luce dello scarno passaggio motivazionale speso dal Csm al riguardo Tanto in più in un caso, quale quello in esame, in cui l’importanza del posto a concorso, gli eccellenti profili dei candidati in competizione e la indiscutibile rilevanza dei loro curricula impongono - oltre all’attenta, accurata e completa ricognizione di tutti gli aspetti della rispettiva carriera, anche attraverso la opportuna comparazione - un particolare obbligo di motivazione, puntuale ed analitico, tale da far emergere in modo quanto più preciso ed esauriente le ragioni della prevalenza di un candidato sull’altro”.
Sembra così rimanere poco più che una clausola di stile il riconoscimento al CSM della “esclusiva attribuzione del merito delle valutazioni, su cui non è ammesso alcun sindacato giurisdizionale”, a dispetto del fatto che in presenza di situazioni di eccellenza il giudizio diventa inevitabilmente sottile e raffinato e veramente difficile da sindacare.
E diventa altresì difficile comprendere quali sarebbero i margini entro i quali potrebbe muoversi la valutazione di merito, se tutto deve essere necessariamente predeterminato in maniera assolutamente vincolante.
Pronunce siffatte rendono evidente l’anomalia di un sistema che concentra nel giudice amministrativo il sindacato sulle nomine agli uffici di pressoché tutte le magistrature nazionali e che, nel momento in cui include anche le proprie (della magistratura amministrativa) e quelle degli organi chiamati a sindacare le sentenze stesse del Consiglio di Stato (Cassazione) appare di dubbia costituzionalitá (cfr. Corte cost. 168/1963).
La Redazione
*sul tema si legga Autogoverno della magistratura e tutela giurisdizionale. Brevi cenni sui profili problematici della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei magistrati
Il membro laico del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana è un consigliere di Stato? (Nota a Cons. St., Sez. V, 14 settembre 2021, n. 6282)
di Riccardo Pappalardo
Sommario: 1. Premessa - 2. Il fondamento storico e giuridico del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana - 3. L’art. 23 e l’autonomismo giudiziario della Regione Siciliana - 4. La composizione del Consiglio di Giustizia: il caso dei componenti laici - 5. Differenza tra rapporto organico e rapporto di servizio dei componenti laici - 6. Una “sezione” un po’ particolare - 7. La natura di giudici onorari dei componenti laici del CGARS - 8. La temporaneità dell’incarico - 9. L’indipendenza del componente laico - 10. I componenti laici alla luce del diritto eurounitario.
1. Premessa
La sentenza in commento, muovendo da un quesito apparentemente secondario e legato all’organizzazione interna della giustizia amministrativa, affronta abilmente una tematica di portata ordinamentale soffermandosi sulla natura del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (CGARS) e, in particolare, su quella dei suoi componenti “laici”.
Il thema decidendum origina dal ricorso che un avvocato, membro laico del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, ha presentato avverso il provvedimento con cui il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa ha rigettato la sua richiesta di trasferimento “nella qualità di Consigliere di Stato” presso una delle Sezioni con sede in Roma del Consiglio di Stato.
Soccombente in primo grado, il ricorrente ha proposto appello dinnanzi al Consiglio di Stato sia per l’accertamento del proprio status di consigliere di Stato a tempo indeterminato sia per ottenere il trasferimento della sede.
2. Il fondamento storico e giuridico del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana
Prima di ripercorrere più nel dettaglio il percorso motivazionale seguito dalla sentenza, appare utile soffermarsi brevemente sul fondamento storico del Consiglio di Giustizia e sul quadro normativo di riferimento.
Com’è noto, la Regione Siciliana è una regione a statuto speciale, probabilmente la più speciale tra le speciali, e il suo spirito indipendentista affonda le radici nella storia più antica.[1]
Patria dei Vespri siciliani del 1282 contro la dominazione angioina, lì ebbero origine anche i moti rivoluzionari del 1848 prima di irradiarsi in tutta Europa e certamente non fu casuale che l’avventura garibaldina dei mille abbia fatto rotta verso le coste siciliane.[2]
Considerati quindi la tempra e gli ardori indipendentisti dei suoi abitanti, non stupì eccessivamente che, terminato il ventennio fascista, il suo Statuto venne emanato con il Regio Decreto Legislativo 15 maggio del 1946, ben prima, quindi, che si svolgesse il referendum del 2 giugno che avrebbe chiamato gli italiani a fare una netta scelta tra repubblica e monarchia.[3]
L’autonomia regionale era non solo l’occasione per i siciliani di avere quell’autogoverno tanto agognato e che non avevano mai pienamente vissuto fino a quel momento, ma anche uno strumento organizzativo in grado di aumentare il carattere democratico dell’intera nazione.[4]
Lo Statuto, che muoveva da queste istanze del popolo siciliano, a norma del secondo comma dell’art. 1 del Regio Decreto Legislativo del ‘46 entrò subito in vigore ma avrebbe dovuto essere sottoposto all’Assemblea Costituente per essere coordinato con la nuova Costituzione dello Stato, e così avvenne, sebbene formalmente.
Nelle due sedute del 31 gennaio 1948, infatti, l’Assemblea Costituente discusse della compatibilità dello Statuto siciliano con la neonata Costituzione e, con la legge costituzionale n. 2 del 1948, decise di approvarlo senza alcuna variazione, attribuendogli così il rango di fonte costituzionale. Si previde però, al secondo comma dell’art. 1, un termine di due anni entro il quale, su iniziativa dello Stato o della Regione, il Parlamento, con legge ordinaria, avrebbe potuto apportare le modifiche ritenute necessarie.[5] Eventualità, questa, nei fatti mai verificatasi, dato che l’Alta Corte per la Regione Siciliana[6], in forza delle sue prerogative di giudice costituzionale, con la sentenza 10 luglio 1948 n. 4, dichiarò incostituzionale tale procedura speciale di revisione, facendo così naufragare quella possibilità di intervento contemplata dai costituenti.[7]
3. L’art. 23 e l’autonomismo giudiziario della Regione Siciliana
Seppur di indubbio interesse, non è certo questa la sede per ripercorrere le tappe e le peculiarità storico-giuridiche della Sicilia.
Per il tema che ci occupa bisogna, invece, sottolineare che uno dei principali punti in cui appariva faticoso il coordinamento tra lo Statuto siciliano e la Costituzione repubblicana fu l’autonomismo giudiziario della Regione Siciliana[8]. Questo, per quanto ridimensionato nel tempo con il venir meno dell’Alta Corte[9], trova tutt’oggi il suo riconoscimento nell’art. 23 dello Statuto, che nei primi due commi statuisce che “gli organi giurisdizionali centrali avranno in Sicilia le rispettive sezioni per gli affari concernenti la Regione. Le Sezioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti svolgeranno altresì le funzioni rispettivamente consultive e di controllo amministrativo e contabile”.
Il decentramento territoriale degli organi giurisdizionali statali costituisce, a ben vedere, un nodo centrale per preservare l’animo autonomista dell’Isola e va rintracciato nel “mai sopito rimpianto dei siciliani ed in particolare del foro, lasciato dalla soppressione, con l’unificazione attuata nel 1923, della Corte di Cassazione di Palermo”.[10]
Si tratta di una risalente tradizione giuridica, testimoniata dalla presenza della Corte di Cassazione di Palermo prima dell’unificazione del 1923[11], ma che risale all’ordinamento del Regno delle Due Sicilie, con l’istituzione nel 1819 della Corte Suprema di Giustizia di Palermo, speculare all’omologa Corte con sede a Napoli.
Per quel che riguarda la giustizia amministrativa, l’attuazione dell’art. 23 dello Statuto si scontrò con l’Adunanza generale del Consiglio di Stato[12], che si oppose con fermezza all’istituzione di una sezione territorialmente distaccata, paventando il rischio di pregiudizio per “l’unità del sistema giuridico nazionale”.[13]
Sulla scorta di tali preoccupazioni fu emanato il D.lgs. 6 maggio 1948, n. 654[14], con cui, anziché istituire una Sezione del Consiglio di Stato in Sicilia, si forgiò un nuovo organo, denominato Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, con sede a Palermo e competenza a decidere in via giurisdizionale gli appelli proposti avverso le decisioni delle Giunte provinciali amministrative (e poi, dopo la loro istituzione, delle sezioni del Tribunale Amministrativo Regionale per la Regione Siciliana).[15]
L’assetto venutosi a creare nel 1948, quindi, andava in un senso decisamente divergente rispetto a quello indicato nell’art. 23 dello Statuto ed era sostanzialmente bicefalo: da un lato vi era il Consiglio di Giustizia, con competenza limitata alla Regione Siciliana e, dall’altro, il Consiglio di Stato, con competenza sul resto del territorio nazionale.
A testimonianza di tale dualismo, l’art. 5 del D.lgs. n. 654 del 1948 chiariva che “Il Consiglio di giustizia amministrativa esercita le funzioni in grado di appello attribuite al Consiglio di Stato”.
Questo impianto istituzionale si mantenne per oltre cinquant’anni, fino a quando il D.lgs. 24 dicembre 2003 n. 373, recante nuove “Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana concernenti l’esercizio nella regione delle funzioni spettanti al Consiglio di Stato”, abrogò il decreto del 1948, cambiando contestualmente la veste del Consiglio di Giustizia, quantomeno sotto il profilo formale.
Il comma 2 dell’art. 1, del nuovo decreto, infatti, dispone che “il Consiglio di giustizia amministrativa ha sede in Palermo ed è composto da due Sezioni, con funzioni, rispettivamente, consultive e giurisdizionali, che costituiscono Sezioni staccate del Consiglio di Stato”.
Il decreto del 2003, dunque, offre una definizione più aderente al testo dell’art. 23 dello Statuto e ordina in maniera più armonica la giurisdizione amministrativa, mantenendo comunque fermo il principio di specialità per la Regione Siciliana che, come sostenuto anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 316 del 2004, esprime “un’aspirazione viva, e comunque saldamente radicata nella storia della Sicilia, ad ottenere forme di decentramento territoriale degli organi giurisdizionali centrali”.[16]
Nella sentenza appena menzionata il Giudice delle leggi, pur riconoscendo le innovazioni apportate dal decreto attuativo del 2003, ha avuto cura di precisare che anche sotto il vigore del d.P.R. n. 654 del 1948 poteva ritenersi che il Consiglio di Giustizia esercitasse le stesse funzioni delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato[17]. Sotto questo profilo, pertanto, la riforma del 2003 aveva solamente rimosso le anomalie già segnalate dalla Corte costituzionale al fine di ripristinare l’originario modello statutario di decentramento, organizzato su due sezioni “staccate” del Consiglio di Stato.
4. La composizione del Consiglio di Giustizia: il caso dei componenti laici
Sulla base di quanto illustrato, e in considerazione delle vigenti fonti di rango sia costituzionale che primario, è dunque possibile affermare che il Consiglio di Giustizia non può considerarsi alla stregua di un giudice speciale, bensì quale sezione del Consiglio di Stato, seppur caratterizzata da alcune peculiarità.
Se si tralascia la circostanza, tutt’altro che marginale, di aver una denominazione propria e diversa da quella di “Consiglio di Stato”, la prima a venire in rilievo per il Consiglio di Giustizia Amministrativa è chiaramente la collocazione territoriale della sede, a Palermo anziché a Roma, a cui si correla il tipo di competenza che, a differenza di quanto avviene per le restanti sezioni del Consiglio di Stato, non è per materia ma per territorio.
La seconda, fondamentale, peculiarità riguarda la composizione: tanto la sezione consultiva quanto quella giurisdizionale devono essere composte da consiglieri di Stato[18] e da membri non togati (c.d. laici) in possesso dei requisiti di cui all’articolo 106, terzo comma, della Costituzione per la nomina a consigliere di Cassazione[19] ovvero di cui all’articolo 19, primo comma, numero 2), della legge 27 aprile 1982, n. 186[20], a cui si aggiunge un prefetto della Repubblica per la sezione consultiva.
Eccezion fatta per il prefetto, il quale viene designato dal Ministro dell’Interno di concerto con il Ministro per gli affari regionali, i restanti componenti laici vengono designati dal Presidente della Regione Siciliana.
La nomina è invece rimessa ad un decreto del Presidente della Repubblica, emanato su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri (a cui, per espressa disposizione dell’art. 6 del D.lgs. n. 373 del 2003, partecipa anche il Presidente delle Regione Siciliana).
A norma dell’art. 4, comma 2, del D.lgs. n. 373 del 2003, peraltro, il collegio giudicante deve essere composto da uno dei due presidenti della Sezione, da due consiglieri di Stato e da due dei membri laici. Con tale scelta, quindi, il Legislatore ha voluto sottolineare la centralità del contributo dei componenti laici, la cui necessaria presenza nel collegio giudicante, tuttavia, come ben evidenziato da autorevole dottrina, pone importanti difficoltà, specie nel caso in cui gli organi politici tardino ad effettuare le nomine, non essendo previsto per i componenti laici uscenti l’istituto della prorogatio.[21]
È al lume di queste premesse che il D.lgs. n. 373 del 2003, delineando il nuovo assetto organizzativo del CGARS, equipara formalmente i membri laici ai componenti togati per quanto concerne il loro status giuridico, il regime disciplinare e, seppur entro certi limiti, il trattamento economico.[22] A differenza dei consiglieri di Stato di nomina governativa, però, il loro incarico dura sei anni e non è rinnovabile.
Partendo da queste coordinate, il Consiglio di Stato ha intessuto la trama della decisione qui in commento a fronte delle censure mosse alla decisione del Consiglio di Presidenza, che ha rigettato la richiesta avanzata da un membro laico del CGARS per il riconoscimento dello status di consigliere di Stato e il conseguente trasferimento a una “sezione romana”.
Seppur il D.lgs. n. 373 del 2003 non rechi espressamente alcun divieto di trasferimento dei membri laici, i giudici di Palazzo Spada hanno affermato che tale divieto si ricava per implicito ed è connaturato nella natura del CGARS e nella dimensione esclusivamente regionale delle funzioni di consulenza giuridico-amministrativa e di giurisdizione attribuite a tale organo, sussistendo un “vincolo di permanenza del componente laico presso il Consiglio di giustizia amministrativa”.
Diversamente opinando, nota il Consiglio di Stato, tenuto conto della necessaria partecipazione di membri laici e togati, si perverrebbe a due contraddizioni: da un lato componenti espressione delle istanze autonomistiche della Regione Siciliana andrebbero a svolgere le loro funzioni al di fuori del territorio regionale, introducendosi, peraltro, un fonte di provvista dei consiglieri di Stato ulteriore rispetto a quelle previste dall’art. 19 della legge n. 186 del 1982; dall’altro, per ovviare alle scoperture di organico che si verrebbero a creare, al fine di ripristinare il numero dei componenti laici previsto dagli artt. 3 e 4 del D.lgs. n. 373 del 2003, si renderebbe necessaria la nomina di altri componenti laici, che a loro volta potrebbero chiedere di essere trasferiti, e così via.
Inoltre, se si considerasse anche il possibile flusso inverso, con tutta evidenza si altererebbe il rapporto laici-togati presso il Consiglio di Giustizia Amministrativa previsto dalla legislazione attuativa dello statuto regionale.
Ma ciò che più conta è che, ove in ipotesi si ammettesse la libera mobilità verso le sezioni del Consiglio di Stato, si interromperebbe il legame funzionale esclusivo con l’attività giurisdizionale e consultiva relativa agli affari di interesse regionale che contraddistingue il rapporto organico dei componenti laici del Consiglio di Giustizia Amministrativa, ed in base al quale questi ultimi sono investiti di “una funzione legata all’amministrazione della giustizia esclusivamente nel territorio regionale e alle controversie in cui è interessata la regione stessa” (Cons. St., Sez. I, 11 febbraio 2021, n. 186).
5. Differenza tra rapporto organico e rapporto di servizio dei componenti laici
Il Consiglio di Stato, facendo riferimento al rapporto organico che lega i membri laici al Consiglio di Giustizia, recupera dunque il ragionamento giuridico seguito pochi mesi prima in sede consultiva quando, chiamato a rendere parere, ha escluso la partecipazione dei suddetti componenti laici all’Adunanza Generale del Consiglio di Stato ove non si trattino affari inerenti alla Regione Siciliana.
Occorre distinguere, quindi, le funzioni giurisdizionali o consultive svolte dal componente laico (che attengono al “rapporto organico” con l’Ente) dalla relazione giuridica che lo lega alla giustizia amministrativa (ossia, il “rapporto di servizio”). Quest’ultimo, rispetto al rapporto organico, si pone in posizione accessoria.
L’art. 7, comma 1, del D.lgs. n. 373 del 2003, come si è già avuto modo di evidenziare, prevede che ai membri laici, durante il periodo in cui svolgono le funzioni, si applicano le norme concernenti lo stato giuridico ed economico dei consiglieri di Stato, ossia le norme che disciplinano i contenuti del rapporto di servizio. Ciò dimostrerebbe, ad avviso del Consiglio di Stato, che siffatta equiparazione è prevista dalla legge solo con riferimento allo status di magistrato, ma non anche in relazione alle funzioni esercitate.
In altre parole, i componenti laici sono equiparati ai consiglieri di Stato solo per quel che concerne lo stato giuridico, il regime disciplinare e il trattamento economico, ma non anche per quanto riguarda le funzioni esercitate, le quali, attenendo al rapporto organico con il CGARS, non possono che esercitarsi presso quest’ultimo.
Sicché, mentre per i consiglieri di Stato l’assegnazione al CGARS “costituisce una vicenda modificativa inerente al rapporto di organico e di servizio” (con il collocamento fuori ruolo e il mutamento della sede), i componenti laici hanno un vincolo di sede presso lo stesso organo di giustizia amministrativa, giustificato dall’interesse regionale che sorregge sia loro nomina, sia, di conseguenza, la costituzione del rapporto organico con il CGARS.
6. Il CGARS, una “sezione” un po’ particolare
La conclusione cui è pervenuto il Consiglio di Stato induce a riflettere su come possa il rapporto organico intercorrere solamente con il CGARS dal momento che quest’ultimo è da considerarsi una sezione, sebbene un po’ singolare, del Consiglio di Stato.
Si potrebbe sostenere, infatti, che l’Ente presso cui si incardina il rapporto non potrebbe che essere il Consiglio di Stato e non una sua sezione, la quale costituirebbe sempre un’articolazione dell’Ufficio giudiziario.
In verità, qualsiasi riflessione giuridica sulla natura del CGARS, benché debba avere quale stella polare l’art. 23 dello Statuto siciliano - che ha valore di fonte costituzionale e che prevede solamente l’istituzione di “Sezioni regionali del Consiglio di Stato” - non può non considerare la disciplina complementare dettata dal decreto del 2003, la quale, nonostante il superamento della previgente normativa del 1948 e le definizioni formali, sembrerebbe disciplinare il CGARS come un Ente autonomo rispetto al Consiglio di Stato. Sul punto, sono incisive le parole di F.G. Scoca, secondo cui “Se il C.G.A. non è soltanto una espressione verbale per indicare insieme le due Sezioni, esso si erge come organismo a sé stante, distinto dal Consiglio di Stato, anche se legato a quest’ultimo per le funzioni e, in parte, per la composizione”.[23]
È di tutta evidenza, alla luce di quanto si è avuto modo di esporre, che le sezioni del Consiglio di Giustizia non possono considerarsi al pari di sezioni “specializzate” del Consiglio di Stato, visto che non si occupano di materie diverse dalle restanti Sezioni del Consiglio di Stato, né propriamente di sezioni territorialmente “staccate”, in quanto non sono semplici articolazioni territoriali, ma hanno una competenza propria ed esclusiva, a tratti persino diversa da quella del Consiglio di Stato (si pensi che, nella sua composizione consultiva, il Consiglio di Giustizia è organo di consulenza giuridico-amministrativa del Governo regionale siciliano, ed è chiamato a rendere il parere sui ricorsi straordinari al Presidente della Regione).
Non sarebbe neppure immaginabile un conflitto di competenza tra Sezioni interne del Consiglio di Stato, come invece espressamente previsto nel caso di decisioni del CGARS. All’art. 10 del decreto legislativo del 2003, infatti, al comma 1, si prevede che “Le questioni inerenti alla competenza del Consiglio di giustizia amministrativa in sede giurisdizionale sono rilevabili anche d’ufficio”. Il comma 5, invece, devolve all'Adunanza plenaria la cognizione dei conflitti di competenza, in sede giurisdizionale, tra il Consiglio di Giustizia ed il Consiglio di Stato.
Non può inoltre trascurarsi che i consiglieri di Stato assegnati al Consiglio di Giustizia sono, per espressa previsione dell’art. 8 del D.lgs. n. 373 del 2003, collocati “fuori ruolo”, ossia “esercitano le loro funzioni fuori dall’Istituto al quale organicamente appartengono”.[24]
Sotto quest’ultimo profilo bisogna, però, a onor del vero, dar conto dell’indirizzo dell’Adunanza generale del Consiglio di Stato che, nel suo parere del 27 febbraio 2003, n. 1, ha specificato che, dopo la riforma del 2003, l’espressione “collocamento fuori ruolo” non riveste più un concreto significato, stante l’equiparazione tra CGARS e Consiglio di Stato.
Nondimeno, la differenza tra il Consiglio di Giustizia e le Sezioni del Consiglio di Stato emerge anche con riferimento alle differenti modalità con cui vengono assegnati i consiglieri di Stato: l’assegnazione dei consiglieri al CGARS avviene con delibera del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa ai sensi dell’art. 2, comma 3, del D.lgs. n. 373 del 2003, mentre l’assegnazione dei consiglieri alle Sezioni del Consiglio di Stato avviene con atto del Presidente del Consiglio di Stato a norma dell’art. 2 della legge 27 aprile 1982, n. 186.
Un’ulteriore differenza si intuisce, come si è già avuto modo di accennare, dalla composizione dell’Adunanza Plenaria e dell’Adunanza generale,.
L’art. 6 c.p.a., rubricato “Consiglio di Stato”, al comma 3, dispone che “l’Adunanza Plenaria è composta dal presidente del Consiglio di Stato che la presiede e da dodici magistrati del Consiglio di Stato, assegnati alle sezioni giurisdizionali”, tra i quali non rientrano i magistrati del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana.
Gli unici casi in cui la composizione dell’Adunanza Plenaria è integrata con due magistrati del CGARS sono quelli di cui ai commi 4 e 5 dell’art. 10 del D.lgs. del 2003, ossia in caso di conflitti di competenza tra il CGARS e il Consiglio di Stato e nell’eventualità in cui il CGARS rimetta all’Adunanza Plenaria una questione di diritto che abbia dato luogo a contrasti giurisprudenziali con le sezioni del Consiglio di Stato. Lo stesso avviene con riferimento alla composizione dell’Adunanza generale ai sensi dell’art. 9 dello stesso decreto, a cui possono anche partecipare i componenti laici limitatamente agli affari della Regione siciliana, ossia rimessi dal medesimo CGARS.[25]
Dalle differenze evidenziate, tuttavia, non discende necessariamente un’antinomia tra la normativa statutaria e quella attuativa[26], dovendosi sottolineare che, come sostenuto dalla giurisprudenza costituzionale, le norme di attuazione possono anche avere un contenuto praeter legem, nel senso di integrare le norme statutarie, anche “aggiungendo ad esse qualche cosa che le medesime non contenevano”, con l’unico limite della corrispondenza alle norme e alle finalità di attuazione dello Statuto, nel contesto del principio di autonomia regionale.[27]
In altre parole, le diversità tra sezioni del Consiglio di Stato e Consiglio di Giustizia, ancorché notevoli, sono legittimate dalle disposizioni normative che le prevedono, le quali, ad avviso della giurisprudenza costituzionale, non confliggono né con le disposizioni né con lo spirito dello Statuto.
7. La natura di giudici onorari dei componenti laici del CGARS
Le funzioni del componente laico, così come l’intera disciplina relativa al CGARS, sono forgiate e plasmate dall’autonomia regionale e, sotto tale profilo, risulta perfino ultroneo interrogarsi sulla natura del CGARS in termini di organo più o meno autonomo, più o meno indipendente dal Consiglio di Stato.
Quand’anche si ritenesse che il rapporto organico leghi il componente laico del CGARS direttamente al Consiglio di Stato (essendo il CGARS una sezione dello stesso), è evidente che resterebbe immutato il contenuto delle sue funzioni che, si ripete, è conformato dall’autonomia regionale, che è l’unica ragione della sua investitura.
Del resto, mutatis mutandis, un ragionamento non dissimile potrebbe farsi con riguardo ai componenti c.d. esperti delle Sezioni agrarie o del Tribunale regionale delle acque pubbliche, i quali, evidentemente, essendo magistrati onorari nominati per lo svolgimento di quelle specifiche funzioni, non potrebbero utilmente chiedere di essere trasferiti, rispettivamente, presso diverse sezioni del Tribunale ordinario e della Corte d’Appello o di essere considerati magistrati ordinari, proprio perché la funzione che sono chiamati ad esercitare è geneticamente differente ed è circoscritta alla specifica competenza della sezione.[28]
Lo stesso Consiglio di Stato, nella sentenza in esame, colloca la figura del componente laico del CGARS nell’alveo dei magistrati onorari, contemplati dall’art. 106 Cost., i quali, a differenza del magistrato togato o di carriera, sono selezionati non già mediante prove concorsuali finalizzate ad accertare il grado di preparazione culturale e tecnico-giuridica per svolgere la funzione giurisdizionale, bensì per i meriti acquisiti nell’esercizio nella carriera accademica o nell’attività forense, e per l’attitudine così maturata ad assumere l’ufficio di giudice.
8. La temporaneità dell’incarico
Fatte queste precisazioni, il Consiglio di Stato si sofferma anche sulla temporaneità della carica dei membri laici del Consiglio di Giustizia - specie in raffronto a quanto avviene con i consiglieri di Stato di nomina governativa, il cui mandato non è temporaneo - e ne individua il fondamento in una scelta di politica del legislatore riconducibile alle ragioni di specialità che connotano il Consiglio di Giustizia e che è volta ad accentuare il carattere onorario dell’incarico, nel senso di renderlo rispondente a logiche di più ampia partecipazione all’ufficio degli esponenti della società civile siciliana.
Tali considerazioni, ad avviso del Consiglio di Stato, evidenziano marcatamente la differenza rispetto ai consiglieri di Stato di nomina governativa e ai consiglieri di Cassazione nominati per meriti insigni ex lege n. 303 del 1998, rinvenendo ciascuna di tali categorie un fondamento diverso ed eterogeneo. L’ingresso dei primi nei ranghi del Consiglio di Stato, infatti, risale alle origini storiche dell’Istituto, e si è mantenuto anche nel corso dell’evoluzione storica del Consiglio di Stato, che è considerato dalla Costituzione quale organo di consulenza giuridico-amministrativa nell’interesse dello Stato-ordinamento (art. 100) oltre che di giustizia amministrativa (art. 103).
I consiglieri di Stato di nomina governativa sono equiparati agli altri consiglieri di Stato in forza dell’art. 19 l. n. 186 del 1982, che prevede espressamente la provvista governativa dei consiglieri di Stato come una delle tre modalità di accesso a tali funzioni (unitamente alla nomina per anzianità tra i consiglieri TAR e al reclutamento per concorso pubblico).
Fondamento differente hanno, invece, i consiglieri “laici” della Corte di Cassazione, previsti dall’art. 106, comma 3, Cost., i quali possono essere nominati per meriti insigni al fine di consentire l’ingresso nella Suprema Corte, a supporto della giurisdizione di legittimità e della sua funzione nomofilattica, delle migliori personalità affermatesi nelle scienze giuridiche presso il mondo accademico e la professione forense (v. legge 24 agosto 1998, n. 303).[29]
Secondo il Consiglio di Stato, seppur la previsione di componenti non togati in seno al CGARS risponda ad una logica analoga a quella dell’una e dell’altra delle categorie appena menzionate, non avviene così, invece, per la relativa disciplina normativa, non essendo assimilabili le esigenze poste a fondamento delle diverse figure di magistrati, dovendosi certamente riconoscere alla discrezionalità del legislatore la definizione dei regimi giuridici concernenti gli incarichi in argomento.
Tali considerazioni non risultano scolorite dalla recente pronuncia[30], con cui il Consiglio di Stato ha ritenuto che l’incarico di componente laico del CGARS sia equiparabile al servizio prestato quale consigliere di Stato ai fini del conferimento degli incarichi direttivi nella giustizia tributaria. A quei fini, si legge nella sentenza in commento, l’equiparazione si giustifica con l’attitudine del componente laico a ricoprire incarichi nella giustizia tributaria, la quale discende dall’investitura delle funzioni di consulenza giuridico-amministrativa e giurisdizionali che la nomina e il servizio di magistrato amministrativo comporta, e dunque sulla base del rapporto organico con il CGARS.
Stesse argomentazioni vengono addotte con riferimento all’equiparazione del giudice onorario a quello togato, riconosciuta dalla Corte costituzionale per il rimborso delle spese di patrocinio sostenute per i giudizi di promossi nei loro confronti per fatti e atti connessi con l’espletamento delle funzioni loro attribuite.[31]
La sentenza in commento, infine, evidenzia come non possa neppure accogliersi l’assunto difensivo in virtù del quale vi sarebbe stata una sorta di trasformazione del componente laico del CGARS da magistrato onorario a togato sulla base dei principi affermati dalla Corte costituzionale con sentenza n. 41 del 2021[32], per comporre stabilmente i collegi del Consiglio di Giustizia. Con la sentenza testé riportata, la Corte costituzionale ha infatti affermato l’incostituzionalità delle norme che prevedono la composizione dei collegi delle Corti d’appello con magistrati onorari per contrasto con l’art. 106, comma 2, Cost., che, derogando al principio del pubblico concorso, accorda la nomina di magistrati onorari “per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli” e, quindi, per gli affari di minor valore e complessità e solo in primo grado.
Secondo il Consiglio di Stato, l’anzidetta dichiarazione di incostituzionalità si fonda su un parametro normativo - l’art. 106, comma 2, Cost. - che non rileva nella fattispecie in esame, giacché la presenza dei componenti laici del Consiglio di Giustizia Amministrativa si giustifica in forza di una disposizione costituzionale diversa, e cioè dell’art. 23 dello Statuto della Regione Siciliana.
Dopo aver fatto queste considerazioni, il Consiglio di Stato ritiene, infine, manifestamente infondate le questioni di illegittimità costituzionale degli artt. 6 e 7 D.lgs. n. 373 del 2003 prospettate dall’appellante, poiché le caratteristiche dell’incarico di componente laico del CGARS sono state definite dal decreto del 2003 che, avendo attuato la previsione dell’art. 23 dello Statuto speciale della Regione Siciliana, ne avrebbe mutuato il rango normativo, equiparato alla Costituzione, rendendo così non configurabile un rapporto di gerarchia tra fonti normative.
Il Consiglio di Stato, dunque, afferma che le disposizioni attuative dello Statuto speciale abbiano anch’esse il valore di norme costituzionali e, a sostegno di tale conclusione, riporta la sentenza della Corte costituzionale del 4 novembre 2004, n. 316.
La collocazione delle norme attuative degli Statuti regionali nella gerarchia delle fonti del diritto meriterebbe sicuramente una trattazione separata[33]. Basti pertanto rilevare che, con riferimento alle norme di attuazione dello Statuto siciliano, la sentenza costituzionale da ultimo citata, ricordando i precedenti della Corte, tiene a specificare che esse hanno rango primario e, dovendosi considerare quali fonti a competenza “riservata e separata” rispetto a quella esercitabile dalle leggi ordinarie, possono finanche introdurre una disciplina particolare ed innovativa, a condizione però di rispettare il limite della corrispondenza alle norme e alla finalità di attuazione dello Statuto, nel contesto del principio di autonomia regionale.[34]
Di rango primario, con riferimento alle norme di attuazione dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, ha parlato anche il Consiglio di Stato quando ha ritenuto di potersi pronunciare su una domanda cautelare urgente anche senza la partecipazione al collegio del consigliere di Stato di lingua tedesca.[35]
9. L’indipendenza del componente laico
Sempre alla Corte costituzionale guarda il Consiglio di Stato nel rispondere all’ulteriore censura dell’appellante con specifico riguardo alla supposta mancanza di indipendenza del componente laico del CGARS che deriverebbe dalla temporaneità dell’incarico.
Il Consiglio di Stato fa notare, infatti, che l’assunto per cui un giudice “a tempo” non sarebbe un giudice indipendente si scontra inevitabilmente con quanto ricavabile dalle disposizioni costituzionali concernenti la Corte costituzionale, i cui componenti durano in carica nove anni, senza possibilità di rinnovo e, ciononostante, sono destinatari ai sensi dell’art. 137, comma 1, Cost., di guarentigie di indipendenza, poi specificate dalla legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (recante “Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte costituzionale”).
A ciò deve aggiungersi che la Corte costituzionale, nella già citata sentenza n. 316 del 2004, che a sua volta richiama i principi espressi nella sentenza n. 25 del 1976, ha affermato che il carattere temporaneo del mandato dei membri del Consiglio di Giustizia Amministrativa non contrasta, di per sé, con i principi costituzionali che garantiscono l’indipendenza e con essa l’imparzialità dei giudici, dal momento che a tali fini “non appare necessaria una inamovibilità assoluta”, specialmente per i membri “laici”, i quali “ben possono essere nominati per un determinato e congruo periodo di tempo”. L’indipendenza, ritiene la Corte costituzionale, potrebbe invece ritenersi messa in pericolo ove si prevedesse la possibilità di una riconferma del mandato: eventualità espressamente esclusa dal comma 4 dell’art. 6 del D.lgs. n. 373 del 2003.
10. Il ruolo dei componenti laici alla luce del diritto eurounitario
Analoghe considerazioni portano il Consiglio di Stato a rigettare anche la censura sulla conformità al diritto eurounitario della durata temporanea dell’incarico di componente laico del Consiglio di Giustizia Amministrativa. Più specificamente, il Consiglio di Stato ha ritenuto che, sotto tale profilo, non vi sia alcuna violazione della direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 (relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato), che l’appellante riteneva applicabile anche ai magistrati onorari, secondo quanto stabilito dalla Corte di giustizia UE con sentenza 6 luglio 2020 (C-658/18).[36]
Il Consiglio di Stato, infatti, ha avvedutamente affermato che “quand’anche si voglia ritenere la direttiva applicabile ai soggetti investiti di funzioni giurisdizionali di ultima istanza, secondo il principio “partecipativo” enunciato dall’art. 106, comma 3, Cost. - cosa che spetta al Paese membro stabilire (cfr. in questo senso: Corte di giustizia UE, sentenza 1° marzo 2012, C-393/10) - va in ogni caso premesso che in base all’art. 4, comma 1, dell’accordo recepito dalla medesima direttiva «i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive»”.
Ciò chiarito, per quanto riguarda il regime giuridico ed economico l’equiparazione del componente laico al consigliere di Stato esclude innanzitutto l’esistenza di un trattamento deteriore.
Il contrasto con il diritto eurounitario non si ha neppure con riguardo alla temporaneità dell’incarico e al vincolo di permanenza presso l’organo giurisdizionale siciliano, poiché tali scelte legislative, per le ragioni che si è avuto modo di esporre, sono giustificate dalla specialità della Regione Siciliana e dall’autonomia di cui gode, rintracciando il proprio fondamento in norme di natura costituzionale che concretizzano le scelte di carattere fondamentale concernenti l’assetto dei rapporti tra governo nazionale e autonomia regionale speciale nella ripartizione ed organizzazione dei poteri e delle funzioni tra i due soggetti istituzionali interni, rispetto alle quali il diritto eurounitario è estraneo.
[1] Si v. F. Renda, I caratteri speciali di uno statuto speciale. Considerazioni sulle origini e la natura dell’autonomia siciliana, in Aa.Vv., L’autonomia regionale siciliana tra regole e storia, Palermo, 1993, 331 ss..
[2] Sconfinata è la bibliografia sulla storia della Sicilia. Sui temi accennati, tra i tanti, si v. G. Barone (a cura di), Storia mondiale della Sicilia, 2018, Bari-Roma; E. Pelleriti, 1812-1848. La Sicilia fra due costituzioni, Milano, 2000; R. Menighetti e F. Nicastro, Storia della sicilia autonoma (1947-1996), Caltanissetta, 1998; M.I. Finley, D. Mack Smith e C. Duggan, Breve storia della Sicilia, 1990, Bari-Roma; S. Runciman, I Vespri siciliani, Bari, 1971.
[3] I lavori preparatori dello Statuto siciliano sono stati pubblicati dall’Assemblea Regionale Siciliana in Consulta Regionale Siciliana, Palermo, Edizioni della Regione Siciliana, vol. I e II, 1975, vol. III e IV, 1976, consultabili anche all’indirizzo https://www.ars.sicilia.it/studi-e-pubblicazioni.
Sullo Statuto siciliano v. G. Salemi, Lo Statuto della Regione siciliana (I lavori preparatori), Padova, 1961; T. Martines, Lo Statuto siciliano oggi, in Le Regioni, 1983, 895 ss.; C. Tramontana, Le origini dell’autonomia regionale e la genesi dello Statuto Siciliano, in A. Ruggeri-G. Verde (a cura di), Lineamenti di diritto costituzionale della Regione Sicilia, Torino 2012, 8 ss.; G. Armao, M. Saija (a cura di), Settant’anni di autonomia siciliana, Soveria Mannelli, 2016.
[4] S. Pajno, L’incerto futuro dell’autonomia speciale siciliana, in Osservatorio AIC, 2015, 1, che, nel delineare il percorso verso l’autonomismo siciliano, ricorda l’importante contributo offerto da Franco Restivo.
[5] Per uno studio dedicato si v. S. Di Bella (a cura di), Il coordinamento dello Statuto siciliano con la Costituzione. Nuovi atti e documenti, in I Quaderni dell’ARS, 2011, 3.
[6] Lo Statuto siciliano affidava all’Alta Corte il compito di giudicare: a) sulla costituzionalità delle leggi emanate dall'Assemblea regionale; b) sulla costituzionalità delle leggi e dei regolamenti emanati dallo Stato, rispetto allo Statuto ed ai fini della efficacia dei medesimi entro la Regione; nonché c) sui reati del Presidente della Regione e degli Assessori commessi nell’esercizio delle funzioni. La Corte aveva sede a Roma ed era composta da sei membri e due supplenti, nominati in pari numero dalle Assemblee legislative dello Stato e della Regione, e da un Presidente e da un Procuratore generale nominati dalla stessa Corte.
[7] Il testo della sentenza dell’Alta Corte per la Regione Siciliana, 10 luglio 1948, n. 4 è reperibile all’indirizzo https://www.giurcost.org/decisioni/trVII/AltaCorte/0004-48.html.
[8] Con particolare riferimento alla giustizia amministrativa, si rimanda all’opera di S. Raimondi, L’ordinamento della giustizia amministrativa in Sicilia, Milano, 2009.
[9] Con l’entrata in funzione della Corte Costituzionale nel 1956 vi fu la compresenza di due giudici costituzionali nel territorio nazionale e, con la celebre sentenza n. 38 del 1957, la Corte Costituzionale, pur non dichiarando l’illegittimità costituzionale delle norme statutarie, affermò il principio di unità della giurisdizione costituzionale, ponendo così fine all’esperienza dell’Alta Corte.
Per una ricostruzione più dettagliata si v. A. Simoncini, L’avvio della Corte costituzionale e gli strumenti per la definizione del suo ruolo: un problema storico aperto, in Giur. cost., 2004, 4, 3066 ss..
Sull’Alta Corte si rimanda a M.S. Giannini, Corte Costituzionale e Alta Corte per la regione siciliana, in Giur. cost., 1956, 1234 ss.; P. Virga, Alta Corte per la Regione Siciliana, in Enc. dir., II, Milano, 1958, 83 ss.; A.M. Sandulli, Sulla discriminazione delle competenze tra Corte costituzionale e Alta corte per la Regione siciliana, in Foro it., 1956, IV, 49 ss.; C. Mortati, L’Alta corte per la Sicilia nella Repubblica italiana «una e indivisibile», in Foro it., 1956, IV, 185 ss..
[10] Così S. Raimondi, Il modello siciliano della giustizia amministrativa nell’esperienza del foro, in Dir. proc. amm., 2001, 2, 332 s..
[11] Dopo l’Unità d’Italia si scelse di mantenere le Corti di Cassazione degli Stati preunitari, fu così che coesistettero le Corti di Cassazione di Torino, Firenze, Napoli e Palermo, alle quali venne aggiunta nel 1875 la Corte di Cassazione di Roma. Quest’ultima, a partire dal 1888 (l. 6 dicembre 1888), divenne l’unica nel territorio nazionale per i giudizi penali, e poi, con il r.d. 24 marzo 1923, n. 601, anche per quelli civili.
Sull’unificazione della Cassazione si v. G.F. Ricci, Il giudizio civile di Cassazione, II ed., Torino, 2016, 23 ss.; M. Pisani, La «unificazione» della Cassazione in materia penale, in Riv. dir. proc., 2010, 6, 1338 ss..
[12] Cons. St., Ad. gen., 11 luglio 1946, n. 78, in Relazione del Presidente del Consiglio di Stato al Presidente del Consiglio dei Ministri per gli anni dal 1941 al 1946, I, 41.
[13] S. Raimondi, Il modello siciliano della giustizia amministrativa, cit., 334 s., il quale rammenta che, nel discorso di insediamento a Presidente del Consiglio di Stato, F. Rocco parlò di “grido di allarme” e di “smembramento della giustizia”, nonché di “un pernicioso attentato all’unità della sovranità dello Stato, di cui la giustizia è gelosa espressione”. Il discorso è pubblicato in Foro it., 1948, IV, 54.
Si v. in proposito anche S. De Fina, Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in Enc. dir., IX, Milano, 1961, 227, secondo cui, invece, il semplice decentramento delle sezioni avrebbe salvaguardato meglio l’unità dell’organo, rispetto alla creazione di un organo separato.
[14] Oggi abrogato e sostituito dal D.lgs. 24 dicembre 2003, n. 373 recante “Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana concernenti l’esercizio nella regione delle funzioni spettanti al Consiglio di Stato”.
[15] Sul Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana si rinvia ai lavori di E. Cannada Bartoli, In tema di giurisdizioni speciali e di Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in Foro amm., 1957, 1, 264 ss.; Id., Tre giudici per la trinacria, in Foro amm., 1974, 1, 27 ss.; R. Chieppa, Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, in Enc. giur., VIII, Roma, 1988; C. Criscenti, Le norme speciali per Regione Sicilia, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta, in G. Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, III ed., Milano, 2014, 78 ss.; S. De Fina, Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in Enc. dir., IX, Milano, 1961, 227 ss.; B. Delfino, Il nuovo Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in Cons. Stato, 2004, 2, 301; M. S. Giannini, Il tribunale regionale amministrativo della Sicilia feliciter restitutum, in Giur. cost., 1975, 2, 1071; F. Mazzarella, L’art. 3 della Costituzione e la disciplina processuale amministrativa differenziata in Sicilia, in Foro it., 1973, V, 177 ss.; F. Merusi, Sicilia: giustizia amministrativa transitoria in attesa del “giudice legislatore”, in Riv. dir. proc., 1974, 459; S. Raimondi, Il salvataggio del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, nota a Corte Cost. 4 novembre 2004, n. 316, in www.giustamm.it, 2004; Id., L’ordinamento della giustizia amministrativa in Sicilia. Privilegio e condanna, Milano, 2009; F. G. Scoca, Specialità e anomalie del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in Dir. proc. amm., 2007, 1, 20 ss..
[16] Corte Cost., 4 novembre 2004, n. 316, in Foro it., 2005, IV, I, 985.
[17] Tale principio era stato già affermato dalla Corte con la sentenza n. 25 del 1976.
[18] Nel numero di tre per la sezione consultiva, compreso il presidente della sezione, e di sei per la sezione giurisdizionale compreso il presidente del CGARS e il presidente della sezione.
[19] Si tratta dei professori ordinari di università in materie giuridiche e degli avvocati che abbiano quindici anni d'esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori.
[20] Ossia, oltre alle categorie di cui alla nota che precede, i dirigenti generali od equiparati dei Ministeri, degli organi costituzionali e delle altre amministrazioni pubbliche, nonché i magistrati con qualifica non inferiore a quella
di magistrato di Corte d’appello o equiparata.
[21] Sul punto, per un’analisi più approfondita di tali problematiche, anche con riguardo ai giudizi di appello avverso le pronunce del TRGA della Provincia di Bolzano, si v. M.A. Sandulli, Laici nominati in ritardo: la politica blocca la giustizia amministrativa, in Il Dubbio, 5 settembre 2021.
[22] A norma dell’art. 7 del D.lgs. n. 373 del 2003 “Ai componenti del Consiglio di giustizia amministrativa designati dal Presidente della Regione ed al prefetto, durante il periodo di durata in carica, si applicano le norme concernenti lo stato giuridico e il regime disciplinare dei magistrati del Consiglio di Stato. Ad essi è corrisposto, all'inizio del sessennio, il trattamento economico corrispondente al trattamento iniziale spettante ai magistrati del Consiglio di Stato, ove più favorevole del loro trattamento economico originario. I componenti designati dal Presidente della Regione, che siano titolari di un rapporto di lavoro subordinato, hanno diritto alla conservazione del posto, senza assegni. Le disposizioni dell'articolo 31, secondo e terzo comma, della legge 27 aprile 1982, n. 186, riguardanti i poteri di vigilanza, si applicano nei confronti di tutti i membri del Consiglio di giustizia amministrativa e dei relativi uffici”.
[23] F.G. Scoca, Specialità e anomalie del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, cit., 20 s..
[24] Così sempre F. G. Scoca, Specialità e anomalie, cit., 21.
[25] Si veda la delibera del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa del 4 novembre 2005.
[26] La Corte costituzionale ha sempre rigettato le questioni di legittimità costituzionale relative all’istituzione del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, si v. Corte Cost., 22 gennaio 1976, n. 25, nonché la già citata Corte cost., 4 novembre 2004, n. 316.
[27] Cfr. Corte cost., 18 luglio 1984, n. 212.
[28] Un ulteriore elemento di sintonia con quanto previsto per il Consiglio di Giustizia lo si rintraccia se si considera che le questioni relative ai rapporti tra il Tribunale in composizione ordinaria e la sezione specializzata agraria sono questioni di competenza e non di ripartizione degli affari all’interno del medesimo ufficio (v., ex multis, Cass., Sez. VI, 26 luglio 2010, n. 17502, e Cass., Sez. VI, 21 maggio 2015, n. 10508).
Per la competenza del Tribunale regionale per le acque pubbliche v. Cass., Sez. VI, 22 febbraio 2012, n. 2656. Sul Tribunale per le acque pubbliche si rinvia allo studio di F. De Stefano, Il ruolo dei Tribunali delle Acque pubbliche, in questa Rivista, 25 settembre 2019.
[29] Sul tema si v. F. Cipriani, La chiamata in Cassazione per meriti insigni (appunto per la bicamerale), in Foro it., 1997, II, 57 ss.; M. Pisani, I meriti insigni (art. 106, 3° comma Cost.) per la nomina dei laici in cassazione, in Foro it., 1999, 74 ss..
[30] Cons. St., Sez. IV, 24 marzo 2020, n. 2045.
[31] Corte cost., 9 dicembre 2020, n. 267.
[32] Corte cost., 17 marzo 2021, n. 41, in Giur. cost., 2021, 2, 513.
[33] Si ricordi il fondamentale insegnamento di A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 36 s., secondo cui i decreti legislativi emanati per attuare gli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale operano ad un livello ultraprimario sicché non solo le leggi regionali, ma anche quelle statali sono tenute a prestarvi osservanza. Dunque, nell’ambito della loro competenza “si collocano, nella gerarchia delle fonti, a un livello (subcostituzionale, sì, ma) più alto rispetto agli atti legislativi appena nominati”.
[34] I precedenti a cui la sentenza fa riferimento sono: Corte cost., 18 luglio 1984, n. 212; 23 maggio 1985, n. 160; 26 febbraio 1990, n. 85; 19 giugno 1998, n. 213; 23 aprile 1998, n. 137 e7 novembre 2001, n. 353.
[35] Cons. St., 10 settembre 2021, n. 4872.
[36] Per un commento si v. C. Pesce, Il giudice di pace italiano al vaglio della Corte di giustizia UE. Nota a sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 16 luglio 2020, causa C-658/18, Governo della Repubblica italiana, in Eurojus, 2020, 2, 300 ss..
Di nuovo alle Sezioni Unite una questione sugli effetti delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti di soggetti diversi dal ricorrente vittorioso a Strasburgo: note a margine dell’ordinanza 45719/2021 Cass. Pen. Sez. I, Mannucci (21.9-7.12.2021)*
*Si allega in calce la decisione del Presidente aggiunto Margherita Cassano, depositata in data 9.2.2022, di restituzione degli atti alla Sezione rimettente.
di Marina Silvia Mori
Sommario: 1. Premessa - 2. I parametri della sentenza Maestri e altri e il caso all’esame della Corte di Cassazione - 3. Esame dell’ordinanza di rimessione: il concetto di “giurisprudenza consolidata” e ulteriori profili di criticità - 4. Considerazioni sull’approccio attuale alle sentenze della Corte europea per verificarne gli effetti espansivi.
1. Premessa
Nemmeno un anno dopo il deposito delle motivazioni della sentenza Genco[1], le Sezioni Unite sono nuovamente interpellate sulla delicata materia degli effetti espansivi di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo a casi analoghi a quello deciso da una pronuncia di Strasburgo. L’ordinanza emessa dalla Prima Sezione il 21 settembre 2021 (depositata il 7 dicembre 2021) offre vari spunti di riflessione, anche sotto il profilo della possibilità di rimessione finalizzata alla soluzione di una questione ritenuta di particolare importanza, ma nel presente commento ci si limiterà ad una rapida analisi degli aspetti relativi alle conseguenze di una sentenza della Corte europea nei confronti di persone che non siano state parti nella procedura avanti la Corte stessa.
2. I parametri della sentenza Maestri e altri e il caso all’esame della Corte di Cassazione
Oggetto della questione sottoposta dalla Prima Sezione è l’applicabilità alla fattispecie concreta dei principi espressi dalla sentenza Maestri e altri c. Italia[2].
In estrema sintesi, in una vicenda relativa alle cosiddette “quote latte” introdotte dal Regolamento CE 856/84, sei dei sette ricorrenti erano stati condannati in primo grado per truffa aggravata e assolti dal delitto di associazione a delinquere. Su impugnazione della Procura, la Corte d’Appello aveva riconosciuto la responsabilità dei predetti anche per il reato associativo, senza però procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e all’esame degli imputati, pur avendo ritenuto sussistente l’elemento soggettivo del reato associativo in capo ai ricorrenti. La Corte di Cassazione rigettava i ricorsi degli imputati, nella parte qui di interesse sostenendo che l’obbligo di rinnovazione sarebbe imposto solo in caso di diversa valutazione delle dichiarazioni dei testimoni, mentre nel caso concreto i fatti erano incontestati, e che – comunque - la possibilità di rendere dichiarazioni spontanee e di prendere la parola al termine della discussione avrebbe sufficientemente garantito i diritti degli imputati.
La Corte europea ribadiva l’insussistenza della violazione dell’art. 6 in caso di mancata rinnovazione dell’istruttoria, quando la giurisdizione di secondo grado si limiti a risolvere una questione giuridica in termini opposti alla pronuncia assolutoria impugnata, senza procedere ad una nuova valutazione delle prove. L’aspetto di novità della sentenza Maestri riguardava invece la valutazione della necessità di procedere all’esame degli imputati nel giudizio di appello. La sentenza evidenziava l’obbligo imposto alla Corte interna di porre in essere misure positive, anche ove l’imputato non sia comparso all’udienza, non abbia chiesto di prendere la parola e non si sia opposto (attraverso il proprio difensore) alla pronuncia della sentenza da parte della Corte d’appello pur in assenza di esame. I ricorrenti erano assistiti da difensori di fiducia ed erano stati correttamente informati della celebrazione del giudizio di appello, ma - secondo la Corte europea - dalla sola rinuncia a comparire non sarebbe desumibile una rinuncia a rendere l’esame, che deve invece essere esplicita[3]. Inoltre, la possibilità concessa all’imputato di rendere dichiarazioni spontanee e di avere l’ultima parola prima della camera di consiglio non sarebbe equiparabile all’esame, considerato anche che la Corte “considera irragionevole supporre che, per difendersi, un imputato parli di propria iniziativa e scelga di esporre fatti sui quali è stato assolto in primo grado. La Corte ha già avuto modo di osservare che un imputato non ha alcun interesse a chiedere che le prove relative a fatti per i quali è stato assolto in primo grado siano rivalutate dal giudice d’appello”[4]. La rilevanza dell’esame in grado di appello, nella fattispecie, risultava evidente dalla lettura della motivazione della sentenza di condanna, che aveva per la prima volta ritenuto sussistente l’elemento soggettivo del reato associativo in capo ai ricorrenti, i quali “non potevano ignorare” che l’attività di due società era svolta in violazione di legge[5]. Di conseguenza, la Corte accertava la violazione dell’art. 6 par. 1 della Convenzione.
Si può immaginare che, quale rimedio per il futuro e per evitare ulteriori violazioni convenzionali, possa essere sufficiente introdurre nel decreto di citazione a giudizio per il grado di appello un formale avviso destinato all’imputato secondo il quale, al predetto, potrebbe essere chiesto di sottoporsi all’esame. In questo modo, la (legittima) rinuncia a comparire comprenderà anche la rinuncia a rendere l’esame da parte di un soggetto compiutamente informato, soddisfacendo i parametri evidenziati dalla Corte europea e che si rifanno alla costante giurisprudenza in materia di conoscenza del processo. Sarebbero, ovviamente, assicurati i presidi fondamentali del diritto al silenzio e del nemo tenetur se detegere, in caso di imputato comparso nel giudizio di appello, secondo chi scrive senza che questo possa modificare la rilevanza processuale dell’esame (il cui contenuto sarebbe valutato dalla Corte d’Appello secondo i parametri ordinari). Nemmeno pare che l’intervento della Corte europea, come è stato sostenuto[6], finisca in questo modo per imporre allo Stato un determinato sistema processuale o uno specifico criterio di valutazione della prova: specie nei casi in cui la reformatio in peius discenda da una diversa valutazione sulla sussistenza dell’elemento soggettivo, risulta in linea con i parametri convenzionali che detta conclusione venga tratta offrendo, almeno, all’imputato la possibilità di esporre la propria versione nel contraddittorio.
Il problema attuale si pone per tutti i processi nei quali la citazione per l’appello richiesto dalla Procura sia già stata notificata, o siano pendenti in Cassazione.
La fattispecie oggetto dell’ordinanza di rimessione è, sotto certi profili, paradigmatica.
Secondo quanto si desume dalla succinta ricostruzione dell’oggetto del giudizio contenuta nell’ordinanza qui in esame, i fatti sono così riassumibili. Francesco Mannucci, ricorrente in Cassazione, era stato sottoposto a giudizio avanti al Tribunale monocratico di Firenze, che lo aveva condannato per i reati di tentate lesioni aggravate (capo D) e per avere portato fuori dalla propria abitazione senza giustificato motivo bastoni, caschi e altri oggetti contundenti allo scopo di commettere il primo reato (capo E). Il Mannucci era stato assolto dai delitti sub A) (art. 6 L. 895/67, per avere fatto esplodere un congegno esplosivo) e sub C) (del quale manca la descrizione) per non avere commesso il fatto, e quanto al capo F) (furto aggravato) era stata dichiarata l’improcedibilità per mancanza di querela, esclusa l’aggravante di cui all’art. 625 n. 7 c.p. La Corte di Appello, su impugnazione della Procura avverso le assoluzioni, condannava il Mannucci anche per il reato sub A), confermando nel resto la sentenza. Non risulta che nel giudizio di appello si sia proceduto alla rinnovazione dell’istruttoria, ma per quanto desumibile dall’ordinanza ciò sarebbe spiegabile con il decesso (presumibilmente prima del giudizio di appello) dell’unico testimone riguardante l’imputazione sub A) – colui che aveva riferito agli inquirenti parte della targa della vettura sulla quale era fuggita la persona che aveva collocato l’ordigno, ma non aveva riconosciuto il veicolo del Mannucci.
Un primo elemento da considerare è che nel ricorso in Cassazione il difensore non sollevava questioni in relazione alla sussistenza dell’elemento soggettivo in capo al Mannucci. Neppure si desume, dall’ordinanza, che la reformatio in appello sia stata motivata in quei termini.
Ciononostante, il Procuratore Generale, seguendo (anche) la giurisprudenza della Corte europea sugli obblighi positivi imposti al giudice interno pur in assenza di impulso di parte, chiedeva l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, “perché – constatata la mancata osservanza dei principi affermati dalla sentenza Corte EDU, 08/07/2021, Maestri c. Italia – il reato è estinto per prescrizione”.
3. Esame dell’ordinanza di rimessione: il concetto di “giurisprudenza consolidata” e ulteriori profili di criticità
L’ordinanza di rimessione, come detto, offre vari spunti di riflessione sotto il profilo degli effetti delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e, ritenendo l’”importante ed inevitabile potenzialità espansiva anche sull’operato delle corti di merito” sollecita l’intervento delle Sezioni Unite in ordine alla applicabilità generale della sentenza Maestri e altri c. Italia, con fissazione di criteri orientativi anche per le decisioni future.
A sommesso giudizio di chi scrive, l’ordinanza contiene alcune contraddizioni, che però evidenziano l’attuale stato di incertezza sugli effetti indiretti delle sentenze della Corte europea e che potrebbero portare a una pronuncia chiarificatrice delle Sezioni Unite.
Si riporta, per la rilevanza dell’affermazione, parte del punto 2.2: “…nell’attualità, alla stregua della necessità di ottemperare a tale pronuncia (la Maestri, N.d.T.), costituente fonte giuridica sovranazionale di matrice giurisprudenziale, immediatamente vigente nell’ordinamento interno in quanto introduttiva di un principio processuale generale…”.
Gli obblighi di adeguamento gravanti sugli Stati, per la verità, discendono dall’art. 46 della Convenzione, che impone alle Alte Parti contraenti di conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti. L’obbligo, quindi, riguarda esclusivamente la singola controversia, con adeguamento alle misure evidenziate dalla Corte per riparare alla violazione, pur nel margine di apprezzamento lasciata allo Stato convenuto. Sebbene l’affermazione della Corte di Cassazione possa essere salutata positivamente come auspicio, che una sentenza della Corte europea goda attualmente di immediata vigenza generalizzata pare un concetto un po’ azzardato, considerate la valutazione e la collocazione nella gerarchia delle fonti della giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Di particolare interesse è quella precisazione per cui la Maestri e altri c. Italia sarebbe suscettibile di effetti generalizzati, in quanto introdurrebbe un “principio processuale generale”, come si evidenzierà infra.
Prosegue, l’ordinanza, nei seguenti termini: “è noto che la regola di diritto contenuta nei singoli casi decisi dinanzi alla Corte di Strasburgo è insuscettibile di estensione a soggetti estranei al giudizio (salvi i casi di c.d. sentenza pilota come tipizzata nel contenuto e nella procedura dall’art. 61 del Regolamento della Corte europea dei diritti dell’uomo); è però altresì corretto riscontrare l’esistenza di sentenze di portata generale: queste ultime (formalmente menzionate dal comma 9 del citato art. 61), seppure non rientranti nella casistica contenutistica e procedurale della sentenza pilota, accertano «[…] una violazione di norme convenzionali in tema di diritti della persona, suscettibile di ripetersi con analoghi effetti pregiudizievoli nei riguardi di una pluralità di soggetti diversi dal ricorrente, ma versanti nella medesima condizione » (Sez. U., n. 8544 del 24/10/2019, dep. 2020, Genco, Rv. 278054)”.
La stessa Sezione rimettente, dunque, dopo un riferimento ad una portata generalizzata della singola sentenza che pare in realtà un unicum, torna agli attuali parametri interpretativi che limitano gli effetti espansivi alle cosiddette “sentenze pilota”, o alle sentenze di portata generale, con riferimento testuale alla nota pronuncia delle Sezioni Unite relativa all’applicabilità dei principi della sentenza Contrada c. Italia (n. 3) in materia di concorso esterno in associazione mafiosa per reati commessi prima del 1994[7].
I parametri utilizzati dalla sentenza Genco per negare effetti espansivi alla sentenza Contrada erano essenzialmente quelli ricavabili dalla nota sentenza di Corte Costituzionale 49/2015. In detta pronuncia costituzionale si leggeva, come noto: “È, pertanto, solo un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo”[8].
Sullo sfuggente concetto di “diritto consolidato” si è scritto più o meno di tutto, anche in recenti sentenze della Corte di Cassazione. Nella recente pronuncia 38351/2021, che riprende una affermazione contenuta nella sentenza Genco, ad esempio, si legge: “la nozione di giurisprudenza consolidata trova riconoscimento nell’art. 28 CEDU, che attribuisce maggiore persuasività alle pronunce che seguono un principio costantemente applicato dalla Corte, nonché alle sentenze della Grande Camera che pronuncia su questione di principio”[9]. Che l’articolo 28 della Convenzione – relativo alla competenza del Comitato per i ricorsi ripetitivi - attribuisca “maggiore persuasività” alle pronunce rese da tre giudici (forse però con la conseguenza che allora una sentenza di Camera avrebbe meno “peso” (?) rispetto ad una emessa dal Comitato) è affermazione francamente spiazzante. Non è un caso che la Corte europea, in una nota pronuncia di Grande Camera emessa proprio nei confronti dell’Italia, avesse ritenuto di precisare che tutte le proprie pronunce hanno uguale valenza[10].
La Maestri e altri c. Italia, però, ben difficilmente potrebbe essere considerata espressione di diritto consolidato, pure nell’ottica in cui il concetto è stato utilizzato dalle corti interne. Si tratta della prima sentenza resa nei confronti dell’Italia relativa all’esame in appello dell’imputato in caso di overturning. I (pochi) precedenti citati nella stessa pronuncia, in particolare la Júlíus Þór Sigurþórsson c. Islanda, neppure potrebbero avere quella “patente” che dovrebbe conferire la possibilità di ampliare gli effetti oltre la singola sentenza, non essendo – attualmente – esemplificativi di un consistente filone giurisprudenziale in materia.
Gli ulteriori parametri costituzionali[11] per consentire l’applicazione di effetti indiretti, parimenti, sembrerebbero militare per un’esclusione di profili espansivi della Maestri, resa da una sezione semplice, non dalla Grande Camera (e… neppure da un Comitato!), in un caso in cui il “solco tradizionale” della giurisprudenza europea sarebbe difficilmente individuabile; non è dato sapere, poi, se la Corte sia stata messa in grado di apprezzare la peculiarità dell’ordinamento italiano (parametro che, tra quelli indicati dalla sentenza 49/2015 continua ad essere il più proteiforme, e anche il più facilmente plasmabile su eventuali contingenti esigenze interne).
La sentenza Genco, forse per superare la rigidità delle indicazioni provenienti dalla Corte Costituzionale, aveva esaminato anche la eventuale sussistenza di un ulteriore parametro, la cui presenza avrebbe (forse) consentito alla sentenza Contrada (n. 3) di essere applicata a casi analoghi. L’indagine delle Sezioni Unite si era soffermata sulla presenza o meno, nella sentenza di Corte europea, della indicazione di rimedi adottabili suscettibili o di applicazione individuale in favore del ricorrente vittorioso, oppure di applicazione generalizzata nei riguardi di persone nella medesima situazione giuridica. La mancata indicazione dei rimedi (soprattutto di carattere generale) aveva costituito, secondo le Sezioni Unite, un’ulteriore conferma della insuscettibilità di applicazione indiretta della sentenza Contrada.
Questa caratteristica, finalmente, risulta di particolare interesse nella sentenza Maestri. La Corte europea, in detta pronuncia, ribadiva che spetta allo Stato convenuto scegliere, sotto la vigilanza del Comitato dei Ministri, le modalità con cui adeguarsi alle obbligazioni nascenti dalla sentenza ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, con riferimento alle specificità del caso concreto e confermando che, in caso di accertata violazione dell’art. 6, la riapertura del processo su istanza dell’interessato costituirebbe in linea di principio uno strumento adeguato[12]. Quindi, la Corte non evidenziava formalmente una violazione strutturale, e neppure indicava misure generali, limitandosi a precisare che nel caso dei ricorrenti la nuova celebrazione del giudizio avrebbe consentito allo Stato di adempiere alle proprie obbligazioni. Formalmente, anche l’ulteriore parametro espansivo espresso dalla sentenza Genco non sarebbe integrato.
Eppure, la Corte di Cassazione, seguendo le indicazioni del Procuratore Generale, desume dalla lettura della Maestri una problematica che va oltre il caso concreto e la definisce, come detto, espressione di un principio processuale generale. Ed afferma, espressamente: “pur in assenza di esplicita indicazione da parte della Corte sovranazionale dell'esistenza di una violazione sistematica e strutturale del diritto all'equo processo nella casistica de qua, la sentenza Maestri c. Italia, ad avviso di questa Corte, individua un vulnus sia procedurale che sostanziale, laddove non vi sia stata apposita citazione dell'imputato per l'esame innanzi al giudice di appello prima di essere condannato - per la prima volta - a seguito di un giudizio di primo grado definito con pronuncia di assoluzione”.
La Maestri, insomma, sarebbe sentenza di portata generale, pur non essendo caratterizzata da alcuno dei parametri evidenziati da Corte Cost. 49/2015 e integrati da SS.UU. Genco, ad eccezione di quello relativo alla assenza di “robuste” opinioni dissenzienti, essendo stata resa all’unanimità.
Infine, ulteriore problematica degna di nota, la Corte di Cassazione arriva ad ampliare ulteriormente la portata della pronuncia della Corte europea, chiedendo alle Sezioni Unite di verificare l’applicazione del principio espresso ad una fattispecie in cui – al contrario di quanto avvenuto in Maestri – la valutazione della sussistenza dell’elemento soggettivo in capo all’imputato non è stata la motivazione che ha condotto all’overturning in assenza di esame. Si tratta di un quesito, insomma, che supera il contenuto della sentenza presa a riferimento della asserita violazione strutturale e che sembrerebbe volersi estendere ad ogni ipotesi di impugnazione di sentenza assolutoria salvo, parrebbe, il caso in cui la questione oggetto di valutazione da parte della giurisdizione di secondo grado sia di pura interpretazione e non sia necessaria la rinnovazione dibattimentale.
4. Considerazioni sull’approccio attuale alle sentenze della Corte europea per verificarne gli effetti espansivi
Una conclusione che si ricava dalla lettura dell’ordinanza Mannucci è l’evidente inadeguatezza, in generale, di parametri rigidi e, in particolare, di quelli che la giurisprudenza ha cercato di cristallizzare negli ultimi anni per individuare gli effetti espansivi, o indiretti, delle sentenze della Corte europea.
Le (pochissime) sentenze pilota sono le più facilmente inquadrabili, perché emesse esse stesse sul presupposto di un vulnus generalizzato nell’ordinamento ed espressamente finalizzate ad evitare la moltiplicazione del contenzioso, offrendo allo Stato l’opportunità di predisporre le adeguate misure preventive o riparative in un lasso temporale determinato. Ma la procedura pilota è riservata ai rari casi che, per la propria potenzialità espansiva, potrebbero mettere in crisi il sistema convenzionale di protezione[13].
Già il concetto di “sentenze di portata generale” è meno definito, e richiede comunque un attento esame in concreto della pronuncia per poter attribuire detta qualifica a una sentenza europea. È innegabile che la violazione integrata dal mancato esame dell’imputato in un caso di overturning motivato sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato abbia una significativa potenzialità espansiva a tutte le fattispecie identiche o simili, come evidenziato nell’ordinanza di rimessione. Tuttavia, che la violazione sia stata accertata da una sentenza che non integra i parametri richiesti dal diritto interno per consentirne una applicazione al di fuori del singolo caso oggetto della pronuncia evidenzia l’errore nell’attuale approccio adottato da parte della giurisprudenza.
La prospettiva dovrebbe essere finalmente ribaltata. L’individuazione di un problema di portata generale si ricava non dall’uso di formule sacrali o dalle caratteristiche della formazione giudiziaria che ha emesso la pronuncia o dalla struttura della sentenza che accerta la violazione, ma esclusivamente dalle specificità della violazione individuata. Si pensi alla sentenza Brazzi[14], che sanzionava la mancanza di controllo giurisdizionale su una perquisizione non seguita da sequestro: nella pronuncia erano assenti specifici riferimenti alla necessità di introdurre rimedi generali e solo nel giudizio prodromico di ricevibilità del ricorso era inserita una valutazione sull’esistenza o meno nell’ordinamento nazionale di un efficace controllo. Era tuttavia innegabile che la violazione avesse significative potenzialità espansive nei confronti di tutti coloro i quali fossero stati destinatari di una perquisizione non seguita da sequestro, evidenziando una problematica strutturale dell’ordinamento italiano.
Il giudice nazionale, quindi, dovrebbe parametrare la propria valutazione sugli effetti estensivi di una sentenza della Corte europea solo ed esclusivamente esaminando le caratteristiche della violazione riscontrata da Strasburgo, procedendo poi, come noto, o ad una interpretazione convenzionalmente orientata o, se questa risultasse impraticabile, ad investire la Corte Costituzionale, non potendo disapplicare direttamente la norma interna contrastante. Il quesito al quale rispondere non dovrebbe essere “questa sentenza ha le caratteristiche per individuare una violazione strutturale?”, ma piuttosto: “questa violazione è traslabile a persone che siano in una situazione giuridica identica o simile al ricorrente vittorioso a Strasburgo? È indicativa di una problematica sistemica?”.
Resta da chiedersi se l’ordinanza di rimessione abbia individuato il giudice idoneo a risolvere il quesito.
La Corte di Cassazione, come è stato autorevolmente affermato, è “giuridicamente obbligata” “a garantire (anche) l’uniforme interpretazione della legge come reinterpretata alla luce della CEDU, dei trattati internazionali e del diritto di matrice UE”[15], allo scopo di ridurre al minimo le diversità di trattamento.
Tuttavia, la questione nel caso concreto – e in particolare se le modalità di soluzione saranno quelle che si sono ipotizzate nel paragrafo 2 – dovrebbe vertere sull’attuale inadeguatezza del decreto di citazione per il giudizio di appello, che non contiene l’avviso, per l’imputato assolto in primo grado, della possibilità di rendere l’esame. Ben difficile individuare una interpretazione convenzionalmente orientata da parte del giudice di legittimità che possa consentire l’accesso del principio Maestri nel nostro ordinamento senza procedere a una modifica normativa. Più che le Sezioni Unite, dovrebbe essere la Corte Costituzionale a valutare l’attuale conformità costituzionale, rispetto ai parametri indicati dalla Corte europea, della citazione in appello dell’imputato assolto in primo grado, e già la Sezione rimettente avrebbe potuto sollevare, d’ufficio, la questione.
[1] SS.UU., sentenza n. 8544 24.10.2019 – 3.3.2020.
[2] Ricorsi nn. 20903/15, 20973/15, 20980/15, 24505/15, sentenza 8 luglio 2021, Prima sezione. La sentenza è consultabile sul sito della Corte al seguente link: https://hudoc.echr.coe.int/fre#{%22docname%22:[%22\%22AFFAIRE%20MAESTRI%20ET%20AUTRES%20c.%20ITALIE\%22%22],%22documentcollectionid2%22:[%22GRANDCHAMBER%22,%22CHAMBER%22],%22itemid%22:[%22001-210852%22]}. Per un commento a prima lettura, si veda la nota dell’Osservatorio Europa dell’Unione delle Camere Penali al link https://www.camerepenali.it/cat/11053/overturning_in_appello_la_corte_europea_dei_diritti_delluomo_condanna_litalia_per_mancata_rinnovazione_del_dibattimento_.html; tra i primi commenti, Cardamone, Reformatio in peius in appello e processo equo nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo da Dan c. Moldavia a Maestri ed altri c. Italia, in Questione Giustizia.
[3] Da segnalare sul medesimo principio il riferimento, nella sentenza europea, alla pronuncia della Corte di Cassazione 12554/2016 (Maestri e altri c. Italia, cit., par. 22).
[4] Maestri e altri c. Italia, cit., par. 59. Nella pronuncia i riferimenti sono alle sentenze Cipleu c. Romania, 14.1.2014, par. 39, e Ghincea c. Romania, 9.1.2018, par. 41. Il precedente più diretto, e ampiamente citato, è l’ulteriore pronuncia Júlíus Þór Sigurþórsson c. Islanda, 16.7.2019.
[5] Maestri e altri c. Italia, cit., par. 52.
[6] Cardamone, cit.
[7] Sia consentito, sulla procedura pilota (nonché sulle sentenze “quasi-pilota” e sulle violazioni strutturali “invisibili”) e i parametri utilizzati dalla sentenza Genco, un rinvio a Mori, I “Fratelli minori” di Contrada e le possibili conseguenze nei rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo: note a margine di SS.UU. n. 8544 24.10.2019 – 3.3.2020 Genco, Giustizia Insieme, e alla bibliografia ivi, in particolare, Saccucci, La responsabilità internazionale dello Stato per violazioni strutturali dei diritti umani, Editoriale Scientifica 2018; Nascimbene, Violazione «strutturale», violazione «grave» ed esigenze interpretative della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale 3/2006, pag. 656.
[8] Corte Cost. sent. 49/2015, 14.1-26.3.2015, punto 7.
[9] Cass. Pen. Sez. I, 16.7-26.10.2021, n. 38352.
[10] G.I.E.M. e altri c. Italia, [GC], 28.6.2018, par. 252.
[11] Che vale la pena di riportare per intero: “la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano”.
[12] Maestri e altri c. Italia, cit., par. 72.
[13] Si veda, per un dettagliato elenco, Saccucci, cit., pag. 303 e ss., Tabella A.
[14] Brazzi c. Italia, 27.9.2018.
[15] Conti, Il mutamento del ruolo della Corte di Cassazione fra unità della giurisdizione e unità delle interpretazioni, Consulta on line 7.12.2015, pag. 807.
Sulla dichiarazione di fallimento omisso medio e su una requisitoria della Procura Generale
di Francesco De Santis, Professore ordinario di diritto processuale civile nell’Università di Salerno, avvocato
Sommario: 1. La questione all’attenzione delle Sezioni Unite e l’ordinanza di rimessione – 2. La requisitoria della Procura Generale – 3. Ragion pratica… – 4. …e ragioni teoriche.
1. La questione all’attenzione delle Sezioni Unite e l’ordinanza di rimessione
È giunta alle Sezioni Unite della Suprema Corte[1] la seguente questione di massima di particolare importanza: se sia ammissibile (rectius: procedibile) l'istanza (e la successiva eventuale dichiarazione) di fallimento, introdotta ai sensi degli artt. 6 e 7 l. fall. nei confronti di un’impresa che si trova sotto concordato preventivo omologato, a prescindere dell'intervenuta risoluzione del concordato (omisso medio, appunto); e se, nell’affermativa, la dichiarazione di fallimento possa intervenire soltanto in relazione ad un'insolvenza nuova rispetto al momento dell'omologazione del concordato, o possa essere anche riferita all'inadempimento delle obbligazioni discendenti dall'esecuzione del concordato omologato, ed essere pronunziata financo prima dello spirare del termine di decadenza annuale per chiedere la risoluzione del concordato, fissato dall’art. 186, comma 3, l. fall.
Il problema non si poneva nel vigore della legge fallimentare del 1942, in quanto l’originario testo dell’art. 186 stabiliva che, con la sentenza che risolve o annulla il concordato, il tribunale dichiarava d’ufficio il fallimento. L’art. 137 (dettato in tema di concordato fallimentare, ma richiamato anche in tema di concordato preventivo) prevedeva, a sua volta, che la risoluzione non potesse essere comunque pronunziata trascorso un anno dalla scadenza dell’ultimo pagamento stabilito nel concordato.
Sul tema ebbe a pronunziarsi la Consulta, che ritenne infondata la questione di legittimità delle citate disposizioni, nella parte in cui avrebbero precluso al creditore anteriore alla proposta di concordato preventivo (ma non avvisato della proposta concordataria, né inserito nell'elenco dei creditori) di richiedere il fallimento del suo debitore, nel caso d'inadempimento del concordato, ed altresì in mancanza di risoluzione, decorso l'anno dalla scadenza dell'ultimo pagamento indicato nel piano di concordato preventivo omologato. Nell’occasione, la Corte costituzionale ebbe a dire che le norme censurate potevano essere interpretate nel senso che il concordato, anche se non risolto o annullato, non impedisce di attribuire successiva rilevanza, ai fini di cui all'art. 5 l. fall., ai debiti esistenti al momento dell'apertura della procedura (cd. debiti anteriori), fermi gli effetti della falcidia concordataria[2].
L’odierna rimessione alle Sezioni Unite non deriva da un contrasto interno al presidio nomofilattico. L’orientamento costante della prima sezione civile della Suprema Corte (che, anzi, sul tema che ci occupa si è il più delle volte pronunziata nella corrispondente sottosezione della sesta sezione civile) è nel senso che non sussistono preclusioni alla dichiarazione di fallimento di imprese sotto concordato preventivo omologato, ove si faccia questione dell'inadempimento di debiti già sussistenti alla data del ricorso per l’ammissione al concordato, ancorché modificati in sede di omologazione, dovendosi soltanto verificare, all'epoca della decisione così sollecitata, la ricorrenza dei presupposti di cui agli artt. 1 e 5 l. fall. In questo caso, la domanda di fallimento proposta dal creditore o dal pubblico ministero costituisce legittimo esercizio dell’autonoma iniziativa riconosciuta dagli artt. 6 e 7 l. fall., la quale non può essere condizionata dal precetto dell’art. 184 (che vincola al patto concordatario i creditori anteriori al ricorso per l’ammissione alla procedura minore), ed opera a prescindere dalla risoluzione del concordato preventivo (che, ai sensi dell’art. 186, non può essere pronunziata se l’inadempimento ha scarsa importanza e se non è decorso un anno dal termine fissato per l’ultimo adempimento). La previa dichiarazione di risoluzione è, invece, richiesta nell’ipotesi in cui l'istante per il fallimento faccia riferimento, ai fini della valutazione dell’insolvenza, non ai crediti nella misura ristrutturata (e dunque falcidiata), ma nella misura originaria[3].
Secondo un parallelo (e sintonico) orientamento della Corte, in sede di insinuazione al passivo, se il fallimento è stato dichiarato quando era ancora possibile la risoluzione del concordato ex art. 186 l. fall., il creditore istante non è tenuto a sopportare gli effetti “esdebitatori” previsti dall’art. 184, posto che l'attuazione del piano è resa impossibile per il sopravvenire del fallimento che, sovrapponendosi al concordato, inevitabilmente lo rende irrealizzabile (cd. principio della risoluzione “implicita” del concordato)[4].
A quanto si legge nell’ordinanza di rimessione (nella quale mi è parso di cogliere, in filigrana, qualche “dubbio” circa la tenuta sistematica dell’indirizzo dominante), le Sezioni Unite sono state investite della questione, da un lato, in relazione alle obiezioni sollevate da una parte dei commentatori[5]; e, dall’altro lato, all’affacciarsi di un orientamento di segno contrario nella giurisprudenza di merito[6].
A dare corpo al dibattito, si è aggiunto di recente l’art. 119, comma 3, del Codice della crisi e dell’insolvenza (CCII), il quale prevede che il ricorso per la risoluzione del concordato preventivo possa essere proposto, oltre che dai creditori, anche dal commissario giudiziale, e, nel comma 7 (introdotto dal d.lgs. “correttivo” 26 ottobre 2020, n. 147), che “il tribunale dichiara aperta la liquidazione giudiziale solo a seguito della risoluzione del concordato, salvo che lo stato di insolvenza consegua a debiti sorti successivamente al deposito della domanda di apertura del concordato preventivo”.
Su queste basi la questione è stata portata all’esame delle Sezioni Unite all’udienza del 7 dicembre 2021, in vista della quale la Procura Generale – con una requisitoria scritta (versata agli atti del giudizio sub specie di “memoria ex art. 378 c.p.c.”), fluida nella prosa e raffinata nei contenuti – ha chiesto al formante nomofilattico di confermare l’orientamento dominante, affermando che la mancata o intempestiva richiesta di risoluzione del concordato preventivo non impedisce che i soggetti legittimati ai sensi degli artt. 6 e 7 l.fall. possano chiedere che il debitore venga dichiarato fallito, se insolvente alle obbligazioni concordatarie assunte; e che, in mancanza di una pronuncia giudiziale di risoluzione, l’inadempimento dell’imprenditore in concordato debba essere ragguagliato, rispetto ai debiti anteriori, non agli importi originari, ma agli importi rivenienti dalla falcidia concordataria.
Piace a chi scrive esporre alcune brevi considerazioni sull’argomento, proprio a partire dalla condivisibile requisitoria in rassegna.
2. La requisitoria della Procura Generale
I “quesìti” di diritto sottoposti alle Sezioni Unite dall’ordinanza di rimessione appaiono piuttosto compositi, ancorché riconducibili ad una comune e sequenziale matrice interpretativa. Provo a sintetizzarli.
Ad avviso della prima sezione civile, occorre domandarsi: i) se vi è compatibilità e simmetria sistematiche di una soluzione interpretativa che preveda, da un lato, la possibilità della dichiarazione di fallimento, in pendenza di una procedura di concordato preventivo, solo al verificarsi degli eventi di cui agli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall.[7] , ma che, dall'altro lato, consenta la dichiarazione di fallimento senza che analogo effetto impeditivo discenda dall'omologazione del concordato e dall'assenza della previa risoluzione di quest'ultimo, con ciò ammettendo che il fallimento sia dichiarato omisso medio; ii) se l'ammissibilità del fallimento senza la previa risoluzione del concordato omologato rappresenti una sorta di “elusione implicita” dell’art. 186 l. fall., mercé il superamento dei limiti da esso previsti, sia sotto il profilo della legittimazione attiva (ai sensi dell’artt. 186 l. fall., sono solo i creditori che possono agire in risoluzione, mentre, ai sensi degli artt. 6 e 7, possono agire per il fallimento i creditori, il P.M. ed il debitore), e sia sotto quello dei presupposti applicativi (ossia l’inadempimento di non "scarsa importanza" ed il termine di decadenza annuale); iii) se l’ammissione del fallimento omisso medio attenui la portata del vincolo obbligatorio per i creditori, derivante dal concordato omologato alla stregua dell’artt. 184 l. fall.; iv) infine, se sia ammissibile un sistema che preveda la coesistenza di due procedure con due distinte masse, quella concordataria originaria e quella fallimentare successiva, che potrebbe includere anche i beni eventualmente non considerati nella proposta di concordato.
A fronte di tali quesìti, la Procura Generale – premesso che l’art. 119 CCII non offre dirimenti elementi interpretativi ai fini della soluzione della questione, atteso che tra la normativa dell’attuale legge fallimentare ed il codice della crisi non ricorre il necessario “ambito di continuità”, che renderebbe possibile ricavare dalle disposizioni future elementi utili alla esegesi di quelle vigenti[8] – ha offerto alla valutazione delle Sezioni Unite, tra le altre, tre importanti considerazioni di tenore esegetico.
La prima considerazione è che nessuna norma del sistema induce ad escludere che i debiti concordatari inadempiuti possano rappresentare un sintomo rivelatore del fatto che l’imprenditore, pur a seguito di un concordato preventivo omologato, sia divenuto (o sia stato accertato) insolvente nella fase di esecuzione del piano, essendosi in concreto appurato che non è in condizione di far fronte con regolarità (ossia secondo le modalità ed i tempi promessi) ai pagamenti programmati[9].
Ciò spinge a riconoscere – sotto pena di incappare in un’aporìa sistematica – sia la facoltà del debitore (il quale ammetta di non essere in grado di reggere gli obblighi concordatari) di agire in autofallimento, sia il potere-dovere del pubblico ministero di formulare istanza di fallimento ai sensi dell’art. 7 l. fall., la cui negazione sarebbe “irriducibilmente contrastante con gli interessi pubblicistici sottesi agli istituti della legge fallimentare”.
La seconda considerazione proposta dalla Procura Generale – muovendo dal consolidato principio secondo cui la domanda di fallimento non è procedibile fin a quando il tribunale non abbia provveduto sulle domande di soluzione pattizia della crisi contestualmente pendenti – evidenzia che “l’esigenza di provvedere prioritariamente sulla domanda di cui all’art. 161 l. fall. viene meno quando il concordato preventivo sia stato ammesso, approvato e poi omologato”; difatti, “quando il concordato pende ormai in fase esecutiva, l’obiettivo di favorire prioritariamente la soluzione negoziata della crisi del debitore pare inevitabilmente raggiunto”, e pertanto “la necessità del coordinamento simmetrico tra le due procedure non può essere portato alle estreme conseguenze tanto da indurre ad affermare che, pur dinanzi ad un inadempimento delle obbligazioni concordatarie, l’istanza di fallimento è improcedibile quando la risoluzione non è stata richiesta o, comunque, disposta”.
In ultimo, la circostanza che la dichiarazione di fallimento non preceduta dalla risoluzione del concordato preventivo imporrebbe la gestione coordinata di due masse (quella concordataria e quella fallimentare), non costituisce, ad avviso della Procura Generale, “ragione sufficiente per la dichiarazione di fallimento che, oltre ad avere una rilevanza pubblicistica in determinate ipotesi, produce effetti ben più ampi a carico del debitore”[10].
3. Ragion pratica…
A scanso di equivoci, premetto che è mia convinzione che – al palesarsi dell’insolvenza successivamente all’omologazione del concordato preventivo – il fallimento possa essere dichiarato anche omisso medio, su domanda da parte di uno dei soggetti legittimati.
Per cominciare, nessun dubbio pare esservi sul fatto che il fallimento omisso medio possa essere richiesto “in caso di nuova insolvenza, scaturente cioè dall’inadempimento di obbligazioni assunte successivamente al decreto di omologazione e non anche per essere state disattese le obbligazioni discendenti dalla (non) esecuzione del concordato omologato”[11].
La mia opinione (adesiva alla requisitoria della Procura generale) è, però, che il fallimento possa essere dichiarato anche in relazione all’insolvenza causata dall’inadempimento delle obbligazioni concordatarie.
Mi induce a questa convinzione, anzitutto, una ragione di ordine pratico, che è la seguente.
Si è detto che, ai sensi dell’art. 186 l. fall., la risoluzione del concordato preventivo per inadempimento, che non sia di scarsa importanza, può essere chiesta da ciascuno dei creditori concordatari, entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento previsto dal concordato. L’ultimo comma richiama l’art. 137 (che disciplina la risoluzione del concordato fallimentare e richiama a sua volta l’art. 15, in quanto compatibile), consentendo in tale guisa di radicare il giudizio di risoluzione secondo le regole del giudizio prefallimentare.
Ne deriva che alcun ostacolo processuale si frappone al creditore, il quale presenta domanda di risoluzione del concordato preventivo, di introdurre anche uno actu, ossia in cumulo originario, la domanda di fallimento unitamente a quella di risoluzione[12].
Si ammette, altresì, la possibilità di chiedere la risoluzione del concordato preventivo ante tempus (ossia prima del decorso del termine annuale di cui all’art. 186), sia pure “esclusivamente in quelle situazioni nelle quali emerga con certezza l’impossibilità di soddisfare integralmente i creditori privilegiati non oggetto di legittima falcidia e comunque di riconoscere un livello di soddisfacimento non irrisorio ai creditori chirografari”[13].
Anche in questa ipotesi, dunque, è consentito al creditore che agisce ai sensi degli artt. 186 (e, quoad rationem, 137 e 15) l. fall. di introdurre in cumulo originario la domanda di fallimento.
Stando così le cose, a me sembra incongruo che l’accertamento dell’insolvenza non possa avere riguardo anche all’incapacità di adempiere i debiti concordatari, sia pure considerati nella misura “falcidiata” portata dalla proposta omologata; e che una legittimazione speculare a quella dei creditori (non ad instare per la risoluzione per inadempimento, appartenendo tale diritto processuale – per la contraddizione che non lo consente – al solo creditore, bensì) a chiedere il fallimento possa essere negata al debitore e, soprattutto, al pubblico ministero.
Al primo, perché – meglio e prima ancora dei suoi creditori – potrebbe antivedere l’impossibilità di realizzare il pur omologato piano concordatario e di dare corso, in tutto o in parte, ai pagamenti (ancorché eventualmente falcidiati) alle scadenze pattuite[14]; al secondo, il cui potere-dovere, mosso dall’interesse pubblico, di sottoporre al giudice la valutazione dello stato d’insolvenza (ancorché permanentemente “tarata”, in assenza di risoluzione, sull’ammontare della debitoria falcidiato dalla proposta omologata) e di instare per la conseguente apertura della liquidazione concorsuale, non può essere limitato da logiche interne al rapporto tra debitore e creditori concordatari.
E difatti, volta che sia inutilmente decorso il termine annuale per chiedere la risoluzione, questi ultimi ben potrebbero, sulla base dell’inadempimento, perseguire strategie di recupero individuale del credito per via di esecuzione singolare[15]: se non si riconoscesse la piena reviviscenza della legittimazione di cui agli artt. 6 e 7 l. fall., si correrebbe il rischio – a dispetto dell’interesse pubblico – di sterilizzare sine die la condizione d’insolvenza, istituendo una sorta di “scudo” alla dichiarazione di fallimento[16].
4. …e ragioni teoriche
Ma le ragioni di carattere pratico non sarebbero, di per sé, sufficienti ad ammettere la dichiarazione di fallimento omisso medio, se non in concorso con idonee motivazioni giuridiche.
Motivazioni che, oltre che nei principi già consolidati dagli orientamenti della prima sezione civile della Suprema Corte (e nelle ragioni esposte dalla condivisibile requisitoria della Procura Generale), potrebbero altresì rinvenirsi in considerazioni di tenore processuale.
A tele fine si potrebbe prendere partito dalla previsione dell’art. 181 l. fall. (rimasta finora un po’ “in ombra” nei percorsi della giurisprudenza e nei ragionamenti degli autori), secondo cui la procedura di concordato preventivo “si chiude” con il decreto di omologazione.
Ora, è vero che la chiusura del concordato, che fa seguito alla definitività del decreto o della sentenza di omologazione, pur determinando la cessazione del regime di amministrazione dei beni previsto, durante il corso della procedura, dall'art. 167, non comporta (salvo che alla data dell'omologazione il concordato sia stato già interamente eseguito) l'acquisizione in capo al debitore della piena disponibilità del proprio patrimonio, che resta vincolato all'attuazione degli obblighi da lui assunti con la proposta omologata, dei quali il commissario giudiziale, come espressamente stabilito dall'art. 185, è tenuto a sorvegliare l'adempimento, "secondo le modalità stabilite nella sentenza (o nel decreto) di omologazione”[17].
Ma è altresì vero che “una volta pronunciata l'omologazione, non può più parlarsi di pendenza della procedura di concordato preventivo”[18], in quanto il patto concordatario entra nella sua fase esecutiva.
Ciò vuol dire che, processualmente parlando, non vi è alcun contrasto tra la dichiarazione di fallimento omisso medio ed il principio cd. del “coordinamento simmetrico” tra procedura maggiore e procedure minori, comunemente declinato nel senso che, in pendenza di un ricorso per concordato preventivo, ordinario o con riserva, il fallimento del debitore (su istanza del creditore o richiesta del pubblico ministero) può essere dichiarato soltanto quando ricorrono gli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall. (ossia quando la procedura concordataria si chiude con un esito diverso dall’omologazione), non sussistendo una pregiudizialità tecnico-giuridica tra le due procedure, talché la dichiarazione di fallimento non è esclusa durante le eventuali fasi di impugnazione dell'esito negativo del concordato preventivo[19].
E ciò sgombra il campo da un non secondario argomento (enucleato dall’ordinanza di rimessione), che potrebbe frapporsi alla dichiarazione di fallimento omisso medio.
Tale profilo processuale potrebbe essere di ausilio anche al fine di escludere che il fallimento omisso medio sia, in qualche maniera, “elusivo” delle previsioni di cui all’art. 186, ovvero attenui la portata del vincolo obbligatorio stabilito, nei confronti dei creditori anteriori, dell’artt. 184 l. fall.
Convengo certamente con la considerazione che “lo stato di crisi/insolvenza che ha dato luogo alla procedura concordataria viene rimosso dall’effetto esdebitatorio dell’omologazione, da cui deriva il ritorno in bonis dell’impresa”, ma non con la conseguenza (che da ciò si vorrebbe far derivare) per la quale “non basta il pur conclamato inadempimento a concretare un’insolvenza che soltanto la risoluzione del concordato può far rivivere. L’impresa, dunque, non può essere dichiarata fallita se non sulla scorta di una nuova insolvenza generatasi per effetto di obbligazioni contratte successivamente all’omologazione e rimaste inadempiute”[20].
E’ difatti la chiusura del procedimento concordatario, conseguita con la definitività del provvedimento di omologazione, a far sì che “proprio l'obbligatorietà del concordato per tutti i creditori anteriori, cioè anche pretermessi o successivamente accertati, costituisce in realtà la principale conseguenza della sua omologazione, così integrando una nozione di efficacia che non può che riguardare il proprio credito secondo la nuova misura definita attraverso i meccanismi negoziali e di validazione giudiziale”; ma “tale rideterminazione del credito non implica che l'inadempimento che ciononostante si verifichi alla scadenza concordataria (o al perire della possibilità di risoluzione o per effetto di decisione definitiva di rigetto della risoluzione domandata) faccia venire meno per tali soggetti la qualità di creditori, ridefinita in siffatto modo; la citata Corte cost. n. 106/2004, per vicenda anteriore alla riforma del 2005, ma ad impatto sistematico identico, ha chiarito – rigettando la questione di illegittimità circa la pretesa impossibilità di dichiarare il fallimento a concordato non risolto – che il giudice di merito, ferma l'obbligatorietà della falcidia concordataria sui crediti anteriori, dovrebbe verificare se l'inadempimento di tali crediti, da parte di soggetto qualificabile come imprenditore commerciale, era tale da potersi definire come insolvenza, ai sensi dell’art. 5 l. fall., e trarne le conseguenze di legge in ordine alla legittimità della sentenza dichiarativa di fallimento"[21].
[1] A seguito dell’ordinanza della prima sezione civile della Corte 31 marzo 2021, n. 8919.
[2] Corte cost. 2 aprile 2004, n. 106.
[3] Cass. 11 dicembre 2017, n. 29632 e Cass. 17 luglio 2017, n. 17703, aventi il medesimo relatore. In senso (a mio avviso solo apparentemente) distonico rispetto a tale orientamento si muove Cass. 22 maggio 2019, n. 13850, secondo la quale i rapporti tra domanda di fallimento e concordato preventivo omologato, in fase di esecuzione dovrebbero essere declinati nel senso della procedibilità dell'istanza di fallimento solo dopo la risoluzione del concordato, “non solo perché la domanda di concordato rappresenta concettualmente un minus rispetto al concordato omologato, ma anche in considerazione del vincolo obbligatorio creato dall’art. 184, comma 1, l. fall. (non a torto descritto come proiezione concorsuale del principio civilistico di cui all’art. 1372 c.c.), dell'effetto esdebitatorio dell'omologazione (cui consegue il ritorno in bonis del debitore), della specialità della disposizione di cui all'art. 186 (ivi compreso il termine di decadenza annuale) rispetto all’art. 6 l. fall., e (non ultimo) dell'interesse concreto dei creditori alla declaratoria di fallimento nella misura originaria dei crediti, piuttosto che nella misura falcidiata, che finirebbe sostanzialmente per comportare solo un incremento dei costi per l'apertura di un'ulteriore procedura concorsuale”.
[4] Cass. 22 giugno 2020, n. 12085; 17 ottobre 2018, n. 26002.
[5] Cfr., in primis, anche per i richiami alle sintoniche voci autoriali, gli scritti di S. Ambrosini, La risoluzione del concordato preventivo e la (successiva?) dichiarazione di fallimento: profili ricostruttivi del sistema, in www.ilcaso.it, 6.9.2017; Id., Inadempimento del concordato preventivo: fallimento omisso medio o previa risoluzione? La parola alle Sezioni Unite, ivi, 24.4.2021.
[6] Cfr., tra le pronunzie èdite, Trib. Pistoia, 20 dicembre 2017; Trib. Campobasso, 14 febbraio 2019; Trib. Ancona, 20 giugno 2019.
[7] Orientamento, questo, ormai consolidato nella giurisprudenza a seguito delle note sentenze delle Sezioni Unite 15 maggio 2015, nn. 9935 e 9936.
[8] Il riferimento è al principio dettato da Cass., sez. un., 24 giugno 2020, n. 12476, secondo cui il CCII “è testo in generale non applicabile - per scelta del legislatore - alle procedure aperte anteriormente alla sua entrata in vigore (art. 390, comma 1, CCII), e la pretesa di rinvenire in esso norme destinate a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare potrebbe essere ammessa se (e solo se) si potesse configurare - nello specifico segmento - un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro”. Con riferimento alla questione che ci occupa, la Procura Generale argomenta che “la disposizione contenuta nel nuovo codice della crisi pare, infatti, per la gran parte “innovativa” come si evince dal fatto che il citato articolo 119, oltre ad attribuire il potere di chiedere la risoluzione, non solo ai creditori, ma anche al Commissario giudiziale (cui spetta di formulare specifica segnalazione al Tribunale), vieta espressamente la dichiarazione di fallimento omisso medio nel caso in cui l’insolvenza sia riconducibile a debiti anteriori”.
[9] E, d’altro canto, soggiunge la Procura Generale, durante la fase di esecuzione del concordato, i creditori anteriori “sono vincolati dai tempi e modi di pagamento previsti dalla proposta, talché non sussiste il potere di agire in via esecutiva fintantoché il credito non sia divenuto esigibile rispetto a tutte le scadenze indicate nella proposta omologata”.
[10] Di più agevole contrasto appare, invero, una tesi “residuale”, sostenuta in dottrina e menzionata anche dall’ordinanza di rimessione, secondo la quale la dichiarazione del fallimento omisso medio produrrebbe l’effetto di far lievitare i costi, duplicando le spese di procedura. A questa tesi la Procura Generale replica seccamente (ed, a mio avviso, condivisibilmente) che “se la dichiarazione di fallimento costituisce l’unica modalità per tutelare le ragioni dei creditori concorsuali, nessun rilievo assume il fatto che essa generi ulteriori costi”.
[11] S. Ambrosini, op. ult. cit., p. 17.
[12] Lo spiega efficacemente M. Fabiani, Concordato preventivo, in Commentario Scialoja-Branca, 2014, p. 771 ss., ed ivi richiami autoriali e giurisprudenziali.
[13] S. Ambrosini, op. ult. cit., p. 18.
[14] Osserva condivisibilmente Cass. 11 dicembre 2017, n. 29632, cit., che “non si comprende invero la ratio, già dal lato del debitore, per cui questi, consapevole della impossibilità di adempiere, non potrebbe far accertare la sua strutturale impossibilità di pagare le obbligazioni falcidiate, chiedendo per esse il fallimento in proprio, per insolvenza attuale, piuttosto che entrare in una situazione adempitiva del tutto discrezionale, ove gli si attribuisca la facoltà di dare corso ai pagamenti che intenda attuare e in assenza di conseguenze per quelli che, trascorso il citato anno, non intenda invece più attuare; il che val quanto dire che, tramontata la possibilità di risolvere il concordato non adempiuto, il debitore conseguirebbe una totale esdebitazione da ogni debito concordatizio e non nei limiti di cui all’art. 184 l. fall.”.
[15] Che – come spiega M. Fabiani, op. cit., p. 438 – “non deve essere necessariamente preceduta dalla risoluzione del concordato posto che ben può configurarsi un singolo inadempimento che non travolge il concordato e che, dunque, non legittima la pronunzia di risoluzione”.
[16] Rilievo, quest’ultimo, che mi pare sotteso alla citata pronunzia della Corte cost. n. 106/2004, laddove si osserva che la tesi che nega la possibilità di delibare l’insolvenza con riferimento ai debiti anteriori “è frutto di una interpretazione che privilegia un – rispettabile ma opinabile – profilo sistematico, secondo il quale il concordato (se non risolto o annullato) cancellerebbe definitivamente “quella” insolvenza in ragione della quale fu ammesso e omologato e, pertanto, impedirebbe di attribuire successivamente rilevanza, ai fini di cui all’art. 5 l. fall., ai debiti esistenti al momento dell’apertura della procedura”.
[17] Cass. 10 gennaio 2018, n. 380.
[18] Così Cass. 10 febbraio 2016, n. 2695, con la duplice conseguenza che tutte le questioni che hanno ad oggetto diritti pretesi da singoli creditori o dal debitore, e che attengono all'esecuzione del concordato, danno luogo a controversie che sono sottratte al potere decisionale del giudice delegato e costituiscono materia di un ordinario giudizio di cognizione, da promuoversi, da parte del creditore o di ogni altro interessato, dinanzi al giudice competente; e che l'inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso il decreto con cui il tribunale, in sede di reclamo, abbia confermato il decreto del giudice delegato reiettivo della domanda di restituzione delle somme accantonate e destinate all'eventuale soddisfacimento dei crediti in contestazione, trattandosi di atto giudiziale esecutivo di funzioni di mera sorveglianza e controllo, privo dei connotati della decisorietà e della definitività (in quest’ultimo senso v. anche Cass. 14 giugno 2016, n. 12265).
[19] Principio enunciato dalle già più volte citate sentenze delle Sezioni Unite 15 maggio 2015, nn. 9935 e 9936.
[20] Così ancora S. Ambrosini, op. ult. cit., p. 10.
[21] Così ancora Cass. 11 dicembre 2017, n. 29632, cit.
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