ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Recensione a Gianfranco Viesti, Riuscirà il PNRR a rilanciare l’Italia?, Donzelli Editore, 2023, pag. 131 [1].
Sommario: 1. Il volume di Gianfranco Viesti: Riuscirà il PNRR a rilanciare l'Italia? - 2. Parte prima, i dati: il Regolamento UE del 12 febbraio 2021 n.241 - 3. La formazione del PNRR in Italia - 4. Il contenuto del PNRR italiano - 5. La disciplina di attuazione del PNRR italiano, ovvero il d.l. 31 maggio 2021 n.77 - 6. Parte seconda, le mie osservazioni personali - 7. Segue: e l'invito allo studio degli aspetti giuridici del PNRR.
1. Il volume di Gianfranco Viesti: Riuscirà il PNRR a rilanciare l'Italia?
Noto, e non credo di essere l’unico, che il Piano nazionale di ripresa e resilienza è tanto importante quanto poco studiato, soprattutto tra i giuristi.
Se si fanno eccezioni per alcuni contributi [2], direi che pochi studi ad oggi si sono dedicati a questa grande novità.
Tra questi, mi fa piacere segnalare la monografia di Gianfranco Viesti, ordinario di Economia applicata all’Università di Bari, uscita per i tipi di Donzelli Editore.
Il libro è diviso in 14 piccoli capitoli, ognuno dedicato ad un aspetto del PNRR, oltre una premessa e una bibliografia finale.
Con la premessa Gianfranco Viesti asserisce che: “Questo libro prova a fornire una lettura e una valutazione d’insieme del Piano nazionale di ripresa e resilienza a distanza di due anni dalla sua formulazione”; la bibliografia che si trova in calce al libro, se si vuole, conferma poi che l’argomento, almeno al momento, non è di interesse per i giuristi, poiché tra i testi indicati non ve ne è uno che provenga da tale ambito scientifico.
Il libro ha il pregio, a mio parere, di essere completo nell’esposizione, e al tempo stesso semplice e breve, e quindi alla portata di tutti coloro che siano interessati all’argomento, a prescindere dalla loro formazione.
E poiché il PNRR costituisce: “una novità di grande importanza per l’Italia, perché si tratta di un investimento di dimensione molto ampia che influenza tutte le politiche pubbliche del nostro paese” (così la premessa, pag. VII), l’idea di un volume semplice, in grado di illustrare le varie problematiche anche a chi sia meno attrezzato, credo sia apprezzabile.
“Il libro”, infatti, si legge nella seconda di copertina: “può aiutare tutti i cittadini a capire meglio quel che è successo e può accadere”.
Gianfranco Viesti apre il volume con un capitolo sull’Europa, visto che tutto prende le mosse dal Regolamento dell’Unione del 12 febbraio 2021 n. 241; successivamente dedica un capitolo all’Italia e al Next Generation, per poi, nei capitoli ancora successivi, passare alla descrizione del Piano, ai rapporti tra territori e Regioni, ai principi attuativi, e al ruolo del sindaci e dei comuni.
Dal capitolo settimo, ogni capitolo è dedicato ad un aspetto settoriale del PNRR: le infrastrutture (cap. 7), le città (cap. 8), la scuola (cap. 9), le università (cap. 10), le imprese (cap. 11); e poi infine gli ultimi tre capitoli sono dedicati alle riflessioni di sintesi sull’avvio del Piano per il miglioramento delle condizioni dei cittadini: “L’Italia non si rilancerà se non attraverso un confronto politico aperto sulle strade; da un confronto democratico informato e partecipato. Potrà rilanciarsi grazie alle scelte che ne potranno derivare sul suo modello di sviluppo, sulle modalità di intervento pubblico, sulle politiche per ridurre le grandissime diseguaglianze generazionali, di genere e territoriali che rischiano di persistere indefinitamente. Un Piano senza queste scelte può rappresentare una tappa utile, ma non un cambiamento decisivo” (pag. 121).
Il volume, direi, si caratterizza così per una posizione equilibrata: non nega i vantaggi e i lati positivi del PNRR, ma al tempo stesso non ne lesina le critiche quando queste devono essere sollevate.
E il pensiero di Gianfranco Viesti può riassumersi con la seconda di copertina, ove si legge che: “Nel libro emergono le potenzialità e i limiti del PNRR, il suo assetto fortemente accentrato e i suoi meccanismi attuativi, con l’enorme potere che essi hanno concentrato nelle mani dei ministri del governo Draghi”.
Orbene, ciò premesso, dividerei questo mio scritto in due parti: una prima, più ampia, e con l’ausilio di Gianfranco Viesti, dedicata alla ricostruzione dei fatti; una seconda, più breve, avente ad oggetto le sole mie personali osservazioni.
E poiché ritengo sia necessario che i giuristi prestino ogni più ampia attenzione al PNRR, mi sia consentito riportate, sempre a titolo di introduzione, le parole di una costituzionalista quale Elisabetta Catelani, che così circoscrive il PNRR (pag. 210): “Interventi finanziari decisi a livello di UE e finanziati da risorse esterne, ma che hanno imposto, e impongono in maniera pressante, l’adozione di una serie di provvedimenti normativi regolatori e atti amministrativi esecutori che non sempre rispondono ai principi generali del nostro ordinamento costituzionale. A ciò si deve aggiungere, infine, che l’uso di questi fondi di finanziamento graveranno, se non ben impiegati e non adeguatamente capaci di produrre incrementi del PIL significativi, sui debiti che le generazioni future saranno obbligati a restituire all’Europa e ai mercati”.
A queste tematiche, dunque, le pagine che seguono.
2. Parte prima, i dati: il Regolamento UE del 12 febbraio 2021 n.241
A seguito della crisi economica dovuta al Covid 19, il Parlamento e la Commissione europea decidono di intervenire a sostegno degli Stati membri.
La reazione dell’Unione europea è rapidissima, potremmo dire immediata, se si considera che il dibattito per i sostegni economici agli Stati membri già si sviluppa a Bruxelles nell’estate del 2020, ovvero in piena pandemia, e nell’inverno del 2021, in contestualità con l’arrivo dei vaccini, si giunge all’approvazione del Regolamento del 12 febbraio 2021 n. 241, che al punto 6 del preambolo precisa infatti che: “L’insorgere della pandemia di Covid 19 all’inizio del 2020 ha cambiato le prospettive economiche, sociali e di bilancio nell’Unione e nel mondo, richiedendo una reazione urgente e coordinata sia a livello di Unione che a livello nazionale per far fronte alle enormi conseguenze economiche e sociali”.
Ciò è ben sottolineato da l’A., il quale scrive: “L’Unione ha reagito con prontezza a questa situazione” (pag. 3), e: “La pressione della pandemia e la forza dell’intesa franco-tedesca hanno portato in poche settimane la Commissione europea a disegnare i dettagli e il Consiglio ad approvarlo” (pag. 4).
Il Regolamento c.d. RRF (Recovery and Resilience Fund), mette a disposizione degli Stati membri ingenti somme di denaro, precisate nell’art. 6, da utilizzare all’interno di un piano detto di ripresa e resilienza.
Queste risorse, come precisa l’A.: “sono decisamente cospicue, circa 750 miliardi, esse scaturiscono da un indebitamento comune: è l’Unione che le raccoglie sui mercati dei capitali, con la fine degli anni venti e gli anni trenta, ponendo a garanzia il bilancio comune” (pag. 4).
Dunque, l’Unione mette a disposizione questi denari agli Stati membri a sua volta raccogliendoli sul mercato dei capitali, ovvero da privati che finanziano l’Unione affinché questa finanzi gli Stati membri.
Il meccanismo è confermato anche dal PNRR italiano, che a pag. 9 precisa: “Le componente più rilevante del programma sono reperite attraverso emissioni di titoli obbligazionari dell’UE, facendo leva sull’innalzamento del tetto della Risorse Proprie”.
Gli Stati membri, se interessati a ricevere questi denari, devono presentare domanda ai sensi dell’art. 12 del Regolamento e possono così ottenere un contributo finanziario nei limiti fissati dal precedente art. 11.
L’art. 18 statuisce che: “Lo Stato membro che desidera ricevere un contributo finanziario in conformità dell’art. 12 presenta alla Commissione un piano per la ripresa e la resilienza quale definito all’art. 17, paragrafo 1”, ovvero un piano che definisce: “Il programma di riforme e investimenti dello Stato membro interessato”.
In seguito (art. 19): “La Commissione valuta il piano per la ripresa e la resilienza” e determina “l’importo da assegnare allo Stato membro interessato”, e, nel farlo, “La Commissione valuta la pertinenza, l’efficacia, l’efficienza e la coerenza del piano”.
L’A. ci ricorda che: “le risorse sono distribuite fra gli Stati membri in base all’impatto che ciascuno di essi ha subito dalla pandemia……..e sono in parte contributi a fondo perduto, in parte prestiti che gli Stati membri dovranno in ogni caso restituire” (pag. 5).
Fondamentale è poi che i denari ricevuti non possono essere spesi dagli Stati membri in modo libero e/o discrezionale, ma devono essere utilizzati esclusivamente all’interno di precise aree di intervento.
Ad esempio, per la giustizia i fondi non possono essere spesi per l’aumento del numero di magistrati e cancellieri, ma devono essere spesi per l’ufficio del processo; nei trasporti, i fondi non possono essere spesi in strade e aeroporti, ma devono essere spesi per le ferrovie, e così di seguito.
L’art. 3 del Regolamento fissa gli ambiti di intervento in sei pilastri, e precisamente: “a) transizione verde; b) trasformazione digitale; c) crescita intelligente, sostenibile e inclusiva; d) coesione sociale e territoriale; e) salute; f) politiche per la prossima generazione”.
Ed infatti: “I piani sono rigidi. I piani rappresentano una risposta allo scock Covid e quindi vanno realizzati in un arco di tempo molto ristretto” (così l’A., pag. 7).
E addirittura, con riferimento ai primi due pilastri, il Regolamento fissa in modo tassativo quote di risorse a loro destinate con l’art. 16 del Regolamento: “La Commissione europea ha tuttavia imposto che una quota minima delle risorse debba essere destinata alla transizione verde (37%) e digitale (20%) e che nessuna misura debba danneggiare l’ambiente” (così, l’A., pag. 6).
A seguito di esecuzione del piano nazionale da parte del Consiglio UE, i pagamenti agli Stati membri avvengono per tranche, in misura dei traguardi di volta in volta raggiunti.
Dispone l’art. 20: “La Commissione stabilisce il contributo finanziario da erogare a rate successivamente al conseguimento soddisfacente, da parte dello Stato membro, dei pertinenti traguardi e obiettivi individuati in relazione all’attuazione del piano per la ripresa e la resilienza”.
Precisa l’A. che: “I pagamenti dall’Unione agli Stati membri sono condizionati al raggiungimento progressivo di una lunga serie di traguardi (legislativi, amministrativi) e obiettivi (spese e realizzazioni concrete) concordati con la Commissione europea” (pag. 7).
Ovviamente, poi, art. 22: “Gli Stati membri, in qualità di beneficiari o mutuatari di fondi, adottano tutte le opportune misure per tutelare gli interessi finanziari dell’Unione” e verificano: “regolarmente che i finanziamenti erogati siano stati utilizzati correttamente in conformità di tutte le norme applicabili”.
E infine soprattutto l’art. 23: “Una volta che il Consiglio ha adottato una decisione di esecuzione, la Commissione conclude con lo Stato membro interessato un accordo, che costituisce un impegno giuridico specifico ai sensi del regolamento finanziario”.
Direi che in tale accordo sono disciplinate le modalità e i termini delle restituzioni all’Unione, da parte degli Stati membri, dei denari ricevuti in prestito, nonché degli interessi da pagare per simili percezioni.
Su questo, infatti, niente si trova da nessuna altra parte nel Regolamento
3. La formazione del PNRR in Italia
Al tempo dell’approvazione del Regolamento dell’Unione, in Italia vi era il Governo Conte II.
Il Governo vede subito con favore l’idea di accedere ai finanziamenti previsti da detto Regolamento, ed anzi lo fa ancor prima che il Regolamento venga approvato.
Scrive al riguardo l’A.: “Il governo Conte II ha appoggiato convintamente la proposta della Commissione e si è adoperato perché avesse successo” (pag. 11); e poi ancora: “Nel gennaio 2021 il governo Conte II ha inviato al Parlamento una prima bozza del piano, creando un’occasione preziosa per una discussione approfondita e per proposte di modifica e integrazione, sollecitata anche da autorevoli interventi. Ma il governo di lì a poco è stato sostituito dall’esecutivo guidato da Mario Draghi” (pag. 14).
Esattamente, il 15 settembre 2020 il Governo Conte II trasmette al Parlamento una prima proposta di Linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Il Parlamento si mette al lavoro, e giunge all'approvazione di due distinte risoluzioni, una della Camera e l’altra del Senato, che si hanno in data 13 ottobre 2020.
Sulla base di tali risoluzioni, il Governo Conte II elabora una nuova Proposta di Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che viene ancora trasmessa al Parlamento il 15 gennaio 2021, e che doveva rappresentare un ulteriore passo verso la stesura definitiva del documento in vista della presentazione all'UE.
Di lì a poco, però, il governo Conte II cade e si va a formare il nuovo esecutivo guidato dal Presidente Mario Draghi.
Ciò avviene il 13 febbraio 2021, in esatta concomitanza con l’approvazione del Regolamento europeo.
L’A. solleva il dubbio che una delle ragioni del cambio di Governo sia stata proprio quella degli ingenti finanziamenti provenienti da Bruxelles, e scrive: “Il Pnrr è stato uno dei motivi che hanno causato il cambio di governo? Una domanda a cui è impossibile rispondere; il desiderio di controllare e di indirizzare questo ingente flusso di risorse potrebbe aver giocato un ruolo non marginale” (pag. 14).
Ad ogni modo, è certo che le aperture che il governo Conte II aveva manifestato per coinvolgere il Parlamento nelle decisioni riguardanti il PNRR si perdono in modo categorico con l’avvento del nuovo Governo.
Sempre l’A.: “Il governo Draghi si è caratterizzato per una chiusura ancora più assoluta al dialogo sui contenuti del piano. La sua redazione si è ancor più inabissata all’interno dei ministeri” (pag. 14). E poi ancora: “Il dibattito politico, il confronto pubblico, sono stati quasi inesistenti, anche a causa della grande maggioranza dei mezzi di comunicazione, tutti caratterizzati da un’assoluta fiducia nelle capacità, nella competenza e nell’azione di Mario Draghi e più in generale in quello che taluno definiva il Governo dei migliori” (pag. 15).
Nei fatti, il Presidente Draghi trasmette alle Assemblee di Camera e Senato il nuovo testo del PNRR in data 25 aprile 2021. Il dibattito parlamentare è praticamente nullo se si pensa che solo due giorni dopo, ovvero il 27 aprile 2021, il testo viene approvato con due risoluzioni, una della Camera, la n. 6/00189, e l’altra del Senato la n. 6/00188.
Successivamente, il 30 aprile 2021, il PNRR dell'Italia viene ufficialmente trasmesso dal Governo alla Commissione europea, e da questa approvato con talune modificazioni il 22 giugno 2021, e reso esecutivo dal Consiglio in data 13 luglio 2021.
Al riguardo, scrive l’A.: “Il piano è stato inviato alle Camere il 25 aprile 2021; il 27 aprile la risoluzione che lo approvava è stata votata a larghissima maggioranza. I parlamentari non hanno avuto quindi neanche il tempo materiale di leggere il corposo documento; tantomeno di discuterne. È stato poi inviato all’Unione europea il 30 aprile, approvato dalla Commissione il 22 giugno e dal Consiglio il 13 luglio ed è entrato in vigore” (pag. 18, 19).
Il PNRR, poi, non solo non ha coinvolto nella discussione il Parlamento e l’opinione pubblica, ma neanche gli enti locali, considerato che nessuna partecipazione delle Regioni è stata ritenuta necessaria.
Ancora l’A.: “Con il piano si è abbandonata la prassi di governo multilivello, cioè di decisioni prese di concerto tra governo e regioni. Le regioni hanno avuto scarsissima voce in capitolo nella sua redazione. Il governo ha rinunciato alle conoscenze e alle esperienze delle amministrazioni regionali nelle politiche attuate sul loro territorio” (pag. 15). “I progetti quindi cadono dall’alto. Il Pnrr non prevede interventi modulati territorialmente per rispondere alle diverse esigenze dei contesti locali e regionali” (pag 38).
Ed inoltre per l’A.: “Alcuni ministri tecnici (Giovannini, Bianchi, Messa, Colao, Lamorgese) insieme a due politici (Giorgetti e Speranza) hanno goduto fino alla caduta del governo Draghi di un potere straordinario, di gran lunga superiore a quello dei loro predecessori per l’intera seconda Repubblica” (pag. 32). “Un pugno di persone ha compiuto scelte che plasmeranno a lungo l’Italia” (pag. 33).
4. Il contenuto del PNRR italiano
Ma cosa prevede in concreto il PNRR italiano?
Chi abbia voglia di leggerlo, lo trova oggi in un portale denominato Italia Domani, curato dal Governo.
Il PNRR è un documento lunghissimo, composto di ben 273 pagine; esso è ripartito in più capitoli: un primo dedicato agli obiettivi generali, e poi un secondo relativo alle riforme e agli investimenti, ovvero alle missioni, che si sviluppano secondo le stesse indicazioni del Regolamento europeo. Tra le missioni spiccano quelle della digitalizzazione e della transizione verde ed ecologica, che appaiono, sotto tutti i profili, gli obiettivi primi e principali di tutto il PNRR. Infine vi è un terzo capitolo dedicato all’attuazione e al monitoraggio, e un ultimo avente ad oggetto la valutazione dell’impatto macroeconomico.
Il Piano gestisce un importo totale di 191,5 miliardi di euro, una somma enorme.
L’importo si divide in contributi e in prestiti: i contributi sono a fondo perduto, ovvero l’Italia non li deve restituire, e ammontano ad 68,9 miliardi di euro; i prestiti invece sono somme che vanno restituite con il pagamento aggiuntivo di interessi, e ammontano a 122,6 miliardi di euro.
Tuttavia questi aspetti non sono chiariti in modo sufficiente né nel Regolamento europeo, né negli atti interni italiani, e per l’A., di nuovo: “L’informazione e la trasparenza su questo insieme di provvedimenti e sui processi attuativi è stata fin dall’inizio assai modesta. Il governo ha varato un portale dedicato Italia Domani, ma esso contiene solo una piccola parte delle stesse disposizioni attuative e solo pochi dati d’insieme in formato aperto. Ha attivato il sistema Regis con i dati di spesa, ma questi risultano, anche per oggettive difficoltà di caricamento, incompleti e tardivi” (pag. 32).
Circa poi l’assegnazione delle somme a disposizione ai singoli Stati membri, l’A. sottolinea che: “Le regole di riparto europeo hanno destinato all’Italia la quota più ampia di contributi e prestiti attivabili. E ciò perché l’Italia è l’unico grande paese europeo che ha deciso di utilizzare integralmente sia i contributi (68.9 miliardi) sia i prestiti (122,6). Pochissimi altri paesi hanno deciso di utilizzare integralmente i prestiti. Questo ha prodotto un’evidente sproporzione: i 191 miliardi di risorse europee dell’Italia vanno comparati ai 69 della Spagna, ai 41 della Francia, ai 39 della Polonia, ai 30 della Grecia e ai 28 della Germania” (pag. 21).
È un dato da tenere in debito conto: l’Italia è l’unico paese che decide di utilizzare per intero i prestiti e decide di farlo senza alcuna discussione al riguardo, né parlamentare, né attraverso il dibattito pubblico con le forze politiche e la cittadinanza.
È un interrogativo non trascurabile, e al riguardo l’A. scrive: “La decisione italiana di utilizzare interamente i prestiti disponibili è stata di grande rilevanza, ma, sorprendentemente, non è stata oggetto di discussione” (pag. 22).
È bene poi precisare che le somme su indicate degli altri Stati europei non attengono ai prestiti, come per l’Italia, ma solo ai contributi; la Germania ha 25 miliardi di contributi, la Francia 39 miliardi di contributi (v. anche la tabella, in I. MACRI’, Il PNRR italiano per la digitalizzazione e l’innovazione della pubblica amministrazione, in Aziendaitalia, 2022, 40, 41).
Se non vado errato, dunque, Germania e Francia non hanno somme da restituire; l’Italia al contrario deve restituire l’importo non certo modesto di 122,6 miliardi di euro oltre interessi.
Da segnalare, ancora, che questi denari devono essere impiegati nelle sei missioni fissate dall’art. 3 del Regolamento europeo.
L’A.: “Il piano è organizzato in 6 missioni, tutte molto ampie e diversificate” (pag. 29). Ed ancora: “Tutto va attuato entro il 2026. A tal fine al piano sono collegati ben 527 impegni attuativi concordati con la Commissione europea” (pag. 27; da segnalare che una piccola parte di questi impegni sono stati oggi integrati dal governo di Giorgia Meloni).
5. La disciplina di attuazione del PNRR italiano, ovvero il d.l. 31 maggio 2021 n.77
Una menzione a sé merita, a mio avviso, il decreto legge 31 maggio 2021 n. 77, il primo atto legislativo esistente relativo al PNRR.
Si tratta di un decreto del Governo Draghi, emanato in piena campagna vaccinale, che disciplina l’attuazione del PNRR, e che il Parlamento ratifica con la legge 29 luglio 2021 n. 108.
Non è un decreto che approva il PNRR, poiché nel maggio del 2021 lo stesso era già stato da tempo inviato a Bruxelles; è solo un decreto di Governance, come si legge nell’intestazione dello stesso, ovvero un atto di regolamento della disciplina pratica.
Il PNRR, infatti, non gode di alcun atto avente forza di legge che lo approvi, visto che il Parlamento, nei soli due giorni che separavano il 25 dal 27 aprile 2021, si era limitato alla pronuncia di due risoluzioni ma non ad emanare una legge; tuttavia esiste una legge di conversione di un decreto legge che disciplina gli aspetti attuativi del PNRR, cioè disciplina l’attuazione di un piano che precedentemente non era stato espressamente approvato.
Il decreto accentra sul Governo e sul suo Presidente una miriade di poteri relativi alla gestione del PNRR (direi) mai precedentemente immaginati.
Scrive in proposito l’A.: “Le modalità di governo e di attuazione del piano, definite con il dl 77/2021, sono fortemente centralizzate. È stata creata una cabina di regia presso la Presidenza del Consiglio, che ha un ruolo centrale……Può attivare poteri sostitutivi in caso di ritardo nell’esecuzione dei progetti”. (pag. 30, 31).
Il decreto, infatti, all’art. 2, istituisce la c.d. Cabina di regia, alla quale partecipano, oltre al capo del governo, i Ministri e i sottosegretari alla Presidenza del Consiglio competenti in ragione delle tematiche affrontate, e che hanno così, sostanzialmente, la Governance del PNRR.
Ma il decreto non si limita alla istituzione di questa Cabina di regia poiché istituisce una infinità di nuovi organi attuativi del PNRR, tutti riconducibili al Governo.
Tra questi il Tavolo permanente per il parternariato economico, sociale e territoriale (art. 3), la Segreteria tecnica per il supporto alla Cabina di regia (art. 4), la Unità per la razionalizzazione e il miglioramento della regolazione (art. 5), il Servizio centrale per il PNRR (art. 6), un Ufficio dirigenziale di livello non generale avente funzioni di audit del PNRR (art. 7), una Apposita unità di missione di livello dirigenziale generale (art. 8), l’ideazione dei Soggetti attuatori del PNRR (art. 9), l’istituzione della Commissione tecnica PNRR – PNIEC (art. 17), la Soprintendenza speciale per il PNRR presso il Ministero della cultura (art. 29), l’Agenda Italia digitale e il Difensore civico digitale (art. 41), ecc…..
Una particolare attenzione va poi data agli artt. 12 e 13 relativi ai Poteri sostitutivi (art. 12) e al Superamento del dissenso (art. 13).
Come può comprendersi sul PNRR non è ammessa discussione e, evidentemente, le regole ordinarie della gerarchia della PA non sono sembrate sufficienti.
Così si è statuito che nell’ipotesi vi sia un: “mancato rispetto……..il Presidente del Consiglio dei ministri………assegna al soggetto attuatore interessato un termine per provvedere non superiore a trenta giorni. In caso di perdurante inerzia il Consiglio dei ministri nomina uno o più commissari ad acta ai quali attribuisce, in via sostitutiva, il potere di adottare gli atti o provvedimenti necessari” (art. 12, 1° comma).
Il commissario ad acta “provvede all’adozione dei relativi atti mediante ordinanza motivata….in deroga ad ogni disposizione di legge diversa da quella penale…….Tali ordinanze sono immediatamente efficaci e sono pubblicate nella Gazzetta Ufficiale” (art. 12, 5° comma).
Il decreto non precisa se tali provvedimenti siano esclusi o meno dai normali controlli giurisdizionali; tuttavia l’articolo successivo disciplina il Superamento del dissenso, e certo una opposizione in sede giudiziale potrebbe essere considerato un atto di dissenso.
L’art. 13 recita che: “In caso di dissenso, diniego, opposizione o altro atto equivalente…..la Segreteria tecnica di cui all’art. 4…….propone al Presidente del Consiglio dei Ministri di sottoporre la questione all’esame del Consiglio dei Ministri per le conseguenti determinazioni……Ove il dissenso provenga da un organo della Regione……in mancanza di soluzioni condivise il Presidente del Consiglio dei ministri propone al Consiglio dei ministri le opportune iniziative ai fini dell’esercizio dei poteri sostitutivi di cui agli articoli 117 quinto comma e 120 secondo comma della Costituzione”.
Possiamo solo aggiungere che questo decreto legge, il principale, e poi gli altri che si sono succeduti (d.l. 152/2021 e d.l. 36/2022) e gli altri ancora che ne hanno preparato il terreno (d.l. 59/2021 e d.l. 80/2021) sono stati “tutti convertiti in legge attraverso l’apposizione della questione di fiducia escludendo completamente ogni dibattito con il Parlamento” (così ancora E. Catelani, op. cit, 212).
E di nuovo con l’A.: “Questo processo si è svolto nell’ultimo anno del governo Draghi, fra l’estate del 2021 e quella del 2022; come già detto, i singoli ministri hanno goduto di un enorme potere nel condurlo” (pag. 45).
Ed ancora: “La parte delle riforme del PNRR è dunque divenuta lo specchio di quella che è stata definita l’Agenda Draghi” (pag. 16). “Vi è stato dunque un periodo nel quale è esistita la famosa stanza dei bottoni evocata da Pietro Nenni nel 1962; un luogo nel quale vi era un effettivo, grande potere di compiere scelte e allocare risorse” (pag. 45).
6. Parte seconda, le mie osservazioni personali
E qui vengo, come anticipato, alle mie personali osservazioni.
6.1. La prima cade proprio sul raffronto tra il Regolamento UE del 12 febbraio 2021 n. 241 e il nostro d.l. 31 maggio 2021 n. 77.
Il Regolamento UE, come abbiamo visto, non imponeva niente agli Stati membri, ma anzi lasciava loro la libertà di accettare o meno le proposte, di individuare la misura di un eventuale prestito, e infine la libertà di determinare le modalità concrete con le quali procedere all’attuazione delle direttive.
L’Italia ha scelto di accedere al prestito massimo, e lo ha fatto con modalità che hanno concentrato sul Governo ogni potere, escludendo così da ogni determinazione non solo il popolo ma anche il Parlamento.
Il Regolamento UE non chiedeva niente di ciò, e certo, tra le molte cose, non chiedeva sicuramente che il governo di uno Stato membro accentrasse tutto su di sé, oppure creasse una serie infinita di nuovi organismi alle sue dipendenze (pensate, siamo arrivati addirittura al Difensore civico digitale), né che escludesse gli enti locali, o ancora impedisse ogni forma di discussione e/o sanzionasse ogni dissenso.
In breve, tutto ciò che si trova nel d.l. 31 maggio 2021 n. 77 va oltre, e non ha niente a che vedere, con il Regolamento UE circa il PNRR; è stata la lettura che di esso ha dato il governo Draghi, poiché tutto, al contrario, poteva essere gestito in modo più democratico e aperto.
I dubbi di costituzionalità sono pertanto numerosi, e possono qui essere ricordati:
- Poteva il PNRR essere inviato a Bruxelles senza una legge che lo approvasse?
- È legittimo privare il Parlamento di ogni potere su un affare di quasi 200 miliardi che impegnerà gli italiani per anni?
- È legittimo creare con decreto legge un’infinità di nuovi organi pubblici che si assumono compiti che altrimenti sarebbero di altri e che addirittura possono intervenire in deroga ad ogni disposizione di legge? (così l’art. 12, 5° comma, d.l. 77/21). Può un organo pubblico agire in deroga alla legge?
- È legittima, in proposito, la creazione di un nuovo apparato chiamato Cabina di regia, che nella sostanza prende il posto del Consiglio dei ministri, ma alla quale non partecipano tutti i ministri?
- E, conseguentemente, è legittimo che si attribuiscano all’interno dello stesso governo poteri al suo presidente che sembrano esorbitare le funzioni che la Costituzione gli riconosce con l’art. 95?
- È legittimo che gli enti locali siano stati del tutto esclusi da determinazioni che li riguardavano anche in base allo stesso art. 117 Cost.?
- È legittimo che il governo assuma impegni che poi obbligano per gli anni a venire l’intero apparato dello Stato (come espressamente assunto, peraltro, nella direttiva del 21 luglio 2022), limitando così la sua sovranità?
- È legittimo che il governo disponga Poteri sostitutivi (art. 12) e il c.d. Superamento del dissenso (art. 13), immaginando che nessuno, a nessun livello, possa discutere e/o mettere in dubbio le scelte e le spese relative al PNRR?
6.2. Accanto agli aspetti più prettamente giuridici, vi sono poi quelli economico/finanziari.
Qui a me sembra restino in ombra due questioni che viceversa meriterebbero maggiore luce: sono l’individuazione degli investitori che forniscono il denaro alla UE affinché questa possa erogarlo agli Stati membri, e sono le modalità con le quali gli Stati membri restituiranno il denaro alla UE.
Mi sembrerebbe scontato che nessuna idea precisa è possibile avere sul PNRR senza conoscere al meglio questi dati; al contrario essi non appaiono né nei testi normativi, né nel portale Italia domani.
Io, personalmente, non sono riuscito a trovare sui punti altre informazioni oltre alle seguenti:
a) gli investitori sono (sembrano essere) dei privati, lo stesso PNRR italiano a pag. 9 precisa che: “Le componente più rilevante del programma sono reperite attraverso emissioni di titoli obbligazionari dell’UE”.
Esistono poi due link per alcune, minime informazioni: uno, del Parlamento europeo, in lingua inglese, si chiama Financing the Recovery and Resilience Facility: EU Bond and Bill issuance; l’altro, della Commissione europea, in lingua italiana, è titolato NextGenerationUE, reperiti 20 miliardi di euro nella prima operazione per sostenere la ripresa dell’Europa.
Riporto quanto si legge in quest’ultimo: “Oggi la Commissione europea, nella sua prima operazione nell'ambito di NextGenerationEU, ha raccolto 20 miliardi di euro tramite un'obbligazione a 10 anni con scadenza il 4 luglio 2031 per finanziare la ripresa dell'Europa dalla crisi del corona virus e dalle sue conseguenze. Si tratta della maggiore emissione di obbligazioni istituzionali mai effettuata in Europa, della più grande operazione istituzionale in un'unica tranche mai realizzata e dell'importo più elevato reperito dall'UE in una singola operazione. L'obbligazione ha suscitato un forte interesse da parte degli investitori in Europa e nel mondo, il che ha permesso alla Commissione di ottenere condizioni di prezzo assai favorevoli, analogamente a quanto avvenuto con le successive emissioni, dagli ottimi risultati, nell'ambito del programma SURE”.
Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione europea, ha dichiarato: “Oggi è davvero una giornata storica per l'Unione europea. Abbiamo condotto con successo la prima operazione di finanziamento per NextGenerationEU. Come Unione forte, stiamo reperendo fondi sui mercati insieme e investendo in una ripresa comune da questa crisi. Si tratta di un investimento nel nostro mercato unico e, ancora più importante, di un investimento nel futuro delle prossime generazioni dell'Europa, che devono affrontare le sfide della digitalizzazione e dei cambiamenti climatici”.
Tra gli investitori che finanziano l’operazione si rilevano: banche centrali (23%), gestori di fondi (37%), assicurazioni (12%), tesorerie delle banche (25%), ecc…..
Ovviamente resterebbe da comprendere qual è l’interesse di questi privati a dare dei denari all’UE affinché questa li dia agli Stati membri, e quali sono le conseguenze per gli Stati membri nel rendersi debitori di questi organismi per dette importanti somme.
b) Quanto all’obbligo di restituzione dei denari da parte dello Stato italiano, ciò dipende, come si rileva dal Regolamento UE, da un contratto stipulato tra la parte creditrice UE e lo Stato membro debitore; ma questo contratto non è pubblico.
In un altro link si rileva che l’ex Ministro Raffaele Fitto inviava una richiesta alla commissione UE per comprendere se fosse possibile rendere pubblico l’accordo di prestito Italia-commissione UE.
V’è, al riguardo, la risposta dell’allora Presidente Paolo Gentiloni, secondo la quale il documento può essere pubblicato previa autorizzazione della Commissione a seguito di istanza formale di accesso agli atti secondo le regole sulla trasparenza.
Al momento, salvo che non vada errato, non mi sembra tuttavia che il documento sia stato reso pubblico e/o sia consultabile.
6.3. Messe poi insieme le questioni giuridiche con quelle economico/finanziarie, forse non sarebbe stato male spiegare all’opinione pubblica, in modo semplice e chiaro, i nodi dell’operazione, e ciò all’evidente fine di raccogliere da essa un orientamento circa le decisioni da prendere.
Al contrario, nessun mezzo di informazione ha ritenuto di doverlo fare, evidentemente tutti convinti che le decisioni non spettassero al popolo ma solo al governo; e il governo, da parte sua, si è guardato bene di rendere chichessia compartecipe del PNRR.
Si trattava, in sostanza, di porre al popolo italiano due semplici domande:
- Volete un prestito dall’Unione finalizzato a spese per la digitalizzazione e la transizione verde ed ecologica?
- Volete che la misura di questo prestito ammonti ad 191 miliardi di euro, di cui 122 miliardi da restituire, considerato che la Germania non ha chiesto alcun prestito ma solo ottenuto a titolo di contributo 25 miliardi, e egualmente non ha voluto alcuno prestito la Francia ma solo ha ottenuto a titolo di contributo 39 miliardi, e che quindi questi Stati, diversamente da noi, non avranno niente da restituire?
Coinvolgere il popolo doveva considerarsi condizione naturale, costituzionalmente dovuta, considerato che i denari, in ultima battuta, sono proprio dei cittadini, che li dovranno restituire attraverso le imposizioni fiscali.
E invece di tutto questo non è stato investito nemmeno il Parlamento, che del popolo è il rappresentante.
7. Segue: e l'invito allo studio degli aspetti giuridici del PNRR
Penso, infine, si possa esprimere sul PNRR, seppur assai brevemente in questo contesto, anche un giudizio nel merito; e penso che con riferimento al merito i parametri da tenere in considerazione siano due: giustizia sociale e libertà.
V’è infatti da chiedersi se il PNRR renda giustizia sociale e/o protegga e/o migliori la libertà dei cittadini.
7.1. Circa il primo aspetto, è chiaro che se con il PNRR si riesce a migliorare il sistema ferroviario, modernizzare le infrastrutture idriche e dei rifiuti, migliorare la fruibilità di musei e biblioteche, investire nell’edilizia scolastica e giudiziaria, rimuovere barriere architettoniche ancora esistenti e/o compiere altri interventi pubblici di questa natura, le attività che si vanno a fare non possono che essere condivise, e sarebbe disonesto voler negare i benefici che tali interventi portano all’intera popolazione.
Se però la valutazione si sposta sui metodi adottati e le scelte politiche effettuate, lì allora il giudizio può assumere connotati diversi.
Sotto quest’ultimo profilo mi limito a riportare, di nuovo, quanto ha scritto Gianfranco Viesti: “Il Pnrr non sembra affrontare a sufficienza alcuni grandi nodi economico-sociali dell’Italia: le diseguaglianze, specie di genere e generazionali, la povertà, la grande deriva demografica; non sembra offrire ai diciottenni, e soprattutto ai diciottenni del 2026, uno scenario particolarmente diverso da quello dei lavori precari, spesso sottopagati e con modesta copertura previdenziale che prevalgono oggi. Così come non affronta i grandi nodi della collocazione dell’economia italiana, della sua industria e dei suoi servizi” (pag. 17, 18).
Ed ancora: “La scelta del metodo dei bandi competitivi tra amministrazioni pubbliche per allocare molte risorse del PNRR è assai discutibile” (pag. 49); “Mettendo a gara un così rilevante ammontare di risorse il governo ha rinunciato a indirizzarle con finalità di equilibrio, o riequilibrio territoriale. Il governo Draghi non ha indirizzato secondo propri criteri politici gli investimenti nelle varie aree del paese……..vi è il rischio di acuire, piuttosto che di ridurre, le disparità territoriali esistenti in Italia” (pag. 50). “Ma vi è di più. Il Piano avrebbe dovuto mirare a far realizzare nuovi nidi ai comuni che ne sono privi, nuovi impianti per il trattamento dei rifiuti ai gestori del servizio che non ne dispongono o che hanno impianti obsoleti. Ma proprio i soggetti che non ne dispongono, con tutta probabilità, non ne hanno mai progettato uno, mentre per chi già li utilizza realizzare un nuovo progetto per candidarsi al finanziamento potrebbe essere stato decisamente più semplice” (pag. 51).”Con il rischio, lo si è già detto, di determinare così una maggiore allocazione di risorse verso le amministrazioni meglio attrezzate” (pag. 59).
7.2. Sul tema delle libertà, a me personalmente preoccupano le missioni relative alla digitalizzazione e alla transizione verde ed ecologica.
Sicuramente una certa digitalizzazione è necessaria, ed egualmente la tutela dell’ambiente è un valore che nessuno può negare, e tutti noi abbiamo infatti il dovere morale e giuridico di mantenere il pianeta nella migliore condizione possibile.
Tuttavia, è evidente, che questi obiettivi, di per sè giusti e nobili, possono però essere strumentalizzati, e una certa misura venir utilizzati in modo deviato per il raggiungimento di fini che, al contrario, non sono né giusti né nobili.
Si tratta allora di vigilare su questi meccanismi, e si tratta altresì di immaginare degli equilibri che debbono necessariamente darsi tra le libertà fondamentali garantite dalla nostra Costituzione e i limiti che a dette libertà debbano darsi a vantaggio di nuovi interessi generali che via via stanno emergendo.
Da qui la necessità che tutte queste tematiche siano attentamente studiate dai giuristi e non solo lasciate alla discrezionalità della politica, se non oggi addirittura alla discrezionalità dei grandi gruppi che stanno finanziando il PNRR.
Per mia parte, con contributi pubblicati in questa stessa rivista, ho già invitato ad una riflessione sulla digitalizzazione della scuola (Il piano scuola 4.0., una rivoluzione che i giuristi non possono ignorare), sulla digitalizzazione della giustizia (Note in tema di intelligenza artificiale e di digitalizzazione delle attività umane) e sulla costituzionalizzazione della tutela dell’ambiente (I nuovi artt. 9 e 41 Cost.).
Questo scritto intende inserirsi in quel contesto.
Non pretendo di dare risposte ai molti problemi che ci stanno di fronte; è tuttavia indispensabile che le questioni siano attentamente studiate, poiché il futuro di tutti noi dipenderà infatti dagli equilibri che riusciremo a trovare.
[1] Mentre lo scritto era in corso di pubblicazione, ho appreso che la Corte costituzionale tedesca, con decisione del 15 novembre 2023, ha dichiarato costituzionalmente illegittima la manovra finanziaria del suo governo per 60 miliardi di euro finalizzata alle spese della transizione verde e della digitalizzazione.
Si tratta di una nuova importante decisione per ogni riflessione sui temi oggetto del presente scritto.
Non tutti, evidentemente, ritengono corretto indebitare gli Stati oltre certi limiti e/o oltre certe regole.
[2] V., fra questi, E. CATELANI, PNRR e ordinamento costituzionale: un’introduzione, in Rivista ACI, 3/2022, pag. 201 e ss., nonché gli altri interventi che si sono svolti nel seminario romano del 22 maggio 2022 su iniziativa dell’Associazione italiana dei costituzionalisti.
V. anche CLARICH, Il piano nazionale di ripresa e resilienza tra diritto europeo e nazionale: un tentativo di inquadramento giuridico, Corr. Giur., 2021, 1025; I. MACRI’, Il PNRR italiano per la digitalizzazione e l’innovazione della pubblica amministrazione, in Aziendaitalia, 2022, 38; G. IELO, Nuove disposizioni per l’attuazione, in Aziendaitalia, 2023, 847.
Valutare la personalità all’interno delle prove di selezione dei magistrati è appropriato? E, sul piano pratico, è possibile? I test psicologici possono – secondo quanto richiesto in certi interventi di politici - verificare la stabilità emotiva, l’empatia e il senso di responsabilità, caratteristiche essenziali della professione del magistrato?
Cercherò di rispondere sul piano tecnico, in base alle mie competenze professionali.
I tentativi di quantificazione delle caratteristiche della mente umana risalgono a tempi lontani: nella pragmatica società statunitense del primo novecento i test psicologici venivano usati per valutare i soldati da inviare in guerra e selezionare i migliori, scegliendo quelli da ammettere ai corsi per ufficiali ed evitando di sprecare risorse per addestrare reclute poco intelligenti. Le aziende e le scuole di tutto il mondo si appropriarono di questi strumenti per misurare attitudini e capacità sia cognitive che di adattamento, spesso con usi impropri e piegati ai fini della committenza. I test servirono ad indirizzare «l’uomo giusto al posto giusto» nelle fabbriche, e relegare in «classi differenziali» gli scolari riconosciuti come ipodotati.
Non mancarono reazioni decise: alla fine degli anni ’60 negli Stati Uniti veniva segnalata la pericolosità dei tanti improvvisati ‘scrutatori di cervelli’ (Brainwatchers era il titolo di un volume pubblicato proprio in quel periodo). Cominciò in quel periodo una seria riflessione sul senso di una misurazione che va oltre gli aspetti psicofisici o neurofisiologici – facilmente studiabili in laboratorio – tentando di indagare funzioni complesse della mente umana come l’intelligenza e i tratti di personalità normale e patologica.
I test sono strumenti rigorosamente standardizzati mediante metodi psicometrici, attendibili cioè ripetibili in tempi e luoghi diversi, e validi in quanto rappresentativi di una certa funzione o area della psiche che si vuole indagare; capaci di codificare le risposte del soggetto indipendentemente dalla soggettività dell'esaminatore, e di confrontarle con le ‘norme’ riferite ad un campione rappresentativo della popolazione da cui è tratto il soggetto sottoposto ad esame. I test che rispondono a queste caratteristiche, adeguatamente costruiti e correttamente applicati, sono strumenti con indubbio fondamento scientifico, e vengono usati proficuamente in ambito scolastico, clinico, lavorativo, giudiziario. Ma il loro uso è spesso subordinato ad alcuni presupposti ideologici più che scientifici.
Il primo presupposto è che la psiche sia una realtà misurabile e quantificabile come altri aspetti del mondo fisico, mediante procedure ritenute analoghe al modello delle scienze biologiche. La mente come unità funzionale sarebbe analizzabile alla pari delle sue componenti neurofisiologiche, sicché il test costituirebbe per le funzioni psicologiche un equivalente di ciò che sono l’elettroencefalogramma o la risonanza magnetica per specifiche modalità di funzionamento organico.
Il secondo presupposto è che la psiche nelle sue diverse componenti sia valutabile in base a criteri ‘oggettivi’: ottica che in termini tecnici viene definita nomotetica, cioè basata su regole generali e valide per tutti gli individui. Le diverse misurazioni dovrebbero poi essere ricomposte – in un’ottica idiografica legata alla specifica persona - per ricavare il ‘profilo’ complessivo che la descrive.
Purtroppo quando si valuta la realtà psichica le cose non sono così semplici. La validità della valutazione dipende, oltre che dalla correttezza delle operazioni metodologiche con le quali lo strumento è stato verificato empiricamente, dalla corrispondenza con il costrutto teorico cui si fa riferimento. Mentre sul primo aspetto la psicometria ha fatto notevoli passi avanti, per cui esistono strumenti validi sul piano ‘tecnico’, rilevanti problemi persistono riguardo al riferimento ai costrutti teorici.
In particolare, la ricerca sulla personalità ha oscillato a lungo fra lo studio dei “tratti” come disposizioni stabili che caratterizzano certi individui piuttosto che altri, e l’analisi delle modificazioni prodotte nelle caratteristiche delle persone dalle interazioni che esse hanno con le situazioni e il contesto. Di conseguenza, le modalità di valutazione risentono dei criteri usati per definire la personalità: ad esempio, i questionari, tra cui il tanto citato Minnesota Multiphasic Personality Inventory (ma altri più moderni ne esistono), tentano di “obiettivare” alcuni aspetti della personalità degli individui, inquadrando le persone in categorie diagnostico-predittive presunte “oggettive”. Ma fino a che punto può essere considerata oggettiva la raccolta di dati che - per quanto provengano da risposte a domande standardizzate, valutate in modo altrettanto rigoroso, e si possa controllare in qualche modo la tendenza alla falsificazione - esprimono pur sempre la valutazione che un soggetto dà riguardo ad aspetti della propria vita psichica? Ai fini della comprensione del funzionamento psichico complessivo della persona esaminata, l’inquadramento diagnostico su basi auto-valutate è condizione necessaria ma non sufficiente, e va integrato con criteri diversi di analisi scientifica, miranti a “comprendere” globalmente il funzionamento della persona.
Non va dimenticato inoltre che il test è uno strumento mai asettico (come una radiografia o una risonanza magnetica) ma sempre inserito all’interno del rapporto tra l’operatore e il soggetto, rapporto collocato a sua volta in un preciso contesto sociale di riferimento. Solo per fare un esempio, un aspirante magistrato con profilo di personalità esente da tratti psicopatologici potrebbe poi risultare poco assertivo e molto influenzabile nelle decisioni giudiziarie: aspetti che il test non può valutare e prevedere in astratto.
In conclusione, sul piano tecnico il test offre utili indizi su aspetti cognitivi e di personalità di un futuro professionista, che sarà poi attuato nello specifico contesto in cui il lavoro viene svolto, per cui la capacità predittiva del comportamento è di tipo probabilistico. Per migliorare questa probabilità occorrono valutazioni concorrenti, come la presentazione di situazioni concrete (seppur ipotetiche) di problemi da risolvere connessi alla futura mansione lavorativa: queste potrebbero essere introdotte nella selezione dei magistrati, e non solo… sempre se possono essere ritenute compatibili con le norme generali sulle procedure concorsuali.
A questo proposito, lascio per ultima una domanda cui le mie conoscenze non mi consentono di rispondere: se è legittimo nella selezione del personale valutare - oltre le attitudini e le competenze specifiche in funzione della mansione - anche la personalità, ed escludere chi presenta certi tratti caratteriali che vengono ritenuti (da chi? e in che misura?) inadatti per una certa professione, accettando solo chi risponde ad un ipotetico profilo ottimale per quella professione (ancora una volta, definito da chi?). E se tutto ciò è legittimo, perché applicare questa valutazione solo al magistrato, e non anche alle altre categorie che prendono decisioni importanti per la vita delle persone: al medico, all’avvocato, all’economista, al dirigente d’azienda, al politico…?
* ripubblicazione dell'articolo uscito su questa rivista il 25 luglio 2019
Il nostro sistema costituzionale disegna la Magistratura come potere diffuso e l'ordinamento colloca i giudici di merito come prima Istituzione per la tutela dei diritti. Una primazia che nasce dalla posizione nell'iter processuale ma che si è legittimata per i suoi contenuti fecondi che hanno trovato avallo nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. Per coglierne la genesi basta volgere lo sguardo a un passato non troppo risalente e in particolare agli anni '70 che furono quelli della promozione dei diritti e delle garanzie.
I giudici di merito in un contesto normativo scandito da diverse riforme come lo Statuto dei lavoratori, il divorzio, l'obiezione di coscienza, la riforma sanitaria, avviarono un indirizzo giurisprudenziale attuativo della Costituzione, nella innovativa consapevolezza "della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione” come espresso nella mozione finale del congresso nazionale dell'ANM di Gardone nel settembre del 1965.
Nel corso degli anni sono state numerose e in diversi settori le ipotesi di applicazione diretta della Costituzione da parte dei giudici di merito.
Dall'art. 2 nell'ambito dei diritti della persona al principio di uguaglianza sostanziale di cui all'art. 3 comma 2, dall'art. 15 per la tutela della privacy agli artt. 17 e 18 in tema di libertà di riunione e di associazione, dall'art. 32 per la tutela del diritto alla salute all'art. 36 in materia di rapporto di lavoro si sono succeduti plurimi interventi della giurisprudenza di merito che hanno disegnato un percorso definitivamente consacrato dalla Suprema Corte, che, da ultimo, proprio in tema di retribuzione, con una recentissima decisione ha affermato che "in virtù della forza cogente del diritto alla giusta retribuzione, spetta al giudice di merito valutarne la conformità ai criteri indicati dall’art. 36 Cost.", sottolineando che "in virtù dell’integrazione del nostro ordinamento a livello europeo ed internazionale, l’attuazione del precetto del giusto salario costituzionale è divenuta un’operazione che il giudice deve effettuare considerando anche le indicazioni sovranazionali e quelle provenienti dall’Unione Europea e dall’ordinamento internazionale".
La concezione dello Stato moderno come titolare esclusivo delle fonti del diritto non è più attuale.
La funzione legislativa non è più monopolio dello Stato nazionale.
Accanto allo stesso esistono altre istituzioni alle quali è attribuita una funzione regolatrice, come le Regioni, le Autorità amministrative indipendenti, ma soprattutto le fonti sovranazionali.
La primazia dell'ordinamento comunitario trova fondamento, come costantemente affermato dalla Corte costituzionale, negli artt. 11 e 117 della Costituzione, per cui, nelle ipotesi di disposizioni immediatamente applicabili, l'effetto diretto del vincolo del diritto comunitario si traduce nella disapplicazione della norma interna contrastante.
L'effetto vincolante è esteso alle decisioni della Corte di giustizia in quanto integrano nel significato le possibilità applicative della norma comunitaria.
Ne viene fuori un quadro composito e articolato di fonti con le quali è chiamato a confrontarsi in prima istanza il giudice di merito che in questo contesto dinamico, anche con la possibilità della disapplicazione della norma statale, esercita una sorta di controllo diffuso di "comunitarietà" della legge nazionale.
Non va trascurato, poi, che il giudice italiano ha l'obbligo di conformarsi al diritto dell'Unione, un obbligo che discende espressamente dall'art. 2 della l. 117/1988 secondo cui, ai fini della responsabilità civile dei magistrati, rileva la violazione manifesta del diritto unionale e nella relativa valutazione deve tenersi conto dell'inosservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale o del contrasto dell'atto o del provvedimento con l'interpretazione espressa dalla Corte di giustizia.
L'indebolimento della funzione legislativa tipica dello Stato post-moderno e la frammentazione della titolarità a dettare le regole si riflettono sul rapporto tra legislazione e giurisdizione e sul ruolo del giudice, sul quale aleggia il timore che possa espandersi verso un'attività "creativa" del diritto.
Le istanze sociali trovano sempre più spesso come primo interlocutore la Magistratura, in particolare quella di merito, avamposto istituzionale per la verifica della tutelabilità di ogni nuova pretesa alla quale il legislatore per scelta o per incapacità non abbia voluto o saputo dare risposta.
Tutto ciò si traduce in nuove responsabilità per il giudice che non può farsi legislatore, ma che, a differenza di quest'ultimo, che può decidere di dare ingresso o meno alle istanze sociali assumendosene la responsabilità politica, non può rispondere con un non liquet.
La funzione giurisdizionale va esercitata in ogni caso e non può essere mai rifiutata, anche se ciò ovviamente non vuol dire che ogni domanda debba essere accolta.
Però una pretesa, anche se respinta, è comunque entrata nel circuito sociale, ponendo il tema all’attenzione della collettività.
Nell'era della globalizzazione sulla giurisdizione si riversa una grande quantità di istanze sociali con una sostanziale delega diffusa alla risoluzione dei conflitti.
È sempre più attuale il dibattito sul delicato e controverso equilibrio tra potere legislativo e potere giudiziario.
Tramontata l'idea del diritto chiaro e preciso e del giudice "bocca della legge", la mediazione del conflitto si sposta sempre più frequentemente dal momento della creazione della regola a quello della sua applicazione.
È evidente lo scadimento della qualità della legislazione che, per la verità, è anche dovuto al dinamismo frenetico della società attuale la cui fluidità rende difficile la sua regolamentazione con norme predeterminate, con evidenti ricadute sul margine di opinabilità interpretativa che finisce per generare incertezza e disomogeneità applicativa.
Arginare il timore di sconfinamenti interpretativi con norme più dettagliate possibili può trasformarsi in un rimedio peggiore del male in quanto una pur minuziosa regolamentazione quasi mai riesce a esaurire l'imprevedibile concreto atteggiarsi delle fattispecie e, in un singolare processo di eterogenesi dei fini, rende inevitabile per il giudice di ricercare altrove la soluzione, mentre l'adozione di norme di principio suscettibili di adattarsi elasticamente al divenire della realtà restituisce alla interpretazione la sua funzione più genuina di individuazione della regola da applicare al caso concreto.
Così i confini tra la funzione del giudice e quella del legislatore finiscono con l'apparire meno netti di quanto in passato si fosse tradizionalmente inclini a riconoscere.
L'interpretazione delle norme giuridiche da applicare compete a qualunque giudice di ogni ordine e grado.
In fondo, ogni decisione, sia del giudice di legittimità sia del giudice di merito, attua in qualche misura al tempo stesso lo jus litigatoris e lo jus costitutionis: definisce la vicenda del caso concreto ed enuncia la regola di diritto che la dirime, e questa regola costituisce "precedente" giudiziario, idoneo a definire qualsiasi altra controversia nella quale è in discussione la medesima quaestio juris.
In senso formale la nomofilachia è compito attribuito alla Corte di Cassazione che, però, nell'espletamento di questa funzione si avvale delle sollecitazioni provenienti dai giudici di merito.
Questi apportano il loro contributo attraverso l'elaborazione argomentativa in direzione di una diffusa ed efficace tutela avanzata dei diritti per spingerla sempre più in avanti e renderla maggiormente intensa, anche prospettando letture e soluzioni innovative che si trasformano in diritto vivente e che non possono non essere considerate dal Giudice di legittimità.
In questa opera non è affatto secondario l'apporto che può derivare dal dialogo mediato che i giudici nazionali intrattengono con la Corte di Giustizia, alla quale sono soprattutto i giudici di merito che si rivolgono.
Non va trascurato, poi, che il numero delle controversie che pervengono al giudice di legittimità è notevolmente inferiore a quello che investe i giudici di merito, le cui decisioni non impugnate, quindi, assumono carattere di definitività formale e di conseguente stabilità entrando nel circuito della nomofilachia diffusa anche senza il crisma della Suprema Corte.
Sotto altro profilo va osservato che l'esame di alcuni casi che involgono temi eticamente sensibili sollecitati dal divenire della comunità ha sollevato diversi problemi che hanno posto l'interrogativo se la giurisdizione di merito abbia ecceduto i limiti delle sue attribuzioni usurpando le prerogative parlamentari.
Non credo che questo possa porre in discussione il principio della divisione dei poteri, anche se non va sottovalutato il rischio di un soggettivismo giudiziario che vada al di là della doverosa attività interpretativa e si indirizzi verso una vera e propria "creazione" del diritto non già nella sua accezione fisiologica di opzione all'interno del perimetro tracciato dal legislatore ma nell'adozione di soluzioni sganciate dal dato normativo verso un vero e proprio "diritto libero" che potrebbe finire per obliterare proprio il principio costituzionale della soggezione del giudice alla legge.
Il sistema delle impugnazioni, compreso lo strumento disciplinato dall'art. 363 c.p.c., sembra costituire una remora sufficiente al timore dell'arbitrio e dell'adozione di provvedimenti abnormi dissimulati dall'impiego surrettizio dell'interpretazione adeguatrice.
Così la libertà dell'agire del giudice di merito e il suo essere protagonista nella difesa dei diritti non sconfinano nell'arbitrio ma si coniugano con la consapevolezza di essere parte di un sistema presidiato dalla garanzia costituzionale dell'autonomia e dell'indipendenza.
Questa stessa consapevolezza gli impone, però, di condividere le regole del sistema del quale fa parte e di assicurarne la coerenza, vivendo e interpretando l'autonomia e l'indipendenza come valori funzionali all'eguaglianza dei cittadini e non già come privilegio individuale: presidio che deve essere difeso senza se e senza ma da tutti in quanto pilastro della democrazia e della libertà.
L'attenzione alla controversia o al processo non deve esaurirsi nella ricerca ragionata della soluzione del caso concreto ma deve proiettarsi nel lungimirante sguardo oltre i propri confini, nella doverosa e responsabile attenzione alle ulteriori fasi processuali e, in particolare, a quella di legittimità, non già per la vanagloria che può derivare ex post dalla conferma di un provvedimento né per il timore della riforma delle decisioni vissuta come una mortificazione professionale ma che, se assecondato, determinerebbe una pericolosa china verso il conformismo.
Piero Calamandrei nel suo Elogio dei giudici scrive che "per i magistrati ... il vero pericolo non viene dal di fuori: è un lento esaurimento interno delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate: una crescente pigrizia morale, che sempre più preferisce alla soluzione giusta quella accomodante ... La pigrizia porta a adagiarsi nell’abitudine che vuol dire intorpidimento della curiosità critica e sclerosi della umana sensibilità:… subentra con gli anni la comoda indifferenza del burocrate ... la peggiore sciagura che potrebbe capitare a un magistrato sarebbe quella di ammalarsi di quel terribile morbo dei burocrati che si chiama il conformismo”.
Il magistrato conformista e burocrate così efficacemente ricordato nell'opera di Calamandrei non ci appartiene ed è ben lontano dal modello costituzionale al quale costantemente ci ispiriamo.
Sine spe sine metu, quindi, per potere adempiere alla funzione di giudice non solo come mediatore del conflitto sociale, ma soprattutto, come afferma Roberto Romboli, in qualità di difensore dei diritti, per farlo con quella indipendenza che costituisce la precondizione della fiducia da parte dei cittadini, che confidano in una interpretazione del diritto libera da condizionamenti ma prevedibile e tendenzialmente stabile.
L'uniformità dell'interpretazione della legge compete alla Corte di Cassazione ma ogni giudice di merito non è una monade senza finestre di un universo.
Di questo universo fa parte e, pertanto, per assicurare efficacia ed effettività alla tutela dei diritti deve contribuire alla realizzazione di un sistema che in nome di una malintesa idea di indipendenza non sia schizofrenico e disorientante.
In un contesto nel quale il formante giurisprudenziale ha un rilievo decisivo la prevedibilità delle decisioni assume un valore enorme.
Anche la Corte EDU ritiene la prevedibilità delle decisioni e la stabilità della giurisprudenza nell'interesse della certezza del diritto e dell'ordinato sviluppo della sua giurisprudenza, anche se ciò non le impedisce di discostarsi da precedenti decisioni ove sussistano "cogenti ragioni" che lo giustificano per garantire che l'interpretazione della Convenzione rifletta i cambiamenti sociali e resti in linea con le condizioni attuali.
Eppure, la prevedibilità è stata ritenuta espressione di mero conformismo e come ostacolo all'adeguamento della giurisprudenza ai cambiamenti della società, non considerando le esigenze di certezza che assicura e il costo su diversi versanti che deriva dal cambiamento non ponderato di indirizzi giurisprudenziali.
Non c'è dubbio che una giurisprudenza statica e insensibile alle sollecitazioni che vengono dall'evoluzione della comunità non avrebbe consentito gli approdi della tutela aquiliana del credito, del danno biologico e della tutela della persona, per citarne alcuni, per cui è necessario trovare un non facile punto di equilibrio e, per dirla con Pietro Curzio, "l’ordinamento deve lasciare spazio all’evoluzione della giurisprudenza", ma "le ragioni per il cambiamento devono essere forti, consapevoli e convincenti. Devono essere in grado di prevalere sulle ragioni della stabilità, che sono a loro volta importanti e hanno implicazioni di ordine costituzionale".
Da un lato, quindi, non si possono ignorare le “ragioni della stabilità” imposte da esigenze di garanzia e dalla necessità di assicurare l’uguaglianza dei cittadini, nonché dall'obiettivo di porre ciascuno nella condizione di indirizzare la propria condotta valutandone preventivamente le eventuali conseguenze.
Dall'altro, però, si deve tenere conto anche delle "ragioni del cambiamento", in quanto l'inarrestabile evoluzione della giurisprudenza è linfa vitale della democrazia e, come rilevato da Paolo Grossi, bisogna evitare che la prevedibilità del diritto sia strumentale a "garantire la impietosa disuguaglianza fra ricchi e poveri".
La geografia delle nuove diseguaglianze, alimentata anche dalla pandemia, investe diversi ambiti, dal mondo del lavoro, profondamente cambiato anche nelle dinamiche sindacali, investito da una precarizzazione strutturale vestita dei panni di un preteso dinamismo del mercato, alla categoria dei risparmiatori, impreparati e disorientati dal mercato finanziario in un contesto in cui la asimmetria informativa assume proporzioni straordinarie.
L'art. 3 Cost. si rivolge a tutte le Istituzioni compresa la Magistratura e la Costituzione, come ricorda Calamandrei, non è immobile, è rinnovatrice e mira alla trasformazione della società.
Contemperare le ragioni del cambiamento con quelle della stabilità è un obiettivo non agevole e nella sua declinazione concreta deve confrontarsi con la realtà, evitando di creare o alimentare il rischio di un dualismo tra giudici di merito e giudici di legittimità che vada al di là di quello funzionale, di una divaricazione tra diritto libero e verticalismo.
La distinzione solo per funzioni tra i giudici fissata dai Padri costituenti e l'orizzontalità ordinamentale che ne deriva fanno sì che il rapporto fra giudice di merito e giudice di legittimità sia quello della leale cooperazione, anche al di là del circuito delle impugnazioni, e che Antonio Ruggeri ritiene indispensabile per perseguire il miglior risultato possibile per le parti che sono davanti al giudice.
Peraltro, non può non tenersi conto della circostanza che la produzione giurisprudenziale della Suprema Corte ha raggiunto numeri incredibili e parallelamente la sua diffusione è divenuta sempre più rapida e aggiornata praticamente in tempo reale.
E questo è certamente una grande conquista in funzione dello scambio di informazioni ed è una preziosa risorsa che arricchisce la conoscenza, consentendo ai giudici di merito di disporre di indirizzi giurisprudenziali aggiornati, ai quali si aggiungono i dati sulle pronunce di merito che parimenti affollano i canali di informazione costituiti anche da chat e mailing list.
Il timore, però, è dato dal fatto che, per una singolare eterogenesi dei fini, la disponibilità di una così vasta produzione giurisprudenziale potrebbe alimentare la pigrizia dei giudici di merito, interessati più alla ricerca del precedente, soprattutto di legittimità, calzante alla decisione della controversia che alla fisiologica elaborazione di un più faticoso percorso di studio e di approfondimento propedeutico alla decisione e che, soltanto dopo, si confronti con l'indirizzo del giudice di legittimità.
Ne verrebbero fuori un sostanziale appiattimento della giurisprudenza e il suo impoverimento quali-quantitativo, innescando un circolo vizioso destinato a ripercuotersi negativamente anche sulla Suprema Corte, che sarebbe privata degli stimolanti contributi provenienti dai giudici di merito in relazione ai quali si formano e si consolidano gli orientamenti del giudice di legittimità.
Temo che non sia una preoccupazione infondata, anche perché una sollecitazione alla scorciatoia del recepimento acritico dei precedenti può essere alimentata dai carichi di lavoro spesso assai gravosi se non quando insostenibili e alla conseguente indisponibilità di tempi adeguati a un ponderato esame di ogni questione, anche in vista di un'eventuale motivata e critica non condivisione del precedente.
Sotto altro profilo va considerato che l’accelerazione verso l'immediatezza della decisione della Corte di legittimità, per l’autorevolezza formale e sostanziale che riveste, ha come controindicazione, della quale occorre tener conto, la riduzione dei contributi provenienti dai giudici di merito che non fanno neppure in tempo a formarsi.
Così, anche la decisione della Corte di Cassazione non segue sempre a un fecondo dibattito da parte dei giudici di merito che nella pronuncia di ultima istanza trova la sua composizione ponderata, ma obbedisce maggiormente alla necessità di una risposta urgente viepiù sollecitata dal frenetico e non sempre coerente divenire della legislazione sostanziale e soprattutto processuale.
Ma la prevedibilità del diritto e una nomofilachia completa non possono non tenere conto della necessità di assicurare il medesimo obiettivo anche nell’ambito della giurisdizione di merito, in cui naturalmente hanno connotazioni diverse ma obbediscono a esigenze analoghe.
Lo ha ricordato la Presidente Cassano, e Giovanni Canzio parla, al riguardo, di nomofilachia orizzontale o circolare, promossa dai giudici di merito in quanto i primi a confrontarsi con la fluidità sociale e che torna agli stessi giudici che verificano le ricadute della giurisprudenza di legittimità.
Presupposto di questo meccanismo virtuoso è la circolarità della giurisprudenza e l'ordinamento appresta uno strumento apposito disciplinato dall'art. 47 quater dell'Ordinamento giudiziario che tra i vari compiti del presidente di sezione delinea quello di curare lo scambio di informazioni sulle esperienze giurisprudenziali all’interno della sezione.
Si tratta di una disposizione dalle potenzialità enormi che sollecita informazione e confronto e chiama tutti i protagonisti a un impegno di responsabilità non già per conseguire il conformismo della giurisprudenza ma per acquisire consapevolezza di eventuali contrasti e promuovere la ricerca di soluzioni interpretative condivise, così realizzando per quanto possibile la prevedibilità delle decisioni.
Non va trascurato che la prevedibilità delle decisioni riduce la quantità della domanda di giustizia e consente maggiore possibilità di approfondimento anche in funzione di sottoporre a revisione critica orientamenti consolidati e così stimolare l'affinamento della qualità della Giustizia.
E al tempo stesso consegna certezza alla collettività sul diritto vivente, aumentando la fiducia nella Magistratura alla quale è chiesto un impegno sempre più arduo nella tutela dei diritti e, in particolare, di quelli fondamentali.
Credo che sia sempre attuale l'insegnamento di Stefano Rodotà secondo cui i temi di una vita sono i diritti, quelli individuali e sociali perché è da quelli che si misura la qualità di una società.
*Intervento nell'ambito del convegno di studi organizzato dalla Corte dei Conti "Giustizia al Servizio del Paese", Palermo 13 ottobre 2023.
(Immagine: Hans von Aachen, Giustizia e Pace, inchiostro e sanguigna su carta, 1604, Museo Nazionale di Danzica)
«La civiltà dei popoli si misura non tanto dalla bontà delle leggi che li reggono, quanto dal grado di indipendenza raggiunto dagli organi che queste leggi sono chiamati ad applicare»
PIERO CALAMANDREI, Governo e magistratura, Siena, 2021, 7
Sommario: 1. I progetti di riforma costituzionale volti a separare la carriera della magistratura giudicante da quella requirente - 2. Essi contengono, soprattutto, ulteriori modificazioni dell’ordine giudiziario di particolare allarme. Analisi di queste altre proposte di riforma - 3. Prima ulteriore proposta: la modifica della composizione dei membri del CSM - 4. Seconda ulteriore proposta: l’abolizione del principio secondo il quale i magistrati si distinguono soltanto per funzioni - 5. Segue: la normativa e gli orientamenti che già oggi derogano a questo fondamentale principio costituzionale - 6. Terza ulteriore proposta: la riscrittura dell’art. 106, 3° comma Cost. e il venir meno della regola secondo la quale l’accesso alla magistratura ordinaria si dà solo per concorso pubblico - 7. I limiti di tali proposte di riforma - 8. Segue: i limiti alla revisione costituzionale e l’impossibilità di compromettere il principio di indipendenza della magistratura - 9. Segue: i limiti in base ai nostri valori repubblicani.
1. I progetti di riforma costituzionale volti a separare la carriera della magistratura giudicante da quella requirente
Sono in discussione da qualche anno in Parlamento più disegni di modifica della nostra Carta costituzionale sulla possibilità di separare la carriera dei magistrati giudicanti da quella dei magistrati requirenti.
A questi progetti è stato dato il nome di Norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura.
Vi sono, infatti, sul tavolo, più proposte di revisione della costituzione: in tal senso possono essere ricordati i progetti A.A.C. 23, 434, e 824, che presentano testi identici, e poi la proposta A.C. 806, che presenta, rispetto a quelle, solo piccole differenze.
Tutte queste proposte prevedono di separare le carriere della magistratura giudicante da quella requirente.
Gli A.A.C. 23, 434, e 824 riproducono integralmente il testo dell’A.C. 14 della XVIII legislatura di iniziativa popolare, e si tratta di un progetto che fu esaminato dalla Commissione affari costituzionali a partire dal febbraio del 2019; le ultime proposte di riforma sono invece del gennaio 2023.
Tutte queste proposte prevedono:
a) la separazione formale dell’ordine giudiziario nelle due categorie della magistratura giudicante e della magistratura requirente, con previsione di distinti concorsi per l’accesso in esse;
b) e conseguentemente due diversi organi di autogoverno della magistratura, uno per la magistratura giudicante e uno per la magistratura requirente.
Si prevede, infatti, una modifica dell’art. 104 Cost. che andrebbe ad affermare che: “L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente”; e si prevede conseguentemente un: “Consiglio superiore della magistratura giudicante” e poi, art. 105 bis Cost. un “Consiglio superiore della magistratura requirente”; e infine l’art. 106 Cost. asserirebbe che: “Le nomine dei magistrati giudicanti e requirenti hanno luogo per concorsi separati”.
In questo modo, la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, da tempo da molti pretesa, si realizzerebbe in modo pieno, e senza alcun equivoco o mezza misura.
A ciò si aggiunga che i progetti di riforma in questione pretendono di modificare altresì l’art. 112 Cost. sull’obbligatorietà dell’azione penale, con un testo che disporrebbe per il futuro che: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nei casi e nei modi previsti dalla legge”.
Non solo così il pubblico ministero sarebbe in futuro un magistrato separato all’interno dell’ordinamento giudiziario, ma anche non avrebbe più la determinazione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale, le quali passerebbero nelle mani della politica, ovvero del Parlamento (rectius: del Governo), che farebbe (magari di anno in anno) una legge per stabilire quali siano i reati da perseguire con priorità e quali viceversa da collocare in lista di attesa.
Piero Calamandrei, nel 1921, scriveva che: «Dire da un lato che la giustizia è indipendente dalla politica, e dall’altra lasciare al governo la facoltà di decidere se la giustizia debba seguire il suo corso; affermare da una parte che la legge è uguale per tutti, e dall’altra lasciare al potere esecutivo la facoltà di farla osservare soltanto nei casi in cui ciò non dispiaccia al partito che è al governo, è tale un controsenso che non importa spendervi su molte parole per rilevarne tutta la enormità».
Evidentemente, dopo cento anni, siamo sempre al medesimo punto.
2. Essi contengono, soprattutto, ulteriori modificazioni dell’ordine giudiziario di particolare allarme. Analisi di queste altre proposte di riforma
Personalmente, mi sia consentito ricordare che fin dalla stesura della prima edizione del mio manuale di Ordinamento giudiziario, ovvero venti anni fa, nel 2004, presi posizione contro la separazione delle carriere, addirittura, provocatoriamente, definendo i pubblici ministeri “giudici requirenti” (pag. 155).
Negli anni, non ho poi avuto modo di mutare questa mia posizione, che anzi ho ribadito anche in un più recente saggio apparso su www.judicium.it del 9 novembre 2017, Contro la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici.
Ma non è questo, al momento, il tema che mi preoccupa.
Al contrario, desidero evidenziare che sotto l’etichetta di una modifica che riguarderebbe la separazione delle carriere, in realtà oggi si profilano modifiche dell’ordine giudiziario di più vasta e più incisiva gravità, e che viceversa non emergono né nei titoli delle proposte di riforma, che continuano a definirsi solo Norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura, né nel dibattito pubblico.
Conviene allora rivolgere la nostra attenzione soprattutto a quelle, perché, sommessamente, le trovo preoccupanti.
3. Prima ulteriore proposta: la modifica della composizione dei membri del CSM
La prima è questa: i progetti di riforma menzionati intendono modificare la composizione dei membri del CSM rispetto a quella esistente, e dispongono che il rapporto tra membri togati e membri laici non dovrà più essere quello di 2/3 di membri togati e un 1/3 di membri laici, così come stabilirono i nostri costituenti nel 1947, ma dovrà trasformarsi invece in un rapporto di parità, ovvero metà dei membri dovranno essere nominati tra i magistrati ordinari secondo criteri fissati dalla legge, e l’altra metà dovrà al contrario comporsi di avvocati e professori universitari nominati dal Parlamento (oppure dal Parlamento e dal Presidente della Repubblica nella misura di ¼ ciascuno).
Al riguardo, infatti, si propone di modificare l’art. 104 Cost., che al 4° comma andrebbe a statuire che: “Gli altri componenti (del CSM giudicante) sono scelti per metà tra i giudici ordinari con le modalità stabilite dalla legge, e per l’altra metà dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo quindici anni di esercizio”; parimenti il nuovo art. 105 bis Cost. sul CSM requirente disporrebbe che: “Gli altri componenti sono scelti per metà tra i pubblici ministeri ordinari con le modalità stabilite dalla legge e per l’altra metà dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo quindici anni di esercizio”.
È evidente che se la maggioranza dei membri del CSM è togata, è possibile considerare l’amministrazione della giurisdizione distanziata dall’attività politica; ma se al contrario i membri laici saranno in parità di numero rispetto ai togati, è vice-presidente resterà egualmente un membro laico, va da sé che gli equilibri dell’organo non saranno più gli stessi, e l’idea dei nostri costituenti di una amministrazione della giurisdizione non subordinata alla classe politica, se non ai governanti di turno, andrà persa.
L’incidenza della politica sulla giurisdizione, così, potremmo dire, si istituzionalizzerebbe, ed entreremo in questo modo in una nuova fase costituzionale della magistratura.
4. Seconda ulteriore proposta: l’abolizione del principio secondo il quale i magistrati si distinguono soltanto per funzioni
La seconda importante novità, contenuta anch’essa in tutti i progetti di riforma qui a commento, è la soppressione del 3° comma dell’art. 107 Cost.
Quella disposizione recita, come è noto, che: “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”.
Si tratta di un momento essenziale dell’organizzazione della magistratura, volto a significare che tutti i giudici sono eguali fra loro, e sono soggetti soltanto alla legge, e che quindi la magistratura, come da più parti negli anni è stato sostenuto, costituisce funzione diffusa, priva di strutture gerarchiche.
Nelle schede di lettura su tale intervento predisposte dalla Camera dei Deputati a pag. 24 si legge che: “La modifica appare consequenziale rispetto alla separazione formale dell’ordine giudiziario nelle due categorie della magistratura giudicante e della magistratura requirente”.
Certamente questa contrapposizione sarà la prima che caratterizzerà i magistrati se si arriverà ad una simile riforma; tuttavia questa contrapposizione non dovrebbe egualmente impedire che i vari magistrati, ognuno nel proprio ordine, continuino poi però a distinguersi solo per diversità di funzioni.
Se si arriva, invece, all’abrogazione integrale del 3° comma dell’art. 107 Cost. senza nient’altro specificare, pare evidente che la novità può essere non solo funzionale alla nuova contrapposizione tra magistratura giudicante e requirente, ma anche idonea ad incidere sulla struttura e l’organizzazione delle due magistrature, con il rischio che a questo punto tutti gli ordini giudiziari, giudicanti o requirenti che siano, perdano il modello di magistratura diffusa fino ad oggi avuto, e si assimilino così, puramente e semplicemente, alle altre pubbliche amministrazioni.
5. Segue: la normativa e gli orientamenti che già oggi derogano a questo fondamentale principio costituzionale
Il tema, sia consentito, è di particolare delicatezza, poiché l’idea di immaginare una gerarchia nell’esercizio della funzione giurisdizionale, e di limitare la libertà dei singoli giudici di interpretare la legge, è purtroppo una realtà che già esiste; e se il valore costituzionale secondo il quale i giudici si distinguono solo per funzioni verrà meno, allora davvero si potrà immaginare un ordine giudiziario futuro con dei giudici sovra-ordinati e dei giudici sotto-ordinati, con dei giudici di serie A e altri giudici di serie B; e la novità costituzionale non inciderebbe più, solo e soltanto, sull’art. 107, 3° comma Cost., bensì anche, conseguentemente, sull’art. 101, 2° comma Cost., secondo il quale: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”; e lo scadimento del 2° comma dell’art. 101 Cost. potrebbe infine, fuori da ogni retorica, incidere altresì, a mio sommesso parere, su lo stesso 1° comma della medesima disposizione costituzionale, e per la quale “La giustizia è amministrata in nome del popolo”.
Sia consentito ricordare la situazione già oggi esistente.
a) Una prima tendenza a gerarchizzare l’attività del giudice la troviamo nella legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario 17 giugno 2022 n. 71, che ha rafforzato i poteri dei capi degli uffici, prevedendo che la loro carriera dirigenziale sia subordinata alla acquisizione di competenze manageriali, alla capacità di analisi ed elaborazione dei dati statistici, e alla capacità di dare piena e completa attuazione a quanto indicato nel progetto organizzativo, ed inoltre ha disposto che ai fini della valutazione della professionalità di ogni singolo magistrato, oltre alla valutazione di produttività e laboriosità, va dato un giudizio con riferimento ad un fascicolo personale contenente i dati statistici, nonché possibili gravi anomalie in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento o del giudizio.
b) Un’altra tendenza, che si è andata via via nel tempo rafforzando, è quella per la quale l’interpretazione della legge spetta solo alla magistratura di vertice, ovvero alla Corte di Cassazione, e non a tutti i giudici; ed infatti: ba) i giudici di merito, a fronte di una nuova questione, non possano liberamente interpretare la legge ma devono (preferibilmente) rimettere la questione alla Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 362 bis c.p.c.; bb) i giudici non hanno parimenti (preferibilmente) la libertà di interpretare la legge secondo Costituzione o secondo la normativa comunitaria, ma sono invece tenuti a sollevare questioni di costituzionalità dinanzi alla Corte costituzionale o pregiudiziali comunitarie dinanzi alla CGUE; bc) e soprattutto, è opinione diffusa che il principio di nomofilachia si sia trasformato in una sorta di stare decisis di natura anglosassone, con (preferibilmente) obbligo dei giudici di merito di attenersi agli indirizzi della Corte di Cassazione senza niente osservare.
c) Una terza tendenza è quella di immaginare che il Ministro della Giustizia possa superare i limiti di cui all’art. 110 Cost. ovvero possa occuparsi non solo dei servizi attinenti alla giustizia, bensì proprio di taluni aspetti dell’esercizio della funzione giurisdizionale (per questo mi permetto di rinviale al mio Brevi note sul dimenticato art. 110 Cost., in questa rivista, ottobre 2023), in questo modo, inevitabilmente, e in una certa misura, consentendo al Ministero stesso di vigilare e contribuire alle modalità di esercizio della funzione giudiziaria.
L’abolizione del 3° comma dell’art. 107 Cost. può costituire legittimazione e rafforzamento di tutte queste tendenze, capaci di modificare la natura e la struttura della nostra magistratura.
6. Terza ulteriore proposta: la riscrittura dell’art. 106, 3° comma Cost. e il venir meno della regola secondo la quale l’accesso alla magistratura ordinaria si dà solo per concorso pubblico
La terza novità concerne la modifica dell’art. 106, 3° comma Cost., che andrebbe a disporre che: “La legge può prevedere la nomina di avvocati e di professori ordinari universitari a tutti i livelli della magistratura giudicante”.
Si ricorda che il 3° comma dell’art. 106 Cost. prevede invece che: “Su designazione del CSM possono essere chiamati all’ufficio di consigliere di cassazione per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni di esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori”, e la materia è disciplinata nel dettaglio dalla legge 5 agosto 1998 n. 303.
Le differenze tra un testo e l’altro sono evidenti: ca) nel primo caso il potere di inserire in magistratura soggetti aspiranti fuori concorso è affidato al CSM, nel secondo caso viene invece trasferito alla legge, che evidentemente potrà regolare il fenomeno in modo del tutto discrezionale, non essendo fissati in Costituzione criteri per ciò; cb) nel primo caso si tratta di accedere solo presso la Corte di cassazione, mentre ora si immagina che il fenomeno possa estendersi a tutti i livelli della magistratura giudicante; cc) nel primo caso la condizione per accedere senza concorso alla magistratura è quella di aver conseguito meriti insigni, mentre oggi pare che ogni professore e ogni avvocato, anche senza meriti insigni e senza anzianità particolare, possa accedere ad ogni tipo di magistratura.
Si comprende non solo, così, come l’istituto sia stato totalmente snaturato, ma anche come vi sia in questo modo il rischio che in magistratura possano accedere soggetti privi di idonea formazione, fuori da ogni logica concorsuale, e fuori da ogni controllo del CSM.
E soprattutto può esservi il rischio, se si esce dalla logica del concorso pubblico, che vi siano un domani dei magistrati che debbano dire grazie a qualcuno per essere diventati tali.
7. I limiti di tali proposte di riforma
Alla luce di tutto questo non si tratta allora, a mio parere, di discutere se sia giusto o meno separare la carriera giudicante da quella requirente, si tratta di domandarsi che fine possa fare il nostro ordine giudiziario si dovessero approvare riforme di questo genere.
Nel nostro sistema costituzionale i tre cardini sui quali poggia il principio di separazione dei poteri e di indipendenza della magistratura sono quelli:
a) di avere un organo di amministrazione della giurisdizione il quale, seppur non composto di soli magistrati, sia comunque indipendente dal potere politico;
b) di avere una magistratura ordinaria alla quale si accede solo per concorso pubblico;
c) e infine di avere una magistratura soggetta solo alla legge, strutturata in modo non gerarchico, e distinta al proprio interno esclusivamente in base alla funzioni svolte.
Se queste tre caratteristiche vengono meno, la stessa idea di magistratura quale corpo che si distingue dalle altre amministrazioni dello Stato viene meno.
E io credo che una rivoluzione costituzionale di questo genere, che disegnerebbe un’altra magistratura rispetto a quella che fino ad oggi abbiamo avuto, non solo sia programma che abbiamo il dovere di osteggiare, ma anche, più radicalmente, costituisca una novità impedita nel nostro sistema repubblicano.
Ed infatti, giova ricordare, ci sono riforme della Costituzione che si possono fare, e riforme della Costituzione che non si possono fare; non tutto può essere oggetto di revisione costituzionale.
Non è forse inutile, dunque, aprire una parentesi per ricordare i limiti di revisione della nostra Carta costituzionale.
8. Segue: i limiti alla revisione costituzionale e l’impossibilità di compromettere il principio di indipendenza della magistratura
Ed infatti, seppur l’art. 139 Cost. reciti solo che: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”, nessun costituzionalista ha mai pensato che fuori da questo limite tutto il resto possa essere modificato.
È evidente che in Assemblea costituente, appena usciti dalla guerra e dal fascismo, la paura del ritorno alla monarchia era forte, e questo giustificava la disposizione di cui all’art. 139 Cost., voluta tanto dalle sinistre (Togliatti), quanto dai cattolici (Dossetti, Moro).
Ma già in Assemblea giuristi di primo piano quali Piero Calamandrei sottolineavano come la rigidità della Costituzione non potesse ridursi al solo impedire il ritorno della monarchia, e doveva invece necessariamente estendersi alla immutabilità dei valori fondamentali della Repubblica e delle disposizioni relative ai diritti di libertà.
E così, facendo seguito alla presa di posizione di Piero Calamandrei, Lodovico Sforza Benvenuti sottoponeva all’Assemblea plenaria del 3 dicembre 1947, un art. 130 bis, che recitava: “Le disposizioni della presente Costituzione che riconoscono e garantiscono diritti di libertà, rappresentando l’inderogabile fondamento per l’esercizio della sovranità popolare, non possono essere oggetto di procedimenti di revisione costituzionale, tendenti a misconoscere o a limitare tali diritti, ovvero a diminuirne le guarentigie”.
L’articolo, seppur condiviso nella sostanza da tutti, non trovava tuttavia approvazione per ragioni formali, atteso che taluni sostenevano che la norma potesse essere fonte di dispute e dubbi interpretativi.
Ad ogni modo nessuno in Assemblea costituente metteva in dubbio che i diritti di libertà della persona e i principi fondamentali della Repubblica potessero essere oggetto di revisione costituzionale; ed in particolare ciò veniva sottolineato con forza in un importante intervento da Paolo Rossi.
Il tema della revisione costituzionale si rendeva poi, evidentemente, materia di dibattito dottrinale, nonché oggetto di decisione da parte della Corte Costituzionale.
Già Costantino Mortati poneva la differenza tra limiti espressi e limiti impliciti, e altri giuristi sostenevano parimenti che il limite di revisione della forma repubblicana implicasse inevitabilmente l’interpretazione del valore da dare al termine “repubblica”, dovendo esso essere necessariamente comprensivo dell’intero impianto fondamentale del sistema costituzionale.
Si sosteneva, inoltre, che questi limiti impliciti potessero poi dividersi tra limiti impliciti materiali, se ricavabili dal testo formale di altre disposizioni della carta costituzionale, e limiti impliciti sistematici, non ricavabili direttamente da specifiche norma ma desumibili dai principi fondamentali irrinunciabili della nostra organizzazione statuale libera e democratica, ovvero ancora da “quei diritti i quali, pur non essendo esplicitamente menzionati nella costituzione, risultano implicitamente tutelati sulla base del sistema di valori che essa fa proprio” (Pizzorusso).
D’altronde, sarà poi questa la posizione della Corte costituzionale, per la quale: “La costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana, quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” (così Corte Cost. 29 dicembre 1988 n. 1146).
Tra questi valori fondamentali, o “valori supremi”, non può non essere ricompreso quello della divisione dei poteri, che già infatti era stato indicato come non rivedibile in Assemblea costituente da Piero Calamandrei e Lodovico Sforza Benvenuti.
9. Segue: i limiti in base ai nostri valori repubblicani
Possiamo concludere con una affermazione del tutto evidente e del tutto scontata: il nostro sistema costituzionale non può fare a meno di un suo pilastro fondamentale quale quello dell’indipendenza della magistratura.
Se nel periodo del fascismo l’amministrazione della giustizia fu, come in tutti i regimi totalitari, controllato e diretto dalle forze di Governo, la nostra Repubblica, uscita da quella esperienza, doveva, e deve ancor oggi, in modo del tutto immutato, avere necessariamente dei giudici indipendenti dal Governo; e per avere veramente dei giudici indipendenti dal Governo “non basta liberarli dal timore che il loro atteggiamento di ribellione contro gli intrighi politici possa in qualche modo danneggiarli, ma bisogna altresì togliere loro ogni speranza che un atteggiamento servile ed inchinevole possa giovare alla loro carriera futura.” (Calamandrei).
Tornare viceversa ad un sistema che richiami il passato, ove l’influenza della politica, e quindi del Governo, sulla magistratura si faccia sentire, è rivoluzione costituzionale da ritenere impossibile, qualcosa che si pone non solo in contrasto con la lettura sistematica dell’art. 139 Cost., bensì anche, e tutt’assieme, con i valori della nostra vita democratica.
E non si tratta, al riguardo, di avere opinioni di destra oppure di sinistra; le prime proposte di riforma del Titolo IV della nostra Costituzione, infatti, furono avanzate nel 2019 da forze politiche di centro sinistra, mentre le ultime, di questo anno 2023, sono state presentate da forze politiche di centro destra: è possibile in questo modo constatare, con una certa delusione, la convergenza di tutte le forze politiche in argomento.
Contro questi progetti, di destra o di sinistra che siano, dobbiamo opporre il principio irrinunciabile della separazione dei poteri e ricordare in modo netto, secondo un motto della filosofia illuminista, che difendere l’indipendenza della magistratura non significa difendere i giudici (con, alle volte, le loro arroganze nella gestione quotidiana della vita giudiziaria): significa difendere la democrazia dello Stato, significa custodire la libertà di tutti i cittadini: perché nessun avvocato avrà una funzione nel processo se il giudice che gli sta di fronte non avrà l’indipendenza del decidere, nessuno cittadino sarà mai libero se non saranno liberi i giudici, nessuno Stato potrà definirsi democratico se il suo governo pretenda di incidere nello svolgimento della funzione giurisdizionale.
Intervento tenuto il 16 novembre 2023, in Siena, nell’Aula magna del Rettorato, in occasione del convegno Il modello costituzionale di giudice alla luce delle prospettive di riforma, organizzato per il commiato da Siena del Presidente del Tribunale Cons. dr. Roberto Carrelli Palombi.
Dei comportamenti della P.A. che costituiscono inottemperanza al dictum giurisdizionale: l’effetto conformativo del giudicato e la sua elusione (nota a Consiglio di Stato, Sezione Seconda, 22 maggio 2023 n. 5072)
di Silvia Casilli
Sommario: 1. Premessa: i fatti di causa e il ricorso al Consiglio di Stato – 2. Sulla natura e sul margine di cognizione del giudizio di ottemperanza – 3. Comportamenti della PA che costituiscono inottemperanza al giudicato e silenzio assenso – 4. Il decisum della Sezione Seconda: l’elusione del giudicato.
1. Premessa: i fatti di causa e il ricorso al Consiglio di Stato.
Con la sentenza n. 5072/2023, la Seconda Sezione del Consiglio di Stato si è pronunciata sul duplice aspetto della formazione del silenzio assenso nonché sui comportamenti della Pubblica Amministrazione che costituiscono inottemperanza al giudicato e, di conseguenza, sul margine di cognizione nel giudizio di ottemperanza.
Se quanto al primo profilo la Sezione ha sposato la teoria, già sostenuta da parte della giurisprudenza[1], che ammette il silenzio significativo anche laddove l’attività oggetto del provvedimento (tacito) sia priva dei requisiti di validità, non sono ravvisabili invece precedenti nei medesimi esatti termini quanto alla perimetrazione, che effettua il Collegio, del concetto di inottemperanza al giudicato rispetto al caso di specie; si legge, infatti che “deve ritenersi inottemperante il comune che, dopo essere rimasto inerte per anni, riavvia da capo l’istruttoria di un procedimento, senza tenere conto né delle precedenti produzioni documentali, né delle risultanze processuali”, confermando così la sentenza in commento l’indissolubile legame tra comportamenti parzialmente esecutivi del giudicato, che ne costituiscono sostanzialmente un’elusione, e inottemperanza.
La vicenda contenziosa trae origine dal ricorso al Tar Lazio con il quale il ricorrente impugnava, oltre alla disposizione dirigenziale con la quale il comune di Roma rigettava l’istanza di condono in relazione al parziale cambio di destinazione d’uso (da magazzino a negozio) di un locale, anche l’ingiunzione a demolire, nonché l’intimazione a non proseguire le attività commerciali esercitate in loco.
Avendo il Tar respinto[2] il ricorso ed essendo stata appellata la decisione, il Consiglio di Stato[3] accoglieva l’appello e annullava gli atti avversati, sancendo la convenienza, piuttosto che la doverosità, dell’applicabilità del regime delle sanatorie alla modifica di destinazione d’uso senza opere, ben potendo l’interessato adibire l’immobile ad esercizio commerciale vista la sua insistenza in una zona omogenea che ammetteva la presenza tanto di negozi quanto di magazzini. In particolare, la sentenza affermava che il ricorrente, al fine di ottenere la legittimazione postuma del proprio intervento, avrebbe potuto attingere, oltre che alla invocata disciplina del condono di cui all’art. 32 d.l. n. 326/2003 (scelta giustificata in via presuntiva in quanto più vantaggiosa economicamente), anche al paradigma dell’accertamento di conformità[4] di cui agli artt. 7 l.r. n. 36/1987 e 36 d.P.R. n. 380/2001[5].
Il ricorrente, pertanto, a fronte dell’inerzia degli uffici, diffidava reiteratamente il Comune ad avviare e concludere il procedimento di rilascio del condono, promuovendo poi, in data 8 novembre 2022, ricorso per l’ottemperanza della pronuncia del Consiglio di Stato chiedendone l’esecuzione, se del caso, mediante la nomina di un commissario ad acta.
Il Comune di Roma si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso e, in ogni caso, eccepiva la prescrizione di quanto eventualmente preteso a titolo indennitario, risarcitorio e/o di ristoro di qualsiasi natura. Successivamente veniva prodotta relazione dell’ufficio competente in materia di condoni nella quale, a giustificazione del ritardo nell’avvio della riedizione del potere, si invocavano le problematiche organizzative connesse alla pandemia da COVID 19, nonché, più di recente, l’impossibilità di accedere ai locali-archivio delle pratiche protrattasi dal 22 aprile 2021 al 5 aprile 2022. Veniva poi versata in atti ulteriore nota con la quale si dava finalmente notizia del “riavvio” dell’iter istruttorio, ribadendo tuttavia l’incertezza degli esiti, sull’assunto che la sentenza ottemperanda non avrebbe attinto al contenuto della propria futura valutazione.
Infine, in data 22 marzo 2023, a riprova del preannunciato riavvio della pratica, veniva prodotta la comunicazione inoltrata al ricorrente via PEC il 20 gennaio 2023 di richiesta di copiosa documentazione integrativa, atta anche a dimostrare l’epoca di realizzazione e la consistenza dell’abuso, significando la necessità della sua produzione esclusivamente tramite il sistema informatico dedicato accessibile dall’apposita piattaforma.
La Sezione Seconda del Consiglio di Stato, adita per l’ottemperanza, ha ritenuto, con la sentenza in commento, fondata la domanda del ricorrente.
Nell’accogliere il ricorso, i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto opportuno soffermarsi su due aspetti principali, che costituiscono i punti nevralgici della pronuncia: l’obbligo di eseguire il giudicato e la relativa discrezionalità in capo all’amministrazione (aspetto questo che implica la necessità di volgere lo sguardo al margine di cognizione presente nel giudizio di ottemperanza); il rapporto tra l’obbligo di dare ottemperanza alla sentenza ed il tardivo avvio di un procedimento sottoposto al regime del silenzio assenso al fine di appurare se l’avvio tardivo possa essere equiparato alla doverosa ottemperanza o se, invece, concretizzi un’elusione del giudicato.
Si rende pertanto necessario, al fine di comprendere pienamente la portata del decisum, inquadrare dapprima tali aspetti.
2. Sulla natura e sul margine di cognizione del giudizio di ottemperanza.
Il Collegio esordisce con una premessa ben chiara: l’Amministrazione è sempre tenuta ad eseguire il giudicato, obbligo cui non può venir meno per nessuna ragione di opportunità amministrativa o di difficoltà pratica[6].
Il giudizio di ottemperanza, infatti, rappresenta un rimedio, espressione dei principi di effettività e concentrazione della tutela giurisdizionale, posto a disposizione del privato che voglia ottenere da parte dell’amministrazione soccombente l’attuazione del favorevole giudicato di cognizione. Il sistema di esecuzione delle sentenze e dei titoli esecutivi contemplati dall’art. 112 c.p.a. è ispirato ad un duplice modello, surrogatorio e compulsorio, volto a consentire la piena attuazione di quelle sentenze[7] di cui non venga data spontanea esecuzione ex art. 33 comma 2 c.p.a.
Si tratta di uno dei pochi casi in cui la giurisdizione è estesa al merito[8], potendosi il giudice dell’ottemperanza, nel caso di perdurante inerzia della PA, sostituire a questa, adottando il provvedimento anche nei casi di massima discrezionalità.
L’art. 112 c.p.a. prevede, infatti, che l'azione di ottemperanza possa essere proposta per conseguire l'attuazione tanto delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato, quanto delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo.
L’art. 114, poi, precisa i poteri che il giudice può esercitare in tale sede – pur potendosi desumere questi già implicitamente dall’art. 134 comma 1 lett. a) che attribuisce al giudice amministrativo la giurisdizione con cognizione estesa al merito – statuendo che “il giudice, in caso di accoglimento del ricorso: a) ordina l'ottemperanza, prescrivendo le relative modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o l'emanazione dello stesso in luogo dell'amministrazione; b) dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato; c) nel caso di ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti, determina le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvede di conseguenza, tenendo conto degli effetti che ne derivano; d) nomina, ove occorra, un commissario ad acta; e) salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo”.
L’Amministrazione è dunque sempre tenuta ad eseguire il giudicato ed ha al riguardo discrezionalità solo in odine al quomodo; la pronuncia chiarisce[9] infatti che nessuna discrezionalità sussiste in relazione all’an e al quantum. Ed è proprio la discrezionalità quanto al quomodo che esige di prendere in considerazione la natura (anche) di cognizione del giudizio di ottemperanza: l’esecuzione del giudicato si scontra, sì, con il limite invalicabile dello stesso – che rende ontologicamente estraneo all’alveo dei giudizi de quibus il riesame di questioni già definite in maniera compiuta – ma al contempo non può prescindere dal contenuto concreto della sentenza da ottemperare, implicando necessariamente un margine di cognizione intrinseco condizionato dallo sviluppo motivazionale della pronuncia ottemperanda.
La natura del giudizio di ottemperanza è stata a lungo ritenuta controversa, soprattutto quanto alla possibilità che esso serva anche a completare l’accertamento giudiziale che ha avuto il suo esito nel giudizio di cognizione[10].
L’opinione prevalente, che trova conferma nell’opera di codificazione legislativa del 2010, riconosce un profilo anche di cognizione e non di sola mera esecuzione del giudizio di ottemperanza. Il c.p.a. ha preso infatti esplicita posizione sulla natura mista del giudizio di ottemperanza, ponendo, anche se in qualche misura solo parzialmente, la parola fine al dibattito che ha a lungo animato la dottrina e che ha tracciato una spaccatura tra coloro che, non ravvisando una reale differenza rispetto al giudizio di esecuzione civile (soprattutto in relazione alle obbligazioni di facere), escludevano qualsiasi attività cognitiva del giudice dell’ottemperanza[11] e chi, invece, attribuendo fondamentale importanza alla circostanza che tale facere consistesse nel riesercizio del potere amministrativo, rilevava la non assimilabilità dei due riti[12].
Oggi il codice accoglie una tesi intermedia tra le due, predicando la natura mista del giudizio di ottemperanza[13]; la stessa relazione al codice ha confermato che tale giudizio presenta fisiologici momenti di cognizione, ragion per cui si è ritenuto di poter consentire la concentrazione in esso di azioni cognitorie connesse, per evidenti ragioni di economia processuale.
Dall’interpretazione delle disposizioni del codice operata dall’Adunanza Plenaria[14] emerge un modello del giudizio di ottemperanza conforme alle ricostruzioni teoriche, di cui si è dato atto, offerte in passato dalla dottrina più influente; ed anzi, per alcuni commentatori[15] si potrebbe affermare che le novità del codice del processo avrebbero non solo confermato, ma addirittura rafforzato la teoria sulla natura complessa del giudizio di ottemperanza[16].
Posto allora che non può negarsi l’esistenza di un profilo di cognizione, permangono, tuttavia, diverse opinioni, circa natura, oggetto, poteri e vincoli di una siffatta cognizione[17].
È opportuno allora chiarire cosa si intenda per giudizio di cognizione[18]. In particolare, il giudizio di ottemperanza è un giudizio necessariamente di cognizione ed eventualmente di esecuzione, allorché si tratti di dare attuazione al giudicato del g.o., mentre diventa necessariamente di esecuzione ed eventualmente di cognizione, se a dover essere eseguita è la sentenza del g.a.
La diversità della formula si spiega con il fatto che nel primo caso il g.a. è tenuto a verificare e assicurare la rimozione dell’atto amministrativo dichiarato illegittimo dal g.o. solo incidenter tantum, stanti i limiti interni alla giurisdizione di quest’ultimo. Ne deriva che parte della cognitio è attribuita al giudice amministrativo dell’ottemperanza, chiamato a determinare in concreto le modalità di rimozione dell’atto. Diversamente, nel secondo caso, la statuizione contenuta in sentenza sarà più precisa e puntuale, con la conseguenza che si riduce la componente cognitiva limitata alla definizione della portata dell’obbligo di conformazione della p.a. Va tuttavia evidenziato che il g.a. non può mai integrare il giudicato del g.o., diversamente da quanto accade in relazione al giudicato del g.a.: in quest’ultimo caso, infatti, viene in rilievo il “giudicato a formazione progressiva”.
Quest’ultimo concetto è stato coniato proprio ad indicare la complementarietà tra le due sentenze integrate tra loro, pur conseguenti a distinti processi coordinati: quella da ottemperare e quella che ne definisce l’esecuzione.
Il Collegio, nella sentenza in commento, ripercorre e conferma lo scenario fino ad ora descritto.
È infatti un principio ormai consolidato in giurisprudenza quello in forza del quale il giudice dell’ottemperanza può arricchire, integrare e dettagliare le argomentazioni rede in sede di cognizione dagli organi della giustizia amministrativa[19]. Si parla non di sola esecuzione, bensì di attuazione in senso stretto (implicando così una cognizione)del contenuto del dictum giudiziale; attuazione – precisa la Seconda Sezione – purché evidentemente se ne ravvisi la necessità anche in funzione propulsiva del corretto operato della P.A., assicurando, sì, effettività alle tutele esperite, ma senza stravolgere né modificare il giudicato originario, né invadere competenze riservate alla discrezionalità amministrativa.
Tale modello di costruzione graduale del giudicato amministrativo trova conferma – come richiamano i giudici di Palazzo Spada – in un’importante pronuncia dell’Adunanza Plenaria[20] che non solo ne predica la compatibilità a livello eurounitario, ma afferma che proprio l’integrazione giurisdizionale delle pronunce conformative rese in sede di cognizione consente di “recuperare” eventuali difformità rispetto al diritto europeo[21]. In altre parole, l’ottemperanza diviene ulteriore luogo di adeguamento al diritto europeo, costituendo quella dell’esecuzione del giudicato sede idonea per garantire il rispetto del diritto eurounitario, in attuazione del principio che impone al giudice nazionale di adoperarsi per evitare la formazione (anche progressiva) di un giudicato contrastante con le norme di rango sovranazionale, cui lo Stato italiano è tenuto a dare applicazione.
Il giudizio di ottemperanza allora, su queste premesse, esige che il giudice effettui una triplice operazione[22]: interpretare il giudicato; accertare il comportamento tenuto dall’Amministrazione; valutarne, infine, la conformità alla regola giurisdizionale.
Nell’ambito di questa triplice azione, il giudice deve svolgere una prima operazione ermeneutica, ossia perimetrare in maniera esatta il contenuto della sentenza da eseguire[23]. È evidente allora l’ambito di cognizione, funzionale alla valutazione sulla sussistenza o meno del presupposto dell’inottemperanza.
La sentenza ottemperanda presenta infatti effetti sia ripristinatori (consistenti nell’obbligo per l’amministrazione di adeguare lo stato di fatto a quello di diritto) che conformativi in senso stretto[24]; ed è proprio alla luce di questi ultimi che va valutata l’eventuale inottemperanza. L’effetto conformativo del giudicato è diretto a vincolare la successiva attività dell’amministrazione e si affianca a quello preclusivo, volto a vietare che la p.a. reiteri l’atto inficiato dai vizi già stigmatizzati nella sentenza di annullamento, violando il principio generale del ne bis in idem. L’effetto conformativo e quello preclusivo, dunque, guardando al futuro evidenziano che l’amministrazione può riesercitare il potere, che, tuttavia, deve essere rapportato non più alla norma attributiva del potere, ma alla regula iuris contenuta nella sentenza.
L’inottemperanza della sentenza, dovendosi valutare alla luce dell’obbligo conformativo, sussiste non solo nel caso di totale inerzia dell’amministrazione, ma anche laddove l’amministrazione non adempia in maniera esatta. Se, infatti, in passato l’esperibilità del giudizio di ottemperanza veniva ancorata al presupposto della sola inerzia, arrestandosi di fronte all’emanazione di atti amministrativi, con il tempo si è decisamente aperta una breccia su questo versante, ritenendo esperibile il giudizio anche in presenza di atti elusivi o contrastanti con il giudicato[25].
E, particolarmente rilevante è il passaggio della sentenza che ravvisa il presupposto dell’inottemperanza anche in quei comportamenti parzialmente esecutivi del giudicato o solo formalmente tali, che ne costituiscono nella sostanza un’elusione, piuttosto che una violazione. E proprio in tale affermazione risiede il cuore della pronuncia, nonché la liasontra inottemperanza, elusione del giudicato e silenzio assenso: in particolare, il Collegio ha ritenuto che il tardivo avvio di un procedimento sottoposto al regime del silenzio assenso, come quello oggetto della sentenza in commento, mediante nuova richiesta di documentazione, senza chiarire le tempistiche finali di definizione dello stesso né specificare le sopravvenienze che ne hanno resa necessaria l’acquisizione anche in riferimento a situazioni ormai cristallizzate nel giudicato, non possa equipararsi alla doverosa ottemperanza dello stesso.
3. Comportamenti della PA che costituiscono inottemperanza al giudicato e silenzio assenso.
Nello sviluppo motivazionale della sentenza il riconoscimento del presupposto dell’inottemperanza si interseca con la questione del tardivo avvio di un procedimento sottoposto al regime del silenzio assenso[26].
In particolare, il Collegio si spende in una dettagliata digressione sull’istituto che è opportuno ripercorrere, almeno nei suoi aspetti fondamentali.
Il silenzio assenso[27] costituisce senz’altro in prima battuta un istituto di semplificazione[28], obiettivo questo che il legislatore ha tentato di rafforzare introducendo rimedi ulteriori, e soprattutto accentuando gli elementi di garanzia della certezza delle situazioni giuridiche. Tale esigenza di certezza si fa particolarmente stringente sul piano delle prassi distorte degli uffici, che possono collocarsi in astratto a monte dello stesso avvio dei procedimenti: il Collegio paventa non a caso il rischio che la presunta incompletezza di una pratica possa fungere da grimaldello per una serie di richieste aggiuntive che finiscano per procrastinare sine die il perfezionamento dei procedimenti ad istanza di parte, come di fatto avvenuto nel caso di specie.
Se si leggono, in chiave sistematica, gli istituti di semplificazione attraverso la lente della conformità ai principi generali dell’attività amministrativa, allora tale impostazione comporta necessariamente che il comportamento della p.a. sia improntato alla buona fede al pari di quello del privato[29], come peraltro oggi normativamente espresso.
Proprio attraverso la lettura filtrata dalla fondamentale rilevanza della buona fede si spiega anche la natura sanzionatoria[30] del meccanismo del silenzio assenso, che è volto sì a semplificare l’attività amministrativa, ma ancor più rappresenta non una fisiologica conclusione del procedimento, pur essendo oggi il ricorso all’istituto tendenzialmente generalizzato[31], ma la più grave delle sanzioni per la p.a. che è rimasta inerte e non ha provveduto[32].
Tra provvedimento espresso e silenzio assenso, allora, non vige un rapporto di identità sostanziale: il comportamento silenzioso non configura una modalità di esercizio della funzione, bensì un mero fatto, al quale la legge riconosce la capacità di produrre i medesimi effetti di una fattispecie diversa, ovvero dell’atto di assenso.
Non si tratta, infatti di una modalità ordinaria di svolgimento dell’azione amministrativa, bensì costituisce uno specifico rimedio messo a disposizione dei privati di fronte all’inerzia dell’amministrazione, come può esserlo d’altra parte anche la previsione dell’art 2 comma 9 l. 241/1990[33] che individua nella mancata o tardiva emanazione del provvedimento elemento di valutazione della performance individuale, nonché della responsabilità disciplinare e amministrativo contabile del dirigente e funzionario inadempiente.
Tutto questo è coerente con quanto si legge in motivazione laddove il Collegio afferma che un’ingiustificata attesa nell’avvio dell’istruttoria di una pratica non solo non può impedire la decorrenza del termine per il silenzio assenso ove questo sia previsto, ma “a maggior ragione impone la successiva compressione dei tempi di chiusura della stessa, ‘rimediando’ per quanto possibile al pregresso colpevole ritardo nei confronti della legittima aspettativa del cittadino a conoscere il contenuto e le ragioni, qualunque esse siano, delle scelte dell’amministrazione”[34].
Attraverso il meccanismo del silenzio assenso, l’inerzia assume un valore significativo ed equivale a provvedimento di accoglimento nel senso che gli effetti che promanano dalla fattispecie sono sottoposti al medesimo regime dell’atto amministrativo. Corollario che discende dall’art 20, e che ha trovato consacrazione in una recente pronuncia del Consiglio di Stato[35], è che il silenzio assenso può configurarsi anche in presenza di una domanda non conforme a legge; diversamente, reputare che la fattispecie sia produttiva di effetti soltanto ove corrispondente alla disciplina sostanziale, oltre che non avere alcun appiglio normativo nella formulazione dell’art 20, significherebbe sottrarre i titoli così formatisi al regime dell’annullabilità espressamente prevista dall’art 21 nonies[36]. Ma la previsione dell’art 21 nonies non costituisce il solo indice normativo da cui desumere la possibilità che il silenzio assenso si formi anche in mancanza dei presupposti di legge per lo svolgimento dell’attività: particolare risalto viene dato anche al nuovo comma 2 bis dell’art. 20, il quale prevede il rilascio obbligatorio, da parte dell’amministrazione su richiesta del privato, di un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell’intervenuto accoglimento della domanda in virtù della formazione del silenzio assenso. Tale disciplina, non aliena da criticità, della cd. certificazione del silenzio[37], unitamente alla sanzione dell’inefficacia prevista dal comma 8 bis dell’art 2[38],costituisce chiara indicazione rispetto alla finalità acceleratoria dell’agire amministrativo dell’istituto.
Alla luce di tutto quanto premesso allora la doverosità dell’azione amministrativa e la scansione dei suoi tempi non possono che essere lette unitamente ai principi generali dell’agere amministrativo, rappresentando queste anzitutto una peculiare declinazione del principio di legalità – che non può qualificarsi esclusivamente come limite negativo all’esercizio del potere in ossequio alla concezione liberale, ma, soprattutto, in ossequio a una concezione sostanziale, come affermazione in positivo dell’obbligo che il potere venga esercitato (in tempo utile).
Se raccordata al principio di legalità, la doverosità dell’azione amministrativa risulta di conseguenza strettamente legata anche al principio di buon andamento, di rilievo costituzionale, e più in generale al dovere di buona amministrazione (secondo la terminologia europea). Ed è proprio in tale contesto che troviamo una congiunzione con quanto detto nel paragrafo precedente, inscrivendosi il potere conformativo del giudice amministrativo in sede di cognizione, ma ancor più di ottemperanza, nella direzione dell’effettività delle tutele poste a presidio proprio della legalità e del buon andamento.
4. Il decisum della Sezione Seconda: l’elusione del giudicato.
Inquadrati gli istituti in questione e l’utilizzo che La Seconda Sezione ne fa nella costruzione del proprio percorso argomentativo, possono declinarsi le relative conclusioni nel caso di specie.
Pur non avendo nel caso in questione il ricorrente invocato l’avvenuta formazione del silenzio assenso successivamente al giudicato, comunque non può essere priva di conseguenze[39] la circostanza che il legislatore abbia previsto tale modalità di acquisizione del titolo.
Non può poi l’illecito dell’abuso, peraltro nel caso de quo meramente formale, giustificare un rigore tale da comportare un ritardo quale quello maturato dal Comune di Roma, tenuto anche conto della sussistenza, già richiamata, del requisito della doppia conformità.
Alla luce di quanto fino ad ora ricostruito si spiega allora come il comportamento del Comune, pure dopo il formale riavvio dell’istruttoria del procedimento, senza peraltro indicare alcuna tempistica di chiusura dello stesso, integri il presupposto dell’inottemperanza al giudicato. L’amministrazione, dando tardivo avvio ad un procedimento sottoposto al regime del silenzio assenso, ha di fatto dato solo formale esecuzione alle statuizioni della sentenza da ottemperare, aggirandole tuttavia dal punto di vista sostanziale. Il comportamento tenuto non solo è inerte, ma è di fatto elusivo del giudicato, non avendo l’amministrazione valutato l’effetto conformativo dello stesso.
In queste conclusioni emerge chiaramente la relazione[40] tra inottemperanza, inerzia ed elusione del giudicato; l’elusione del giudicato altro non è che una forma di inottemperanza, o addirittura di inerzia[41], laddove l’amministrazione, pur agendo, lo faccia in maniera difforme rispetto al parametro, prefissato, del dictum giurisdizionale. È in quest’ottica, allora, ancora attuale la nozione di “ottemperanza imperfetta” o “inesatta”[42] da collocarsi nel contenitore più ampio della nozione di elusione che opera anche come sanzione sul piano del diritto sostanziale.
[1] In tal senso si erano già espressi Cons. Stato, Sez. VI, 8 luglio 2022, n. 5746 nonché TAR Campania, Salerno, Sez. II, 20 febbraio 2023, n. 406.
[2] La sentenza si fondava sull’assunto che non sarebbe stata provata l’avvenuta realizzazione dell’intervento in epoca antecedente al 31 marzo 2003 (termine ultimo per la fruizione dell’invocato “terzo condono edilizio” di cui alla legge n. 326/2003).
[3] Cons. Stato, Sez. II, 9 giugno 2020, n. 3667.
[4] L’accertamento di conformità, o “sanatoria ordinaria” consiste nella regolarizzazione di abusi “formali”, laddove l’opera sia stata sì effettuata senza il preventivo titolo o in difformità dello stesso, ma senza violare la disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione che a quello di presentazione della domanda. Modalità di acquisizione del titolo, questa, diversamente da quella invocata, non sottoposta al regime del silenzio assenso.
[5] La riconosciuta sussistenza dei requisiti per avanzare sia un’istanza di sanatoria ordinaria che di condono, implica allora l’affermazione che nel caso di specie sussiste anche il requisito della doppia conformità.
[6] Punto 10 della pronuncia in commento.
[7] Per una trattazione sistematica su come si concretizza il principio di effettività in relazione alle diverse tipologie di sentenze si rinvia a F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 4, 2016, 1025 ss. che evidenzia come tra sentenza del giudice amministrativo e ottemperanza vi sia una correlazione necessaria, quasi naturale: qualsivoglia giudice viene adito per emettere una sentenza che assicuri certezza per risolvere un conflitto tra le parti; se la sentenza, una volta resa, non venga osservata spontaneamente dal soccombente, si rende necessario un ulteriore processo volto a realizzarne gli effetti, potendo solo in questo modo garantire il principio di effettività della tutela giurisdizionale.
[8] Ex art. 134 comma 1 lett. a) c.p.a.
[9] Al punto 10.
[10] F. Manganaro, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 2, 2018, 534.
[11] G. Verde, Osservazioni sul giudizio di ottemperanza alle sentenze dei giudici amministrativi, in Rivista di diritto processuale, 1980, 649. Nel medesimo senso, ossia della riconduzione dell’istituto al modello dell’esecuzione forzata civile, si veda anche C. Caianiello, Lineamenti del processo amministrativo, Utet, Torino, 1979, 559 ss.
[12] M. Nigro, Giustizia Amministrativa, Il Mulino, Bologna, 1983, 186. Sulla scia di tale posizione dottrinale, ponendo in risalto la peculiarità dell’attività esecutiva richiesta dalla sentenza di annullamento, è stato osservato che il giudizio di ottemperanza è in primo luogo un processo di cognizione, realizzandosi in esso un completamento del contenuto della pronuncia di annullamento, vista la natura del giudicato amministrativo di un giudicato “a formazione progressiva”.
[13] Natura che emerge già dalla disamina delle azioni astrattamente proponibili con il ricorso ex art. 114 c.p.a., che possono addirittura risolversi in una richiesta interpretativa (art. 112 comma 5 c.p.a).
Ma la possibilità che vi sia un esercizio della giurisdizione cognitoria scevra da profili di esecuzione in senso stretto emerge anche dalla possibilità di domandare l’accertamento e la condanna al risarcimento del danno per la mancata o inesatta esecuzione di cui all’art. 112 comma 3 c.p.a. Si pensi poi anche all’accertamento della nullità del provvedimento adottato in elusione o violazione del giudicato, ora rimesso alla competenza esclusiva del giudice amministrativo in sede di ottemperanza (art. 114 comma 4 lett. b e art. 133 lett.a n. 5 c.p.a.) o, ancora, alla necessità di accertare eventuali fatti sopravvenuti che abbiano reso impossibile l’attuazione del giudicato.
[14] Cons. Stato., Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2.
[15] M. Lipari, L’effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, in La gestione del nuovo processo amministrativo: adeguamenti organizzativi e riforme strutturali, in Atti del LVI Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Giuffrè, Milano, 2011, 102 ss.
[16] In tale ottica, l’unica reale novità apportata dal codice al regime previgente è stata riconosciuta nell’introduzione dell’art. 34 comma 1 lett. e) c.p.a. che, al fine di garantire la reale effettività della tutela, statuisce che, in caso di accoglimento del ricorso, “il giudice, nei limiti della domanda, dispone le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza”.
In tal modo il sistema viene mutato: il giudice già in sede di cognizione è dotato di poteri più incisivi; in un’ottica di effettività e rapidità della tutela si registra un anticipo alla sede di cognizione di poteri prima attribuiti solo in sede di esecuzione.
[17] Per una trattazione più approfondita sulla complessità del tema si veda ancora F. Manganaro, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, cit.
[18] Sul punto, ancora F. Manganaro, Ibidem che postula, premesso che ogni processo di esecuzione presenta una benché minima valutazione di cognizione, la necessità di distinguere tra cognizione ordinaria, strictu sensu, e cognizione volta all’esecuzione. Se nell’ambito della cognizione strictu sensu si possono proporre le ordinarie questioni generali quali la legittimazione, corrispondenza tra chiesto e pronunciato, tipologia delle azioni e tipi di prova ammissibili, oggetto della cognizione per l’esecuzione è invece, oltre la legittimazione, solo la verifica dell’effettiva attuazione di quanto previsto nella sentenza, con più limitati poteri del giudice in ordine all’accertamento dell’inadempimento o dell’elusione.
[19] Punto 10.1.2 della sentenza.
[20] Cons. Stato, Ad. Plen., 9 giugno 2016, n. 11.
[21] Si legge in motivazione che “la dinamicità e la relativa flessibilità che spesso caratterizza il giudicato amministrativo nel costante dialogo che esso instaura con il successivo esercizio del potere amministrativo permettono al giudice dell’ottemperanza – nell’ambito di quell’attività in cui si sostanzia l’istituto del giudicato a formazione progressiva – non solo di completare il giudicato con nuove statuizioni ‘integrative’, ma anche di specificarne la portata e gli effetti al fine di impedire il consolidamento di effetti irreversibili contrari al diritto sovranazionale”.
[22] Come evidenziato da Cass. SS. UU., 31 marzo 2015, n. 6494.
[23] Come si legge anche nella sentenza in commento al punto 11.
[24] La diversità delle posizioni giuridiche fatte valere nel giudizio amministrativo comporta anche una diversità degli effetti del giudicato. Nel superamento della contrapposizione tra giudizio sull’atto e giudizio sul rapporto, la sentenza che dia ragione al privato titolare di interessi pretensivi pone la regola per l’ulteriore e futura attività della p.a., necessaria affinché l’interesse legittimo pretensivo trovi piena realizzazione. L’integrazione tra la regola contenuta nella statuizione giurisdizionale e la successiva attività della p.a. deriva dalla peculiare conformazione del giudicato amministrativo, definito complesso in quanto connotato da una parte da un effetto demolitorio e ripristinatorio (effetti, questi, che guardano al passato) e dall’altra da un effetto conformativo e preclusivo (che guardano al futuro).
Se gli effetti ripristinatorio e preclusivo hanno rilievo soprattutto nei giudizi aventi ad oggetto interessi oppositivi, connotati da una natura conservativa della posizione giuridica incisa dal provvedimento impugnato, l’effetto conformativo, viceversa, viene in rilirvo nei giudizi relativi ad interessi legittimi pretensivi, rispetto ai quali il privato, mira ad ottenere non solo che la p.a. adempia, ma che adempia in maniera esatta.
[25] F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, cit.
[26] Per una ricostruzione dell’istituto prima e dopo la L 14 maggio 2005, n. 80, e sull’ambito di applicazione ed effettività dell’istituto nonché sulla consumazione del potere di amministrazione attiva a fronte del provvedimento tardivo, si rinvia a P. L. Portaluri, Note sulla semplificazione per silentium (con qualche complicazione), in Nuove autonomie, 2008, 664 ss.
[27] Si segnalano, per un approccio ragionato sulle criticità dell’istituto, M. A. Sandulli, Silenzio assenso e termine a provvedere. Esiste ancora l’inesauribilità del potere amministrativo?, in Il Processo, fasc. 1, 1 aprile 2022, 11 ss e P. Carpentieri, Silenzio assenso e termine a provvedere, anche con riferimento all’autorizzazione paesaggistica. Esiste ancora l’inesauribilità del potere amministrativo?, 11 aprile 2022, rielaborazione della relazione, prima citata, presentata nella giornata di studi “Questioni controverse di diritto amministrativo. Un dialogo tra Accademia e Giurisprudenza” svoltasi il 1° aprile 2022 presso il Consiglio di Stato.
[28] Lo dimostra la stessa collocazione dell’art 20 nel capo IV della l. 241/90, rubricato proprio “Semplificazione dell’azione amministrativa”.
[29] Il comma 2 bis dell’art. 1 l. 241/1990 prevede oggi espressamente che i principi della collaborazione e buona fede informino i rapporti tra cittadino e amministrazione. In particolare, anche la giurisprudenza ha da subito chiarito come tale norma debba essere letta nel senso dell’operatività in via bilaterale di tale obbligo che ha valore cogente sia verso il privato che verso la p.a., a prescindere dalla posizione di supremazia ricoperta da quest’ultima (da ultimo si veda Cons. Stato, Sez. IV, n. 7843, 8 settembre 2022).
[30] Analoga, in parte, valenza sanzionatoria, quale conseguenza della violazione dell’obbligo di buona fede si rinviene nella conseguenza della consumazione della discrezionalità (anche tecnica) dell’amministrazione che agisca in modo reiteratamente capzioso, equivoco e contraddittorio causando “un’insanabile frattura del rapporto di fiducia” con il cittadino. In tal senso, valorizzando la portata dell’obbligo di buona fede, il Cons. Stato., Sez. VI, n. 1321, 25 febbraio 2019 ha giustificato l’intervento del giudice in deroga al divieto di cui all’art. 34 comma 2 c.p.a. (ai sensi del quale “nessun giudice può pronunciarsi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”), ma pur sempre nei limiti previsti dall’art. 31 comma 3 c.p.a.
[31] Per quanto la giurisprudenza nel tempo abbia cercato di restringerne l’ambito applicativo prevedendo determinati requisiti dell’istanza – che, dovendo dettare per alcuni il futuro ed eventuale “provvedimento tacito”, non può essere lacunosa, ma deve essere radicata su una fattispecie concreta, ed essere circostanziata, precisa e determinata – e precludendone il ricorso nei casi in cui, esprimendo la p.a. discrezionalità pura, la motivazione appare irrinunciabile. Non è tuttavia pacifica quest’ultima preclusione al ricorso all’istituto; si legga al riguardo M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere: le perduranti incertezze di una (apparente) semplificazione, in Federalismi, n. 10, 15 aprile 2020, 25 ss. in cui viene chiarito come dovrebbe ritenersi ormai sopito il dibattito circa la possibilità di circoscrivere l’operatività del regime del silenzio assenso ai soli procedimenti connotati da un ridotto margine di discrezionalità, non contemplando l’attuale formulazione della norma alcuna deroga connessa a tale profilo ed operando invece le numerose eccezioni espressamente indicate dal comma 4 relativamente a specifici profili.
Motivo di questa, almeno tentata, progressiva restrizione del ricorso all’istituto in seguito all’avvenuta generalizzazione del regime stesso è rinvenibile nel fatto che attraverso questa fictio iuris (sebbene la tesi “attizia” sia oggi recessiva almeno in dottrina, a favore di una posizione e volta a valorizzare in primo luogo la natura reale di mero comportamento del silenzio, tale da non consentirne l’equiparazione all’atto in quanto tale, bensì unicamente l’assimilabilità a quest’ultimo quanto agli effetti) si attribuisce all’inerzia della p.a. valenza di provvedimenti di assenso che concedono beni della vita al privato e possono pertanto risultare talvolta controproducenti per l’interesse pubblico; proprio in questo senso se ne comprende la valenza sanzionatoria.
[32] Cons. Stato, parere n. 1640, 13 luglio 2016.
[33] Che sancisce l’obbligo a provvedere della p.a. e disciplina il tempo dell’azione amministrativa, rappresentando piena attuazione del dovere di correttezza
[34] Punto 20 della sentenza.
[35] Cons. Stato, Sez. VI, n. 5746, 8 luglio 2022. Per una trattazione più approfondita della pronuncia si rinvia a A. Persico, Silenzio assenso e tutela del legittimo affidamento: il perfezionamento della fattispecie non è subordinato alla presenza dei requisiti di validità, in questa Rivista, 6 ottobre 2022.
[36] Che, nel disciplinare in generale l’annullamento d’ufficio, ne individua l’oggetto anche nel provvedimento formatosi ai sensi dell’art 20; presuppone allora evidentemente che la violazione di legge non può incidere sul perfezionamento della fattispecie, ma rilevi invece in termini di illegittimità dell’atto. Proprio per questo l’ordinamento prevede il rimedio postumo dell’annullamento d’ufficio.
[37] Sul punto si rinvia ancora a M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere, cit. per delle proposte risolutive volte a superare l’inadeguatezza degli strumenti di tutela processuale offerti dall’ordinamento; in particolare, viene suggerita una duplice soluzione a tale condizione di grave incertezza: da un lato, ricostruendo il dovere della pubblica amministrazione di rilasciare un atto a carattere ricognitivo finalizzato all'accertamento della formazione del silenzio assenso; dall’altro lato, de iure condendo, prospettando una modifica dell’art. 20 l. n. 241/1990, tesa a riconoscere in capo al soggetto richiedente il diritto di rinunciare al regime del silenzio assenso, optando per il modello del silenzio inadempimento.
[38] Citato nella sentenza al punto 22.2 come conferma del fatto che, decorso il termine a provvedere e formatosi il silenzio assenso, all’amministrazione residua solo il potere di autotutela.
[39] Si legge al punto 19.
[40] Cui si fa riferimento in conclusione del paragrafo secondo.
[41] S. S. Scoca, Violazione ed elusione del giudicato: differenza anodina o utile?, 2012, in www.giustamm.it.
[42] M. S. Giannini, Contenuto e limiti del giudizio di ottemperanza, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 1960, 473 ss. che distingueva tra inottemperanza, ottemperanza perfetta e ottemperanza inesatta, rilevando, tuttavia, come all’epoca la giurisprudenza fermamente escludesse l’esperibilità del giudizio di ottemperanza in caso di ottemperanza imperfetta o inesatta.
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