ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
*Intervento al IV Congresso Area DG di Maria Cristina Ornano - Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari
L’esecuzione penale versa nel nostro Paese in una situazione di crisi profonda che non riguarda solo il sistema penitenziario, ma investe per intero il settore.
I numeri sono più eloquenti di qualunque ragionamento.
Problema ormai strutturale è quello del sovraffollamento carcerario.
L’esame della serie storica della presenza negli istituti e i dati statistici aggiornati al luglio 2023 mostrano come i detenuti in carcere a quella data hanno raggiunto il numero di 57.749 a fronte di una capienza regolamentare calcolata secondo le indicazioni della CEDU a 51.403 posti.
La serie storica attesta come a partire dal 1992 la popolazione carceraria sia progressivamente aumentata, riducendosi a seguito dell’indulto, ma riprendendo poi inesorabilmente ed esponenzialmente a crescere fino a superare nel 2010 la soglia dei 65.000 reclusi.
Da allora il tasso di sovraffollamento si è abbassato grazie a interventi normativi “sfollacarcere”, ma tra il 2012 e il 2022 il tasso medio di affollamento è stato pari a circa 57.000 persone; preoccupa, da ultimo, che il tasso, abbassatosi di poco nei limiti della capienza regolamentare con l’emergenza COVID e i provvedimenti emergenziali che ne sono seguiti, abbia ripreso dal 2022 ad ascendere proseguendo in questa linea anche nel 2023. È prevedibile che a breve supereremo inesorabilmente il tetto delle 60.000 presenze, riproducendosi così dentro il carcere una situazione di disagio analoga a quella che nel 2013 aveva comportato la condanna dell’Italia in sede europea per trattamento inumano e degradante.
Cresce, quindi, il sovraffollamento carcerario. E questo è un problema molto serio, perché solo un carcere con numeri non elevati e di dimensioni adeguate consente di dare effettività ai principi costituzionali in materia di pena e, in particolare, al finalismo rieducativo della pena affermato dall’art. 27 Cost. con i suoi corollari: della sua umanizzazione e del minor sacrificio possibile, della personalità della pena e dell’individualizzazione del trattamento. Di converso, sovraffollamento non significa solo minor spazio pro capite disponibile, ma significa minore assistenza sanitaria, minori opportunità trattamentali e meno rieducazione e risocializzazione.
La riforma “Cartabia”, al di là degli slogan, non frenerà questo trend se non in modo marginale, perché non incide sulle cause di questo sovraffollamento che sono in parte riconducibili al disagio sociale ed economico sempre più diffuso, ad un welfare sempre più fragile e alla mancanza di sicurezza sociale, ma in parte è dovuto al regime dell’ostatività e degli automatismi; e, in ogni caso, questi effetti limitati, seppur vi saranno, si potranno apprezzare solo nel medio periodo.
Ma intanto il disagio in carcere cresce. Nel 2022 i suicidi in carcere sono stati 84, quest’anno sono già 54, con un elenco tragico che si aggiorna di settimana in settimana. I tentativi di suicidio e gli atti di autolesionismo registrano nell’ultimo decennio numeri sconvolgenti, perché sono parecchie migliaia, mentre tante, troppe persone muoiono in carcere di malattia e in solitudine.
Quattro nel 2022 i suicidi tra gli appartenenti al Corpo di Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita con modalità analoghe a quelle utilizzate dagli stessi detenuti che quella scelta drammatica hanno compiuto. A dimostrazione che il disagio nel carcere colpisce tutti coloro che vivono in esso, compreso chi dentro al carcere lavora quotidianamente.
Sul fronte dei liberi i numeri non sono meno sconvolgenti. In occasione di una rilevazione statistica promossa dal Ministero la scorsa primavera e sui cui esiti il Ministro della Giustizia ha riferito alle camere, è risultato che in Italia sono oltre 90.000 i procedimenti pendenti in materia di richiesta di misura alternativa in attesa di definizione.
Vite sospese: perché quando la pena non è ancora espiata non è possibile avere il passaporto, è molto più difficile trovare lavoro e opportunità risocializzanti e si vive in una condizione di incertezza sul proprio futuro. Molte pene vengono poi espiate a distanza di molti anni; ma espiare una pena a 5 o 10 e più dal giudicato per fatti ancor più vecchi, toglie senso alla pena e porta con sé una ulteriore componente di afflittività, che mal si concilia con il finalismo rieducativo della pena.
V’è poi il tuttora irrisolto capitolo delle R.E.M.S. - Residenze sanitarie per l’esecuzione delle misure di sicurezza - destinate a soggetti autori di fatti-reato riconosciuti incapaci di intendere e volere al momento del fatto per infermità di mente e ritenuti socialmente pericolosi. Sono circa 700 le persone in attesa di fare ingresso in R.E.M.S., persone socialmente pericolose che attendono di essere curate; di queste, con stime del tutto incerte ed approssimative, circa 50 sono tuttora recluse in carcere in attesa di entrare in queste strutture: una situazione di gravissima illegittimità perché non v’è alcun titolo che giustifichi il trattenimento in carcere e, tuttavia, ancora recluse perché socialmente pericolose; vi sono poi coloro i quali, destinatari della misura di sicurezza, sono in stato di libertà in attesa di fare ingresso in R.E.M.S.: soggetti che di regola rifiutano il trattamento terapeutico e che sono socialmente pericolosi, anch’essi posti, spesso senza alcun controllo e monitoraggio, nel limbo di una lista d’attesa che può durare molti mesi, quando non anni.
Una situazione di grave illegalità che la stessa Corte Costituzionale ha fortemente stigmatizzato con la sentenza n. 22/2022 con la quale ha sostanzialmente messo in mora il Governo ed il Parlamento. La Corte ha chiaramente detto che l’intera disciplina è connotata da svariati profili di illegittimità costituzionale, ma ha ritenuto di non dichiararlo per evitare un vuoto normativo totale che sarebbe stato un rimedio peggiore del male; ha però messo in mora i decisori politici, invitandoli ad intervenire con rapidità per rivedere integralmente l’intero settore, e a prevedere subito l’ampliamento del numero dei posti in R.E.M.S..
Neppure di fronte a questo autorevolissimo intervento Governo e Parlamento hanno fatto qualcosa, sicché anche dopo la pronuncia della Corte la situazione non è mutata e si è ormai incancrenita, rovesciando addosso ai magistrati indebiti compiti di supplenza.
Noi magistrati veniamo spesso rimproverati di attribuirci compiti di supplenza: noi ne faremmo volentieri a meno, volentieri vorremmo trovare nei servizi e prima ancora nelle norme la soluzione ai problemi dei cittadini, tuttavia quando queste soluzioni non ci sono siamo costretti a farci carico anche di problemi ed a trovare soluzioni che non ci competono, perché i diritti, la vita, la salute e la sicurezza, non possono attendere i tempi e i vuoti di una politica distratta, quando non indifferente.
A fronte di tutto questo, quali sono le risorse in campo?
Poche centinaia, davvero poche centinaia, sono i magistrati di Sorveglianza; il personale amministrativo dei Tribunali e degli Uffici di Sorveglianza conosce scoperture gravissime, dato ancor più drammatico perché questo è un settore nel quale il Personale svolge l’istruttoria e senza di esso i procedimenti non vanno avanti.
I Tribunali e gli Uffici di Sorveglianza non hanno avuto assegnata alcuna risorsa dal P.N.R.R.: come gli uffici minorili, sono stati totalmente esclusi dall’Ufficio per il processo.
La digitalizzazione è all’anno zero: lavoriamo ancora con procedimenti esclusivamente cartacei, non esiste il fascicolo informatico del detenuto e del libero affidato, si fa fatica perfino ad acquisire le informazioni e i documenti che servono per l’istruttoria. Oggi il Ministro ha parlato di assunzioni in corso e di digitalizzazione ormai come una realtà anche degli uffici penali: noi però non abbiamo visto né personale, né digitalizzazione né informatizzazione.
E se qualcosa sul versante dell'innovazione tecnologica si sta facendo, nessuno ce lo ha comunicato. Sul fronte dei servizi la situazione è non meno drammatica: mancano i direttori delle carceri, al punto che per anni ci sono stati direttori che hanno dovuto gestire in contemporanea anche due e tre carceri. Solo quest’anno prenderanno servizio i direttori neo assunti, ma intanto i vuoti degli anni passati hanno prodotto i loro effetti negativi sull’organizzazione e la gestione degli istituti.
Inadeguati i numeri del personale addetto all’Area educativa del carcere, mentre del tutto insufficiente è il numero dei funzionari UEPE, investiti negli ultimi anni di sempre maggiori compiti: messa alla prova, giustizia riparativa, pene sostitutive, oltre ai tradizionali compiti previsti dall’ordinamento penitenziario per le misure alternative; le assunzioni annunciate non saranno sufficienti, specie a fronte dei pensionamenti degli ultimi anni, a garantire un servizio efficiente.
Note a tutti sono le gravi scoperture del Corpo di Polizia penitenziaria, chiamato a svolgere un compito delicatissimo che espone continuamente a situazioni stressanti e usuranti.
Sempre più scadente è la quantità e la qualità dell’assistenza sanitaria assicurata in carcere; il passaggio della sanità penitenziaria alle Regioni ha segnato un complessivo peggioramento del servizio, con disparità di trattamento dei detenuti e con un’assistenza “a macchia di leopardo”.
In conclusione, c’è un tema di risorse, ma prima ancora di crisi del sistema dell’esecuzione penale, della sua capacità di realizzare i fini propri della pena, ad iniziare dal finalismo rieducativo indicato dall’art. 27 Costituzione.
Non è questa la sede per affrontare analisi ed articolare proposte, su cui pure il gruppo dell’esecuzione penale di Area Dg sta riflettendo, ma è legittimo dai magistrati italiani attendersi che il Ministro, in luogo di occuparsi di temi come quello della separazione delle carriere e delle intercettazioni che in nulla migliorano la qualità del servizio e la sua efficienza, svolga i compiti che la Costituzione gli assegna, ossia provvedere in ordine ai servizi ed all’organizzazione della Giustizia.
Ci sono molti modi di sferrare un attacco ai diritti: si può fare con le azioni, ma c’è anche un altro modo, surrettizio, ma non meno efficace, che è quello delle omissioni, quello di non fornire a chi, come la magistratura, quei diritti è istituzionalmente chiamata a tutelare, quelle risorse e quegli strumenti indispensabili per assicurare ad essi contenuto ed effettività.
Il 13 agosto di quest’anno il New York Times ha pubblicato un articolo (1) che riferiva di due donne cui era stato vietato di salire su un treno pubblico e che erano state invitate a prendere un altro mezzo e a sedersi nei posti in fondo.
Questo episodio, collocato a ridosso del secondo anniversario della presa di potere dei talebani e quindi dell’instaurazione di una teocrazia che ha di fatto cancellato le donne, non avrebbe destato particolare stupore se si fosse appunto trattato di quel Paese, dove le violazioni dei diritti, anche e soprattutto quelli delle donne, sono all’ordine del giorno e ben lontani dal cessare o almeno dal diminuire.
Il fatto è che l’episodio si verifica in Israele dove, dal 1948, vige una democrazia che, memore del passato, vanta una costituzione che dedica particolare attenzione ai diritti umani e che, finora rafforzata anche da plurime e solide pronunce dei Tribunali e della Corte Suprema, vieta ogni forma di discriminazione.
La pratica, già diffusa in regioni a forte presenza di ortodossi, dove le donne sono solite entrare dalle porte posteriori e sedersi in fondo ai mezzi pubblici , sembra ora diffondersi sempre in più parti del Paese, non come scelta religiosa ma come imposizione disposta in violazione delle pronunce della Corte Suprema israeliana che hanno stabilito che la segregazione femminile è contra legem (2)
Una parte dell’informazione internazionale, tra cui anche quella laica israeliana, (3), ha messo in guardia contro le concessioni fatte dall’attuale governo a ortodossi e partiti estremisti, descrivendo un cammino fortemente orientato alla drastica limitazione dei diritti delle donne, tra cui la diminuzione della presenza e dell’empowerment femminile nell’ambito delle istituzioni pubbliche, l’ampliamento dei poteri delle corti rabbiniche composte da soli uomini e lo scoraggiare azioni di governo finalizzate a reprimere la violenza contro le donne.
Una delle principali manifestazioni di questo trend è senz’altro la segregazione sessuale, non solo sui mezzi pubblici, come riferisce l’articolo del New York Times, ma anche negli eventi pubblici, nell’accesso all’educazione, alle cure, persino nei cimiteri, (4) e in altre situazioni ove, richiamandosi all’Autorità religiosa e alla tradizione, si propone di esercitare un controllo sulle donne, compreso il loro abbigliamento. In quest’ottica di colloca, ad esempio, la proposta di punire con il carcere le donne che visitano il Muro di Gerusalemme con abiti inappropriati.
Nessuno ha dimenticato cosa abbia rappresentato per le iraniane indossare il velo in modo “inappropriato” e comunque non vestirsi in modo “appropriato” secondo la modalità predefinita da scelte del potere religioso-governativo.
Non a caso le donne israeliane, che si uniscono alle proteste contro la recente riforma della giustizia , limitante dei poteri della Corte Suprema ed ampliativa di quelli dei tribunali rabbinici, vestono i panni dell’Ancella del racconto di Margaret Atwood, indossando lunghi abiti rossi che nascondono anche le mani e con il capo completamente coperto da cappucci bianchi.
Il libro racconta di un immaginario regime totalitario che si basa sul controllo assoluto del corpo femminile descrivendo “il cuore di una società meschinamente puritana che dietro il paravento di tabù istituzionali fonda una legge brutale sull’intreccio tra sesso e gestione della politica” e che “parlando di un tempo di là da venire, interpella fortemente il presente". (5)
In questo contesto anche quella parte della stampa internazionale che si era espressa in termini critici bollando questa protesta come eccessivamente “drammatica” ora riconosce che la crescente spinta verso la segregazione sessuale fa seriamente temere per i diritti delle donne e per i diritti in generale.
L’allarme è forte e non può essere sottovalutato.
Note
1) La crescente segregazione sessuale in Israele solleva timori per i diritti delle donne
3) Allison Kaplan Sommer - Haaretz.com- Israel News del 29.7.2023
4) La Voce di New York- 14.8.2023 Israel Slide Towards a Theocracy Increasingly Assaults Women’s Rights ;
New York Times – 14.8.2023 Growing Segregation by Sex in Israel Raises Fears for Women Rights
5) Così nell’aletta anteriore del libro
Difetto di motivazione: questa la ragione della non convalida dei provvedimenti di trattenimento del Questore di Ragusa. (breve nota di sintesi ai provvedimenti del trattenimento di non convalida emessi dal giudice del Tribunale di Catania sezione immigrazione il 29.2.23 nell’ambito dei procedimenti R.G. 10460/ 2023 e RG 10459/2023)
In sede di convalida del provvedimento di trattenimento emesso, ai sensi dell’art. 6 bis del D. Lgs. 142/2015, dal Questore della Provincia di Ragusa nei confronti di MEKRIAYMEN, nato in TUNISIA, il 19/10/1985, richiedente protezione internazionale, entrato nel territorio dello Stato in data 20 settembre 2023 dalla frontiera di Lampedusa, privo di passaporto e senza la garanzia finanziaria, la giudice di Catania - con il provvedimento che trovate allegato in calce a questa breve nota di sintesi- ha respinto la richiesta per difetto di motivazione.
La giudice ha ritenuto non motivato il trattenimento con riferimento alla domanda di protezione internazionale, in particolare ha rilevato che non erano state valutate – o comunque di detta valutazione non vi era traccia nella motivazione del provvedimento- le esigenze di protezione manifestate dal richiedente né era stata valutata la necessità e proporzionalità della misura, avuto riguardo alla possibilità di applicare misure meno coercitive.
Analoga decisione ha assunto con riferimento alla convalida del provvedimento restrittivo emesso nei confronti nei confronti di MIAAD HAFED, nato in TUNISIA, il 30/06/1992, anch’esso in calce alla presente nota.
Nella motivazione dei provvedimenti di rigetto della richiesta di convalida la giudice precisa che , ai sensi dell’art. 6, co. 1 D. Lgs 142/2015 e dell’ art. 8 della direttiva 2013/33/UE il richiedente non può essere trattenuto al solo fine dell’esame della domanda e che il trattenimento è misura eccezionale in quanto limitativa della libertà personale, ciò in osservanza del principio di libera circolazione di cui all’ art. 13 della Costituzione, ai sensi del quale, come è scritto nella nostra Costituzione : “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.
La giudice, nei provvedimenti richiama altresì il principio affermato dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea -Grande Sezione- nella sentenza 8 novembre 2022(cause riunite C-704/20 e C-39/21), secondo il quale “l'articolo 15, paragrafi 2 e 3, della direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, l'articolo 9, paragrafi 3 e 5, della direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, e l'articolo 28, paragrafo 4, del regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, in combinato disposto con gli articoli 6 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, devono essere interpretati nel senso che il controllo, da parte di un'autorità giudiziaria, del rispetto dei presupposti di legittimità, derivanti dal diritto dell'Unione, del trattenimento di un cittadino di un paese terzo deve condurre tale autorità a rilevare d'ufficio, in base agli elementi del fascicolo portati a sua conoscenza, come integrati o chiariti durante il procedimento contraddittorio dinanzi a essa, l'eventuale mancato rispetto di un presupposto di legittimità non dedotto dall'interessato”.
A conferma della non convalidabilità dei provvedimenti, per la rilevata assenza di motivazione, richiama gli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33/UE che “devono essere interpretati nel senso che ostano, in primo luogo, a che un richiedente protezione internazionale sia trattenuto per il solo fatto che non può sovvenire alle proprie necessità, in secondo luogo, a che tale trattenimento abbia luogo senza la previa adozione di una decisione motivata che disponga il trattenimento e senza che siano state esaminate la necessità la proporzionalità di una siffatta misura” (CGUE (Grande Sezione), 14 maggio 2020, cause riunite C-924/19PPU e C-925/19PPU).
Tanto evidenzia altresì l’incompatibilità, con gli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33, del D.M. 14 settembre 2023, che prevede la garanzia finanziaria di euro 4938,00, somma calcolata come per garantire, per il periodo massimo di trattenimento, pari a quattro settimane, l’ alloggio sul territorio nazionale, la sussistenza minimi necessari e le spese di rimpatrio da versare in un’unica soluzione mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa. Si precisa nel provvedimento che detta garanzia, ai sensi l’art. 6 –bis D. Lgs 142/2015, non è una misura alternativa al trattenimento ma un requisito amministrativo imposto al richiedente, prima dell’accertamento dei diritti riconosciuti dalla direttiva 2013/33/UE, per il solo fatto della richiesta di protezione internazionale.
Nei provvedimenti la giudice dà atto che i richiedenti hanno fatto ingresso nel territorio italiano in data 20.09.2023 dalla frontiera di Lampedusa e che sono stati poi condotti a Pozzallo, ove il 27 settembre 2023, hanno presentato domanda di protezione internazionale in seguito alla quale è stato disposto il loro trattenimento alla luce di ciò ha quindi evidenziato che secondo il considerando 38 della direttiva 32/2013UE “Molte domande di protezione internazionale sono presentate alla frontiera o nelle zone di transito dello Stato membro prima che sia presa una decisione sull’ammissione del richiedente. Gli Stati membri dovrebbero essere in grado di prevedere procedure per l’esame dell’ammissibilità e/o del merito, che consentano di decidere delle domande sul posto in circostanze ben definite.” Nel provvedimento è poi richiamato il testo dell’art. 43 della medesima direttiva, rubricato procedure di frontiera, secondo il quale gli Stati membri “possono prevedere procedure, conformemente ai principi fondamentali e alle garanzie di cui al capo II, per decidere alla frontiera o nelle zone di transito dello Stato membro:
a) sull’ammissibilità di una domanda, ai sensi dell’articolo 33, ivi presentata;
b) sul merito di una domanda nell’ambito di una procedura a norma dell’articolo 31, paragrafo 8. 2. Gli Stati membri provvedono affinché la decisione nell’ambito delle procedure di cui al paragrafo 1 sia presa entro un termine ragionevole. Se la decisione non è stata presa entro un termine di quattro settimane, il richiedente è ammesso nel territorio dello Stato membro, affinché la sua domanda sia esaminata conformemente alle altre disposizioni della presente direttiva. 3. Nel caso in cuigli arrivi in cui è coinvolto un gran numero di cittadini di paesi terzi o di apolidi che presentano domande di protezione internazionale alla frontiera o in una zona di transito, rendano all’atto pratico impossibile applicare ivi le disposizioni di cui al paragrafo 1, dette procedure si possono applicare anche nei luoghi e per il periodo in cui i cittadini di paesi terzi o gli apolidi in questione sono normalmente accolti nelle immediate vicinanze della frontiera o della zona di transito”.
La giudice ha dunque analiticamente illustrato le ragioni della non convalida.
Nell’esercizio delle sue funzioni, chiamata a effettuare il controllo, previsto dalla legge – conformemente al principio di cui all’art. 13, secondo comma, Cost.- ha, d’altro canto rilevato una serie di criticità tra le disposizioni introdotte nel settembre 2023 ed il quadro dei principi di matrice eurounitaria e costituzionale. Trattasi di criticità che riguardano: la garanzia finanziaria prevista in funzione alternativa al trattenimento già prima del riconoscimento dei diritti previsti dalla direttiva 2013/33/UE; la modalità di prestazione della garanzia finanziaria, introdotta come requisito amministrativo imposto al richiedente prima di riconoscere i diritti conferiti dalla direttiva 2013/33/UE, per il solo fatto che chiede protezione internazionale e non consentita se versata da terzi; il trattenimento alla frontiera; la compatibilità del procedimento di trattenimento adottato con l’articolo 8, paragrafo 3, primo comma, lettera c), della Direttiva 33/2013/UE, non avendo il Presidente della Commissione territoriale assunto alcuna decisione sul procedimento da seguire; la compatibilità della misura disposta con l’art.10 c.3 Cost. con riguardo al richiedente protezione proveniente da paese sicuro.
Ognuna delle questioni evidenziate merita di essere approfondita.
Intanto ci preme evidenziare che trattasi di motivati provvedimenti giurisdizionali, suscettibili di ricorso. Provvedimenti simili a tanti altri, quotidianamente emessi da giudici all'esito di accertamento e valutazione dei presupposti fattuali e interpretazione della legge da effettuarsi, necessariamente, alla luce dei principi Costituzionali e Unionali, questo è il mestiere del giudice.
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. La normativa di riferimento in materia di inclusione scolastica. – 2.1. Il quadro costituzionale. – 2.2. Un excursus sul piano normativo dall’integrazione all’inclusione scolastica dello studente con disabilità. – 3. Lo strumento del P.E.I.: competenze e alterne vicende sul piano normativo e nella giurisprudenza. – 4. La questione dell’assegnazione delle ore di sostegno. – 5. Il caso di specie: istituti scolastici statali e comunali e relative competenze in materia di inclusione alla luce della normativa vigente. – 6. Brevi considerazioni conclusive.
1. Il caso di specie
La pronuncia in esame concerne l’ambito delle concrete misure di attuazione del principio di inclusione scolastica degli alunni con disabilità, il quale – come nel caso di specie – si sostanzia nella adozione di un piano educativo individualizzato (di seguito P.E.I.) rispondente alle esigenze del singolo alunno in relazione al grado ed alla tipologia di disabilità presentata; quest’ultimo documento annovera, in particolare, le ore di sostegno settimanali e di assistenza specialistica delle quali il soggetto necessita, secondo quanto descritto nello stesso documento propedeutico rispetto al P.E.I. e – alla luce della più recente normativa – definito “Profilo di funzionamento”[i].
Nel caso in questione, in dettaglio, un’amministrazione comunale propone appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale, pronunciatosi sul ricorso presentato dai genitori di alunno con disabilità certificate per l’annullamento dei provvedimenti dell’amministrazione locale appellante di assegnazione al figlio minore delle ore settimanali di sostegno spettanti per l’anno scolastico 2020-2021, presso la scuola dell’infanzia comunale frequentata, oltre che ai fini dell’accertamento in sede giudiziale del diritto ad ottenere per l’anno scolastico 2021-2022 l’assegnazione di 33 ore settimanali di sostegno, di cui 8 di assistenza specialistica, secondo il rapporto 1 a 1 con le ore scolastiche.
Peraltro, occorre porre in evidenza come i provvedimenti amministrativi di cui trattasi, che i coniugi impugnano, erano stati adottati dalla c.d. «Commissione Inclusione», organo istituito dall’ente locale coinvolto mediante proprio regolamento di settore (nello specifico, regolamento per le scuole dell’infanzia comunali), nell’ambito del procedimento di formazione del P.E.I., ai sensi della normativa vigente e così, in particolare, ex artt. 14 della legge 8 novembre 2000, n. 328 (meglio nota quale “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”), e 12 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, c.d. “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”.
In aggiunta, i genitori dell’alunno disabile impugnano lo stesso decreto del Ministro dell’istruzione, adottato di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze del 29 dicembre 2020, n. 182, recante Adozione del modello nazionale di piano educativo individualizzato e delle correlate linee guida, nonché modalità di assegnazione delle misure di sostegno agli alunni con disabilità, ai sensi dell’articolo 7, comma 2-ter del decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 66”, nella parte in cui aveva previsto limiti quantitativi di ore di sostegno[ii].
L’adito Tribunale amministrativo – nella fattispecie il T.A.R. Lazio, sede di Roma, davanti al quale il giudizio veniva riassunto a seguito di declinatoria di competenza del Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte – in parziale accoglimento dell’impugnazione, ravvisava nell’ambito della sentenza la violazione procedimentale consistente nel fatto che il piano educativo contestato erano stati predisposto senza l’intervento degli organi statali, istituiti in base alle norme di legge nazionale finalizzata all’inclusione scolastica, ovvero il «Gruppo per l’inclusione territoriale (G.I.T.)» e il «Gruppo di lavoro operativo per l’inclusione» (di seguito G.L.O.), ai sensi dell’art. 15, commi 4 e 10, della citata legge 5 febbraio 1992, n. 104, come modificato dall’art. 9 del d.lgs. 13 aprile 2017, n. 66[iii].
Nella predetta sentenza, pertanto, si chiariva come il G.L.O. dovesse essere considerato l’«unico organo competente» per la redazione del piano individualizzato e si statuiva che la normativa di legge statale sul punto non potesse essere derogata da disposizioni interne dell’amministrazione comunale resistente, con la sostituzione di propri organi rispetto a quelli previsti a livello nazionale.
Ebbene, nello stesso senso si pronuncia il Consiglio di Stato, nell’ambito della pronuncia in esame, laddove espressamente dispone che le norme volte alla concreta inclusione scolastica, anche con specifico riguardo agli organi quali gruppi di lavoro “multilivello” aventi competenze specifiche nella redazione del piano educativo individualizzato dello studente con disabilità, debbano essere applicate anche alle istituzioni scolastiche degli enti locali.
2. La normativa di riferimento in materia di inclusione scolastica
Nel nostro ordinamento, negli ultimi decenni, si può osservare un evidente processo di adeguamento sul piano interno rispetto alle previsioni sovranazionali[iv], oltre che costituzionali, che ha condotto dalla sostanziale emarginazione dello studente con disabilità, ad una progressiva integrazione del medesimo nel gruppo classe, sino – negli anni più recenti – ad una sostanziale inclusione[v].
In particolare, per ciò che concerne la normativa internazionale in materia, di estrema rilevanza appare l’elaborazione ad opera dell’Organizzazione Mondiale della Sanità della Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, o ICF (“International Classification of Functioning, Disability and Health”), la quale nel revisionare i due precedenti sistemi (ICDC del 1970 e ICIDH del 1980) definisce il grado di disabilità di un soggetto prendendo in esame le dimensioni positive, ovvero le capacità residue della persona e propone un modello concettuale teso ad enfatizzare la nozione universale di “funzionamento” quale fondamento della comprensione dello stato di salute.
Ancora, in ambito internazionale, riveste rilevanza la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006, ratificata in Italia per mezzo della legge 3 marzo 2009, n. 18.
Del pari, in ambito europeo, non si può non menzionare la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (meglio nota quale “Carta di Nizza”), del 18 dicembre 2001, che statuisce all’art. 26 come «l’Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità».
L’art. 19 della Convenzione, in particolare, sancisce poi il diritto dei soggetti disabili ad una vita indipendente ed alla piena inclusione nell’ambito della comunità in senso generale; alla lett. b) del medesimo articolo si evidenzia come gli Stati parti della Convenzione debbano garantire alle persone con disabilità l’accesso «ad una serie di servizi di sostegno domiciliare, residenziale o di co- munità, compresa l’assistenza personale necessaria per permettere loro di vivere all’interno della comunità e di inserirvisi e impedire che esse siano isolate o vittime di segregazione»[vi].
2.1. Il quadro costituzionale
Trattando di inclusione scolastica non si può non fare riferimento, pensando al dettato della Costituzione, anzitutto all’art. 34 Cost., il quale – come noto – esplicita che “la scuola è aperta a tutti”; in tal senso, individua cioè un diritto-dovere di frequentare la scuola “obbligatoria e gratuita” che concerne soprattutto i primi anni di vita del minore. Tale diritto all’istruzione interessa indifferentemente tutti i bambini e così anche coloro che presentano una disabilità di qualsivoglia grado e tipologia[vii].
La suddetta previsione, peraltro, deve essere letta in stretta connessione con l’articolo precedente della Carta costituzionale nella misura in cui, ai sensi dell’art. 33 Cost., è la Repubblica che deve farsi carico di assicurare il predetto diritto-dovere alla frequenza scolastica, anche con riferimento allo studente disabile e, in senso generale, l’istruzione e l’educazione dei giovani, intesa anche quale servizio pubblico garantito mediante l’istituzione di scuole statali per tutti gli ordini e i gradi[viii].
Ai sensi del medesimo articolo 33 Cost., peraltro, è riconosciuto anche a enti privati il diritto di creare e istituire scuole conformemente ad un principio generale di democrazia pluralista che informa la nostra Costituzione[ix]. La norma in questione, in altri termini, riconosce la possibilità di istituire scuole pubbliche (statali, bensì anche paritarie istituite da enti pubblici diversi dallo Stato), oltre che private (private od anche private paritarie) secondo un sistema “misto” volto a garantire, come accennato, pluralismo e uguaglianza (ai sensi dell’art. 3 Cost.)[x].
Quest’ultimo profilo, disciplinato anche dalla legge n.62/2000[xi], pare foriero di questioni problematiche laddove in relazione a talune fattispecie, quale quella concreta alla base della decisione in commento, si sono generati dubbi interpretativi circa le specifiche competenze sul piano dell’attuazione del principio dell’inclusione scolastica nell’ambito della scuola istituita non dallo Stato, ma dall’ente locale.
Le stesse previsioni costituzionali appena prese in esame concernenti il diritto all’istruzione, annoverato tra gli altri diritti sociali presi in esame specificamente dal testo costituzionale, debbono altresì essere analizzate in connessione con l’art. 2 Cost., ritenuto che la scuola deve essere annoverata tra le altre formazioni sociali considerate dalla Costituzione e nell’ambito della quale si sviluppa la personalità dell’alunno, indispensabile al fine del godimento degli altri diritti tutelati dalla Costituzione.
L’inclusione scolastica trova poi ulteriore tutela e riconoscimento nell’ambito della Carta costituzionale laddove all’art. 3 comma 1, si pone un generale divieto di discriminazione dei soggetti, secondo un’accezione formale del principio di uguaglianza, ma soprattutto all’art. 3 comma 2, ove – al fine del raggiungimento di un’effettiva uguaglianza tra individui, anche sul piano scolastico, lo Stato è chiamato a rimuovere tutti gli ostacoli che lo studente con disabilità possa incontrare nel suo percorso, mediante appositi interventi concreti, valutazioni differenziate, risorse umane ad hoc (così assistenti, facilitatori, educatori e, soprattutto docenti di sostegno), oltre che per mezzo di specifici strumenti quali accertamenti della condizione di disabilità, piani di valutazione della disabilità e piani educativi individualizzati (oggetto della pronuncia in commento).
Si noti, peraltro, che i padri costituenti, ben consci della necessità di un trattamento differenziato nei confronti di alunni affetti da handicap, hanno in tal senso predisposto un’apposita norma nell’ambito della sezione della Carta costituzione dedicata ai diritti sociali: in tal senso l’art. 38 Cost. individua espressamente nei confronti degli inabili e dei minorati un indifferenziato “diritto all’educazione ed all’avviamento professionale”. Disposizione quest’ultima che, letta in combinato disposto con le altre previsioni predette di rilevanza costituzionale, ha dato avvio ad un percorso verso l’integrazione scolastica degli studenti con disabilità anche sul piano normativo.
Di rilievo in materia appare la stessa celebre pronuncia della Corte costituzionale 3 giugno 1987, n. 215, la quale ha espressamente riconosciuto il pieno ed incondizionato diritto di tutti gli alunni con disabilità, in qualsivoglia caso di minorazione ed a prescindere dal grado di complessità della stessa, alla frequenza nelle scuole di ogni ordine e grado[xii].
Sempre in argomento non si può non menzionare la successiva pronuncia del Giudice costituzionale n. 275/2016 nell’ambito della quale la Corte ha ulteriormente esplicitato che «il diritto all’istruzione del disabile è consacrato nell’art. 38 Cost., e spetta al legislatore predisporre gli strumenti idonei alla realizzazione ed attuazione di esso, affinché la sua affermazione non si traduca in una mera previsione programmatica, ma venga riempita di contenuto concreto e reale. (...) La natura fondamentale del diritto, che è tutelato anche a livello internazionale dall’art. 24 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con l. 3 marzo 2009, n. 18, impone alla discrezionalità del legislatore un limite invalicabile nel «rispetto di un nucleo indefettibile di garanzie per gli interessati» (...), tra le quali rientra il servizio di trasporto scolastico e di assistenza poiché, per lo studente disabile, esso costituisce una componente essenziale ad assicurare l’ef- fettività del medesimo diritto»[xiii].
2.2. Un excursus sul piano normativo dall’integrazione all’inclusione scolastica dello studente con disabilità
In ambito nazionale, il testo legislativo di riferimento appare senza dubbio la legge 5 febbraio 1992, n. 104, c.d. «Legge- quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate» la quale, all’art. 3, definisce la persona disabile come «colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione».
La legge in questione riporta in particolare agli artt. 12 ss. specifiche disposizioni concernenti il diritto all'educazione e all'istruzione del soggetto con disabilità concretizzando in primo luogo i principi generali di uguaglianza e inclusione aventi rilevanza costituzionale.
Peraltro, la stessa legge giunge all’esito di un travagliato percorso che si riscontra nel nostro ordinamento rispetto all’attuazione dell’inclusione scolastica dell’alunno con disabilità, anche sul piano della concretizzazione del principio stesso mediante precise statuizioni nell’ambito della normativa nazionale.
Infatti, sebbene – come accennato – la Costituzione Repubblicana nel 1948 abbia esplicitato, tra gli altri, il principio di uguaglianza e la conseguente necessità di garantire a tutti – dunque anche ai soggetti più deboli e così ai disabili – i medesimi diritti civili, di fatto, tuttavia, nell’ambito della legislazione ordinaria statale, quantomeno sino agli anni Settanta del secolo scorso, le misure in favore dei soggetti disabili si sono sostanziate esclusivamente in provvidenze economiche e risarcimenti. In altri termini, sino alla metà degli anni Settanta, non si è registrata un’attenzione del legislatore nazionale a sostegno dei soggetti aventi problematiche di disabilità; tale fenomeno si è peraltro verificato, verosimilmente, anche in ragione della frammentazione delle competenze assistenziali, attribuite sino a quel momento a Comuni e Province[xiv].
In ottica generale, può dunque affermarsi che la questione della disabilità in ambito scolastico ha attraversato diverse fasi: una prima fase di tendenziale esclusione dei soggetti disabili, posto il sostegno prestato dallo Stato in favore di tali soggetti perlopiù in ottica assistenziale; una prima apertura nel senso dell’“inserimento” degli stessi, principalmente grazie ai principi posti dalla l. n. 118/1971; una successiva fase di integrazione ben espressa nella l. n. 104/1992, sino alla più recente ed attuale fase orientata ad una vera e propria inclusione dello studente con disabilità[xv].
Nel dettaglio, ad opera della nota “riforma Gentile”, nel 1923, sono introdotte le prime generali previsioni specifiche a proposito dell’istruzione scolastica in favore dei minori disabili; con ulteriori successive disposizioni, nel 1928, sono di seguito introdotte le c.d. classi differenziali e le scuole speciali: agli alunni con disabilità, di fatto, è garantito il diritto all’istruzione, sebbene nell’ambito di classi e scuole “speciali”, in un sostanziale regime di separazione rispetto alle classi ordinarie.
Mediante il d.l. 30 gennaio 1971, n. 5, convertito nella legge 30 marzo 1971, n. 118, recante «Provvidenze in favore dei mutilati ed invalidi civili», lo Stato approva un primo compendio normativo che prevede un iniziale sistema di interventi in favore dei soggetti mutilati e invalidi. La legge in questione si rivolge espressamente ai «cittadini affetti da minorazioni congenite o acquisite, anche a carattere progressivo, compresi gli irregolari psichici per oligofrenie di carattere organico o dismetabolico, insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore a un terzo o, se minori di anni 18, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età».
Il provvedimento legislativo in questione, concretamente, dispone misure di assistenza economica, quali pensioni di inabilità, ovvero assegni, ma altresì concrete misure ed interventi in termini di assistenza sanitaria (così riabilitazione, protesi ed ausili), assistenza sociale (come l’accompagnamento della famiglia), speciali misure di inserimento scolastico, formazione professionale e inserimento lavorativo (lavoro protetto, congedi per cure), oltre che provvedimenti al fine dell’eliminazione delle barriere architettoniche in relazione ad edifici ad uso pubblico e mezzi di trasporto. Per tale ragione, si è affermato che la l. n. 118/1971 possa essere intesa come la prima legge volta a favorire concretamente l’integrazione a tutto campo delle persone disabili, attuando in tal modo i summenzionati principi di rango costituzionale[xvi]
Sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, con l’approvazione della l. n. 517/1977, si scorgono le prime previsioni innovative in materia, con il superamento del mero principio dell’inserimento scolastico. L’art. 2 della legge in parola stabilisce che «la scuola attua forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicap con la prestazione di insegnanti specializzati». Inoltre, si precisa che «devono inoltre essere assicurati la necessaria integrazione specialistica, il servizio socio-psicopedagogico e forme particolari di sostegno secondo le rispettive, competenze dello Stato e degli enti locali preposti, nei limiti delle relative disponibilità di bilancio e sulla base del programma predisposto dal consiglio scolastico distrettuale».
Sul piano delle competenze legislative, peraltro, si registra con la nascita delle Regioni un’attribuzione alle medesime di poteri di programmazione anche nell’ambito assistenziale; mediante il d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 si attua un concreto decentramento, con il trasferimento delle competenze in materia di assistenza e beneficenza pubblica in favore delle Regioni; in capo ai Comuni residua, inoltre, la competenza circa l’organizzazione e la gestione dei servizi nelle materie predette. Spettano invece allo Stato, secondo quanto previsto all’art. 5, «la funzione di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative delle regioni in materia sanitaria», oltre che le ulteriori funzioni di cui all’art. 6.
Ai soggetti disabili è poi specificamente dedicato l’art. 26 della successiva l. n. 833/1978, ove è espressamente previsto che «le prestazioni sanitarie dirette al recupero funzionale e sociale dei soggetti affetti da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali, dipendenti da qualunque causa, sono erogate dalle unità sanitarie loca- li attraverso i propri servizi. L’unità sanitaria locale, quando non sia in grado di fornire il servizio direttamente, vi provvede mediante convenzioni con istituti esistenti nella regione in cui abita l’utente o anche in altre regioni, aventi i requisiti indicati dalla legge, stipulate in conformità ad uno schema tipo approvato dal Ministro della sanità, sentito il Consiglio sanitario nazionale».
In conseguenza di tali previsioni ed in presenza di un’evidente frammentazione delle competenze tra Province, Comuni e Asl, si è pertanto registrata una palese difformità nell’attribuzione degli specifici compiti alle Asl in sede di legislazione regionale. Si noti altresì che talune Regioni, negli anni successivi, in assenza di un’organica riforma sul punto, hanno approvato proprie leggi nella materia della assistenza sociale e, in specifici casi, anche a proposito della tutela dei soggetti disabili.
Alla luce delle diverse legislazioni regionali approvate, pertanto, il legislatore nazionale giunge alla definizione di una regolamentazione organica in materia di disabilità, allo scopo di favorire una concreta integrazione del soggetto disabile nell’ambito familiare, scolastico, lavorativo e, in termini generali, nella società, mediante la suddetta legge 5 febbraio 1992, n. 104.
Ulteriore imprescindibile riferimento normativo in materia è rappresentato dalla l. 8 novembre 2000, n. 328, «Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali» mediante la quale il legislatore ha dettato una disciplina uniforme sul piano nazionale, dando avvio al Piano sociale nazionale, al fondo sociale nazionale, alla programmazione mediante Piani regionali e Piani di zona e, da ultimo, ha rinviato ad una serie di successivi atti la riorganizzazione globale del sistema dei servizi sociali.
La legge in questione, di seguito, pur in presenza dell’intervenuta riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 e, dunque, in virtù delle rilevanti modifiche occorse in tema di riparto di competenze tra Stato e Regioni e della sua c.d. “cedevolezza”, è stata ripresa dalle diverse legislazioni regionali, anche nella materia della disabilità, soprattutto per quel che concerne l’art. 14 della medesima disciplinante i «progetti individuali per le persone disabili», predisposti dai Comuni, d’intesa con le aziende unità sanitarie locali (oggi Asl), sulla scia di quanto già previsto dall’art. 39 della l. n. 104/1992 (di seguito integrato ad opera della l. n. 162/1998) in termini di «piani personalizzati». Il progetto individuale di cui all’art. 14, come da espressa previsione legislativa, «comprende, oltre alla valutazione diagnostico-funzionale, le prestazioni di cura e di riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale, i servizi alla persona a cui provvede il comune in forma diretta o accreditata, con partico- lare riferimento al recupero e all’integrazione sociale, nonché le misure economiche necessarie per il superamento di condizioni di povertà, emarginazione ed esclusione sociale».
3. Lo strumento del P.E.I.: competenze e alterne vicende sul piano normativo e nella giurisprudenza
Come anticipato, il testo normativo di riferimento nella materia dell’inclusione scolastica appare ancora oggi la legge n. 104/1992, sebbene interessata nel tempo da successivi e frequenti interventi di modifica, tra i quali non si possono non menzionare quelli recentemente disposti dal d.lgs. n. 66/2017 e dal d.lgs. n. 96/2019, recante disposizioni integrative e correttive al precedente d.lgs. 13 aprile 2017, n. 66, in materia di promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità, a norma dell’art. 1, commi 180 e 181, lett. c), della l. 13 luglio 2015, n. 107, c.d. legge “Buona Scuola”.
In dettaglio, la legge quadro n. 104/1992 dedica gli articoli da 12 a 16 all’istruzione e alla formazione degli alunni con disabilità.
All’art. 12, in particolare, si trova esplicitato il diritto all’educazione e all’istruzione del soggetto disabile, a partire dalla scuola dell’infanzia, sino alle istituzioni universitarie.
All’art. 12, comma 5, poi si prevede che, contestualmente all’accertamento della disabilità di cui all’art. 4 della legge quadro, i genitori del minore con disabilità possano richiedere l’accertamento della condizione di disabilità in età evolutiva ai fini dell’inclusione scolastica: «tale accertamento è propedeutico alla redazione del profilo di funzionamento, predisposto secondo i criteri del modello bio-psico-sociale della Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (ICF) dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), ai fini della formulazione del Piano educativo individualizzato (Pei) facente parte del progetto individuale di cui all’articolo 14 della legge 8 novembre 2000, n. 328».
Sul piano delle competenze nell’attuazione delle concrete misure di inclusione, inoltre, il provvedimento normativo del governo del 2017, sostituendo integralmente l’art. 15 della legge n. 104/1992, ha istituito un nuovo sistema di governancestrutturato su diversi livelli chiamati ad operare in maniera coordinata: così, a livello regionale, presso ogni Ufficio scolastico (USR) è stato istituito il Gruppo di Lavoro Interistituzionale Regionale (G.L.I.R.); per ciascun ambito territoriale è, inoltre, stato impostato il Gruppo per l’inclusione territoriale (G.I.T.), peraltro integrato dalle associazioni rappresentative delle persone con disabilità, oltre che dagli Enti locali e dalle Aziende sanitarie lo- cali. In aggiunta, presso ciascuna istituzione scolastica è stato istituito il Gruppo di lavoro per l’inclusione (G.L.I.), composto da docenti curricolari, docenti di sostegno e, eventualmente, da personale Ata, nonché da specialisti dell’Asl del territorio di riferimento dell’istituzione scolastica.
Da ultimo, con le modifiche disposte dal d.lgs. 96/2019 al testo del d.lgs. del 2017 si è introdotto all’art. 9, comma 10, il Gruppo di Lavoro Operativo (G.L.O.), quale raggruppamento del team dei docenti contitolari (per la scuola primaria) e dei membri del consiglio di classe (per la scuola secondaria), compreso l’insegnante di sostegno, e presieduto dal dirigente scolastico o da un suo delegato, aperto alla partecipazione dei genitori dell’alunno con disabilità, nonché alle figure professionali specifiche, interne ed esterne all’istituzione scolastica che interagiscono con la classe e con l’alunno disabile e con “il necessario supporto dell’unità di valutazione multidisciplinare”, competente nella stesura del Profilo di funzionamento.
Ebbene, in termini di specifiche competenze del gruppo in questione, la normativa predetta a livello nazionale statuisce, con specifico riferimento alla “proposta” delle ore di sostegno in favore dell’alunno con disabilità, che compete al G.L.O. l’elaborazione ed approvazione dello strumento del P.E.I.[xvii]; lo stesso art. 7, comma 2, lett. d) del d.lgs. n. 66/2017, inoltre, precisa che il G.L.O. è altresì chiamato ad esplicitare “le modalità di sostegno didattico, compresa la proposta del numero di ore di sostegno alla classe”; il P.E.I. va poi redatto in via provvisoria entro giugno e in via definitiva entro ottobre (lett. g)).
Lo stesso art. 9, comma 10 ribadisce che il P.E.I. comprende “la proposta di quantificazione di ore di sostegno e delle altre misure di sostegno, tenuto conto del profilo di funzionamento”.
Dunque, alla luce della suddetta normativa, occorre considerare che il Gruppo di lavoro operativo deve essere concepito quale organo facente capo all’istituzione scolastica, dotato di autonomia rispetto alle stesse istituzioni da cui trae le proprie componenti (scuola, famiglia, ambito sanitario, ente territoriale).
Ebbene, in aggiunta rispetto alle previsioni anzidette il d.lgs. n.66/2017 all’art. 7, comma 2-ter, ha demandato ad un apposito decreto del Ministero dell’Istruzione (di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze) la definizione del nuovo modello di P.E.I. per le istituzioni scolastiche. Così, qualche anno più tardi, il decreto interministeriale 29 dicembre 2020, n. 182, ha individuato: un nuovo modello di Piano Educativo Individualizzato (P.E.I.), unico per tutte le scuole, diversificato per ordine e grado (con allegati quattro modelli di P.E.I., rispettivamente per la scuola dell’infanzia, primaria, secondaria di primo e secondo grado); Linee guida finalizzate alla stesura del PEI; una scheda per l’individuazione del “debito di funzionamento”, cioè per l’individuazione delle principali dimensioni interessate dal bisogno di supporto per l’alunno ed una tabella per l’individuazione dei fabbisogni di risorse professionali per il sostegno e l’assistenza[xviii].
Al decreto in questione, tuttavia, hanno fatto seguito una serie di ricorsi presentati da associazioni di genitori di alunni disabili, sfociati in particolare nella nota pronuncia del T.A.R. Lazio, 14 settembre 2021, n. 9795, mediante la quale si è disposto di fatto l’annullamento del D.M. n. 182/2020 e degli atti connessi al medesimo, sulla base della principale argomentazione per cui le prescrizioni del d.i. avrebbero travalicato il perimetro delle deleghe predeterminate per legge sul punto[xix].
Il Ministero, conseguentemente, ha emanato la nota n. 2044 del 17 settembre 2021 mediante la quale ha evidenziato la necessità di dare continuità all’azione educativa e didattica a favore degli alunni con disabilità, rammentando la vigenza del d.lgs. n. 66/2017, come modificato dal d.lgs. 96/2019, laddove si ritrovano indicazioni dettagliate al fine di assicurare la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti nel progetto di inclusione[xx].
La vicenda si è arricchita, di seguito, di una ulteriore fase sul piano giurisprudenziale, con la sentenza del Consiglio di Stato del 26 aprile 2022 n. 3196, di accoglimento del ricorso presentato dai Ministeri dell’Istruzione e dell’Economia che, in contrasto con le statuizioni del T.A.R. Lazio del 2021 anzidette, ha confermato la vigenza del citato decreto interministeriale n.182/2020, oltre alle connesse Linee guida e ai modelli di P.E.I.[xxi].
Di fatto, dunque, all’esito di tale recente pronuncia, hanno riassunto una valenza per le istituzioni scolastiche il decreto recante “Adozione del modello nazionale di Piano educativo individualizzato e delle correlate Linee guida, nonché modalità di assegnazione delle misure di sostegno agli alunni con disabilità” ed i relativi allegati modelli di P.E.I.[xxii].
4. La questione dell’assegnazione delle ore di sostegno
Alla luce della richiamata normativa vigente in materia, le singole proposte approvate dai G.L.O. per ogni singolo alunno vengono dunque acquisite e valutate dai dirigenti scolastici al fine della formulazione della complessiva richiesta del personale di sostegno da assegnare all’istituto rivolta all’ufficio scolastico regionale. Le risorse professionali, peraltro, sono attribuite dagli enti preposti, tenuto conto dei principi di “accomodamento ragionevole”, sulla base della totalità delle richieste, secondo gli standard qualitativi previsti per legge[xxiii].
Sulla specifica questione, peraltro, è intervenuto il Consiglio di Stato mediante l’articolata pronuncia n. 2023/2017 nell’ambito della quale, rispetto alle ore di sostegno in favore dell’alunno disabile, si è rammentato il procedimento per cui anzitutto il G.L.O. rappresenta l’organo preposto all’elaborazione dei singoli P.E.I. all'interno degli scolastici, al termine delle ulteriori fasi – essenzialmente di accertamento della disabilità, valutazione della singola situazione e condizione di disabilità, elaborazione di un profilo di funzionamento – previste dall'art. 12, comma 5, l. n. 104/1992; di seguito il dirigente scolastico trasmette le relative risultanze agli Uffici scolastici e questi ultimi, a seguito dell'acquisizione dei dati, sono chiamati ad attribuire ai singoli istituti un numero di insegnanti di sostegno necessario al fine di coprire tutte le ore oggetto delle «proposte», salva la possibilità di esercitare un potere meramente correttivo, sulla base di riscontri oggettivi (come nell’ipotesi di errori materiali, ovvero laddove singoli alunni non risultino più iscritti presso un dato istituto, perché trasferitisi altrove)[xxiv].
In altri termini, il dirigente scolastico è inteso nell’ambito del procedimento di cui trattasi quale organo monocratico chiamato ad attribuire a ciascun alunno disabile un numero di ore di sostegno corrispondente a quello oggetto della singola proposta del G.L.O., dalla quale pertanto non si può discostare[xxv].
Nella stessa pronuncia del Consiglio di Stato, il supremo giudice amministrativo ha ritenuto dovesse essere considerato condivisibile l'orientamento della giurisprudenza amministrativa in base al quale sarebbe fondata la pretesa dei genitori a vedere attribuite ai propri figli disabili le ore di sostegno nella misura determinata dai G.L.O., con la conseguenza per cui, proprio per tale ragione, i dirigenti scolastici, dovendo evitare di emanare atti illegittimi, dovrebbero disporre l'attribuzione delle ore nella medesima misura, anche laddove gli Uffici scolastici non abbiano assegnato le risorse indispensabili.
Nella stessa sentenza si è altresì posto in evidenza l’interessante aspetto per cui emergerebbe dalla manifesta presenza di un contenzioso seriale posto all'esame dei T.A.R. e del Consiglio di Stato, in relazione a casi di attribuzione di ore di sostegno in numero inferiore rispetto a quelle indicate nelle «proposte» dei gruppi di lavoro, come solo i genitori in grado di proporre il ricorso giurisdizionale e soprattutto dotati dei mezzi anche economici per farlo, possano di fatto ottenere una pronuncia che ordini all'Amministrazione scolastica di consentire la fruizione delle ore nel numero determinato dal G.L.O., mentre lo stesso non possa dirsi per i genitori che di tali mezzi siano privi. Tale sistema tuttavia si porrebbe in evidente contrasto con quello desumibile dai principi costituzionali e dalle previsioni normative che, prima e dopo la nota sentenza della Corte costituzionale n. 80/2010, hanno attribuito agli alunni disabili il diritto di ottenere le ore di sostegno, nell’esatta misura individuata dal G.L.O.[xxvi].
In definitiva, la proposta circa le ore di sostegno spettanti all’alunno con disabilità, anche in relazione al livello ed alla gravità della disabilità, assumerebbe la natura di un potere attribuito all’organo, derivante dalla sua competenza di merito, in quanto organo collegiale composto sia da una componente scolastica, sia da una componente “medico-psichiatrica”, in particolare alla luce del “necessario supporto dell’unità di valutazione multidisciplinare” (ex art.9, comma 10 d.lgs. 66/2017)[xxvii].
5. Il caso di specie: istituti scolastici statali e comunali e relative competenze in materia di inclusione alla luce della normativa vigente
Nella vicenda in commento i genitori dell’alunno disabile impugnano, in primo luogo, i provvedimenti adottati dalla «Commissione Inclusione» (istituita dal Comune di Torino), lamentando una lesione al loro interesse legittimo con riferimento al sostegno scolastico per il figlio disabile e richiedendo l’assegnazione di 33 ore settimanali di sostegno, di cui 8 di assistenza specialistica; in secondo luogo il decreto del Ministro dell’istruzione, adottato di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze n. 182/2020, nella parte in cui ha previsto limiti quantitativi di ore di sostegno.
In primo grado, il T.A.R. Lazio riconosce la violazione procedimentale per cui il P.E.I. nel caso di specie era stato redatto senza l’intervento degli organi statali competenti (G.I.T. e G.L.O.), come statuito dalla normativa in materia di inclusione scolastica di rango primario e, in particolare, ai sensi dell’art. 15, commi 4 e 10, della legge n. 104/1992, come modificata dall’art. 9 del d.lgs. n. 66/2017 come da ultimo riformulato.
La sentenza di primo grado, in altri termini, già individua nello specifico il G.L.O. quale unico organo competente ai fini della stesura del P.E.I., precisando come la normativa statale non possa essere derogata da previsioni proprie della singola amministrazione comunale. La medesima pronuncia di primo grado contestualmente dichiarava inammissibile l’ulteriore richiesta dei coniugi di ottenere ore di sostegno didattico in rapporto 1 a 1.
L’ente territoriale, nel caso in esame, propone dunque appello avverso la sentenza del T.A.R. Lazio sostenendo che nell’assegnazione delle ore di sostegno nell’ambito di una scuola scuola comunale non sarebbero chiamati ad intervenire gli organi previsti per le istituzioni scolastiche statali (nella fattispecie il G.L.O.), ma opererebbero invece quelli individuati dall’ente locale (nel caso in questione la commissione di inclusione istituita dall’amministrazione comunale, in aderenza al principio posto dall’art.118 Cost.
Quest’ultima commissione sostituirebbe cioè il gruppo di lavoro operativo e potrebbe svolgere le funzioni attribuite dalla normativa statale al medesimo in ragione della concreta “potestà autorganizzatoria che, per ragionevole simmetria con la scuola statale, affida alla Commissione di inclusione il compito di fornire al dirigente amministrativo delle scuole dell’infanzia comunali il supporto tecnico necessario per garantire l’inclusione dei bambini disabili”.
Sul punto, si esprime il supremo consesso della giustizia amministrativa nell’ambito della pronuncia in esame precisando come la “Commissione di inclusione” facente capo all’ente territoriale non possa operare in sostituzione degli organi ministeriali.
A tale conclusione giunge peraltro il Collegio rilevando come le norme sull’inclusione scolastica degli studenti affetti da disabilità debbano considerarsi sempre applicabili, indipendentemente dalla tipologia di scuola che tale alunno frequenta; in altri termini, le previsioni – e nello specifico anche quelle concernenti gli organi competenti rispetto alla redazione dei piani propedeutici e del P.E.I. medesimo – risultano applicabili sia alle scuole statali, sia a quelle non statali, ovvero anche degli enti locali, come nel caso concreto in esame, sulla base di quanto disposto sul piano normativo dal d.lgs. n.66/2017 nella sua più recente formulazione[xxviii].
Infatti, la medesima esclusione delle scuole non statali dall’applicazione delle norme statali sull’inclusione scolastica non troverebbe fondamento in alcun testo legislativo ed anzi risulterebbe smentita dal dettato dell’articolo 2, comma 1 del d.lgs. 66/2017, laddove è garantito alla persona con disabilità certificata il diritto all’educazione, all’istruzione ed alla formazione; sul piano testuale non sarebbe possibile individuare alcun limite di applicabilità della normativa recente – di ridefinizione del sistema organizzativo preposto all’integrazione nel sistema di istruzione scolastica di soggetti con disabilità, attraverso l’istituzione dei gruppi di lavoro “multilivello” – riferibile a profili di carattere soggettivo, ovvero all’ente pubblico, Stato o altro livello di governo territoriale, nella cui organizzazione amministrativa è inserito l’istituto scolastico[xxix].
In definitiva, rispetto ai principi di sussidiarietà e di autonomia dell’ente locale (ai sensi dell’art. 118 Cost.) occorre dare prevalenza all’esigenza di garantire un trattamento uniforme da parte di tutte le istituzioni su base nazionale, circa la tutela della disabilità e l’inclusione del disabile, anche sul piano scolastico[xxx]. La predetta esigenza appare ad ogni modo riconducibile ai principi costituzionali “di uguaglianza, tutela della famiglia e dell’assolvimento dei compiti ad essa relativi, della salute, diritto allo studio e apertura della scuola a tutti, enunciati dagli artt. 3, 30, 31, 32, 33 e 34 della Carta fondamentale e richiamati nel preambolo del più volte richiamato decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 66”[xxxi].
6. Brevi considerazioni conclusive
Negli anni più recenti si è registrata una proliferazione di pronunce dei giudici amministrativi e ordinari sulla tematica dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità, con particolare riferimento alle concrete misure di concretizzazione e implementazione della logica inclusiva, sancita sul piano dei principi anche nella Carta costituzionale.
In particolar modo, si sono registrate numerosissime sentenze sul tema della concreta assegnazione delle ore di sostegno spettanti all’alunno disabile come risultanti dai piani educativi individualizzati elaborati dai singoli gruppi operativi per l’inclusione a ciò preposti ai sensi della normativa nazionale in materia.
Peraltro, la stessa materia e le specifiche questioni concernenti il P.E.I. (la sua struttura e formulazione; le competenze rispetto alla redazione dei piani individualizzati e alla assegnazione delle ore di sostegno) sono state oggetto di successive e frenetiche rivisitazioni anche in ambito normativo, sulla scorta delle stesse pronunce giurisprudenziali di segno opposto rese sul tema[xxxii].
In senso generale, il quadro che ne risulta appare, ancora oggi, estremamente frammentario e disarmonico e, evidentemente, di difficile interpretazione per gli operatori del settore: in particolare, talune previsioni in materia di inclusione sono riportate nell’ambito della l. 104/1992, mentre altre concernenti l’assegnazione delle risorse professionali per il sostegno si trovano nell’ambito di provvedimenti legislativi sul contenimento della spesa pubblica[xxxiii].
In una materia strettamente legata a diritti fondamentali di rango costituzionale occorrerebbero di contro meccanismi e procedure in grado di garantire sul piano amministrativo la concretizzazione di tali diritti senza necessità di presentare ricorsi giurisdizionali volti al riconoscimento di misure e strumenti di fatto individuati e garantiti dalla legge[xxxiv].
[i] In tema cfr. gli artt. 12 e ss. della legge 5 febbraio 1992, n. 104, recante “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”. In materia sia consentito un rinvio a I. Genuessi, Gli interventi e le prestazioni a sostegno dei disabili, in F. Manganaro, R. Morzenti Pellegrini, V. Molaschi, D. Siclari, Manuale di legislazione dei servizi sociali. Estratto, Torino, 2022, pp. 467-496. Cfr. altresì F. Magni, Dall’integrazione all’inclusione. Il nuovo profilo del docente di sostegno, Roma, 2018; l. buscema, r. caridà, g. de luca, r. di maria, a. morelli, v. pupo, Lineamenti di legislazione scolastica per l’inclusione, Torino, 2022; M. Interlandi (a cura di), Funzione amministrativa e diritti delle persone con disabilità, Napoli, 2022; S. Baroncelli (a cura di), Diritto all’istruzione e inclusione nelle scuole dopo la pandemia. quali diseguaglianze, quale autonomia?, in Federalismi.it, 32/2022; R. Rolli, C. De Benetti, G. Festa, C. Aquino, Legislazione scolastica. Dalla riforma Gentile alla legge sulla Buona Scuola, Amon, 2023.
[ii] In merito a tale decreto occorre rilevare come le previsioni dello stesso concernenti la struttura e modelli di P.E.I. per i diversi gradi scolastici si siano posti al centro di una querelle sul piano giurisprudenziale, a proposito della stessa natura dell’atto impiegato dal governo al fine di dettare i riferimenti in materia di P.E.I. Si v. sul punto, in particolare il § 3.
[iii] Recente decreto legislativo in materia recante “Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità, a norma dell’articolo 1, commi 180 e 181, lettera c), della legge 13 luglio 2015, n. 107”.
[iv] Diversi documenti e strumenti sul piano internazionale hanno favorito il processo predetto nel senso di una sempre maggiore integrazione. In tal senso, non si può non fare riferimento alla ratifica nel 2009 della “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”, laddove all’art. 24 è previsto che “Gli Stati Parti riconoscono il diritto all’istruzione delle persone con disabilità. Allo scopo di realizzare tale diritto senza discriminazioni e su base di pari opportunità, gli Stati Parti garantiscono un sistema di istruzione inclusivo a tutti i livelli ed un apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita”.
[v] Cfr. sul tema A. Canevaro-M. Mandato, L’integrazione e la prospettiva inclusiva, Roma, 2004; A. Canevaro (a cura di), L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Trent’anni di inclusione nella scuola italiana, Trento, 2007; L. D’alonzo, In- tegrazione del disabile. Radici e prospettive educative, Brescia, 2008; A. Canevaro-L. D’alonzo- D. Ianes, L’integrazione scolastica degli alunni disabili in Italia dal 1977 al 2007, Bolzano, 2009.
[vi] Sul tema della disabilità e inclusione nel diritto internazionale e eurounitario si v. V. Pupo Il diritto internazionale e ID., Il diritto euro-unitario, in l. buscema, r. caridà, g. de luca, r. di maria, a. morelli, v. pupo, Lineamenti di legislazione scolastica per l’inclusione, Torino, 2022, 67 ss.
[vii] V. sul dettato dell’art. 34 Cost..: A. Poggi, Art. 34, in AA. VV., Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Torino, 2006, 699 ss.; F. Fracchia, Il sistema nazionale di istruzione e formazione, Torino, 2008; M. Benvenuti, L’istruzione come diritto sociale, in AA. VV., Le dimensioni costituzionali dell’istruzione, a cura di F. Angelini e M. Benvenuti, Napoli, 2014, 147 ss.
[viii] In proposito cfr. tra gli altri contributi sul tema: U. Pototschnig, Istruzione (diritto alla), in Enc. dir., XXIII, Milano, 1973; S. Cassese – A. Mura, Artt. 33 e 34, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1976; C. Marzuoli, Istruzione e servizio pubblico, Urbino, 2003.
[ix] Cfr. in argomento S. Baronchelli, Diritto alle Diversità e inclusione nelle scuole. Disabilità, condizioni economico-sociali, background migratorio, genere, e minoranze linguistiche, in Federalismi.it, n. 32/2022, XI.
[x] V. in merito R. Rolli – M. Maggiolini, Il diritto all’istruzione nella Carta costituzionale e riferimenti comunitari, in R. Rolli – C. De Benetti – G. Festa, C. Aquino, Legislazione scolastica. Dalla riforma Gentile alla legge sulla Buona Scuola, Amon, 2023, 52 ss.
[xi] Si fa riferimento alla legge 10 marzo 2000, n. 62, recante “Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all'istruzione”, laddove all’art. 1 si definiscono scuole paritarie abilitate a rilasciare titoli di studio aventi valore legale, tutte le istituzioni scolastiche non statali, comprese quelle degli enti locali, coerenti con la domanda formativa delle famiglie e caratterizzate da requisiti di qualità ed efficacia esplicitati dalla medesima legge.
[xii] Corte cost., 3 giugno 1987, n. 215, in Giur. it. 1988, I,1,148.
[xiii] Corte cost. 16 dicembre 2016, n. 275, in Foro it. 2017, 9, I, 2591.
[xiv] In merito si v. E. Balboni- B. Baroni-A. Mattioni-G. Pastori (a cura di), Il sistema integrato dei servizi sociali. Commento alla legge n. 328 del 2000 e ai provvedimenti attuativi dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, Milano, II ed., 2007.
[xv] V. Franchi Scarselli, Gli alunni e gli studenti con disabilità, DSA e BES, in E. Codini-A. Fossati-S. A. Frego Luppi, Manuale di diritto dei servizi sociali, Torino, 2019, in partic. 194 ss.
[xvi] In proposito cfr. S. Dugone-S. Silvestri, Riferimenti normativi ed epidemiologia, in G. De Polo-M. Pradal-S. Bortolot (a cura di), ICF-CY nei servizi per la disabilità. Indicazioni di metodo e prassi per l’inclusione, Milano, 2011, 49 ss.
[xvii] Sul contenuto dei PEI nella giurisprudenza più recente si v., tra le altre: T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 27 gennaio 2022, n. 217; T.A.R. Lazio Roma, sez. III, 10 giugno 2021, n. 6920; T.A.R. Lazio, Latina, sez. I, 9 novembre 2020, n. 402; T.A.R. Lazio Roma, sez. III bis, 3 settembre 2020, n. 9316.
[xviii] Cfr. Decreto interministeriale n. 182/2020 rubricato “Adozione del modello nazionale di piano educativo individualizzato e delle correlate linee guida, nonché modalità di assegnazione delle misure di sostegno agli alunni con disabilità”.
[xix] Cfr. T.A.R. Lazio, Roma Sez. III bis, 14 settembre 2021, n. 9795, in Famiglia e Diritto, 2022, 2, 180, con nota di GELLI. Il T.A.R. Lazio, nel dettaglio, nella pronuncia in questione, ha annullato il decreto interministeriale n. 182/2020, perché illegittimo, trattandosi di un provvedimento che presenta tutti i caratteri (generalità, astrattezza e innovatività) propri di una fonte normativa di secondo grado, sub specie di regolamento, adottata in violazione delle disposizioni procedimentali dettate dall’art. 17, L. 23 agosto 1988, n. 400. In tal senso, in aggiunta, il decreto si porrebbe in contrasto con i principi e criteri direttivi che promanano dalle norme nazionali ed internazionali, in materia di inclusione di soggetti affetti da disabilità.
[xx] Nota ministeriale n. 2044, del 17 settembre 2021, a margine della sentenza del TAR Lazio n. 9795/2021, recante “Indicazioni operative per la redazione dei PEI per l’a.s.2021/2022”.
[xxi] Cfr. Cons. Stato, sez. VII, 26 aprile 2022, n. 3196. La pronuncia si fonda sulla duplice argomentazione per cui, da un lato, il D.I. 182/2020 non sarebbe un atto regolamentare, ma avrebbe natura di atto amministrativo generale e, dall’altro, il T.A.R. Lazio avrebbe svolto una funzione impropria di controllo oggettivo sulla legittimità dell’atto generale in assenza della dimostrazione di lesioni concrete e attuali di interessi legittimi, travalicando di conseguenza il perimetro designato dall’art. 7 del Codice del processo amministrativo.
[xxii] Si noti, peraltro, come il decreto in questione pare abbia drasticamente ridotto i margini di discrezionalità valutativa del gruppo di lavoro operativo, prevedendo un meccanismo di rigida predeterminazione delle risorse professionali destinate al sostegno didattico, fondato sul c.d. “debito di funzionamento”. Come precisato nell’ambito degli allegati al decreto interministeriale, infatti, il fabbisogno dell’alunno deve essere commisurato sulla base di precisi range che definiscono la forbice minima e massima delle ore di sostegno necessarie per ripristinare condizioni di funzionamento accettabili, in relazione alle sue capacità, secondo cinque livelli che indicano l’entità delle difficoltà riscontrate, su una scala che va da assente sino a molto elevata. Di conseguenza, sul piano generale, si determina una rimodulazione delle risorse messe a disposizione del disabile, scardinando il c.d. “rapporto 1:1” tra gravità dell’handicap e entità del sostegno.
In argomento si v. R. Gelli, Piano educativo individualizzato e sostegno all’alunno disabile, in Famiglia e Diritto, 2022, 2, 177.
[xxiii] In merito, occorre rammentare che al fine di concretizzare l’inserimento in classe di alunni con handicap, la legge n. 517/1977 aveva istituito i c.d. “posti di sostegno”, da assegnare a docenti specializzati. Di seguito, sempre sul piano normativo, nel 1982, il contingente organico degli insegnanti di sostegno veniva determinato nella misura di un posto ogni 4 alunni con certificazione di handicap (ai sensi dell’art. 12 della legge n. 270; di seguito art. 139 del d.lgs. n. 297/1997). Da ultimo, alla luce degli ingenti e crescenti costi, individuati diversi meccanismi di assegnazione nell’ambito delle leggi finanziarie, si è approdati alle previsioni di cui alla legge n. 107/2015 (art. 1, comma 75) la quale ha disposto che “l’organico dei posti di sostegno è determinato nel limite previsto dall’articolo 2, comma 414, secondo periodo, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, e successive modificazioni, e dall’articolo 15, comma 2-bis, del decreto-legge 12 settembre 2013, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2013, n. 128, ferma restando la possibilità di istituire posti in deroga ai sensi dell’articolo 35, comma 7, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e dell’articolo 1, comma 605, lettera b), della legge 27 dicembre 2006, n. 296.” La norma, di difficile lettura quantomeno nel richiamo ad una serie di ulteriori previsioni di cui a precedenti leggi di bilancio, ha ad ogni modo disposto un organico dei posti di sostegno pari al 100/100 del numero dei posti complessivamente attivati nell’anno scolastico 2006/2007, oltre alla possibilità di istituire posti in deroga mediante il ricorso alle supplenze annuali.
[xxiv] V. Cons. Stato, sez. VI, 3 maggio 2017, n. 2023, in Diritto & Giustizia, 79, 2017, 16 ss., con nota di Bombi.
Nell’ambito della nota pronuncia in parola i giudici hanno, in particolare, posto in evidenza che “l’art. 10, comma 5, ha attribuito il nomen iuris di «proposte» agli atti del G.L.O.H. sulla determinazione delle ore, non perché altre autorità – peraltro non aventi specifiche competenze di natura medica o didattica sulle esigenze degli alunni disabili – possano esercitare un ‘potere riduttivo di merito, ovvero ridurre le ore assegnate, ma per la semplice ragione che tali «proposte» sono atti interni al procedimento, e cioè sono redatte quando non sono ancora state rilevate le effettive esigenze e non sono stati assegnati gli insegnanti di sostegno. Le proposte hanno invece la funzione di attivare dapprima la fase di competenza degli Uffici scolastici e poi la fase finale, di attribuzione delle ore da parte del dirigente scolastico. Poiché nessuna disposizione ha attribuito agli Uffici scolastici il potere di sottoporre a un riesame di merito quanto proposto dal G.L.O.H., l’art. 4 del d.P.C.M. n. 185 del 2006, che definisce «autorizzazione» l’atto del dirigente preposto dell’Ufficio scolastico regionale, va allora interpretato nel senso di prevedere un atto meramente ricognitivo, il quale constata che sussistono i relativi presupposti di spesa, senza poterli modificare, e giustifica l’impegno e il pagamento delle relative somme. (...) gli Uffici scolastici, a seguito dell’acquisizione dei dati, devono attribuire ai singoli Istituti tanti insegnanti di sostegno, quanti ne sono necessari per coprire tutte le ore che sono risultate oggetto delle «proposte», salva la possibilità di esercitare un potere meramente correttivo, sulla base di riscontri oggettivi”.
Sempre in argomento si v. Cass. civ., sez. un., 8 ottobre 2019, n. 25101, in Guida al diritto, 2019, 44, 36, la quale ha ripreso integralmente le argomentazioni del Consiglio di Stato suddette. Nel dettaglio, le sezioni unite hanno posto in evidenza, rispetto ad una fattispecie analoga a quella in commento (si trattava del caso di un Comune che contravvenendo a quanto previsto dal piano dinamico funzionale di un minore disabile, disponeva l'assistenza nei suoi confronti per un massimo dì dieci ore settimanali al posto delle 22 stabilite), come una volta che il piano educativo individualizzato del minore disabile abbia fissato il numero di ore ritenute necessarie per il sostegno, l'amministrazione scolastica non possa assegnare un monte ore inferiore, non sussistendo in tal caso alcun potere discrezionale. La mancata assegnazione delle ore di sostegno corrispondenti al piano individuale contrasterebbe, infatti, con il diritto fondamentale del minore che versa in una situazione di handicap ad una pari opportunità nella fruizione del servizio scolastico.
[xxv] Peraltro nella sentenza si pone in luce il principio già individuato dalla sentenza della Corte costituzione (Corte cost. 22 febbraio 2010 n. 80), per cui “le posizioni degli alunni disabili devono prevalere sulle esigenze di natura finanziaria” e, dunque, “ad un maggiore livello di disabilità deve corrispondere un maggior grado di assistenza”.
In dottrina si v. m. lottini, Scuola e disabilità. I riflessi della sentenza n. 80 del 2010 della Corte Costituzionale sulla giurisprudenza del giudice amministrativo, in Foro amm. T.A.R., 2011, 2403 ss.
[xxvi] V. in argomento M. Bombi, Diritto allo studio, disabilità e competenze, in Diritto & Giustizia, 79, 2017, p. 16.
[xxvii] Cfr., tra le altre pronunce della giurisprudenza amministrativa, T.A.R. Lazio, Roma, sez. III bis, n. 2270/2021 e Cons. Stato, sez. VI, n. 3393/2017; v. altresì sul punto Trib. Rieti, 12 febbraio 2020.
[xxviii] Nell’ambito della pronuncia in commento si trova testualmente scritto che “le norme sull’inclusione scolastica di studenti affetti da disabilità introdotte con il citato decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 66, sono di generale applicazione, senza distinzione tra scuole statali e scuole non statali”.
[xxix] È la stessa sentenza in esame che rammenta come si presenta il sistema dei gruppi di lavoro su vari livelli concretamente volto all’inclusione dello studente disabile e così con la presenza: di un gruppo interistituzionale regionale, con funzioni di consulenza e proposta e di supporto agli organi territoriali; per ogni ambito provinciale di un gruppo di inclusione territoriale, con funzioni di supporto delle istituzioni scolastiche nella definizione dei programmi educativi individualizzati; quindi di un gruppo di lavoro per l’inclusione presso ogni istituto scolastico, con il compito di supportare il collegio dei docenti nella definizione e realizzazione del piano per l’inclusione e i docenti preposti alla relativa attuazione e, infine, del gruppo di lavoro operativo per il singolo alunno, al quale ha fatto riferimento la stessa sentenza di primo grado.
[xxx] In argomento si v. R. Morzenti Pellegrini, L’autonomia scolastica tra sussidiarietà, differenziazione e pluralismi, Torino, 2006.
[xxxi] Cfr. Cons. Stato, sez. VII, 3 maggio 2023, n. 4473.
[xxxii] Così, anche in dottrina si è rammentato come nell’ambito di recente giurisprudenza amministrativa sia stato ribadito il pieno diritto all’inclusione degli studenti con disabilità, peraltro sulla scia di un pacifico orientamento in base al quale allo studente disabile devono essere riconosciute tutte le ore di sostegno individuate dal P.E.I. Si v., in tal senso, T.A.R. Lazio Sez. III bis, 10 giugno 2021, n. 6920.
A seguito dell’entrata in vigore del decreto interministeriale n. 182/2020 e della sostanziale modifica dell’iter di approvazione, oltre che dell’effettivo contenuto dello stesso piano educativo individualizzato, si sono, tuttavia, registrate anche sentenze di orientamento differente con specifico riferimento alla questione della assegnazione delle ore di sostegno. Cfr. anche, sul punto, T.A.R. Lazio Roma Sez. III bis, 14 settembre 2021, n. 9795. In dottrina si v. R. Gelli, Piano educativo individualizzato e sostegno all’alunno disabile, cit.; R. Caridà, Il Progetto individuale, il Piano Educativo Individualizzato, il Piano Didattico Personalizzato, in l. buscema, r. caridà, g. de luca, r. di maria, a. morelli, v. pupo, Lineamenti di legislazione scolastica per l’inclusione, cit., p. 179 ss.
[xxxiii] V., in argomento, R. Cabazzi, Diritti incomprimibili degli studenti con disabilità ed equilibrio di bilancio nella finanza locale secondo Corte costituzionale n. 275/2016, in Le Regioni, 2017, 3, pp. 593-607; F. Gambardella, Diritto all’istruzione dei disabili e vincoli di bilancio nella recente giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Nomos, 2017, 1, pp. 1-14; M. Franzini, La difficile conciliazione tra finanza pubblica e welfare state, in RDSS, 2019, 4, pp. 681-702; L. Giani, Disabilità e diritto all’istruzione: alla ricerca di un difficile equilibrio tra persona e valore economico della prestazione (pubblica), in M. Interlandi (a cura di), Funzione amministrativa e diritti delle persone con disabilità, Napoli, 2022, p. 139 ss.
[xxxiv] In merito, in dottrina, si è posto in evidenza, rispetto al ruolo del gruppo di lavoro operativo nella redazione del PEI e nella formulazione della concreta proposta di assegnazione delle adeguate misure di sostegno, come “guardando al reale funzionamento degli ingranaggi del sistema scolastico, molte perplessità sorgono anche per una sorta di impermeabilità manifestata nel corso degli anni alla implementazione di principi, quelli ad esempio del procedimento amministrativo, nonostante il loro riconoscimento come livelli essenziali delle prestazioni. Si pensi ad esempio al funzionamento degli organi collegiali, e in particolare quelli deputati alla formulazione del PEI o del PDP, alla composizione degli stessi, ottimamente delineata nella disposizione normativa, ma non sempre garantita in concreto, sebbene la presenza di diverse componenti professionali dovrebbe far riflettere sulla «natura del collegio» e sulla (in)fungibilità delle professionalità in esso presenti”. Così L. Giani, Disabilità e diritto all’istruzione: alla ricerca di un difficile equilibrio tra persona e valore economico della prestazione (pubblica), cit., p. 159.
Il ruolo dei princìpi nel diritto amministrativo. Introduzione a Princìpi e regole dell’azione amministrativa – Quarta edizione 2023 di Maria Alessandra Sandulli
Sommario: 1. Premessa. — 2. La complessità delle fonti. — 3. Cenni alle più recenti tendenze del sistema e al difficile equilibrio tra celerità e certezza. —4. Il ruolo dei princìpi. — 5. Osservazioni conclusive.
1. Premessa.
“Principi e regole dell’azione amministrativa” è giunto ormai alla quarta edizione e il successo delle precedenti (2015, 2017 e 2020) dimostra la validità della formula e l’utilità di una riflessione sistematica sulle “regole” fonda- mentali di esercizio del potere amministrativo, quali delineate dalla legge n. 241 del 1990 s.m.i., inquadrandole nell’ambito dei “principi”, costituzionali ed euro- pei, di garanzia della sua correttezza.
L’emergenza pandemica da SARS-Covid19 che ha stravolto il mondo intero all’inizio del 2020 ha dato a tutti chiara e immediata evidenza del rapporto della nostra esistenza con il potere amministrativo e dell’importanza dei principi e delle regole che ne informano l’esercizio, sul piano dell’organizzazione e delle modalità di azione. Sin dalla nascita, in realtà, con l’iscrizione all’anagrafe, abbiamo un contatto con il diritto amministrativo. Poi lo abbiamo con le vaccinazioni, con l’uso dei mezzi di trasporto pubblico, con l’iscrizione a scuola, con le regole sulla circolazione stradale, ecc.. La lettura del codice della strada è ex se sufficiente per avere un’idea della nostra materia: vi ritroviamo le fonti (di livello primario e secondario), le autorizzazioni, i divieti, le sanzioni, ecc.. Sappiamo che la pubblica amministrazione, con i suoi provvedimenti (e, oramai, addirittura, con i suoi comportamenti), può concedere beni o diritti, rimuovere limiti all’esercizio di nostre libertà (pensiamo per tutte alle libertà di circolazione o di espatrio, che richiedono il possesso di appositi documenti, o alla libertà di avviare un’attività professionale o imprenditoriale, che richiede la verifica del possesso di determinati requisiti), ma anche imporre prestazioni (pensiamo per tutti agli obblighi tributari e scolastici) o privare di diritti o di beni in nome di prevalenti finalità pubbliche (come accade con l’espropriazione o la requisizione di beni per ragioni di pubblica utilità).
Ma la pandemia ci ha dato immediata percezione anche di molto altro: la complessità del quadro normativo, aggravata dal susseguirsi e intrecciarsi di ordinanze e decreti (governativi, ministeriali, regionali, locali), la difficoltà del bilanciamento degli interessi, pubblici e privati (l’esigenza di evitare o almeno ridurre il rischio del contagio ha imposto pesantissimi periodi di lock down, che hanno fortemente inciso sulle libertà personali ed economiche, oltre che sullo stesso diritto alle cure per altre malattie),l’incertezza delle autodichiarazioni, e, ancora, i problemi legati al delicato rapporto tra tutela dei dati personali ed esercizio dell’attività amministrativa (su questi temi, inter aliis, G. TROPEA, Biopolitica e diritto amministrativo del tempo pandemico, Napoli,2023).
L’impatto con l’emergenza COVID-19 ha portato anche a una valorizzazione del ruolo del diritto amministrativo, non soltanto perché ha messo in evidenza la gravità delle conseguenze che possono derivare dai deficit organizzativi degli apparati pubblici e dei gestori privati di servizi pubblici, ma anche perché la ripresa economica è strettamente condizionata dalla buona gestione del potere e dei compiti delle pubbliche amministrazioni. Da qui anche l’accento posto dalle più recenti riforme sulla “formazione”.
L’importanza del diritto amministrativo è stata peraltro recentemente rimarcata anche nell’ambito di una ricerca di diritto comparato, che ha messo in luce come esso sia a ben vedere presente in quasi tutti i Paesi e risponda a un’esigenza comune, che induce a superare la vecchia, netta, distinzione tra ordinamenti di civil law e ordinamenti di common law (G. DELLA CANANEA, Il nucleo comune dei diritti amministrativi in Europa. Un’introduzione, Napoli 2019).
È noto che l’indirizzo politico è tradotto in norme di legge, ma gli obiettivi fissati dal legislatore devono trovare concreta ed efficace attuazione da parte del c.d. potere esecutivo, il quale, a sua volta, per non sconfinare in arbitrio, deve essere soggetto a un adeguato sistema di controlli, interni e giurisdizionali.
Certezza delle regole, buon andamento dell’amministrazione ed effettività della tutela contro i suoi errori ed eccessi sono glielementi fondanti e imprescin- dibili dello Stato di diritto.
Torneremo diffusamente e insistentemente su questi concetti nei vari contributi del volume — destinato a chi si approccia a uno studio impegnato del diritto (a partire dagli studenti degli ultimi anni delle nostre Università) — che è appunto dedicato ai “principi e regole dell’azione amministrativa”, nella convinzione che sia essenziale alla formazione di un giurista — e tanto più di un giuramministrativista — averne chiara contezza e, soprattutto, riuscire ad approcciare in modo critico ai loro contenuti e alla loro applicazione.
Merita preliminarmente fare alcuni brevissimi cenni all’evoluzione del diritto amministrativo.
Come ricordato nell’introdurre le precedenti edizioni, il diritto amministrativo è una branca del diritto pubblico sorta per disciplinare i compiti, l’azione e l’organizzazione della pubblica amministrazione, essenzialmente individuata nel c.d. “Stato-apparato”.
G.D. ROMAGNOSI, nel 1814, definiva l’amministrazione pubblica come “l’attività di amministrare, intesa come serie di azioni interessanti tutta una società politica, eseguite per autorità sovrana o delegata, sopra le materie appartenenti o interessanti tutto il corpo politico o la sovranità medesima”. Il Manuale di diritto amministrativo di A.M. SANDULLI (prima ed. 1952, ult. ed. 1989), si apre con l’affermazione che “La definizione del diritto amministrativo presuppone il concetto di pubblica amministrazione” e che “Per giungere a questo occorre partire dalla nozione di Stato”. L’amministrazione veniva infatti inqua- drata tra i compiti dello Stato e definita “l’attività mediante la quale gli organi statali a ciò preposti (Stato-soggetto o Stato-apparato amministrativo o Stato-amministrazione) provvedono alla cura degli interessi a essi affidati”.
Dalla prima edizione del “Manuale”, sul quale si sono formate generazioni di studiosi e che non ha per comune opinione mai più trovato uguali, sono ormai passati oltre 70 anni.
Oggi, il diritto amministrativo può essere definito come il complesso di regole che disciplinano i compiti, l’azione e l’organizzazione delle pubbliche amministra- zioni (Stato, regioni, province, comuni, città metropolitane, ma anche tutti gli altri enti pubblici) e, nei casi prestabiliti dalla legge, degli altri soggetti che perseguono fini di pubblico interesse.
Più aumentano i compiti delle pp.aa. e i fini di pubblico interesse, maggiori saranno i controlli e i poteri di intervento e di condizionamento sulle attività private: pensiamo soltanto a quanto hanno cambiato e cambiano la nostra vita l’attenzione alla tutela dell’ambiente e la preoccupazione per le nuove genera- zioni, ma anche la promozione della parità di genere, della digitalizzazione,ecc.
La scelta degli ordinamenti di elaborare un sistema di “diritto amministra- tivo” è legata al riconoscimento dell’esigenza di un diritto speciale per la disciplina delle attività di interesse pubblico, inteso sempre più come interesse generale (della collettività).
L’esistenza di un “diritto amministrativo” in un determinato sistema giuridico presuppone pertanto che:
La ragione di un diritto speciale per l’attività di interesse pubblico è di facile intuizione.
Per poter perseguire in modo effettivo ed efficace tale interesse, i soggetti ai quali ne è affidata la cura devono poter imporre le proprie determinazioni senza necessità del consenso dei relativi destinatari (si pensi così, con riferimento alle prime esigenze di uno Stato, all’imposizione tributaria o alla chiamata alle armi; ma anche, con riferimento alla graduale evoluzione dei suoi compiti, agli obblighi scolastici o sanitari, ecc.) e, spesso, portarle coattivamente ad esecuzione (si pensi, inter alia, agli ordini di demolizione degli edifici abusivi o di abbattimento degli animali infetti).
L’esigenza di un diritto amministrativo come diritto speciale trova origine nell’evoluzione storica dallo Stato assoluto (in cui il Sovrano accentrava in sé ogni potere) allo Stato liberale, che, attraverso la Rivoluzione francese, ha visto nascere e svilupparsi la contrapposizione tra autorità e libertà e la conseguente necessità di riconoscere e al tempo stesso arginare il “privilegio del potere”, legato alla stretta correlazione tra “amministrare” e “governare” e caratterizzato dall’autoritatività (giustificata dalla prevalenza dell’interesse pubblico su quello individuale: O. MAYER; V.E. ORLANDO).
In uno Stato costituzionale di diritto, il potere di interferire in modo autori- tativo nella sfera giuridica altrui deve essere evidentemente definito e delimitato da un contesto normativo chiaro e certo (principio di certezza del diritto, declinato nel principio di legalità), ovvero da regole giuridiche previe, generali e astratte, più o meno stringenti (cui corrisponde la graduazione del potere amministrativo da vincolato a discrezionale (su cui si veda l’apposito contributo subito infra), di natura sostanziale (fissazione di obiettivi per rispondere a specifiche finalità di interesse pubblico) e procedimentale (competenza, modalità e tempistiche di azione, effetti, ecc.), che assicurino l’imparzialità dell’azione pubblica (su cui v. infra il contributo di L. ANTONINI) e il miglior bilanciamento dei diversi interessi (pubblici e privati) coinvolti (principio di buona amministrazione, nei suoi molte-plici corollari, su cui v. infra ilcontributo di M.R. SPASIANO).
Il rispetto di queste regole deve essere peraltro garantito attraverso appositi sistemi di controllo (interno ed esterno) e, soprattutto, attraverso adeguate moda- lità di tutela giurisdizionale (principio di effettività della tutela), che, tendenzial-mente, giustificano un apposito sistema di giustizia amministrativa (che può o meno prevedere l’istituzione di un apparato giurisdizionale diverso e autonomo da quello ordinario).
Il nostro ordinamento giuridico conosce un complesso sistema di diritto amministrativo sostanziale e un apposito sistema giurisdizionale per la tutela delle posizioni soggettive confliggenti con l’esercizio dei pubblici poteri (nato dal combinato disposto della l. n. 2248 del 1865, all. D ed E, con la l. n. 5992 del 1889 e ora retto dai principi costituzionali e disciplinato dal combinato disposto della mede- sima legge del 1865 con il codice del processo amministrativo, approvato, in forza della delega conferita dalla l. n 69 del 2009, con il d.lg. n. 104 del 2010 e s.m.i., integrato dal d.P.R. n. 1199 del 1971).
Più di ogni altra branca del diritto, il diritto amministrativo è fortemente influenzato dal diritto costituzionale e, per effetto delle espresse limitazioni di sovranità disposte dalla Costituzione (artt. 10, 11 e 117, comma 1), dal diritto europeo (diritto UE e CEDU:su cui v. infra il contributo di D.-U. GALETTA). L’entrata in vigore della Costituzione democratica, che ha posto la persona umanaal centro del sistema, ha segnato quindi una svolta fondamentale nell’evoluzione del nostro sistema di diritto amministrativo. Le regole costituzionali si pongono come barriera dello Stato democratico pluriclasse all’arbitrio dell’amministra- zione. La migliore dottrina ha posto in luce la funzione “servente” assunta dall’amministrazione rispetto alla società invece che rispetto al Governo (M. NIGRO): nella Costituzione, l’amministrazione è vista come potere autonomo, che deve attuare l’indirizzo politico, ma operando spesso in un ambito di discrezionalità e non più come mera esecutrice delle decisioni governative (su cui v. infra, il con- tributo che segue). E l’interesse pubblico non si identifica più soltanto con quello di cui sono portatrici le singole pubbliche amministrazioni, ma è anche e soprattutto quello, più generale, della collettività: l’evoluzione del sistema costituzionale ha visto prevalere nel tempo valori come quello della salute, della sicurezza, della giustizia, della concorrenza, dell’ambiente ecc.; e i principi di certezza del diritto, di “buona amministrazione” e del legittimo affidamento hanno acquistato una valenza sempre maggiore come limite al potere autoritativo.
Al tempo stesso, la nozione di pubblica amministrazione si è progressivamente allargata, dapprima attraverso una estensione del numero dei soggetti pubblici (con una vera e propria proliferazione di enti ausiliari o strumentali agli enti territoriali e di enti pubblici indipendenti) e poi, in esito ai più recenti fenomeni di privatizzazione, attraverso il progressivo ampliamento dei soggetti privati affidatari di funzioni e servizi pubblici. Autorevole dottrina ha significativamente pro- posto una nozione “oggettivo-funzionale” di amministrazione, sottolineando che ciò che rileva è la “funzione amministrativa”, in relazione al vincolo di scopo che l’operatore (pubblico o privato) deve perseguire: il nuovo diritto amministrativo è quindi il “diritto dell’amministrare”, nel senso di “agire per uno scopo dato a fini di interesse sociale” (G. PASTORI). Anche la giurisprudenza, del resto, condivide ormai la conclusione che “[a]llo stato attuale non esiste una nozione univoca di pubblica amministrazione in senso soggettivo. Infatti, i tradizionali criteri distintivi degli enti pubblici sono stati superati, lasciando spazio, sotto l’influsso dell’ordinamento eurounitario, ad un nuovo concetto di pubblica amministrazione c.d. « a geometrie variabili », che non solo prescinde da omologazioni rigide ma che soprattutto consente di tracciare il perimetro degli enti pubblici in maniera elastica, attraverso la valorizzazione dell’aspetto funzionale, cioè delle finalità perseguite. Non essendo riscontrabile una definizione legislativa di pubblica amministra- zione alla quale sia collegata l’operatività di un corpus omogeneo di regole e principi, sopperiscono le molteplici normative amministrative settoriali che definiscono il loro campo d’applicazione rispetto ad un novero di enti, talvolta indicati tassativamente” (Cons. St.,Sez. I, parere n. 309 del 4 febbraio 2020).
Pur segnalando un’opportuna prudenza nell’allargare il concetto di “pubbli- che amministrazioni o soggetti ad esse equiparati”, è indubbio che l’esercizio di funzioni e poteri pubblici implichi l’assoggettamento dei soggetti privati cui essi sono affidati quantomeno ai principi generali dell’azione amministrativa (su cui v. infra il contributo di R. DIPACE).
2. La complessità delle fonti.
Diversamente dal diritto civile e dal diritto penale, la materia, che si caratterizza per una forte storicità (legata agli obiettivi che, anche in relazione al variare delle esigenze economiche e sociali, il legislatore si prefigge di realizzare: basti, per tutti, pensare all’evoluzione dei servizi pubblici e del ruolo dello Stato nell’economia), non ha un codice di diritto sostanziale.
Le regole dell’organizzazione e dell’azione amministrativa sono pertanto tradizionalmente affidate a leggi particolari e/o di settore, talvolta più organicamente raccolte in testi unici o rielaborate in appositi “codici di settore”. Si ricordano, in particolare, il testo unico delle leggi sugli enti locali(d.lg. n. 267 del 2000), il testo unico delle disposizioni sullo statuto degli impiegati civili dello Stato (approvato con d.P.R. n. 3 del 1957), il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, particolarmente rilevante per quanto attiene ai controlli sulle autodichiarazioni e alle conseguenze della loro non veridicità (d.P.R. n. 445 del 2000), i testi unici delle leggi in materia di edilizia e in materia di espropriazione (approvati rispettivamente con d.P.R. n. 380 e d.P.R. n. 327 del 2001), il testo unico sulle società partecipate (d.lg. n. 175 del 2016, modificato in sede correttiva con d.lg. n. 100 del2017) e il più recente d.lg. n. 201 del 2022, di riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, e, tra i codici, il codice dell’amministrazione digitale (d.lg. n. 82 del 2005, modificato dai dd.lg. nn. 179 del 2016 e 217 del 2017), il codice dell’ambiente(d.lg. n. 152 del 2006), il codice dei contratti pubblici (d.lg. n. 50 del 2016, in via di sostituzione dal d.lg. n. 36 del 2023), il codice dei beni culturali e ambientali (d.lg. n. 42 del 2004).
Il sistema è reso ancora più complesso dalla molteplicità dei livelli normativi, interni (fonti primarie statali, regionali e delle province autonome di Trento e di Bolzano, fonti secondarie statali, regionali, locali e speciali delle diverse ammini- strazioni) e sovranazionali (in particolare, come ricordato, il diritto dell’Unione europea e, in via indiretta, come fonte normativa interposta, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo), oltre che dall’intreccio delle regole di successione temporale, gerarchia, competenza e specialità per l’individuazione delle disposi- zioni specificamente applicabili.
Dopo una lunga gestazione e un ampio dibattito dottrinario, nel 1990 è stata approvata una legge breve di disciplina dell’azione amministrativa: la l. 7 agosto 1990, n. 241, riformata e ampiamente integrata nel 2005 (ll. nn. 15 e 80) e ripetutamente modificata fino ai giorni nostri (un importante intervento riformativo a carattere generale è stato operato dalla l. 7 agosto 2015, n. 124, c.d. “legge Madia”). In tale corpo normativo sono enunciati, tra l’altro, i principi generali cui devono attenersi le amministrazioni statali e i soggetti ad esse equiparati quando operano nell’esercizio delle funzioni amministrative (artt. 1, 22, 29), precisando che leregioni e gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, devono riconoscere analoghe garanzie nelle materie da essa disciplinate (art. 29) — e dai relativi decreti delegati di attuazione (su cui v. infra). Ulteriori rilevanti modifiche sono state apportatenell’ambito delle misure urgenti per far fronte alla crisi economica e sociale conseguente all’impatto della pandemia da Covid-19 eper attuare il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (il noto e famigerato PNRR, approvato dal Consiglio UE il 13 luglio 2021), che traduce ed esplicita gli impegni assunti dall’Italia nei confronti dell’Unione europea per accedere alle risorse del Next Generation EU, il programma di sostegno di 750 miliardi di euro stanziati da quest’ultima per attenuare gli effetti di tale impatto, stimolando investimenti che spingano alla ripresa (recovery) e riforme che aumentino la sostenibilità delle singole economie europee, rendendole più « resilienti » ai cambiamenti che incombono negli anni di ripresa dalla crisi (resiliency), anche attraverso essenziali politiche di tutela ambientale e di sviluppo digitale. Le fonti più importanti ai nostri fini sono il d.l. n. 76 del 16 luglio2020 (recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”, c.d. “Decreto Semplificazioni 2020”, convertito nella l. n. 120 del 14 settembre, il d.l. n. 77 del 31 maggio 2021, c.d. “Decreto Semplificazioni 2021” o, meglio, “Decreto Governance”, convertito nella l. n. 108 del 29 luglio 2021 e il recentissimo d.l. n. 13 del 24 febbraio 2023, convertito nella l. n. 41 del 21 aprile 2023 c.d. “Decreto Semplificazioni PNRR”, recante “Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e del Piano nazionale degli investimenti complementari al PNRR (PNC), nonché per l’attuazione delle politiche di coesione e della politica agricola comune” e funzionale al conseguimento, previsto per il 31 dicembre 2024, della Missione M1C1-60 del PNRR, con parti- colare riguardo alla Riforma 1.9, relativa della pubblica amministrazione, che richiede l’attuazione della semplificazione e digitalizzazione di 200 procedure critiche, che interessano direttamente cittadini e imprese.
Tra le leggi “generali” di disciplina di specifici ambiti e profili del diritto amministrativo, un ruolo di primo piano spetta anche, senza pretesa di esaustività, al d.lg. n. 165 del 2001, sull’organizzazione degli uffici e sui rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche (che ha sancito il principio di separazione tra politica e amministrazione e reca importanti disposizioni in tema di incompatibilità degli impiegati pubblici), alla l. n. 400 del 1988 (sull’attività di Governo dell’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), che regola il potere normativo del Governo, alla l. n. 689 del 1981, sulle sanzioni amministrative pecuniarie, alle ll. nn. 19 e 20 del 1994 sulle funzioni giurisdizionali e di controllo della Corte dei conti, al ricordato t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, particolarmente rilevante per quanto attiene ai controlli sulle autodichiarazioni e alle conseguenze della loro non veridicità (d.P.R. n. 445 del 2000), al codice dell’amministrazione digitale, approvato con d.lg. 7 marzo 2005, n. 82, nonché alle leggi sull’organizzazione e sulle competenze degli enti locali (oltre al richiamato t.u. n. 267 del 2000, la l. n. 131 del 2003, recante disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento alla riforma costituzio-nale del 2001 e la l. n. 56 del 2014 sulle città metropolitane, sulle province e sulle unioni e fusioni di comuni) e alle varie leggi che, in questi ultimi anni, si susseguono vertiginosamente, e talvolta contraddittoriamente, per regolare la gestione dei ser- vizi pubblici e le società a partecipazione pubblica, nonché, ultime, ma non ultime, le norme in tema di trasparenza e di misure anti-corruzione (l. n. 190 del 2012 e dd.lg. nn. 33 del 2013 e 97 del 2016).
Il sistema aveva subìto, come detto, importanti modifiche per effetto delle varie normative di attuazione della già citata l. 7 agosto 2015, n. 124, che, come anticipato e come sarà meglio illustrato nei singoli contributi, aveva comunque direttamente introdotto o indirettamente determinato (attraverso i primi decreti attuativi) numerose e significative variazioni alla l. n. 241.
Sul fronte dell’attività amministrativa, la riforma si è mossa ancora una volta sulla linea della semplificazione (si pensi alle norme sull’amministrazione digitale, sulla conferenza di servizi, sul silenzio assenso e sulla s.c.i.a., ulteriormente modi- ficate, nellamedesima direzione, dai richiamati decreti annuali di semplificazione) e della trasparenza (significativa, con il d.lg. n. 97 del 2016, la generalizzazione del diritto di accesso civico, come strumento di controllo diffuso a prescindere da un interesse particolare alla conoscenza). Le deleghe della l. n. 124 hanno investito inoltre la riorganizzazione delle amministrazioni statali (riduzione degli uffici e del personale, interventi sulla dirigenza e sui rapporti di lavoro, riordino delle forze di polizia, ecc.), la complessa — ed eternamente dibattuta — tematica delle modalità di affidamento dei servizi di interesse economico generale e del relativo esercizio con organismi c.d. “in house” (affrontata dal citato t.u. sulle società a partecipazione pubblica, approvato con d.lg. n. 175 del 2016) e il riordino delle procedure davanti alla Corte dei conti (attuato per la parte giurisdizionale dal nuovo codice di giustizia contabile, approvato con d.lg. n. 174 dello stesso anno). Come anticipato, un fortissimo impatto per la nostra materia è però derivato, su più fronti, dalle riforme di settore previste dal PNRR: tra esse, sicuramente, i già richiamati d.lg. n. 201 del 2022, di riordino dei servizi pubblici locali e d.l. n. 13 del 2023 sulle semplificazioni per il PNRR e il PNC, e, soprattutto, il nuovissimo Codice dei contratti pubblici, approvato con il richiamato d.lg. n. 36 del 2023, non solo perché l’affidamento dei contratti pubblici di appalto e di concessione, che esso disciplina, costituiscono una fetta significativa del nostro PIL (si parla di ca 200 mld euro/anno, corrispondenti all’11-12%: in un anno quanto si spende per il PNRR in 6 anni), ma anche perché esso ha impresso una forte spinta innovativa sul piano della discrezionalità amministrativa, oltre che su quelli della trasparenza e della digitalizzazione, costruendo, peraltro, un modello speciale di delegificazione (in deroga a quello generale concepito dall’art. 17 della l. n. 400 del 1988).
Anche il processo amministrativo, fino al 2010, non aveva un codice, appro- vato con il d.lg. n. 104 del 2010, oggetto di duedecreti “correttivi” e di altre modifiche puntuali, le più significative delle quali sono state e continuano ad essere introdotte proprio dalle disposizioni in materia di affidamento dei di con- tratti pubblici per le controversie relative a tale settore, cui si aggiungono quelle legate all’attuazione degli obiettivi fissati dal PNRR (in particolare, quelle intro- dotte dall’art. 3 del citato d.l. n. 85 del2022, trasposto poi, con un sistema che desta evidenti perplessità sul piano costituzionale, nell’art. 12-bis del d.l. n. 68 del 2022, in sede di conversione nella l. n. n. 108 del 5 agosto scorso, recante criticabili “norme di accelerazione dei giudizi amministrativi in materia di PNRR”), al cui interno (libro primo, titolo III), proprio in ragione della mancanza di un codice di diritto sostanziale, sono individuate le diverse tipologie di azioni esperibili nei confronti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti ad esse equiparati.
In termini più generali, occorre segnalare che, nonostante gli sforzi di “riordino” e di “sistematizzazione”, il contesto normativo della nostra materia è continuamente modificato anche dalle puntiformi, ma importanti, “novità” introdotte dalle molteplici leggi “omnibus”, come le cd “leggi finanziarie”, gli ormai classici “decreti milleproroghe” e le “leggi annuali concorrenza” (che, dopo anni di stallo, sembrano essere “ripartite”) e, da ultime, le leggi annuali di “semplificazione”.
A ciò si aggiunge che molte leggi sono state con norme secondarie di attua- zione (regolamenti governativi e ministeriali) e sono oggetto di un vero e proprio dedalo di atti interpretativi e di “indirizzo”.
3. Cenni alle più recenti tendenze del sistema e al difficile equilibrio tra celerità e certezza.
Come detto, l’intero sistema ha subito ed è verosimilmente destinato a subire nell’immediato futuro ulteriori importanti modifiche per effetto delle nuove misure di semplificazione e di liberalizzazione tese a reagire alla grave crisi
economica determinata dalla straordinaria emergenza da COVID-19, a rispettare gli impegni assunti con il PNRR e a fronteggiare le forti problematiche determinate, soprattutto in campo energetico e alimentare, dal conflitto Russia-Ucraina. Il tutto, mentre, con tutto il mondo, si deve combattere contro il devastante cambio climatico e i rischi della siccità e ci si deve confrontare anche con l’avvento delle nuove tecnologie digitali, che impattano evidentemente anche sulle modalità di esercizio del potere amministrativo e sulle garanzie procedimentali e sulla tutela giurisdizionale (L. TORCHIA, Lo stato digitale, Bologna, 2023).
Il titolo II del d.l. n. 76 del 16 luglio 2020 (c.d. “Decreto Semplificazioni”) è intervenuto in modo significativo su diverse disposizioni della l. n. 241, a partire da quelle sui principi, cui ha aggiunto il richiamo ai principi della buona fede e della leale collaborazione. Ha poi introdotto rilevanti modifiche con riferimento all’obbligo di provvedere (prescrivendo la misurazione e la pubblicità dei “tempi effettivi di conclusione dei procedimenti di maggiore impatto per i cittadini e per le imprese”) e agli effetti della sua violazione (anche in termini di stabilizzazione dei titoli e di maggior rigore ai fini della responsabilità erariale rispetto a quella per i comportamenti attivi); all’uso degli strumenti informatici e telematici; all’accesso agli atti del procedimento; alla comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento del- l’istanza e ai limiti al potere di integrarli in progress; alle conseguenze della mancata adozione dei pareri obbligatori e facoltativi; agli effetti del silenzio e dell’inerzia nei rapporti tra amministrazioni; alla conferenza di servizi; alle autodichiarazioni e alle acquisizioni di dati e documenti ai sensi dell’art. 18.Sotto quest’ultimo profilo merita peraltro particolare attenzione il menzionato t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documenta zione amministrativa (d.P.R. n. 445 del 2000, oggetto di importanti modificazioni nel 2020),che, agli artt. 46 e ss., disciplina le dichiarazioni sostitutive di certificazioni e di atti di notorietà, progressivamente chiamate, in modo sempre più esteso, unitamente alle attestazioni e asseverazioni dei tecnici abilitati, a sostituire la documentazione comprovante gli stati, le qualità personali, i fatti e, in genere, i requisiti soggettivi e oggettivi richiesti dalla normativa vigente, non soltanto per l’ottenimento di benefici economici, comunque denominati, da parte di pubbliche amministrazioni, ma anche per l’esercizio “autocertificato” di attività (s.c.i.a. e c.i.l.a.) e “per il rilascio di autorizzazioni e nulla osta comunque denominati” (cfr., da ultimo,l’art. 12 del d.l. n. 76 del 2020, convertito nella l. n. 120 dello stesso anno). Sotto l’egida delle “semplificazioni”, anche a causa di alcune posizioni assunte dalla giurisprudenza, si realizza in tal modo un graduale trasferimento di respon- sabilità dalle amministrazioni ai privati, che inevitabilmente incide (come meglio si vedrà negli specifici contributi sulle autodichiarazioni, sulla s.c.i.a. e sul silenzio assenso provvedimentale e in quelli sulla sospensione e sull’annullamento d’uffi- cio) sulla spendibilità e sullastessa stabilità dei titoli e, soprattutto, dei “benefici”. In relazione a questi ultimi (particolarmente estesi per far fronte alle gravi conse-guenze economiche determinate dall’emergenza COVID-19), le ultime riforme (art. 264, comma 2, d.l. n. 34 del 2020, c.d. “Decreto Rilancio”, convertito, senza modificazioni in parte qua, nella l. n. 77 del 17 luglio 2020) hanno invero forte- mente inasprito il regime sanzionatorio dettato dal capo VI del suddetto t.u. a fronte dell’eventuale riscontro della falsità o mendacia della dichiarazione, creando problemi di coordinamento con il nuovo paradigma dell’autotutela caducatoria per vizi originari del provvedimento concepito dall’art. 21-nonies l. n. 241 (richiamato dall’art. 19 per il controllo tardivo sulla s.c.i.a.) per garantire la stabilità dei titoli; e conseguentemente aggravando la ricostruzione di un sistema già oggetto di varie questioni interpretative.
Nel rinviare agli appositi contributi (in particolare quelli di M.A. SANDULLI, G. MARI, M. SINISI e A.G. PIETROSANTI), si segnala al riguardo la distonia di un modello che, mentre tende a responsabilizzare i privati (cui le amministrazioni e la giuri-giurisprudenza imputano come “false dichiarazioni” e “false rappresentazioni della realtà” anche gli errori di ricostruzione e valutazione di un quadro normativo oggettivamente complesso e contraddittorio), si muove in direzione opposta nei confronti degli amministratori pubblici. Per ovviare al diffuso fenomeno della “paura della firma”, determinata dalla preoccupazione degli agenti pubblici di incorrere in responsabilità amministrative e penali per possibili errori interpreta- tivi e valutativi derivanti dall’oggettiva difficoltà di tale ricostruzione, il d.l. n. 76 del 2020 (di fatto coevo alla legge di conversione del riportato art. 264 d.l. n. 34) ha, per un verso, disposto la (formalmente temporanea, ma già ripetutamente prorogata fino, da ultimo, al 31 dicembre 2024) limitazione della “responsabilità erariale” (responsabilità amministrativa dei dipendenti pubblici e dei soggetti equi- parati per danni all’erario) per atti e comportamenti “commissivi” ai casi di dolo (da comprovare attraverso la dimostrazione della “volontà dell’evento dannoso”),mantenendo la responsabilità per colpa (già in ogni caso circoscritta alla “colpa grave”) soltanto per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente, e, per l’altro verso, rigorosamente ridefinito (a regime) l’ipotesi di reato per c.d. “abuso d’ufficio”. L’art. 23 del decreto è infatti intervenuto direttamente sull’art. 323 c.p. limitando la configurabilità di tale reato alla violazione (affatto difficil mente ravvisabile) “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dallequali non residuino margini di discrezionalità”.
Il d.l. n. 77 del 2021 è poi nuovamente tornato sulla c.d. semplificazione, riducendo a dodici mesi il termine per l’esercizio delpotere di autoannullamento e del potere di controllo tardivo sulla s.c.i.a. e prevedendo un sistema di “attesta- zione” della formazionedel silenzio-assenso che si traduce però, ancora una volta, in una “autoresponsabilizzazione” dell’istante, chiamato, nel presumibile caso di inerzia dell’amministrazione, ad effettuare una “autodichiarazione sostitutiva dell’at testazione”.
E numerose forme di semplificazione sono state introdotte anche dal d.l. n. 13 del 2023, conv. con modificazioni, nella l. 21aprile 2023, n. 41 e dai vari dPCM che vi hanno dato seguito.
Mentre il nuovissimo codice dei contratti pubblici, nel riconoscere, come anticipato, più ampi margini di discrezionalità agli enticommittenti e alle stazioni appaltanti e concedenti, enuncia sintomaticamente, accanto al “principio del risul- tato” (che valorizza la tempestività e il miglior rapporto qualità-prezzo, nel rispetto della legalità della trasparenza e della concorrenza: in tema cfr. leconsiderazioni critiche di S. PERONGINI, Il principio del risultato e il principio di concorrenza nello schema definitivo di codice deicontratti pubblici in Scritti in onore di F. Salvia Napoli 2023 e in D SOC, 3/2022, 551 ss. e, infra, il contributo di M.R. SPASIANO, nonché l’ampio saggio dello stesso A., Codificazione di principi e rilevanza del risultato, in C. CONTESSA, P. DEL VECCHIO (a cura di), Codice dei contratti pubblici, Napoli, 2023), il “principio della fiducia” (dichiaratamente diretto a “tranquillizzare” i funzionari pubblici sul superamento di un pregiudiziale “sospetto” nei loro confronti, ma che, come contraltare, chiama in gioco la responsabilità sull’aggiudicatario che i primi abbiano illegittimamente individuato).
4. Il ruolo dei prinicìpi.
Le precedenti considerazioni rendono facile comprendere l’importanza che assumono, nel nostro sistema di diritto amministrativo, i “princìpi” che informano la materia e la rilevanza, tanto sul piano teorico che sul piano pratico, del relativo approfondimento. A fronte di un quadro normativo estremamente complesso e mutevole, oltre che spesso oscuro e contraddittorio (come dimostrano anche i frequenti contrasti giurisprudenziali), i principi costituiscono un essenziale collante della legislazione di settore e un faro indispensabile per un logico e coerente orientamento tra le diverse disposizioni e per una consapevole ed efficace contestazione dei vizi che, a vario titolo, possono inficiare l’operato dei pubblici poteri e, a livello più alto, le stesse regole che dovrebbero disciplinarlo.
L’art. 12 delle preleggi richiama del resto significativamente i principi gene- rali dell’ordinamento giuridico come criterio per decidere una controversia in assenza di disposizioni specifiche o analoghe.
Anche la Costituzione si apre con l’enunciazione dei “principi fondamentali”, che, in molti casi, coincidono con valori (si pensi,alla democrazia, all’eguaglianza, alla pace).
I “princìpi” assumono poi una fondamentale rilevanza nei rapporti tra le fonti: si ricorda che l’art. 76 Cost. consente la delega al governo della funzione legislativa soltanto “con la determinazione di principi e criteri direttivi” e che l’art. 117, comma 3, della stessa Carta, nel riconoscere alle regioni la potestà legislativa concorrente nelle materie ivi indicate, fa comunque salva “la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”. Mentre il comma 1 dello stesso articolo, nell’imporre al legislatore (statale e regionale) il rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario (oggi, più cor-rettamente, “eurounitario”) e dagli obblighi internazionali, fa implicitamente ri- chiamo al rispetto dei principi espressi o ricavabili da tali fonti sovraordinate (su cui v. infra il richiamato contributo di D.-U. GALETTA).
Anche le leggi ordinarie fanno ormai sempre più spesso esplicito riferimento ai princìpi: ad essi sono significativamente dedicati i primi articoli della l. n. 241 del 1990 e del codice del processo amministrativo e, da ultimo, quelli del codice dei contratti pubblici.
Già nel 1961 l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nella sentenza n. 3, rilevava del resto che “il diritto amministrativo risulta appunto non soltanto da norme, ma anche da principi che dottrina e giurisprudenza hanno elaborato e ridotto ad unità e dignità di sistema”.
Da ciò l’importanza di fermare l’attenzione di chi si accosta alla nostra materia sui principi che informano l’azione e l’organizzazione dei pubblici poteri, fermo restando che essi hanno bisogno dell’interpolazione della legge e che l’interprete non può farne diretta applicazione, in spregio a quest’ultima (sui rischi di un uso abusivo dei principi, si vedano in termini generali, G. ALPA, Iprincipi generali. Una lettura giusrealistica, in RGC COMM, 2014, 1 ss.; A. CATAUDELLA, L’uso abusivo dei principi, in RIV DC, 2014, 749 ss.).
5. Osservazioni conclusive.
Ho sottolineato in apertura che la pandemia e il PNRR hanno riportato l’accento sul ruolo dell’amministrazione e, di conseguenza, confermano e accrescono l’importanza del diritto amministrativo, che non può essere cancellato da una malintesa superiorità del “diritto globale”.
Le norme per la ripresa e la resilienza valorizzano giustamente la formazione dei funzionari pubblici, non soltanto in vista del migliore esercizio dell’attività amministrativa, nelle sue molteplici espressioni, ma anche in vista della migliore redazione dei testi delle prossime riforme.
Ed ecco, di nuovo, il senso di questo volume.
Il primo passo per una buona formazione è indirizzare gli operatori ad agire nel rispetto della nostra Costituzione e dei principi e delle regole del nostro diritto amministrativo: regole che vanno scritte, riscritte, corrette, ricontestualizzate, ma sempre nel rispetto e nell’attenzione a un equilibrio tra i diversi principi contenuti nella Costituzione, in primis quelli enunciati dall’art. 97.Bisogna dunque rispettare, in un equo temperamento, tutti tali principi — di legalità, di trasparenza, di efficienza e di economicità della pubblica amministrazione — e non soltanto garantire l’equilibrio di bilancio e la sostenibilità del debito pubblico, come pure disposto dal nuovo comma dello stesso articolo introdotto dalla l. cost. n. 1 del 2012. Bisogna cioè rispettare, nelle sue varie espressioni, il più classico e generale “principio di buon andamento”, che è poi strettamente (anche se non esclusivamente) correlato a quello di “buona amministrazione”, sancito dall’art. 41 della Carta Fondamentale dei Diritti dell’Unione (c.d. Carta di Nizza).
Il principio di buon andamento, peraltro, non può essere effettivamente garantito se non c’è un effettivo controllo sull’operato delle pubbliche Amministrazioni: quindi le riforme avranno bisogno di controllori e, soprattutto, di un giudice che le faccia effettivamente rispettare. Si discute della tutela del cittadino nei confronti dell’amministrazione inadempiente, della posizione del terzo controinteressato all’esercizio delle attività avviate in base ad autodichiarazioni di conformità, delle cooperazioni e dei conflitti tra Amministrazioni. E, di conseguenza, delle difficoltà di gestire il contenzioso.
Ma, contraddittoriamente, si insiste sulla riduzione dei tempi del processo. Limitando, evidentemente, le mie riflessioni alla giustizia amministrativa, gli ul- timi interventi in questo senso si devono ai dd. ll. nn. 77 e 80 del 2021 e rispettive leggi di conversione e al più recente art. 12-bis del d.l. n. 68 del 2022, introdotto (con una tecnica di dubbia costituzionalità), in sede di conversione, al. n. 108 del 5 agosto 2022) che sono, ancora una volta, intervenuti sul c.p.a. e sui termini processuali.
A questo proposito non posso che ripetere quanto già osservato in varie occasioni.
Abbiamo bisogno di una giustizia efficiente, non di una giustizia con le gambe tagliate, non di una decisione qualsiasi, purché arrivi al più presto e dia “l’impressione” che vi sia una giustizia efficiente, ma di una decisione attenta, chiara, ponderata, e, soprattutto, giusta ed efficace, che intervenga sull’atto o comportamento amministrativo illegittimo e gli impedisca di produrre effetti. Se il provvedimento illegittimo non viene eliminato — e, se occorre, sospeso — la collettività rischia di essere esposta a ulteriori inefficienze e ulteriori spese; e, comunque, perde la fiducia nelle istituzioni, cosa che evidentemente non aiuta la ripresa economica.
Analogo discorso vale per il reclutamento e la formazione dei pubblici funzio- nari. Se essi non vengono adeguatamente reclutati, con sistemi che privilegiano la ricerca della capacità e della professionalità, avremo inevitabilmente ulteriori aggravi anche per l’economia. Ci sarà pure, nell’immediato, una crescita dell’occupazione e un apparente miglioramento del Paese, perché la riduzione del tasso di disoccupazione implicherà un aumento dei consumi da parte da parte dei nuovi assunti, ma questo non varrà a coprire e a bilanciare la spesa derivante da tali assunzioni. Bisogna allora fare in modo che queste assunzioni siano, a loro volta, “produttive”, in termini di reale implemento dell’efficienza della macchina pubblica, e, per l’effetto, di rilancio dell’economia.
Queste — elementari — considerazioni, svolte già in sede di primo commento all’approvazione del PNRR (in un intervento al webinar organizzato dall’Associa- zione italiana dei professori di diritto amministrativo-AIPDA il 28 aprile 2021, leggibile su Federalismi.it, Osservatorio di Diritto sanitario), valgono per tutte le ri- forme previste dal Piano: se esse non riescono a produrre nuove, reali, risorse, nuovo movimento dell’economia, si risolveranno in mere spese e ci costringe- ranno a tornare alle misure di riduzione della spesa pubblica e a nuovi oneri fiscali.
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