ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Storia delle donne in magistratura*
di Gabriella Luccioli
1. Celebrare i 60 anni della legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì alle donne l’accesso alle funzioni giurisdizionali, impone di ripercorrere un cammino lungo, complesso e pieno di ostacoli.
Come è noto, la posizione delle donne nei confronti della giurisdizione era segnata dall’art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176. Tale legge, che pure costituì una tappa importante nel cammino verso il riconoscimento dei diritti delle donne, tra l’altro abrogando l’istituto dell’autorizzazione maritale e riconoscendo loro piena capacità giuridica, le escluse, salva diversa espressa previsione normativa, dalle professioni e dagli impieghi implicanti poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato, secondo la specificazione da effettuare con apposito regolamento. Il regolamento di attuazione 4 gennaio 1920, n. 39 ridusse enormemente gli spazi delineati dalla legge n. 1176, indicando una lunga serie di importanti pubblici uffici preclusi alle donne, tra i quali quelli di prefetto, diplomatico, direttore generale presso ogni dicastero, ministro, ufficiale giudiziario, cancelliere, magistrato, sia della giurisdizione ordinaria che amministrativa e contabile, e conferendo alle amministrazioni statali la facoltà di prevedere ulteriori eccezioni.
Nonostante la dottrina più illuminata avesse percepito nella legge n. 1176 del 1919 l’inizio di un processo inarrestabile che avrebbe permesso alle donne di accedere a tutti gli impieghi pubblici, compresa la magistratura, avendo esse già ottenuto di poter esercitare la professione forense, l’avvento del fascismo, con la sua ossessiva esaltazione del ruolo essenziale della donna all’interno della famiglia e la parallela marginalizzazione della sua funzione nel settore pubblico, impresse una brusca direzione in senso contrario a tale percorso.
Coerentemente con il disposto dell’art. 7 della citata legge del 1919, la disciplina sull’ordinamento giudiziario di cui al r. d. 30 gennaio 1941, n. 12, all’art. 8, n. 1, poneva tra i requisiti per l’ammissione alle funzioni giudiziarie l’essere cittadino italiano, di razza italiana, di sesso maschile, ed iscritto al P.N.F. Quindi la non appartenenza alla categoria del maschio italico e fascista precludeva inesorabilmente la possibilità di essere magistrato.
In questo quadro di riferimento, ma in un contesto sul piano politico e sociale profondamente cambiato dopo la caduta del regime, l’Assemblea Costituente affrontò la questione cruciale della possibilità per le donne di accedere a tutti gli uffici pubblici, ed in particolare alla magistratura, ed alle cariche elettive.
La lettura dei resoconti delle sedute di detto consesso offre un quadro desolante, in quanto da quei documenti emerge con evidenza l’atteggiamento di sufficienza, talvolta di insofferenza e di arroganza, della grande maggioranza dei Padri Costituenti nei confronti della possibilità di accesso delle donne agli uffici pubblici ancora preclusi, e in particolare alle funzioni giurisdizionali. Le opinioni sostenute da molti di essi appaiono impregnate di pregiudizi, stereotipi e triti luoghi comuni fortemente ancorati alla cultura del passato, con i quali dovette confrontarsi lo straordinario impegno profuso dalle poche donne presenti nella Costituente nel tentativo di scalfire quella tenace barriera oppositiva (soltanto 21 su 566 erano state elette e soltanto 5 fecero parte della Commissione dei 75 incaricata di predisporre il testo della Carta; nessuna fu chiamata a comporre il “ Comitato di redazione”, che aveva il compito di elaborare il testo votato dalla Commissione).
Dalla piena concordanza di tanti interventi di segno negativo si intuisce che non si trattò di voci isolate, ma di posizioni ampiamente condivise che riflettevano orientamenti e preconcetti profondamente radicati nella classe politica, tra gli operatori del diritto e nella società.
Rinvio chi ne fosse interessato alla diretta lettura dei resoconti ufficiali, che con drammatica chiarezza fanno emergere la miopia e la limitatezza di molte delle opinioni espresse in quel consesso e consente di riscontrare come i principi di democrazia, di eguaglianza, di pluralismo pur reiteratamente evocati dagli stessi Costituenti non riuscissero ad intaccare l’ ideologia dominante nei confronti delle donne e ad indurre quegli insigni giuristi a guardare lontano, piuttosto che appiattirsi su un’ asfittica conservazione dell’esistente.
Giustamente Maria Federici nella fase finale della discussione sull’art. 98 (poi divenuto art. 106) si chiedeva come fosse possibile che quegli stessi Costituenti che in una confluenza di idealità e di visioni avevano sancito nell’art. 3 la pari dignità sociale e l’eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge potessero assumere posizioni così pesantemente discriminatorie nei confronti della metà della popolazione.
Ed è sorprendente constatare che personalità così illuminate non percepirono la gravità dei pregiudizi che annebbiavano il loro pensiero, impedendo di vedere che proprio quei principi di eguaglianza, pari dignità e solidarietà solennemente sanciti nei primi articoli della Carta erano stati offesi in passato in infiniti modi da una legislazione che aveva relegato le donne ai margini della vita sociale, del mondo del lavoro e all’ interno della famiglia e che la sede costituente offriva un’occasione storica irrinunciabile perché quei valori e quei principi si traducessero finalmente nel riconoscimento dei diritti delle donne.
All’ esito di un lungo dibattito, segnato dagli accorati e inascoltati interventi delle Madri Costituenti on. Federici, Mattei e Rossi, si giunse all’ approvazione dell’art. 51, che nel suo primo comma dispone che tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge: una formulazione di compromesso accettata nel diffuso e non dichiarato convincimento che la mancanza di un disposto specifico avrebbe consentito ad ogni interprete di far prevalere la propria opzione ermeneutica.
In effetti l’ auspicio che l’art. 51 Cost., nonostante la sua ambigua formulazione, potesse dare soluzione positiva al problema delle donne in magistratura fu purtroppo vanificato dalla posizione successivamente assunta da vari accademici e dalla giurisprudenza prevalente sul significato da attribuire all’ inciso secondo i requisiti stabiliti dalla legge, e quindi sul rapporto tra detto art. 51 e l’ art. 3 Cost.
Il tenore letterale della norma fornì infatti argomento alla posizione di coloro che optavano per il riconoscimento al legislatore ordinario del potere di prevedere il genere maschile tra i requisiti attitudinali per l’accesso a determinati uffici pubblici e cariche elettive, nell’assunto che quella formula autorizzasse a derogare per via normativa al principio generale di cui all’ art. 3, primo comma. Si richiamavano al riguardo gli artt. 37, primo comma, e 97, primo (ora secondo) comma, Cost., lì dove il primo prescriveva che le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della essenziale funzione familiare delle donne, mentre il secondo sembrava dare spazio alla possibilità che il buon andamento della pubblica amministrazione prevedesse la possibilità di esclusione di personale di sesso femminile.
La dottrina più illuminata mise in evidenza l’inaccettabilità di tale opzione ermeneutica, sul rilievo che l’art. 51 era chiaramente diretto a garantire l’eguaglianza dei cittadini e a negare ogni rilevanza al criterio del sesso nell’accesso ai pubblici impieghi e alle cariche elettive - come peraltro era immediatamente desumibile dalle parole di apertura Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso…-, così ponendo un preciso limite al potere discrezionale del legislatore. Si sottolineava altresì al riguardo l’inconferenza del richiamo all’ art. 37, primo comma, non potendo trarsi da una disposizione posta a tutela della donna lavoratrice, cui venivano riconosciuti gli stessi diritti del lavoratore, argomenti a sfavore del suo accesso a determinati uffici. Ed anche il riferimento al principio di buon andamento della pubblica amministrazione garantito dall’art. 97 risultava fuorviante, in quanto fondato su una arbitraria presunzione assoluta di inadeguatezza, per ragioni fisiologiche, del genere femminile alle pubbliche funzioni.
Alla posizione più retriva si allinearono i vertici della magistratura, nella loro implacabile contrarietà alla presenza delle donne nell’ordine giudiziario e nell’anacronistica difesa del mito della superiorità maschile, ribadendo il loro convincimento che la parificazione dei sessi prevista nella Costituzione non poteva considerarsi assoluta, in quanto era la stessa Carta a consentire al legislatore ordinario di introdurre, se del caso, eccezioni a tale principio.
Ne derivò che l’accesso delle donne alle carriere elencate nel richiamato regolamento del 1920 rimase per lungo tempo interdetto.
Con la sentenza n. 33 del 1960 la Corte Costituzionale, accogliendo l’eccezione di incostituzionalità sollevata dal Consiglio di Stato, dichiarò l’illegittimità dell’art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicassero l’ esercizio di diritti e di potestà politiche, in riferimento all’ art. 51, primo comma, Cost., per l’irrimediabile contrasto in cui detta norma si poneva con l’ enunciato costituzionale. In tale pronuncia il giudice delle leggi interpretò la formula ellittica contenuta nel primo comma dell’art. 51 Cost. nell’unico modo consentito dall’art. 3, ossia intendendo l’art. 51 come una specificazione, e prima ancora una conferma, dell’art. 3.
In questa sua capacità di riconoscere la natura inviolabile ed il valore supremo del principio di eguaglianza vanno colti la carica innovativa e lo spessore culturale, oltre che il valore tecnico, di detta decisione, pronunciata in un tempo in cui erano ancora forti nella società e nel mondo giuridico le diffidenze ed i pregiudizi che avevano animato il dibattito in seno all’ Assemblea Costituente.
Attesa la portata limitata della dichiarazione di incostituzionalità, si dovette introdurre una specifica legge, la n. 66 del 1963, che consentì l’accesso a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, ed abrogò espressamente la legge n. 1176 del 1919 ed il successivo regolamento. Come è stato correttamente osservato in dottrina, il fatto che si fosse resa necessaria una legge ordinaria per ribadire principi già sanciti in Costituzione costituisce chiara conferma della persistente arretratezza culturale degli apparati chiamati ad applicare i principi della Carta.
Al momento dell’approvazione della legge n. 66 del 1963 erano trascorsi tre anni da quella fondamentale sentenza della Consulta; dall’entrata in vigore della Costituzione erano trascorsi quindici anni e si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. E non può fondatamente contestarsi che il grave ritardo nell’ingresso delle donne in magistratura sia stato almeno in parte determinato dall’ambiguità della formula adottata nell’art. 51, che fornì un facile appiglio alle tesi più reazionarie.
La nuova disciplina sull’accesso rese necessario riaprire i termini di un concorso già bandito nell’agosto del 1962, ma nessuna donna superò quella prova.
Con d.m. del 3 maggio 1963 fu bandito un nuovo concorso aperto alla partecipazione delle donne; con d.m. del 5 aprile 1965 le prime otto donne vincitrici dell’esame entrarono a far parte dell’ordine giudiziario. Io ero una di loro.
2. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4-5 % per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10-20 % dopo gli anni settanta, al 30-40% negli anni ottanta e registrare un’ impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo la metà dei vincitori. Attualmente le donne in servizio hanno raggiunto la percentuale del 56% ed è facile previsione che diventeranno sempre di più, tenuto conto che il numero di donne vincitrici di ogni concorso è dal 1987 di gran lunga più elevato di quello degli uomini.
A fronte di tali evidenze mi sovvengono le incaute riflessioni dell’on. Conti nella seduta dell’Assemblea Costituente del 15 novembre 1947, quando affermò che le donne potranno entrare in Magistratura, ma non ci entreranno: questa è la mia convinzione… Se potranno entrare ed entreranno, bene saranno applicate alla Magistratura dei Minorenni . Credo che questa sarebbe un’applicazione utilissima. Si può pensare ad un’ altra applicazione utile: ai servizi di cancelleria.
Alla plateale mancanza di lungimiranza di tale previsione si contrappone una realtà che potrebbe presto portare ad affrontare i problemi di pari rappresentanza al contrario, a seguito di una eccessiva femminilizzazione della magistratura.
Le donne oggi entrano a far parte dell’ordine giudiziario in un contesto sociale e culturale del tutto diverso da quello del 1965 e degli anni immediatamente successivi: in effetti non fu facile per le magistrate negli anni sessanta e settanta ottenere il rispetto dei colleghi, in quanto in molti ambienti anche autorevoli si continuava a porre la domanda se le donne, con le loro specificità fisiche e psichiche, fossero idonee ad esercitare le funzioni giurisdizionali. Si trattava di far fronte non tanto a discriminazioni dirette, quanto a latenti pregiudizi, a malcelate diffidenze, spesso mascherate da inopportuni atteggiamenti paternalistici, chiaramente stridenti con il modello paritario.
La lunga esclusione subita e la percentuale così esigua di vincitrici dei primi concorsi rese inevitabile assumere una posizione di totale omologazione al modello maschile, unico modello di riferimento ed unico strumento per superare pregiudizi e diffidenze ed ottenere piena legittimazione. La completa imitazione ed introiezione di quel modello comportava da un lato la necessità di vivere in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’ attività professionale, dall’altra la rinuncia a tracciare per se stesse uno stile, un approccio al lavoro, un linguaggio, delle regole comportamentali sui quali costruire una figura professionale autonoma di magistrata. Si poneva inoltre l’esigenza aggiuntiva di dimostrare in ogni momento ed in ogni contesto lavorativo che la nostra ammissione all’ esercizio della giurisdizione era meritata, con la consapevolezza che il minimo errore avrebbe fatto riemergere una montagna di pregiudizi non totalmente rimossi e avrebbe ricacciato tutte le donne all’ indietro, condannandole ad un giudizio irrevocabile di incapacità. Questo richiedeva di mostrarsi sempre preparatissime, di non sbagliare mai, di non mancare mai alle aspettative dei colleghi, di essere disponibili ad ogni esigenza dell’ufficio: e tale richiesta aggiuntiva si risolveva in una forma di discriminazione indiretta.
Ben presto tuttavia, con la progressiva acquisizione di esperienza e sicurezza, l’appiattimento su quell’unico canone di riferimento cominciò per molte di noi a non essere più appagante, in quanto consentiva di diventare dei buoni giudici, ma finiva con il soffocare, fino a renderla invisibile, l’autonoma significazione di essere donne.
La grande stagione delle riforme degli anni settanta, segnata dall’approvazione di leggi importanti che avrebbero inciso profondamente nella cultura, nel costume, nelle relazioni personali e nel tessuto sociale e l’ emergere anche in Italia del movimento femminista, con tutta la sua carica innovativa in direzione della autonomia e della libertà delle donne, contribuirono certamente a far maturare il convincimento che l’essere donna non era un ostacolo da superare, ma un modo specifico di essere magistrato e che la presenza femminile nell’ordine giudiziario integrava la risorsa di sensibilità e prospettive differenziate nelle questioni da giudicare, e quindi un arricchimento della giurisdizione.
Si trattava allora di coniugare il rigore scientifico del giurista con la specificità dell’essere donna, rivendicando il diritto di interpretare le norme nel rispetto dei canoni della differenza.
In questa direzione è stato forte l’impegno ad assumere un modello di magistrato che non negasse, ma riflettesse la nostra appartenenza di genere e si desse carico di portare nelle camere di consiglio, nelle sentenze e nelle requisitorie lo sguardo, la cultura, la sensibilità e il linguaggio delle donne, ponendo tali profili a confronto con i valori espressi dal mondo maschile, in termini di positiva dialettica.
Nella mia lunga esperienza di giudice ho tante volte avuto occasione di riscontrare, e non solo nella materia del diritto di famiglia e dei diritti fondamentali, come il fatto di essere donna potesse influenzare la valutazione dei fatti e delle prove e portasse a soluzioni giurisprudenziali difformi rispetto ad orientamenti consolidati e più vicine alle esigenze dei soggetti deboli, a valutare da una diversa prospettiva situazioni ed interessi coinvolti nel processo, ad utilizzare diversi topoi argomentativi, a sollevare con particolare convinzione questioni di costituzionalità di norme discriminatorie ancora presenti nel nostro ordinamento.
Guardare le vicende processuali da una prospettiva di genere vuol dire far emergere tutte le forme di discriminazione, da quella che trae origine dall’uso spesso inconsapevole degli stereotipi a quella che trova espressione nell’uso corrente della lingua italiana fino a tutti i segnali di sessismo che attraversano le relazioni umane e i mezzi di informazione e che molti non vedono.
3. Le donne oggi esercitano la giurisdizione in tutti gli uffici giudiziari e svolgono ogni tipo di funzione, ma la loro consistenza numerica non esclude che all’ interno dell’ordine giudiziario si ponga un problema di pari opportunità: le percentuali di donne che ricoprono incarichi direttivi, pur in netta crescita rispetto al passato ( mi limito in questa sede a ricordare che nel 1996, a più di 30 anni dall’ingresso in magistratura, solo 10 incarichi direttivi sui 725 in pianta organica erano ricoperti da donne ), sono ancora ben lontane, specie nell’ambito degli uffici requirenti ( dove raggiungono la percentuale del 23,1%), dal riflettere la composizione per genere della magistratura, come i dati forniti nella nota di presentazione di questo incontro mettono in luce. Ed anche la recentissima nomina di Margherita Cassano a Primo Presidente della Corte di Cassazione, la prima volta per una donna, pur costituendo un passo fondamentale nel cammino verso la parità e pur rivestendo un forte valore simbolico, è solo la tappa di un percorso, perché altri tabù restano da abbattere e soprattutto perché questa nomina non scalfisce il dato della insufficiente presenza femminile ai vertici degli uffici.
Quanto alla partecipazione delle donne all’ organo di autogoverno, si tratta di una storia di gravissima sottorappresentanza. Basti considerare che per la prima volta è stata eletta una togata, Elena Paciotti, nel 1986, a oltre 20 anni dall’ingresso delle donne in magistratura; negli anni successivisi si sono succedute consiliature contrassegnate dall’assenza totale di magistrate o da sparute presenze, sino ad arrivare all’ elezione di una sola donna nella tornata del 2014. Ed anche il risultato dell’ultimo appuntamento elettorale, che ha visto elette 6 donne togate su 20, non può considerarsi appagante e vale a dimostrare l’inadeguatezza delle misure previste nella recente riforma Cartabia a garantire un effettivo riequilibrio della rappresentanza.
Dobbiamo pertanto prendere atto che esiste tuttora in magistratura un glass ceiling da sfondare ed uno sticky floor da rimuovere. E dobbiamo contrastare la posizione di molti colleghi, anche tra i più progressisti, ed anche di molte colleghe, che minimizzano il problema e si trincerano dietro il mantra dell’eguaglianza formale, che ovviamente non è in discussione, ricordando loro che arroccarsi sul principio di eguaglianza formale, e quindi su un malinteso concetto di parità che non conosce differenze, vuol dire non solo negare la specificità dell’apporto delle donne alla giurisdizione, ma anche non comprendere che ciò che viene in gioco è l’eguaglianza sostanziale, la quale si realizza soltanto con la partecipazione effettiva e paritaria di donne e di uomini ad ogni livello di responsabilità, e che tale partecipazione paritaria è una necessità democratica, e non un optional.
Ed è qui che si trova risposta alla domanda sul perché sia così importante che la presenza femminile sia una componente ordinaria, e non eccezionale, della giurisdizione a tutti i livelli.
A quelle posizioni ferme all’ astrattezza ideologica dell’eguaglianza formale è necessario opporre la rivendicazione del valore della differenza, cercando di dimostrare che al di là del simulacro dell’eguaglianza formale va riconosciuta l’ iniquità della sottorappresentanza delle donne, così come va apprezzata, e non negata, la ricchezza di uno scambio fecondo di punti di vista e di sensibilità diverse, che possono illuminare aspetti di realtà che altrimenti rischierebbero di rimanere nascosti. La battaglia contro la discriminazione si combatte nel nome della rivendicazione della differenza, non della sua negazione.
Deve essere pertanto contrastato il diffuso convincimento che sia del tutto indifferente il genere di appartenenza del magistrato chiamato a giudicare una controversia civile o a comminare una condanna penale o a condurre un’indagine o a dirigere un ufficio giudiziario.
So bene che la necessità di ricercare diversi modelli professionali non è da tutte le donne condivisa, perché non tutte le donne sono eguali e non tutte fanno e faranno la differenza: è sempre forte in alcune la tentazione di farsi ammettere o di rimanere nel club maschile come uomini onorari, mascherando la propria femminilità e quindi l’appartenenza ad un genere ritenuto inferiore. Si tratta a mio avviso di atteggiamenti miopi e autolimitanti, atteso che tanto più la presenza delle magistrate sarà importante quanto più esse sapranno rivendicare la loro specificità e autonomia di pensiero liberando gli organi giurisdizionali dai molti stereotipi che ancora li condizionano e così elaborando una visione più alta, più complessa e più equa del sistema di valori tutelati dall’ordinamento.
Non posso al riguardo non ricordare che sempre più numerose sono le sentenze di condanna dell’Italia da parte della Corte EDU per i molti pregiudizi sessisti e i molti stereotipi sulle donne e sul loro ruolo sociale che inficiano il ragionamento giuridico nella valutazione delle prove e nella decisione finale in relazione a processi per violenza sessuale e di genere.
Va inoltre purtroppo riscontrato che in Italia non si è operato abbastanza in questa direzione: i c.p.o. non sempre sono riusciti a mio avviso ad alimentare un rinnovamento culturale nella magistratura, limitandosi spesso ad assumere iniziative meramente sollecitatorie o organizzative a livello locale e non impegnandosi a promuovere e monitorare l ‘ integrazione della dimensione di genere nell’esercizio della giurisdizione.
Concludo ricordando che l’unico modo per superare gli ostacoli che rendono più difficile il percorso professionale delle donne consiste nel dotarsi di una professionalità elevatissima, di un impegno straordinario e costante, senza il minimo cedimento, di una preparazione di eccezionale livello, nutrita da un lavoro incessante di aggiornamento. Perché è ancora purtroppo vero che le donne devono fare di più per essere percepite come uguali.
Il cammino da compiere per vincere archetipi culturali resistenti al cambiamento è ancora lungo e deve tendere ad una sintesi tra eguaglianza, che è concetto tecnico-giuridico, e differenza, che invece attinge alla filosofia, alla psicologia, alla sociologia e alla cultura in generale e che non si oppone all’ eguaglianza, ma ne arricchisce il contenuto. E mentre sull’ eguaglianza il dibattito, in un ordinamento democratico, non dovrebbe neppure aver ragione di essere posto, la differenza è tema affidato alla nostra riflessione e alla nostra elaborazione teorica.
E dobbiamo tutti tener presente che quelle di cui oggi discutiamo sono questioni che non riguardano le donne, ma la magistratura di oggi e quella del futuro e sono dirette a segnare il tasso di democrazia dell’istituzione.
*Testo rielaborato dell’intervento svolto al convegno sul tema 1963-2023, 60 anni di donne in magistratura organizzato dalla sezione milanese dell’ANM presso l’ Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Milano l’ 8 marzo 2023.
La presunzione di onestà e la fondatezza del credito impositivo “oltre ogni ragionevole dubbio”
di Alessandro Giovannini
Non è un bel diritto quello che si legge nel comma 5-bis dell’art. 7, d.lgs. n. 546 del 1992, introdotto dalla legge n. 130 del 2022. Eppure, ciò nonostante, qualcosa di importante la norma riesce a dirlo. La prima indicazione è una conferma della regola sulla ripartizione dell’onere della prova per cui i fatti costitutivi del credito impositivo devono essere provati dall’amministrazione. L’altra attiene al grado di robustezza che l’apparato probatorio deve possedere affinché il giudice possa ritenere fondata la pretesa dell’amministrazione medesima. Infine, la nuova norma introduce il divieto di prove incoerenti con il diritto sostanziale, che fondano il credito su elementi da questo non qualificati come costitutivi della fattispecie impositiva o come condizioni oggettive di imponibilità. Ancor prima la norma pare volere dare un’altra indicazione, di portata generale. È possibile che in essa si annidi l’intento di portare allo scoperto, fra i semi dello stato costituzionale, quello sulla presunzione d’onestà del contribuente accertato. Il lavoro si sofferma su tutti questi aspetti nel tentativo di offrirne un inquadramento sistematicamente coerente.
It’s not a nice right what is read in the paragraph 5-bis of art. 7, legislative decree n. 546 of 1992, introduced by law no. 130 of 2022. Yet, nevertheless, the law manages to say something important. The first indication is a confirmation of the rule on the distribution of the burden of proof according to which the facts constituting the credit right must be proved by the administration. The other concerns the degree of robustness that the evidentiary apparatus must possess in order for the judge to consider the claim of the administration itself founded. Finally, the new regulation introduces the prohibition of evidence inconsistent with the substantive law, which bases the credit on elements which it does not qualify as constituting the tax situation or as objective conditions of taxability. Even before that, the provision seems to want to give another indication, of general scope. It is possible that in it lurks the intention of bringing into the open, among the seeds of the constitutional state, the one on the presumption of honesty of the taxpayer ascertained. The work dwells on all these aspects in an attempt to offer a systematically coherent framework.
Parole chiave: presunzione onestà contribuente - principio personalistico - processo tributario - prove - onere della prova - ripartizione soggettiva - vicinanza alla prova - libero convincimento giudice - fondatezza prove - presunzioni semplici - presunzioni semplicissime - conformità prove diritto sostanziale
Keywords: taxpayer honesty presumption - personalistic principle - tax process - proofs - burden of proof - subjective division - proximity to the proof - judge's free conviction - evidence foundation - simple presumptions - very simple presumptions - conformity of evidence substantive law
Sommario: 1. La riforma della legge n. 130 del 2022 sull’onere della prova, sulle prove e sul giudizio: “eppur si muove”. - 2. L’onestà presunta del contribuente: un seme costituzionale portato allo scoperto. - 3. La presunzione d’onestà e l’architrave costituzionale del principio personalistico. - 4. La ripartizione dell’onere della prova. - 5. La fondatezza del credito “al di là di ogni ragionevole dubbio”. - 6. La questione della presunzione semplice. - 7. La presunzione semplice nelle leggi sull’accertamento: un ritorno all’auspicato rigore del passato? - 8. La questione della presunzione “semplicissima”. - 9. La coerenza della prova con il diritto sostanziale. - 10. Conclusione: l’impervio cammino della “giustizia nell’imposizione”.
1. La riforma della legge n. 130 del 2022 sull’onere della prova, sulle prove e sul giudizio: “eppur si muove”
Per il comma 5-bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, introdotto dalla legge n. 130 del 2022, l’amministrazione «prova in giudizio le violazioni contestate con l'atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l'atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l'irrogazione delle sanzioni»[1].
Non è un bel diritto quello che si legge in questa disposizione: una mistura di parole prive di sorveglianza anche stilistica, un concentrato di concetti mal posti e forse mal conosciuti[2]. Anche per questo è probabile che essa, contrariamente agli intendimenti, alimenterà ulteriore contenzioso perfino sul significato fatto palese dalle parole in essa stessa contenute.
Eppure, ciò nonostante, qualcosa di importante riesce a dirlo ed anzi di molto importante, che va al di là della reazione di “forza” che con il profluvio di aggettivi e sostantivi il legislatore ha forse voluto manifestare nell’intento di riportare al rigore probatorio l’azione amministrativa.
Le cose principali che dice sono queste. La prima è una conferma della regola sulla ripartizione dell’onere della prova: i fatti costitutivi del diritto di credito impositivo devono essere provati dall’amministrazione[3].
L’altra attiene al grado di robustezza che l’apparato probatorio deve possedere affinché il giudice possa ritenere fondata la pretesa dell’amministrazione medesima.
Infine, la nuova norma introduce il divieto di utilizzare prove incoerenti con il diritto sostanziale, ovvero prove che fondano il credito su elementi da questo non qualificati come costitutivi della fattispecie impositiva o alla stregua di condizioni oggettive di imponibilità.
2. L’onestà presunta del contribuente: un seme costituzionale portato allo scoperto
Ancor prima di queste pur fondamentali indicazioni, sulle quali tornerò nei prossimi paragrafi, la norma, se letta unitariamente, pare volerne dare una di portata generale. E’ possibile che in essa si annidi l’intento di piantare nel sistema un seme o forse è più corretto dire di portare allo scoperto, fra i semi dello stato costituzionale, quello sulla presunzione d’onestà del contribuente accertato.
Un seme, come cercherò di dimostrare in positivo, che io considero già presente in Costituzione ma che finora, per la sua immanenza, è rimasto sepolto. Il comma 5-bis contribuisce, forse, a dissotterrarlo.
Ponendosi attentamente all’ascolto della norma è possibile percepire un’eco proveniente dalla tradizione garantista d’origine penale formatasi intorno alla presunzione di non colpevolezza dell’imputato[4]. Il risuono è quello dell’art. 27, comma 2, della Costituzione, interpretato alla luce dell’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dell’art. 6, comma 2, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che parlano di “innocenza” dell’imputato “fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata”.
Non si tratta, dev’esser chiaro, di invocare in ambito fiscale l’applicazione delle previsioni penalistiche. Non solo sarebbe sbagliato, ma neppure è necessario, come verificheremo nelle prossime pagine. Quella eco garantista, tuttavia, è ugualmente fondamentale perché può farsi viatico per verificare se l’ipotizzata presunzione di onestà possa trarre anch’essa forza dalla trama costituzionale. Solo così, infatti, potrebbe essere elevata a principio e qualificata alla stregua di “parametro su cui modellare le regole probatorie e di giudizio”, proprio com’è pacificamente qualificata, per una delle sue funzioni, la norma dell’art. 27 Cost.[5].
Epperò, se il terreno non è quello penalistico, in quale altro la nostra presunzione potrebbe affondare la sua radice? È mia convinzione che esso coincida con il principio personalistico, principio che informa tutta la Carta e “sovrasta assiologicamente tutti gli altri”[6].
Per dirsi costituzionalmente conforme, infatti, l’accertamento deve rispettare non solo il corredo delle garanzie “esterne” di natura sostanziale riconducibili agli artt. 53, 3, 41 e 42, e il corredo di quelle “interne” di natura procedimentale, ascrivibili all’art. 97, agli artt. 24 e 111 e alle norme sovranazionali sul giusto procedimento, ma anche ed anzitutto i diritti della persona, non in quanto o soltanto contribuente, ma in quanto persona, appunto, che si trova esposta agli effetti dell’esercizio del potere degli organi statali.
Qui sta il cuore del discorso: è nella sfera delle garanzie della persona umana che entra in gioco, primeggiando, la presunzione di onestà. Il principio di personalità, inserito in questo contesto, diviene allora il punto di saldatura fra presunzione di non colpevolezza e presunzione di onestà poiché fonte, anche per quest’ultima, delle garanzie del soggetto sottoposto al potere esecutivo d’accertamento e coercitivo[7].
3. La presunzione d’onestà e l’architrave costituzionale del principio personalistico
Per non esporre il discorso alla critica dell’incompletezza, mi soffermo ulteriormente sulla relazione fra stato costituzionale, principio personalistico e presunzione di onestà. In questa relazione, infatti, sta il bandolo della matassa per giungere a qualificare la presunzione stessa alla stregua di principio, seppure immanente, di fonte costituzionale.
Non si scopre una nuova America affermando che è la persona il centro dell’ordine assiologico disegnato dalla Costituzione. Non è la legge ad assegnarle il palco d’onore, piuttosto è la legge a derivare e dipendere dalle libertà e dai diritti di quella[8]. Questo discorso si può ripetere, nella sostanza, anche per i poteri dello stato e in particolare per quelli da ultimo richiamati, ossia esecutivo d’accertamento e coercitivo.
Il principio personalistico, nella sua essenza più profonda e densa di conseguenze, ha questo contenuto. Ed è per questo, come ho ricordato, che possiede un’eccedenza assiologia su tutti gli altri[9].
A scomparire dal tavolo d’analisi, intendiamoci, non è il potere e non è neppure la legge, ma per un verso è la loro supremazia sulla persona e sui suoi diritti e, per un altro, sono la “volontà generale”, la “ragion fiscale”, l’”interesse fiscale” e tutte le ulteriori escrescenze del potere stesso. Escrescenze e supremazia collocate, in ragione della storia, sui gradini superiori di un’illusoria scala alla cui base stavano - e forse tuttora si prova ingannevolmente a collocare - gli scalpiccii dei consociati con i loro diritti. In forza del principio personalistico tutto questo non ha più spazio: la scala si è capovolta e i diritti della persona, ora, ne costituiscono l’apice[10].
I poteri dello stato, compreso quelli esecutivo d’accertamento e coercitivo, non sono scomparsi, ma traggono legittimazione soltanto dal loro essere portatori di forze orientate a dare sbocco alla dimensione politica dei diritti appartenenti ab origine ai loro titolari[11].
In questo consiste lo stato costituzionale e la “sovranità della Costituzione”: essere al tempo stesso tavole assiologiche, deontologiche e normative al cui interno il potere si pone al servizio dei diritti e, direttamente o per il tramite di questi, al servizio della persona[12].
Certo, sarebbe eccessivo predicare l’integrale “sostituzione del fondamento di valore al fondamento di autorità”[13] che sorregge e sostanzia il potere nella sua concezione tradizionale. Una sostituzione di tal fatta sarebbe eccessiva giacché pure nelle costituzioni moderne residuano spazi autoritativi di singoli apparati dello stato per l’esercizio di specifiche funzioni, specie quando legate ai doveri di osservanza della Costituzione e delle leggi (art. 54, primo comma, Cost.)[14]. Ma, anche in questi casi, nello stato costituzionale, a differenza che nello stato legislativo, ai diritti fondamentali si contrappone non il potere che li domina, ma il potere che li rispetta e in questo modo li serve, ossia il potere volto unicamente all’esercizio della funzione per la quale è composto[15].
In questa chiave, dunque, l’accertamento fiscale qualificato come funzione non può che trovare la sua piattaforma relazionale, comprensiva dei suoi limiti, nel principio personalistico. E il corrispondente potere vi entra non più con i fregi della supremazia, ma “nudo” giacché strumentale, puramente e semplicemente, all’esercizio della funzione.
La presunzione di onestà intesa alla stregua di diritto della persona discende da questa trama. Il comma 5-bis dell’art 7 aiuta la percezione di un simile diritto, ma non lo crea. E non solo perché la nuova norma è legge ordinaria e dunque dalla struttura “fragile”, vorrei dire inadatta a sorreggere un così importante cardine, ma perché la Costituzione già lo esprime.
4. La ripartizione dell’onere della prova
Le osservazioni finora svolte, pur scheletriche e come tali senz’altro incomplete, facilitano l’analisi delle tre indicazioni illustrate all’inizio provenienti dal comma 5-bis.
La prima attiene alla ripartizione dell’onere della prova: l’amministrazione è onerata di provare le violazioni contestate, ossia, più esattamente, i fatti sui quali pretende di radicare il credito o il maggior credito accertato[16].
La regola è pacifica da molto tempo, sostenuta dai fautori vuoi della teoria costitutiva dell’obbligazione d’imposta, vuoi della teoria dichiarativa[17]. Il comma 5-bis si limita a confermarla[18].
La regola di ripartizione, per come appena tratteggiata, riprende nella sostanza quella stabilita dall’art. 2697 cod. civ., per il quale chi vanta un diritto deve provare i fatti che lo costituiscono, mentre chi eccepisce la loro inefficacia, oppure che il diritto si è modificato o estinto, deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.
Di qui un dubbio, che introduco con questa domanda: la regola della “vicinanza” alla prova, quando determina l’addossamento del relativo onere sul contribuente[19], deve essere d’ora in poi espunta dalla ripartizione soggettiva dell’onere stesso[20]?
Non sarebbe corretto, io credo, rispondere affermativamente. La nuova disposizione reagisce sulla regola della “vicinanza” bensì limitandone l’ampia - e spesso improvvida - applicazione compiuta dalla giurisprudenza più recente[21], ma non ne legittima l’espunzione. Conformemente alla sua ratio, ossia quella di salvaguardare il diritto sostanziale della parte processuale che non è oggettivamente in grado di raggiungere la pienezza dimostrativa dei fatti, potrà continuare ad essere utilizzata. Ma potrà nei limiti in cui le fonti di prova non siano producibili perché non apprendibili dalla stessa amministrazione nella fase dell’istruttoria primaria[22].
È la non apprendibilità della prova intesa come fonte a dover essere dimostrata in giudizio perché in questo modo il fatto sul quale l’attore sostanziale pretende di radicare il diritto entra nel processo pur sempre in maniera “puntuale e circostanziata”, come richiede, proprio, il comma 5-bis[23], e vi entra anche rispettando in qualche modo le regole soggettive di ripartizione dello stesso onere probatorio.
5. La fondatezza del credito “al di là di ogni ragionevole dubbio”
L’altra indicazione del comma 5-bis si riferisce al livello minimo di robustezza che la prova deve raggiungere per essere considerata decisiva - vien da dire, se non si cadesse in un gioco di parole, per essere considerata “probante” - e quindi idonea a consentire al giudice di adottare una sentenza d’accertamento sulla fondatezza del diritto di credito[24]. Questo, infatti, deve essere accertato e dichiarato come esistente se le prove su cui lo stesso si radica sono in grado di dimostrarne la fondatezza in modo “circostanziato e puntuale”.
Queste parole, se non si vogliono considerare come scritte sull’acqua o ridurle ad un’esangue esercizio di retorica legislativa, possono assumere un solo significato: quello di legittimare sentenze d’accertamento positive quando il corredo degli elementi di prova consente al giudice di formarsi il convincimento della fondatezza del credito “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Sicché il giudice dovrà dichiararne l’infondatezza quando manca, è insufficiente o contraddittoria la prova che il fatto costitutivo sussiste.
Non si tratta qui di riprendere l’art. 533, comma 1, e l’art. 530, comma 2, c.p.p., per calarli di peso nel processo tributario, se non per mutuarne l’espressione del “ragionevole dubbio” per la sua efficacia evocativa. E non si tratta neppure di ridurre o mettere in discussione il principio del libero convincimento del giudice[25]. Si tratta, invece, di valorizzare adeguatamente il significato delle espressioni accolte nella nuova disposizione in coerenza con l’intero ordito nel quale è calata.
Ed è per questo che a me sembra ragionevole sostenere che la prova del fatto posto a fondamento del diritto si può considerare decisiva solo se supera una soglia molto alta di attendibilità ricostruttiva, che non deve lasciare margini apprezzabili di dubbio: la prova deve essere “circostanziata” e quindi riferibile, soggettivamente, al contribuente accertato e, oggettivamente, corredata di tutti i particolari necessari per determinare la fattispecie alla quale la stessa prova si riferisce. E deve essere “puntuale”, ossia esatta, precisa, univoca, in modo da fugare ogni significativa incertezza sull’esistenza del fatto.
6. La questione della presunzione semplice
Che dire, allora, della presunzione semplice? La nuova norma quali conseguenze produce su questa prova[26]?
Per andare dritti al nocciolo delle questioni, credo che la dimostrazione “circostanziata e puntuale” esiga che il fatto ignorato sia ricostruito alla stregua di conseguenza univoca del fatto noto; che il fatto noto sia certo, reale, specifico, determinato oggettivamente e soggettivamente, e adeguato a sorreggere l’inferenza; che gli elementi indiziari non si contraddicano o si elidano vicendevolmente, dovendo tutti concorrere a favore di una sola ricostruzione possibile; che la presunzione di “secondo grado”, ove utilizzata, muova da un fatto noto connotato da certezza, ovvero da univocità del nesso causale tra i fatti noto e ignoto costitutivi dell’inferenza di “primo grado”.
Non è in dubbio che la presunzione semplice possa continuare a fondare la verità giuridica del processo anche alla luce della nuova disciplina, ma affinché ciò accada è necessario che possieda in sé il tratto della più alta approssimazione possibile del fatto ricostruito alla storicità degli accadimenti. Una così elevata approssimazione o un così elevato avvicinamento del fatto ignorato alla realtà si ha solo se tra questo e il fatto noto corre una relazione di necessità. E ciò non si potrebbe predicare se s’intendesse continuare a digradare il livello di verosimiglianza dell’ignoto alla molteplicità dei probabili o addirittura dei possibili[27].
La verosimiglianza massima del ricostruito alla realtà storica dell’accaduto, come scriveva Virgilio Andrioli oltre cinquant’anni fa[28], è così tendenzialmente assicurata per volere della legge. S’impone perciò che il corredo probatorio indicato nell’avviso d’accertamento e comunque portato in giudizio dalla parte pubblica[29], non lasci margini significativi di dubbio, che non siano quelli “naturali” di tutte le prove indirette ad apprezzamento critico.
Ragionando in questo modo, l’interpretazione della nuova normazione si avvicina a quella corrente dell’art. 192, secondo comma, del codice di procedura penale dedicato alle presunzioni. In entrambe, infatti, l’accento cade sulla necessità che gli elementi indiziari determinino nel giudice “una elevata intensità persuasiva di ogni singolo strumento gnoseologico indiziario”[30]. Ancora una volta, tuttavia, non si tratta di trasportare armi e bagagli il fenomeno tributario sotto la bandiera processuale penale. Non è questo lo scopo della mia proposta interpretativa. L’intendimento, piuttosto, e quello di mettere in risalto lo spirito fortemente garantista che la riforma ha voluto iniettare con determinazione nelle vene delle istruttorie probatorie e delle decisioni giudiziali.
7. La presunzione semplice nelle leggi sull’accertamento: un ritorno all’auspicato rigore del passato?
È mia convinzione che nella nostra materia a questo risultato si dovesse giungere anche senza attendere la recente normazione sol che fosse stata adottata un’interpretazione rigorosa della disciplina dell’accertamento analitico-presuntivo per come dettata dalle leggi sull’accertamento delle imposte sui redditi e dell’imposta sul valore aggiunto.
In altra occasione[31] avevo cercato di dimostrare come il fatto noto non potesse consistere in mere asserzioni, in parametri quantitativi riferibili ad una generalità di soggetti e dunque privi di riscontri soggettivi, in congetture sguarnite di fattualità o basate su osservazioni non riscontrabili oggettivamente, in sospetti o mere probabilità di esistenza del fatto stesso. E men che meno il fatto noto poteva essere rivestito con gli abiti della certezza per rispondere a spinte moraleggianti o per dare corpo al supposto ma inesistente “interesse fiscale”[32]. Discorso simile, poi, si sarebbe dovuto fare per l’esito dell’inferenza[33]. La ricostruzione del fatto ignoto doveva mostrarsi come la necessaria conseguenza del fatto noto, sicché a petto di un ventaglio di ricostruzioni tutte probabili e tutte legittimate dal medesimo fatto iniziale, quello finale si doveva considerare sguarnito di prova[34].
Amministrazione e giurisprudenza, sostenuti da una parte della dottrina[35], hanno invece preferito adottare interpretazioni lasche a scapito della giustizia del processo e delle giustezza della decisione, ma anche a scapito della certezza del diritto e dei rapporti giuridici.
Ricorrendo ad una concezione gradualistica delle risultanze probatorie, dove si passa, senza soluzione di continuità, da ricostruzioni del tutto rigorose a ricostruzioni poco attendibili, solo probabili o perfino solo possibili, si è finito per cacciare il discorso sulle prove indirette in un cul-de-sac contrassegnato dalla sfuggevolezza, dall’impalpabilità del risultato inferenziale, come l’ha definito Cesare Glendi[36], incontrollabile dall’esterno con parametri oggettivi. Si è creato, per dirla in maniera molto semplice, una Babele delle lingue, contraddicendo così le connotazioni pubblicistiche di tutti i processi degli stati costituzionali.
Di qui, come già sottolineato, la reazione “muscolare” del Parlamento, che si è tradotta, proprio, nell’inserimento del comma 5-bis nell’art. 7 della nostra legge processuale.
8. La questione della presunzione “semplicissima”
La presunzione “semplicissima”, è perfino banale ricordarlo, è una fonte dimostrativa anomala, che si caratterizza per essere priva dei requisiti di gravità, precisione e concordanza[37]. È una semi-prova, piuttosto che una prova piena, come invece è la presunzione semplice.
In prima battuta la sua compatibilità con il comma 5-bis appare dubbia ed ancor di più lo sembra se la si pone in relazione con la presunzione di onestà della persona accertata per come qui ipotizzata. Ragionando concretamente, tuttavia, non sembra immaginabile un abbandono o una declaratoria di illegittimità della sua disciplina, tanto è diffuso l’uso che ne è fatto dall’amministrazione e tanto è importante il vantaggio istruttorio che alla fine la macchina statale ne ritrae.
La strada è così quella di verificare la possibilità di contemperare le diverse pulsioni del sistema e per questa via provare ad adottare un’interpretazione costituzionalmente conforme. Un tentativo in questa direzione può essere quello di recuperare, da un lato, la ratio originaria di questa forma di presunzione e, da un altro, la struttura del sistema normativo nella quale essa si cala[38].
Per fare questo è necessario innanzitutto tornare a distinguere la prova in senso proprio dei fatti rappresentanti il presupposto dell’accertamento dalla (semi) prova del quantum dell’imponibile rettificato o accertato. La presunzione “semplicissima”, per come disciplinata dalle disposizioni sull’accertamento e dando a queste un’interpretazione corrispondente alla loro ratio storica, può intervenire soltanto come ausilio nel procedimento di quantificazione dell’imponibile.
In secondo luogo occorre tornare a considerare la presunzione “semplicissima” come fonte indiziaria d’eccezione o straordinaria, traente giustificazione dalla speciale gravità delle violazioni riscontrate nella fase istruttoria. Il sistema, infatti, tollera sì che a petto di violazioni particolarmente gravi la quantificazione del maggiore imponibile si fondi su semi-prove, ma lo consente perché la gravità delle stesse è in sé indice dell’alta probabilità di evasione e perché non è dato conoscere strumenti storicamente più accreditati per risalirne all’entità. Fra rinunciare ad una sua quantificazione con le ordinarie fonti di prova e quantificarla con fonti dalla forza dimostrativa assai labile, il sistema ha preferito non abdicare alla ricostruzione, seppure a scapito del grado di attendibilità del risultato. E ha preferito, sempre in ragione di quella gravità, rimettere la verifica della congruità del risultato medesimo al vaglio, semplicemente, della ragionevolezza e non arbitrarietà.
La compatibilità della disciplina sulle presunzioni “semplicissime" con il comma 5-bis passa, allora, da una doppia condizione: dalla dimostrazione, puntuale e circostanziata, mediante prove “piene”, della violazione che legittima l’accertamento induttivo; dall’uso rigoroso delle stesse presunzioni “semplicissime”, preordinato soltanto alla quantificazione, ragionevole e non arbitraria, dell’imponibile accertato o del maggiore imponibile rettificato.
9. La coerenza della prova con il diritto sostanziale
Rimane da indagare il requisito della “coerenza” della prova, qui da intendere come risultato del procedimento probatorio, con la “normativa tributaria sostanziale. È un requisito esterno alla prova ma che su questa reagisce rendendola inutilizzabile.
Sfrondando il ragionamento, ciò significa che il giudice - e prima l’amministrazione - non può radicare la decisione su prove che finiscono per modificare oppure ampliare gli elementi costitutivi della fattispecie impositiva o le condizioni di imponibilità per come diversamente determinate dal diritto positivo sostanziale.
Se il risultato al quale l’amministrazione perviene con l’uso, ad esempio, della presunzione semplice non si conforma ed anzi contrasta con le disposizioni del testo unico delle imposte sui redditi relative ai ricavi (art. 85) o alla percezione dei compensi (art. 54) e forse anche a quelle sulla percezione degli utili nelle società a ristretta base sociale (art. 45), la presunzione non può legittimare la pretesa creditoria. E non la può legittimare non già perché viziata in sé, ovvero costruita malamente nell’individuazione del fatto noto, nell’uso del ragionamento deduttivo o nell’esito ricostruttivo di quello ignoto, ma perché contrastante con il diritto sostanziale, modificabile o integrabile solo dal legislatore.
In altri termini, fintanto che questi non interviene, magari introducendo specifiche presunzioni legali, la pretesa creditoria non si può fondare su una prova preordinata, negli effetti concreti, ad allargare o modificare gli elementi costitutivi della fattispecie impositiva o le condizioni oggettive di imponibilità[39].
10. Conclusione: l’impervio cammino della “giustizia nell’imposizione”
Riprendo, per concludere, una riflessione contenuta in un recente libro di Raffaello Lupi[40]. L’autore mette acutamente in risalto il disagio del giudice, specie quello chiamato a trattare questioni amministrative, quando deve esaminare e comprendere le dinamiche dell’attività istruttoria che precede il suo intervento. E parallelamente mette in evidenza le difficoltà d’orientamento ed anche di ponderazione che inevitabilmente, al di là del formalismo leguleio, l’amministrazione si trova a dover compiere, specialmente in un sistema di “fiscalità di massa”.
Non v’è dubbio che le cose stiano in questo modo. Non v’è nemmeno dubbio, però, che anche per questi motivi il sistema di somministrazione della giustizia abbia talvolta perso di vista l’essenzialità del suo ruolo, ossia quello di garantire protezione ai beni della vita, privati o pubblici che siano, nel rigore della dialettica probatoria delle parti.
La riforma tenta di limitare i margini, per così dire, dinamici degli attori di questo complesso procedimento. E però lo fa non tanto per riaffermare una primazia del legislatore sugli altri poteri, compreso quello giudiziario, o per impedire la libera formazione del convincimento, ma per riportare al centro del palcoscenico i diritti della persona accertata. Un tentativo, insomma, per dare gambe ad un principio basilare dello stato costituzionale: la giustizia nell’imposizione. Principio che corre con quello, anch’esso fondamentale, della presunzione d’innocenza della persona accertata.
Come tutti gli idoli, anche quello della giustizia va trattato con cura, per non correre il rischio, come ammonisce Gustave Flaubert in Madame Bovary, che un po’ di oro rimanga sulle dita e alla fine, paradossalmente, l’idolo stesso si rivolti contro chi ha provato a toccarlo. L’auspicio è che questo non accada e che, anzi, la “scossa” del legislatore determini una riflessione a tutto campo, come sottolinea Lupi, sulla socialità del diritto e, aggiungo io, sui princìpi dello stato costituzionale letti alla luce del principio di realtà del diritto stesso.
[1] Per un primo commento all’intera legge n. 130, cfr. F. Gallo, Prime osservazioni sul nuovo giudice speciale tributario, in Rass. trib., 2022, 783 ss. ; G. Melis, La legge 130 del 2022: lineamenti generali, in giustiziainsieme.it, 19 dicembre 2022.
[2] È una critica diffusa, espressa ancor più severamente da C. Glendi, La nuovissima stagione della giustizia tributaria riformata, in Il quotidiano giuridico, 22 settembre 2022, ed anche da S. Muleo, Onere della prova, disponibilità e valutazione delle prove nel processo tributario rivisitato, in AA.VV., La riforma della giustizia e del processo tributario, a cura di A. Carinci e F. Pistolesi, Milano, 2023, 83 ss.
[3] Non affronto il tema del rimborso e dell’onere probatorio gravante sul contribuente. Seppure il comma 5-bis lo disciplini («Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso»), mi sembra che la norma in esso contenuta si limiti a confermare una regola assolutamente pacifica.
[4] Cfr. G. Illuminati, La presunzione di innocenza dell’imputato, Bologna, 1979, passim, ma specie 69 ss.
[5] Per tutti, M. D’Amico, Sub art. 27 Cost., in Comm. Cost., vol. I, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Torino, 2006, 570.
[6] Cfr. J. Luther, Ragionevolezza (delle leggi), in Digesto, Disc. pubbl., XII, Torino, 1997, 341 ss., 358.
[7] Seppure, ça va sans dire, per fatti e in ambiti diversi. Per evitare equivoci preciso che, sebbene in passato vi siano stati tentativi di accostare alcuni profili delle leggi d’imposta alle norme di matrice penalistica - si pensi alle questioni sull’interpretazione e al divieto di analogia - tassazione e pena sono fenomeni radicalmente diversi e nessuna assimilazione è concepibile per le radici costituzionali che li diversificano. L’àmbito, invece, dove un qualche risuono può echeggiare è quello delle garanzie della persona rispetto al potere degli organi dello stato, come dirò meglio nel prossimo paragrafo.
[8] L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura E. Vitale, Roma-Bari, 2001, 90, per il quale i diritti costituzionali, ad iniziare da quelli fondamentali, “rappresentano non già un’autolimitazione sempre revocabile del potere sovrano, ma al contrario un sistema di limiti e di vincoli ad esso sopra ordinato; non dunque «diritti dello Stato» o «per lo Stato» o «nell'interesse dello Stato» [ … ] ma diritti verso e se necessario contro lo Stato, ossia contro i poteri pubblici sia pure democratici o di maggioranza”. Per N. Matteucci, Positivismo giuridico e costituzionalismo (1963), ora in N. Matteucci e N. Bobbio, Positivismo giuridico e costituzionalismo, con introduzione di T. Greco, Trento, 2021, 145 ss., nello stato legislativo era dalla legge ordinaria e dal potere dello stato-persona o stato-ordinamento che nascevano libertà e diritti. Come “illusione concettuale” - ha scritto Matteucci - questa ricostruzione era funzionale alle esigenze di quel tipo di stato, al quale faceva da pendant il positivismo formalista, ma ormai essa ha smarrito qualsiasi validità ricostruttiva alla luce del ribaltamento compiuto dalla Carta del 1948.
[9] Anche A. Ruggeri, Il principio personalista e le sue proiezioni, in Federalismi, 17, 2013, arriva a conclusione similare. Così, nella sostanza, anche E. Rossi, Principi fondamentali, sub art. 2 Cost., in Commentario Cost., a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, I, Torino, 2006, 42 ss.
[10] Cfr. N. Matteucci, Positivismo giuridico e costituzionalismo, cit., 149 e 150; F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Milano, 1970, 12 ss. Sullo stato costituzionale come evento dalle potenzialità rivoluzionarie anche dal punto di vista del rapporto fra persona e poteri degli organi dello stato, fra i tanti, cfr. N. Bobbio, Mutamento politico e rivoluzione, a cura di L. Caragliotto, L. Merlo Pich, E. Bellando, con prefazione di M. Bovero, Roma, 2021, 463 ss., 468; Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, già cit., 138; E. Cheli, I fondamenti dello “Stato costituzionale”, in Lo Stato costituzionale. I fondamenti e la tutela, a cura di L. Lanfranchi, I, Roma, 2006, 41 ss.; M. Fioravanti, Stato costituzionale in trasformazione, Modena, 2021, 7 ss.
[11] Per un’analisi cristallina, cfr. G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, passim, ma già 4 ss.
[12] J. Habermas, Fatti e norme, trad. it. di L. Ceppa, Roma-Bari, 2013, 200 ss.; A. Baldassarre, Il costituzionalismo e lo stato costituzionale, Modena, 2020, 34 ss.; G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna, 2017, 133 ss.
[13] Lo spiega ampiamente V. Omaggio, Saggi sullo Stato costituzionale, Torino, 2022, 134 (nel testo, enfasi di chi scrive).
[14] In altra occasione mi sono occupato di questi temi (se si vuole, A. Giovannini, Territorio invisibile e capacità contributiva nella digital economy, in Riv. dir. trib., 2022, I, 497 ss., specie 511 ss.). In quella circostanza ho precisato - e qui lo ribadisco - che la sovranità applicata ai tributi non è “altra” dalla sovranità che convenzionalmente si definisce generale. Anche se guardata dall’angolo prospettico dei tributi, la sovranità si articola sempre nell’esercizio di un triplice ordine di poteri: quello ordinamentale, funzionale alla normazione generale ed astratta, quello di governo e quello coercitivo. Il potere impositivo, perciò, è solo un elemento della sovranità, che deve essere esercitato nel rispetto e all’esclusivo fine di attuare l’ethos dei princìpi costituzionali. Cfr. G.A. Micheli, Profili critici in tema di potestà d’imposizione (1964), ora in Opere minori di diritto tributario, II, Milano, 1982, 30 ss.; E. De Mita, La legalità tributaria, Milano, 1993, 5 ss.; G. Marongiu, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria. Profili storici e giuridici, Torino, 1995, 10 ss.; F. Gallo, Le ragioni del fisco, Bologna, 2011, 79 ss.; A. Fedele, Diritto tributario (principi), in Enc. dir., Annali, II, t. 2, Milano, 2008, 447 ss., specie 453, 467 e 468; G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, 8 ss., 81 ss.; L. Antonini, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996, 21 ss., 123 ss.
[15] Cfr. N. Matteucci, Positivismo giuridico e costituzionalismo, cit., 149 e 150; F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Milano, 1970, 12 ss.
[16] Come ho già precisato nella nota 3, non affronto il tema del rimborso e dell’onere probatorio gravante sul contribuente poiché la regola che pure il comma 5-bis stabilisce («Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso») è meramente ripetitiva di un’impostazione assolutamente pacifica.
[17] Per chi aderisce alla teoria costitutiva dell’obbligazione d’imposta la ripartizione dell’onere non si salda alla norma codicistica, ma discende dal principio di precostituzione della prova: “a nessun atto la pubblica amministrazione può (possa) accingersi senza aver procurato a se stessa la prova dei fatti che determinano la sua potestà di dar vita a quell’atto”. Così E. Allorio, Diritto processuale tributario,Torino, 1962, 377-378). Sviluppa la teoria del Maestro, F. Tesauro, L’onere della prova nel processo tributario (1986), ora in Scritti scelti, II, a cura di F. Fichera, M. C. Fregni, N. Sartori, 2022, 268 ss., e la riprende più recentemente N. Sartori, I limiti probatori nel processo tributario, Torino, 2023, 79-80. Danno dimostrazione della linearità e semplicità ricostruttiva dell’impostazione dichiarativa, alla quale aderisco, che riferisce la ripartizione direttamente all’art. 2697 c.c., fra gli altri, P. Russo, Il nuovo processo tributario, Milano, 1974, e Id., Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2013, 195 ss.; F. Batistoni Ferrara, Appunti sul processo tributario, Padova 1995, 67 ss. La questione, va detto, ha ormai perduto rilievo fors’anche teorico giacché la Corte costituzionale, oltre alla Cassazione, ha affermato espressamente l’applicazione dell’art. 2697, cod. civ., al processo tributario. Si veda Corte Cost., n. 109 del 2007.
[18] È senz’altro condivisibile la ricostruzione di P. Russo, Problemi in tema di prova nel processo tributario dopo la riforma della giustizia tributaria, in Riv. dir. trib. online, 7 dicembre 2022. In termini opposti, ma con argomentazioni che a me sembrano non convincenti, C. Glendi, L’istruttoria del processo tributario riformato. Una rivoluzione copernicana!, in Quotidiano IPSOA, editoriale 24 settembre 2022.
[19] La Cassazione ha fatto applicazione della “vicinanza”, fra l’altro, in materia di transfer pricing, così addossando al contribuente l’onere di provare la normalità o la correttezza dei prezzi praticati. Fra le molte, Cass. n. 13571/2021, n. 17512/2019. Molto criticamente, in termini condivisibili per quanto riguarda l’approdo giurisprudenziale, cfr. G. Vanz, Criticità nell’applicazione delle regole giurisprudenziale della “vicinanza della prova”, in Dir. prat. trib., 2021, I, 2584 ss. La Cassazione ha fatto inoltre uso della regola anche in materia di inerenza dei costi, qualificandoli come “fatti impeditivi” del diritto di credito dell’amministrazione e addossando così al contribuente la prova della loro inerenza all'attività. L’interpretazione giurisprudenziale è assai discutibile, non foss’altro perché tratta l’inerenza come fosse un fatto, quando invece è regola d’interpretazione. Si veda, per la tesi qui criticata, Cass. n. 11942/2016, n. 12127/2022, 33568/2022.
[20] Su questo tema cfr. puntualmente S. Muleo, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2021, 603 ss.
[21] Condivisibile la critica di S. Muleo, Onere della prova, disponibilità e valutazione delle prove, già cit.
[22] È senz’altro condivisibile la tesi di Tesauro che riporta l’onere della prova, almeno in prima battuta, al procedimento amministrativo e dunque alla fase sostanziale di ricerca della capacità contributiva. La distribuzione dell’onere, afferma l’autore, “dipende dal diritto sostanziale”. Cfr. F. Tesauro, Prova (diritto tributario), in Enc. dir., Agg. III, Milano, 1999, 884 ss., 886 e 893.
[23] Questo requisito della prova sarà esaminato nel prossimo paragrafo.
[24] Non mi sfugge che la disposizione parla di “annullamento” dell’atto impugnato se manca la prova o questa difetta nella sua compiutezza. Si deve però dire che l’espressione è scarsamente significativa dal punto di vista ricostruttivo generale, sia perché, com’è noto, le teorie scientifiche hanno basamenti diversi da quelli nominalistici; sia perché la stessa mal si lega con il sostantivo “fondatezza” di cui parla la stessa disposizione nello stesso alinea, requisito che all’evidenza si può riferire anche al diritto di credito; sia perché l’annullamento non si concilia con la locuzione “pretesa tributaria” utilizzata nel comma 4 dello stesso art. 7, anch’esso riformato della legge n. 130 del 2022. E’ quanto basta, io credo, per dimostrare l’approssimazione concettuale con la quale la riforma è stata scritta e dunque per non assegnare alle singole espressioni un’importanza eccessiva e decisiva, specialmente se tramite di esse si pretende o si pretendesse di consacrare una teoria piuttosto che un’altra sulla natura dell’obbligazione d’imposta e del processo tributario. Mi sembra, insomma e in altre parole, di poter sostenere che, per chi come me ha da sempre sposato l’impostazione dichiarativista, la ricostruzione del processo come di impugnazione-merito - per usare un’espressione celeberrima ampiamente sviluppata da Pasquale Russo e ripresa dalla giurisprudenza assolutamente maggioritaria - mantenga inalterata la sua validità.
[25] Il principio del libero convincimento, tuttavia, “non può favorire una sorta di anarchia delle operazioni del giudice e, negli ordinamenti moderni, che hanno acquisito consapevolezza delle necessità che il sistema probatorio sia fondato su basi razionali, non può servire da cortina per mascherare operazioni autoritarie”. Così G. Verde, Prova, cit., 591.
[26] Per come disciplinata dagli artt. 2727 e 2729 c.c., e dall’art. 39, comma 1, lettera d), d.P.R. n. 600 del 1973, e dall’art. 54, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972.
[27] L’approccio teorico che probabilmente si coglie in questa esposizione si rifà, da un lato, agli insegnamenti chiovendiani sulla tutela dei beni della vita dei consociati come scopo principale della giustizia; per un altro al costituzionalismo principialista, così da superare la rigidità avaloriale del positivismo formalistico, da quello di Karl von Gerber fino a quello di Hans Kelsen; per un altro verso ancora alle teorie realistiche del diritto d’origine nord-europee e nord-americane. In questa sede mi limito soltanto, per chi vuole, a rinviare a A. Giovannini, Sull’azione processuale e sulla tutela dei beni della vita, ora in Per principi, Torino, 2022, 127 ss.; Id., Sul diritto, sul metodo e sui principi, ivi, 3 ss.; Id., Note controvento su interesse fiscale e “giustizia” nell’imposizione come diritto fondamentale, in Riv. dir. trib., 2023, I
[28] V. Andrioli, Presunzioni (diritto civile e diritto processuale civile), in Noviss. dig. it., XIII, Torino, 1966, 767 ss.
[29] L’indicazione degli elementi di prova nell’avviso di accertamento è prescritto dall’art. 56, secondo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972 e, per l’atto di contestazione della violazione, dall’art. 16, secondo comma, del d.lgs n. 472 del 1997, non anche dall’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973. L’indicazione, tuttavia, in un’interpretazione costituzionalmente orientata e per coerenza sistematica, si deve ritenere obbligatoria anche per le imposte sui redditi non solo perché fra questi tributi corre quasi sempre identità di rettifica e unicità del provvedimento d’accertamento, ma anche perché quella indicazione è essenziale per l’esercizio del diritto alla difesa nella sua pienezza ed effettività, ed anche per consentire al contribuente di controllare fin dalla fase preprocessuale l’uso non arbitrario del potere d’accertamento. Il che non significa che l’amministrazione non possa integrare in corso di causa il ventaglio delle prove, purché, ovviamente, entro i fatti già indicati nell’avviso di accertamento e al ricorrente-contribuente sia riconosciuto un termine di replica, peraltro previsto espressamente dall’art. 24, secondo comma, del d.lgs. n. 546 del 1992. Cfr. F. Batistoni Ferrara, La prova nel processo tributario: riflessioni alla luce delle più recenti manifestazioni giurisprudenziali, in Giur. trib., 2007, 745 ss.
[30] Così G. Ubertis, Prova penale (teoria della), in Diz. dir. pubbl., diretto da S. Cassese, V, Milano, 2006, 4719 ss., 4726. Più ampiamente M. Nobili, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, 1974, passim, ma specie 255 ss., nonché F. Cordero, Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, fin da 7 ss.
[31] Sia consentito rinviare ad A. Giovannini, Ipotesi normative di reddito e accertamento nel sistema d’impresa, Milano, 1992, passim, e più recentemente Id., L’onore della prova nell’accertamento analitico-presuntivo, in Trattato sull’onore della prova, diretto da L. Tosi, Milano, 2023.
[32] Lo sostiene P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002. Diversamente, in termini netti, mi sono espresso in Note controvento su interesse fiscale e “giustizia nell’imposizione” come diritto fondamentale, in Riv. dir. trib., 2023, I,
[33] G. A. Micheli, Le presunzioni e la frode alla legge nel diritto tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1976, I, 396 ss.; F. Moschetti, Avviso d’accertamento tributario e garanzie del cittadino, in Dir. prat. trib., 1983, I, 1930 ss.
[34] E ciò come conseguenza della distinzione fra gradazione probabilistica della prova indiretta e pluralità dei risultati inferenziali. Nella prova indiretta, come fonte e quale che essa sia, la gradazione probabilistica è sua caratteristica naturale. Ciò nondimeno, questa caratteristica non impedisce di qualificare il fatto ricostruito come processualmente certo. La pluralità dei risultati dedotti in via presuntiva e quindi non sorretti da un nesso necessario tra fatto noto e quello ignoto, invece, incidono sull’attendibilità della fonte ed è per questo che non possono essere qualificati come dimostrativi del fatto ignorato, che infatti lasciano nell’incertezza della pluralità degli esiti. Questo accennato, ne sono consapevole, è uno degli aspetti fra i più controversi del dibattito sulle presunzioni, ma ho sempre ritenuto che l’impostazione sommariamente richiamata sia quella da preferire per evitare continue e perniciose slabbrature del sistema probatorio e dei princìpi costituzionali. Esattamente quello che è accaduto negli ultimi lustri.
[35] Per quella tributaria, ex pluris, G. Gentili, Le presunzioni nel diritto tributario, Padova, 1984, 158 ss.; Tesauro F., Le presunzioni nel processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1986, I, 188 ss.; R. Lupi, Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario, Milano, 1988, 210 ss.; M. Trimeloni, Le presunzioni tributarie, in Trattato dir. trib., diretto da Amatucci A., II, Padova, 1994, 81 ss.; A. Marcheselli, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, Torino, 2008; G.M. Cipolla, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, 445 ss. Per la letteratura processuale civile, cfr. L.P. Comoglio, Le prove civili, in Trattato dir. priv., diretto da Rescigno U., XXXI, rist., Torino, 1999, 322 ss.; M. Taruffo, Studi sulla rilevanza della prova, Padova, 1970, 192 ss., 233 ss.
[36] Cfr. C. Glendi, Il giudice tributario e la prova per presunzioni, in Le presunzioni in materia tributaria, a cura di A.E. Granelli, Rimini, 1987, 157.
[37] È disciplinata dall’art. 39, secondo comma, d.P.R. n. 600 del 1973 e dall’art. 54, terzo comma, d.P.R. n. 633 del 1972. Cfr. ampiamente F. Tesauro, Le presunzioni nel processo tributario, loc. cit.
[38] Sia consentito rinviare, anche per riferimenti bibliografici, al mio Ipotesi normative di reddito e accertamento, cit., 93 ss.
[39] Riprendo l’orientamento giurisprudenziale che finisce per permettere alle presunzioni semplici di surrogare presunzioni legali o, di fatto, per allargare o modificare fattispecie impositive disciplinate dal diritto sostanziale. E’ il caso, ad esempio, dell’equiparazione della conclusione delle prestazioni professionali alla percezione dei compensi (art. 54 T.U.I.R.), oppure della presunzione che tende a riqualificare come ricavi gli apporti finanziari dei soci in società di capitali (art. 85 T.U.I.R.). Cfr., per asciutte e puntuali osservazioni, M. Basilavecchia, Corso di diritto tributario, Torino, 2022, 415 ss.
[40] R. Lupi, Studi sociali e diritto, Roma, 2022, 83 ss., 92 ss.
Il 10 marzo: la ricorrenza al di là della retorica
di Maria Teresa Covatta
Il 29 aprile del 2021 l’Assemblea generale dell’ONU ha proclamato il 10 Marzo giornata internazionale delle donne giudici (A/RES/75/274).
La Risoluzione partendo dall’Agenda 2030 e dall’assoluta centralità del target dell’effettiva uguaglianza di genere in tutti i settori della società, constata che le donne che svolgono la funzione giurisdizionale, a tutti i livelli e soprattutto in posizione di vertice, sono ancora poche.
Afferma, come già fatto in altre sedi, che la partecipazione delle donne al processo decisionale anche in campo giudiziario è essenziale per il raggiungimento di obiettivi di uguaglianza, sviluppo sostenibile, pace e democrazia; e invita gli Stati ad impegnarsi con piani e strategie concrete affinché le donne possano inserirsi ed avanzare nel sistema giudiziario in termini egualitari rispetto agli uomini.
L’invito a promuovere una partecipazione che sia davvero “piena e completa” amplia la platea dei destinatari della Risoluzione che si indirizza anche a quegli Stati, tra cui l’Italia e molti altri degli Stati europei, in cui l’accesso delle donne in magistratura è prevista da tempo (legge 9 febbraio 1963 n. 66) e gli steccati ancora da superare riguardano fattori diversi quali le politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia e le strategie utilizzate per garantire un accesso paritario alle posizioni di leadership.Quasi inesistente le prime, nonostante la presenza maggioritaria delle donne in magistratura; in progressivo aumento le seconde, con tempi non proprio veloci, tenuto conto che le donne sono entrate per la prima volta in magistratura del 1965, dunque ben 58 anni fa.
Ma il processo è ben avviato come comprovato dalla nomina di Margherita Cassano a presidente della Suprema Corte di Cassazione, nomina che, citando le parole della stessa presidente (1) “rappresenta il risultato collettivo che consegue allo sforzo profuso dalle donne magistrato e dalla parte più sensibile della società ai temi della parità di genere nei vari ambiti”.
Un risultato che parte dall’impegno e dall’esempio di quelle prime 8 magistrate che nel 65 superarono il concorso, tra cui Gabriella Luccioli, anche lei prima donna a ricoprire un ruolo apicale alla Suprema Corte; magistrate che, citando ancora le parole della stessa presidente “hanno segnato la vita professionale di noi tutte”.
Brenda Hale presiede la Corte Suprema Britannica dal 2017 e anche per lei si può parlare del raggiungimento di un traguardo per l’intero sistemza giudiziario del Paese, spronato più volte dalla stessa giudice a promuovere diversità e parità di genere al suo interno, lottando contro atteggiamenti sessisti e classisti.
Clantal Arens ricopre la più alta carica dell’ordine giudiziario francese dal 2019, già preceduta, quasi 30 anni prima, da Simon Rozès che aveva ricoperto l’incarico dall’1984 al 1988.
Siofra O’Leary, irlandese, è la prima donna ad essere stata nominata, nel novembre dell’anno scorso, presidente della Corte Europea dei diritti Umani.
La situazione non è così confortante in altre realtà e basta un rapido sguardo alla situazione internazionale per valorizzare il peso della Risoluzione ONU.
Infatti, al di là di tutto ciò che si può pensare di o contro queste ricorrenze, a cominciare da una certa ritrosia degli Stati a votarle nel timore che comportino spese obbligatorie aggiuntive (2), a proseguire con la censura sulla poca concretezza che le caratterizza o lo stigma di essere una delle tante celebrazioni retoriche, credo che conoscerne il background possa essere utile a spiegarne il valore che non è meramente simbolico.
La proposta nasce dalle magistrate quatarine all’esito di una collaborazione internazionale cui partecipano anche molte magistrate, in una indagine relativa al traffico internazionale di droga e ad altri fenomeni criminali connessi: lavoro poi ricompreso e apprezzato nell’ambito del Global Judicial Integrity Network of UN Office on Drugs and Crime, che la Risoluzione richiama in premessa (3).
Niente di strano se non fosse che tra quelle magistrature ve ne erano talune per le quali, per contesto sociale, culturale e religioso, la presenza delle donne nell’esercizio della giurisdizione non è così scontato e comunque, quando consentito formalmente, è sempre in bilico tra il concesso e il non più concesso.
A maggior ragione quando si esula dal recinto di contesti giurisdizionali strettamente connessi alla famiglia e approda, niente meno, che alla sfera della giurisdizione penale.
Non ci sono giudici donne in Iran dopo il 1979 e c’è da chiedersi, ove invece vi fossero state, se la storia recente della rivolta avrebbe preso una piega diversa, pur in presenza di tutte le difficoltà costituzionali connesse alla sharia che gravano sulla libertà delle donne in generale.
Già in un’intervista di tanti anni fa (2003), rilasciata insieme a Carla Del Ponte, la Premio Nobel iraniana Shirin Ebadi, già membro dell’Alta Corte Iraniana, costretta a ritirarsi con l’avvento del regime degli Ayatollah, rifletteva sulla difficoltà di essere magistrate ma al tempo stesso sull’importanza di avere la presenza delle donne nell’esercizio della giurisdizione in Paesi dove la parola di un solo uomo ha un valore maggiore di quella di più donne.
Le giudici donne in Afghanistan sono state cancellate. Molte di loro sono state uccise. Altre sono riuscite, con l’aiuto internazionale, ad “evadere” dal loro Paese come se fossero delle criminali.
È di questi giorni (24.2.2023) la testimonianza di Obaida Shahar Sharify una delle 21 giudici e procuratrici che hanno trovato rifugio in Spagna a seguito di un procedimento di urgenza per la concessione dell’asilo (4) dopo la fuga dall’Afghanistan attraverso il Pakistan dove hanno vissuto senza status di rifugiate e con il terrore di essere catturate e riportate in Afghanistan.
Al dolore dell’abbandono del proprio Paese si aggiunge quello di non poter più svolgere il proprio lavoro e di essere considerate un nemico da abbattere proprio per la funzione esercitata, inaccettabile per i guardiani della sharia se svolta da una donna.
In Birmania le donne, tutte, sono state oscurate dal golpe militare del 2021 e naturalmente anche le magistrate, avvocate e giuriste e tutte coloro che hanno contestato la brusca “sospensione”, o meglio la cancellazione, dei diritti umani tra cui quelli delle donne.
In Palestina, che pure vantava il primato di essere una delle poche società arabe che già negli anni 70 aveva previsto la possibilità di nominare giudici donna, in concreto le donne giudici continuano ad essere poche. E comunque occupano ruoli nella giurisdizione di conciliazione e non invece nel settore penale, dove sono solo gli uomini ad occuparsi dalla problematica del delitto d’onore, della violenza domestica, per la quale manca ogni forma di normativa a tutela delle vittime, dello stupro, che non è riconosciuto come reato se consumato nell’ambito del matrimonio, e comunque di ogni aspetto che coinvolge la tutela dei diritti delle donne: così perpetuando tutte le storture di una società ancora profondamente patriarcale (5).
Così in Siria, così in Nigeria, tanto per citare alcune delle realtà in cui guerre, terrorismo,tratta, traffico di droga e soprattutto lo stupro, utilizzato costantemente come arma di guerra, richiederebbero tribunali ad alta presenza femminile.
Anche il Pakistan, che sembrava costituire una piccola eccezione nel panorama asiatico, visto che dal 2008 ha visto una sostanziosa immissione di donne nella magistratura fino ad arrivare a quasi un terzo di rappresentanza femminile, ha di recente vissuto una vera e propria ribellione ideologica nel momento in cui una donna (Ayesa Malik) è stata chiamata a far parte della Corte Suprema Pakistana nel settore penale, sia pure unica donna tra 16 colleghi uomini.
Una scelta epocale, intervenuta dopo molte bocciature e che ha scatenato fortissime reazioni contrarie sia tra i colleghi sia da parte dell’avvocatura che ha persino minacciato il blocco delle attività giurisdizionali.
La “colpa” di Ayesa Malik, per cui è stata avversata e criticata, oltre al fatto di essere una donna, è stata quella di aver posto un principio di diritto e di civiltà bloccando, nei processi a lei assegnati, l’esecuzione dei test di verginità sulle vittime di stupro, pratica molto invasiva e molto diffusa come tecnica di indagine sul passato sessuale delle donne.
Il che racconta, più di tante parole, quale può essere - ovunque - il valore aggiunto di una magistratura femminile, più evidente in sistemi ancora profondamente patriarcali ma valido anche in realtà a noi più vicine, dove grandi passi sono stati fatti su temi fondanti quali la violenza contro le donne ma ancora sussistono stereotipi e steccati che resistono anche nell’esercizio della giurisdizione e impediscono il raggiungimento effettivo della parità. La vittimizzazione secondaria ne è un esempio ma purtroppo non l’unico.
E dunque festeggiamo senza riserve questa ricorrenza internazionale come riconoscimento del valore dell’apporto della magistratura femminile nel progresso dei diritti delle donne, sia per quelle che già esercitano la funzione con pieno diritto sia per tutte quelle che hanno appena intrapreso un cammino che va sostenuto da tutti.
Note
(1) Lettera di ringraziamento della Presidente all’ADMI - Associazione Italiana Donne Magistrato per il comunicato di congratulazioni per la nomina.
(2) Come esprime la clausola “stressed that the cost of all activities that may arise from the implementation of the present resolution should be met from voluntary contribution”.
(3) Costituito a Vienna nel 2018 il Network delle N.U. è finalizzato (art 11) a rafforzare l’integrità giudiziaria intesa come abilità del sistema e dei singoli membri a rispettare i valori fondamentali di indipendenza, imparzialità, competenza e diligenza; prevedendo altresì una serie di strumenti per consolidare a livello globale tali valori.
(4) “24.2.2023 Comunicato Associazione 14 Lawyers di Bilbao i quali, unitamente all’Union Progresista de Fiscales(UPF) e Magistradoseuropeos per la democraciay lasLibertades” (Medel), hanno patrocinato l’operazione di salvataggio e le procedure di asilo.
(5) Così Thuraya Judi Alwazir, membro dell’Autorità giudiziaria palestinese dal 2009.
Il nostro saluto a Piero Curzio
di Cristiano Valle
Pietro Curzio lascia la magistratura il 5 marzo 2023, dopo quasi quarantacinque anni di servizio, poiché nominato con d.m. del giugno 1978. Vinse il concorso per uditore giudiziario e poi partì per quello che, allora, era il servizio militare obbligatorio (la naja abolita, solo molti anni dopo, dal Governo nel quale sedeva, quale Ministro della Difesa, Sergio Mattarella).
Pietro Curzio è stato pretore mandamentale, giudice istruttore del vecchio rito penale (applicato, da pretore, in tribunale), pretore del lavoro, sostituto procuratore della Repubblica, anche nella direzione distrettuale antimafia, consigliere di corte d’appello e consigliere e presidente della Corte di Cassazione.
Ha svolto sia funzioni requirenti che giudicanti e queste sia nell’ambito civile che in quello penale, oltre che, per trenta anni, quelle, d’elezione, di giudice del lavoro.
Il suo nome figura tra i collaboratori delle numerose edizioni (per trenta anni, dal 1984 a un decennio fa) di uno dei più noti e diffusi volumi di diritto sindacale.
L’Autore di quel volume, Gino Giugni (poi Ministro del Lavoro, colpito dal terrorismo brigatista), esprimeva, nella quarta di copertina, o comunque nelle prime pagine della prima edizione, i suoi ringraziamenti al pretore Pietro Curzio, assistente volontario nell’Università di Bari, ed è, mi sia consentita la nota personale, in quella veste, di cultore del diritto sindacale, che lo lessi per la prima volta e, dato che quando io ero all’università lui era già magistrato, mi colpì il fatto che un giudice fosse così attento e vicino alla cultura giuridica più progressista e sicuramente meno paludata.
Scrivere di Piero Curzio non è facile, perché l’uomo e il magistrato è nemico di ogni eccesso.
Lo stile sobrio e essenziale connota la sua persona e tutti i suoi scritti, sia di stretto ambito giudiziario che di dottrina o di carattere organizzativo, quali i decreti e le circolari rese nelle funzioni di presidente di sezione e di primo presidente della Corte di Cassazione.
L’organizzazione del lavoro, anche con lo sviluppo dell’uso dei sistemi informatici, ha connotato le sue funzioni di pubblico ministero, di consigliere e di presidente titolare delle Sezioni VI e IV civile, del Lavoro, e delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Durante la pandemia da Covid-19, nel biennio 2020-2021, è stato sempre presente in Corte, come sicuro punto di riferimento per i magistrati, il personale amministrativo e il foro.
La vivacità intellettuale lo ha portato a essere instancabile organizzatore di convegni di dottrina giuridica, direttore della biblioteca dei magistrati della Cassazione ─ per la quale ha letteralmente riportato alla luce numerosi, antichi, volumi, sepolti negli scantinati della Corte ─ oltre che formatore di magistrati di merito e di legittimità nonché autore di decine di libri e centinaia di articoli, in materia di diritto del lavoro, diritto processuale, diritto sindacale, della previdenza e dell’assistenza sociale. Un ampio scritto di Pietro Curzio è dedicato, a testimonianza della varietà dei suoi interessi, al palazzo che ospita la Corte, il Palazzaccio, nella tipica espressione romana.
L’attività in ambito spiccatamente dottrinario non ha in alcun modo diminuito quella di carattere strettamente giudiziario, che, anzi, ne è stata arricchita, come ben sanno i consiglieri di cassazione che lo hanno avuto accanto nella seconda sezione penale, in quella del lavoro, la IV civile, e nelle Sezioni Unite civili, queste ultime da lui presiedute per diversi anni.
Nelle camere di consiglio delle Sezioni Unite civili il suo apporto ha spaziato in tutti gli ambiti, ben oltre le sue materie d’elezione.
Per il diritto del lavoro, in tutte le sue componenti, sostanziali e processuali, nazionali e sovranazionali, Pietro Curzio ha avuto una vera, laica, vocazione e negli ultimi cinquanta anni non vi sono, credo, nell’ambito della magistratura italiana, colleghi che, tra i giuslavoristi, lo superino per acume, profondità di pensiero, capacità di elaborazione e di scrittura.
In apparenza taciturno e severo si apre alla battuta di spirito in compagnia ed è conversatore assai attento all’interlocutore.
Pietro Curzio ci mancherà negli uffici ─ ove è stato attivo fino alla fine del mandato, firmando, appena lo scorso I° marzo, il Protocollo d’intesa sul processo civile in Cassazione ─ e nelle camere di consiglio della Corte, ma speriamo che, dopo il 5 marzo, e molti mesi di riposo e viaggi con Annamaria, torni spesso a visitare la Corte, venendo da Bari con il suo sorriso, e comunque ci segua con il suo affetto, la sua intelligenza aperta e versatile e i volumi della sua Biblioteca.
Le garanzie di conoscibilità degli algoritmi e l’esigenza di assicurare un controllo umano del procedimento amministrativo (c.d. human in the loop). (Nota a Tar Campania, Sez. III, 14 novembre 2022, n. 7003)
di Martina Sforna
Sommario: 1. Premessa. – 2. La vicenda processuale. – 3. Human in the loop: il controllo umano del procedimento in funzione di garanzia. – 4. Conoscenza e comprensibilità degli algoritmi. – 5. Cenni conclusivi sul ruolo della giurisprudenza in tema di decisioni algoritmiche.
1. Premessa
La pronuncia in commento si inserisce nell’ambito della tematica, già da alcuni anni affrontata in seno alla giurisprudenza amministrativa[1], dell’ammissibilità e dei limiti del ricorso alla c.d. decisione algoritmica all’interno dei procedimenti amministrativi[2]. In particolare, tale sentenza, non mettendo seriamente in discussione la possibilità di impiegare algoritmi al fine di operare scelte amministrative, insiste sull’esigenza di assicurare un controllo umano del procedimento in funzione di garanzia per il privato. Il Collegio, al proposito, si riferisce, espressamente, al concetto del c.d. human in the loop, ovverosia all’esigenza che l’uomo sia mantenuto all’interno dei processi decisionali intrapresi da algoritmi e ulteriori tecnologie di intelligenza artificiale (IA)[3]. Il Collegio si sofferma, altresì, sulle esigenze di conoscibilità e trasparenza che, con riferimento all’utilizzazione di algoritmi da parte delle Amministrazioni, devono apparire rafforzate, in modo che sia garantita la «piena conoscibilità della regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico»[4].
2. La vicenda processuale
La vicenda origina dal ricorso presentato da un soggetto, dichiaratosi titolare di una azienda agricola e proprietario di una vasta area agricola in zona classificata montana in Provincia di Salerno, per l’annullamento delle note con cui AGEA aveva rielaborato le sue domande di pagamento relative agli anni 2018 e 2019 per la Misura 13.1.1 “Indennità compensativa zone montane” del PSR Campania 2014-2020, accertando l’indebita percezione di determinati importi. Si trattava, nella specie, di una indennità che, sulla base dell’applicazione della Direttiva 75/268/CEE, era volta a compensare i costi aggiuntivi e, in generale, gli svantaggi derivanti dalla localizzazione delle attività agricole in territori classificati montani.
Il ricorrente lamentava l’applicazione, da parte di AGEA, di un nuovo algoritmo di calcolo degli importi delle riduzioni e delle sanzioni. In particolare, rappresentava che, dopo essere risultato beneficiario di tale indennità compensativa per gli anni 2018 e 2019 sulla base dell’applicazione di un algoritmo disciplinato dai bandi attuativi della predetta misura, era risultato destinatario di due note di AGEA che, facendo applicazione di un nuovo algoritmo di calcolo, avevano riscontrato degli importi versati in eccesso.
Nello specifico, il ricorrente censurava i provvedimenti impugnati perché viziati secondo plurimi profili. Invero, l’Amministrazione si era limitata a esternare il risultato della procedura di ricalcolo senza, però, menzionare quale fosse il nuovo algoritmo utilizzato, con il relativo funzionamento. In tal modo aveva, quindi, violato l’obbligo di motivazione, nonché impedito al ricorrente di fornire elementi utili per evitare il ricalcolo in sede di contraddittorio procedimentale. Il ricorrente lamentava, inoltre, la violazione della lex specialis, in quanto la rideterminazione degli importi si sarebbe tradotta in una modifica ex post delle regole contenute nel bando attuativo, nonché la violazione dell’art. 21 quinquies L. 241/1990, risolvendosi i provvedimenti impugnati in revoche implicite delle precedenti determinazioni.
Il Tribunale Amministrativo ha, quindi, accolto il ricorso ritenendolo fondato quanto alle censure inerenti il vizio di violazione delle garanzie partecipative e il difetto di motivazione delle note di AGEA. Invero, il Collegio ha rilevato come l’Amministrazione abbia giustificato il ricalcolo degli importi dovuti sulla base di un «generico e indeterminato riferimento alla normativa vigente, alle indicazioni della Commissione Europea e all’utilizzo di una differente modalità di calcolo degli importi delle riduzioni e delle sanzioni che avrebbero condotto alla applicazione del nuovo algoritmo».
Nel dettaglio, quanto alla carenza di motivazione, il Tribunale ha rilevato come essa appaia duplice in considerazione della particolare natura di provvedimenti di secondo grado degli atti impugnati. Infatti, da un lato l’Amministrazione non ha esplicitato quali fonti normative avessero legittimato tale esercizio del potere con effetti retroattivi. Dall’altro lato, il Collegio ha evidenziato come le note di AGEA «non contengono alcun tipo di riferimento all’algoritmo utilizzato, che viene semplicemente menzionato come il “nuovo algoritmo”, in questo modo venendo meno tanto all’obbligo di indicare quale sia stato il meccanismo informatico di decisione impiegato (c.d. conoscibilità), quanto all’obbligo di spiegare il suo funzionamento in termini comprensibili per l’utente non dotato di competenze tecniche (c.d. comprensibilità). Tutto ciò con il risultato di una frustrazione anche delle correlate garanzie processuali che declinano sul versante del diritto di azione e difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost. […]».
Per questi motivi, il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania ha disposto l’annullamento delle note di AGEA impugnate.
3. Human in the loop: il controllo umano del procedimento in funzione di garanzia
Il Collegio, nella pronuncia che qui si commenta, dopo aver rilevato che, in generale, l’utilizzo di algoritmi nell’ambito dei procedimenti amministrativi risponde a esigenze di semplificazione nonché di buona amministrazione[5], sottolinea l’esistenza di una opposta esigenza. Si tratta della necessità di assicurare un controllo umano del procedimento, in funzione di garanzia (c.d. human in the loop - HITL). Questa espressione, sorta nel settore matematico e informatico, è utilizzata per indicare quei modelli caratterizzati dalla necessità che, al fine di ottenere il risultato finale, la macchina interagisca con l’essere umano. Applicato all’ambito del procedimento amministrativo, dunque, il rispetto di tale principio implica, come affermato dal Collegio stesso, che «il funzionario possa in qualsiasi momento intervenire per compiere interlocuzioni con il privato, per verificare a monte l’esattezza dei dati da elaborare, mantenendo il costante controllo del procedimento».
Il principio in questione, inoltre, implica la necessaria riferibilità del provvedimento amministrativo a un soggetto umano[6]. Del resto, si potrebbe affermare che tale esigenza antropomorfica permei la stessa struttura del procedimento amministrativo ai sensi della L. n. 241/1990. Invero, l’art. 5 di tale Legge, nel disciplinare i compiti e le funzioni del responsabile del procedimento, lo individua nelle persona di un dirigente o di altro dipendente addetto all’unità organizzativa[7]. Invero, l’istituzione della figura del responsabile del procedimento risponde proprio alle esigenze di «personalizzare la funzione amministrativa» nonché di «individuare un punto di riferimento del cittadino all’interno dell’organizzazione»[8]. Ciò è confermato dagli stessi schemi di legge elaborati dalla Commissione Nigro, nell’ambito dei quali si sottolineava come fosse necessario abbandonare l’allora «attuale condizione di “spersonalizzazione” e “anonimato” dell’operare amministrativo e […] invece creare le condizioni per l’individuazione delle responsabilità personali esterne e interne»[9].
Proprio con riferimento alla garanzia dell’individuazione del responsabile del procedimento, il Collegio rileva che essa non può mai essere sacrificata, neppure quando l’Amministrazione decida di ricorrere all’utilizzo di algoritmi, non solo in funzione integrativa e servente della decisione umana, ma anche in funzione parzialmente decisionale.
Ciò appare, del resto, coerente con le precedenti pronunce del Consiglio di Stato in tema di decisione algoritmiche, alcune delle quali già, espressamente, riferitesi al concetto del c.d. human in the loop. In particolare, con la pronuncia n. 881/2020, i giudici di Palazzo Spada, avevano affermato che «deve comunque esistere nel processo decisionale un contributo umano capace di controllare, validare ovvero smentire la decisione automatica. In ambito matematico ed informatico il modello viene definito come HITL (human in the loop), in cui, per produrre il suo risultato è necessario che la macchina interagisca con l’essere umano»[10].
In quella pronuncia, il Consiglio di Stato aveva, inoltre, richiamato l’art. 22, par. 1 del Regolamento europeo per la protezione dei dati personali 2016/679 (GDPR)[11], il quale consacra il principio della non esclusività della decisione algoritmica. In altri termini, tale norma stabilisce che le persone hanno diritto a non essere destinatarie di decisioni incidenti nella propria sfera giuridica che siano completamente automatizzate e, cioè, prive di qualsivoglia coinvolgimento umano. Invero, «occorre sempre l’individuazione di un centro di imputazione e di responsabilità, che sia in grado di verificare la legittimità e la logicità della decisione dettata dall’algoritmo»[12]. Non è stato, invece, richiamato il paragrafo successivo dell’art. 22, il quale contiene tre ampie eccezioni al principio, con la conseguenza che a livello nazionale «i giudici hanno imposto una tutela maggiore di quella europea»[13].
Tale principio è, evidentemente, strettamente connesso al concetto del c.d. human in the loop. Invero, al fine di assicurare la non esclusività della decisione algoritmica, il funzionario dell’Amministrazione deve, anzitutto, essere mantenuto all’interno del processo decisionale, nonché essere in grado di controllare il sistema utilizzato, potendo intervenire in qualsiasi momento (c.d. human in command[14]).
Al proposito, però, in dottrina si è messo in evidenza un aspetto problematico. Infatti, se a controllare i sistemi di IA deve essere il funzionario pubblico, appare necessario che lo stesso abbia delle adeguate competenze matematiche e informatiche[15]. Invero, «tendenzialmente, solo se l’umano è in grado di comprendere il modo in cui il sistema di IA decide (e può avere fiducia in esso solo se ne comprende il funzionamento), può operare un controllo effettivo sulla macchina e, nel caso, revocarle la delega e correggerne gli output»[16]. Ecco, che appare, allora, opportuno che all’interno delle Pubbliche Amministrazioni, venga promosso lo sviluppo di competenze informatiche e matematiche. Altrimenti, infatti, l’estromissione del soggetto umano dai procedimenti automatizzati apparirebbe, decisamente, favorita.
4. Conoscenza e comprensibilità degli algoritmi
Tra le garanzie che devono essere sempre assicurate al cittadino di fronte all’utilizzo di algoritmi e sistemi di intelligenza artificiale in funzione decisoria, il Collegio, conformemente alle precedenti e già citate pronunce del Consiglio di Stato sul tema[17], include anche il rispetto del principio di trasparenza, il quale trova un immediato corollario nell’obbligo di motivazione di cui all’art. 3 L. 241/1990. In particolare, il principio di trasparenza necessita di essere declinato nella duplice veste di conoscenza o conoscibilità dell’algoritmo, nonché di comprensibilità dello stesso.
Tale conoscibilità dell’algoritmo, secondo il Collegio, deve essere garantita con riferimento a tutti gli aspetti che lo riguardano, quali il procedimento utilizzato per la sua elaborazione, l’identità dei suoi autori, il meccanismo di funzionamento e i criteri dallo stesso applicati. Ciò posto, siccome è evidente che per conoscere questi aspetti non sono sufficienti delle competenze giuridiche, è necessario che la formula tecnica che descrive l’algoritmo sia resa, non solo conoscibile, ma anche comprensibile per il privato. Ciò in ossequio, anzitutto, al diritto a una buona amministrazione di cui all’art. 41 della Convenzione Edu, nonché agli articoli 13 e 14 del GDPR, i quali, in maniera generale, individuano tutte le informazioni che devono essere fornite all’interessato da parte del titolare del trattamento dei suoi dati, a prescindere che sia un soggetto pubblico e privato. Solo in tal modo, infatti, può essere garantita, da un lato, la concreta possibilità di partecipazione del privato al procedimento e, dall’altro un pieno sindacato del giudice amministrativo in ossequio ai canoni dell’effettività della tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. Al proposito, è stato rilevato in dottrina come ciò comporti «l’evidente peculiarità che l’esigenza di trasparenza – sino ad oggi riferita all’attività e all’organizzazione –, viene ad essere estesa anche ad alcuni mezzi tecnici adoperati dalle pa»[18].
Anche con riferimento alla conoscibilità, dunque, la pronuncia si pone in linea con i precedenti arresti del Consiglio di Stato. Invero, dapprima con la sentenza n. 2270/2019 e, in seguito, con la n. 881/2020 giudici di Palazzo Spada hanno elaborato un preciso statuto della legalità algoritmica[19]. In particolare, con il primo dei due citati arresti, si era affermato come «il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) deve essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico».
Con la seconda pronuncia, poi, si è rilevato come il principio di conoscibilità, «per cui ognuno ha diritto a conoscere l’esistenza di processi decisionali automatizzati che lo riguardino e in questo caso a ricevere informazioni significative sulla logica utilizzata», sia ricavabile in termini generali anche dal diritto sovranazionale. In particolare, l’art. 41 Cedu, che sancisce il diritto a una buona amministrazione, stabilisce l’obbligo per l’amministrazione di fornire le ragioni alla base delle proprie decisioni.
Da ultimo, si segnala come, anche con riferimento alla conoscibilità dell’algoritmo, come per l’esigenza di dominabilità del procedimento da parte di un soggetto umano, si è, però, evidenziato in dottrina come molto spesso, «la pubblica amministrazione che utilizza macchine intelligenti per la propria attività, quasi mai, al pari dei comuni cittadini, è nelle condizioni di conoscere nel profondo il meccanismo algoritmico, cioè la logica sottesa all’algoritmo e la sua base di conoscenza»[20]. Tale questione non viene affrontata nella pronuncia in analisi, come, del resto, non è stato fatto dalle precedenti sentenze amministrative sul tema. Ciò nonostante, si ritiene come essa, evidentemente, si rifletta sul procedimento amministrativo e, cioè, sull’impossibilità di rendere effettivamente conoscibile il meccanismo attraverso i quali si perviene alla decisione.
Inoltre, al proposito, è stato parte della dottrina ha messo in luce come la conoscibilità dell’algoritmo non sia sempre un sufficiente strumento di tutela con riferimento ai sistemi di intelligenza artificiale. Infatti, «nell’intelligenza artificiale è proprio la logica ad essere strutturalmente non conoscibile. Ignota per definizione»[21]. In questo senso, il nucleo decisionale di alcune tipologie di intelligenza artificiale viene definito quale black box[22], proprio a evidenziarne l’impenetrabilità e l’imperscrutabilità.
5. Cenni conclusivi sul ruolo della giurisprudenza in tema di decisioni algoritmiche
In conclusione, si può senz’altro constatare come la giurisprudenza non metta ormai seriamente in discussione la possibilità per la Pubblica Amministrazione di avvalersi di algoritmi che diano luogo a procedimenti decisionali automatizzati. Anzi, la sentenza in commento – come, del resto, le altre richiamate – rileva, come l’utilizzo di algoritmi possa condurre a una maggiore velocità, efficienza e, in astratto, anche in imparzialità del procedimento amministrativo. Ciò, del resto, appare coerente anche con le intenzioni del legislatore, il quale, per tramite del c.d. Decreto semplificazioni n. 76/2020, ha modificato l’art. 3-bis della L. n. 241/1990, stabilendo che «le amministrazioni pubbliche agiscono mediante strumenti informatici e telematici»[23].
Allo stesso tempo, però, si deve rilevare come, al di fuori di tale disposizione, il legislatore non sia intervenuto, espressamente, nella regolamentazione dell’utilizzo di algoritmi nelle fasi decisorie, e non meramente strumentali, dei procedimenti amministrativi[24]. Invero, anche l’art. 50-ter del D.lgs. n. 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale – CAD), il quale prescrive l’istituzione di una Piattaforma digitale nazionale dati, si riferisce all’utilizzo delle tecnologie soltanto in chiave di interconnessione tra amministrazioni.
Ecco, dunque, che, in questo ambito, il ruolo della giurisprudenza si rivela fondamentale nella fissazione delle garanzie che devono circondare l’utilizzo di algoritmi e sistemi di intelligenza artificiale da parte della Pubblica Amministrazione. È, infatti, essenziale che, anche di fronte a modalità innovative di esercizio del potere pubblico, il cittadino debba continuare a disporre delle garanzie di partecipazione, motivazione, trasparenza ed effettività della tutela proprie del procedimento amministrativo. Ciò, in quanto l’incentivato processo di informatizzazione e digitalizzazione delle amministrazioni non può, in nessun caso, tradursi nella violazione dei generali canoni della legalità amministrativa.
Tra questi, assumono rilevanza decisiva le garanzia di “umanità” del procedimento amministrativo e di conoscibilità e comprensibilità della regola algoritmica. Come, infatti, ribadito più e più volte dalla giurisprudenza, è fondamentale che venga salvaguardato il concetto del c.d. human in the loop e cioè la riferibilità della decisione amministrativa a un soggetto umano che possa esercitare funzioni di controllo e intervento.
Sarà, dunque, rimesso al giudice stabilire, caso per caso, se l’utilizzo di un determinato algoritmo sia governabile dall’amministrazione e, soprattutto, se sia in concreto possibile comprendere l’iter logico seguito dalla macchina per l’elaborazione della decisione finale, al fine di stabilirne la compatibilità con i principi generali del diritto amministrativo.
[1]Cons. St. Sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2270; Cons. St., Sez. VI, 13 dicembre 2019, nn. 8472 – 8473 – 8474; Cons. St., sez. VI, 4 febbraio 2020, n. 881; Cons. St., Sez. VI, 8 settembre 2022, n. 6236; Cons. St., sez. III, 25 novembre 2021, n. 7891;
[2] Per le questioni definitorie in tema di algoritmi e intelligenza artificiale si rinvia a C. Filicetti, Sulla definizione di algoritmo (nota a Consiglio di Stato, Sezione Terza, 25 novembre 2021, n. 7891), in www.giustiziainsieme.it, 8 febbraio 2023.
[3] Per approfondimenti sul concetto del c.d. human in the loop, anche in chiave etica, si veda P. Benanti, Human in the loop, cit.161. Si veda anche, M. Tampieri, L’intelligenza artificiale e le sue evoluzioni. Prospettive civilistiche, Milano, 2022, 331.
[4] Sul punto, il Collegio cita espressamente Cons. St., Sez. VI, n. 2270/2019.
[5] Tra i vantaggi per l’Amministrazione si è soliti ricomprendere quello dell’efficienza, della celerità, nonché dell’oggettività o neutralità. Sul punto cfr. C. Napoli, Algoritmi, intelligenza artificiale e formazione della volontà pubblica: la decisione amministrativa e quella giudiziaria, Riv. it. cost., 2020, 3, 318 ss.
[6] Al proposito è stato affermato che «sarebbe sempre implicato nei discorsi del diritto amministrativo qualcosa che potremmo chiamare, prendendo in prestito l’espressione contenuta nel Libro bianco AGID, un principio antropomorfico, a denotare che il conferimento di potere decisionale a un certo apparato implichi la riferibilità a un atto intenzionale umano se non diversamente stabilito» (Così, S. Civitarese Matteucci, Umano troppo umano. Decisioni amministrative automatizzate e principio di legalità, in Dir. pub., 1, 2019, 22).
[7] G. Berti, La responsabilità pubblica, Padova, 1994, 305, al proposito, si riferì al responsabile del procedimento come al «funzionario designato a dare una sembianza fisica all’istruttoria amministrativa».
[8] F. Patroni Griffi, La l. 7 agosto 1990 n. 241 a due anni dall’entrata in vigore. Termini e responsabile del procedimento; partecipazione procedimentale, in Foro it., 1993, vol. 116, III, 70. Sulla figura del responsabile del procedimento si vedano anche G. Navarra, S. Russo, Il responsabile del procedimento amministrativo nella pubblica amministrazione, Rimini, 1998, 176; F.C. Rampulla, I principi generali della L. 241/1990 e s.m. ed il responsabile del procedimento, in Foro amm., 2008, 2, 641 ss.; R. Ursi, Il responsabile del procedimento “rivisitato”, in Dir. amm., 2021, 2, 365 ss.
[9] Le parole, riportate in G. Sciullo, Il responsabile del procedimento. In ricordo di Giorgio Pastori, in Dir. pubbl., 2019, 3, 863, sono tratte dalla Relazione introduttiva al XXXII Convegno di Varenna del 1986 e dedicato a “La disciplina generale del procedimento amministrativo – Contributi e iniziative legislative in corso” in cui vennero illustrati gli schemi di legge elaborati dalla Commissione Nigro.
[10] Cons. St., sez. VI, 4 febbraio 2020, n. 881.
[11] In particolare, l’art. 22, par. 1 afferma che: «L’interessato ha il diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona». È doveroso, però, sottolineare come lo stesso articolo contenga, al paragrafo successivo, tre eccezioni all’applicazione di tale principio, di ampia portata. Si tratta dei casi in cui la decisione sia necessaria per la conclusione o l’esecuzione di un contratto, quando essa sia autorizzata dal diritto dell’Unione o dello Stato membro, ovvero si basi sul consenso esplicito dell’interessato.
[12] Cons. St., sez. VI, 4 febbraio 2020, n. 881.
[13] B. Marchetti, The algorithmic administrative decision and the human in the loop, in BioLaw Journal, 2021, 2, 13.
[14] Al proposito il parere del Comitato economico e sociale europeo su L’intelligenza artificiale – Le ricadute dell’intelligenza artificiale sul mercato unico (digitale), sulla produzione, sul consumo, sull’occupazione e sulla società, 2017/C, al punto 1.6 «raccomanda di adottare, nei confronti dell’IA, l’approccio “human-in-command”, con la condizione essenziale che l’IA sia sviluppata in maniera responsabile, sicura e utile, e che la macchina rimanga macchina e l’uomo ne mantenga il controllo in ogni momento».
[15] Cfr. B. Marchetti, The algorithmic administrative decision and the human in the loop, cit., 17 che afferma come tali competenze servano a evitare «la cattura dell’umano da parte della macchina (c.d. effetto aggancio)».
[16] B. Marchetti, The algorithmic administrative decision and the human in the loop, cit., 18.
[17] Supra, nota n. 1.
[18] A.G. Orofino, L’attuazione del principio di trasparenza nello sviluppo dell’amministrazione elettronica, in Judicium. Il processo civile in Italia e in Europa, disponibile al seguente link https://www.judicium.it/wp-content/uploads/2020/10/Orofino.pdf.
[19] Nello specifico, con la sentenza n. 881/2020, il Consiglio di Stato ha individuato i principi fondamentali della c.d. legalità algoritmica. Si tratta del principio di conoscibilità e comprensibilità dell’algoritmo, del principio di non esclusività della decisione algoritmica e di quello della non discriminazione algoritmica. Sul tema si veda G. Marchianò, La legalità algoritmica nella giurisprudenza amministrativa, in Il diritto dell’economia, 2020, 3, 229-258.
[20] G. Pesce, Il giudice amministrativo e la decisione robotizzata, in www.judicium.it, 15 giugno 2020.
[21] M. Corradino, Intelligenza artificiale e pubblica amministrazione: sfide concrete e prospettive future, in www.giustizia-amministrativa.it, 2021.
[22] Il problema non si pone per tutti gli algoritmi, ma sono per quelli che si avvalgono di meccanismi di machine learning, cfr. C. Silvano, Prospettive di regolazione della decisione amministrativa algoritmica: un’analisi comparata, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2022, 265 ss. Sul tema delle black box, si veda F. Pasquale, The Black box society, The Secret Algorithms That Control Money and Information, Londra, 2015, 144 ss.
[23] Nella versione precedente, l’articolo configurava questa come una semplice possibilità per le Amministrazioni.
[24] Al proposito è stato affermato che «a fronte della diffusione di testi ricognitivi non vincolanti, il quadro delle norme vigenti sull’utilizzo dei software di intelligenza artificiale nel settore giuspubblicistico appare scarno e lacunoso». Così, V. Neri, Diritto amministrativo e intelligenza artificiale: un amore possibile, in Urb. e appalti, 2021, 5, 587.
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