ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Corte di cassazione ammette il cumulo delle domande di separazione e di divorzio anche nel procedimento su domanda congiunta (art. 473 bis. 51 c.p.c.).
Un nuovo colpo alla sopravvivenza della separazione giudiziale ed un’illuminata apertura ai patti della crisi coniugale.
di Arnaldo Morace Pinelli
Sommario: 1.La possibilità del cumulo delle domande di separazione e di divorzio in un unico procedimento inficia la funzione dell’istituto della separazione personale dei coniugi - 2. Separazione e divorzio, storicamente, hanno costituito un rimedio alternativo alla crisi coniugale - 3. Necessità di abrogare la separazione giudiziale e di mantenere la separazione consensuale, quale rimedio alternativo al divorzio - 4. Il cumulo delle domande congiunte di separazione e di divorzio consente la conclusione di un accordo complessivo della crisi coniugale, intesa quale fenomeno unitario - 5. Il problema del cumulo delle domande di separazione e di divorzio nel procedimento di negoziazione assistita.
1. La possibilità del cumulo delle domande di separazione e di divorzio in un unico procedimento inficia la funzione dell’istituto della separazione personale dei coniugi
La riforma del processo in materia di famiglia, tra le tante novità, ha introdotto una norma, l’art. 473 bis.49 c.p.c., che consente il cumulo delle domande di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. Negli atti introduttivi del procedimento per separazione personale (il ricorso o la comparsa di risposta) le parti (il ricorrente o il resistente) possono proporre anche domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. La norma specifica tuttavia che «le domande così proposte sono procedibili decorso il termine a tal fine previsto dalla legge e previo passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia la separazione personale». La Corte di Cassazione, nell’illuminata pronuncia che si annota, sciogliendo la questione di diritto di cui è stata investita ai sensi del nuovo art. 363 bis c.p.c., ha chiarito che il cumulo delle domande di separazione e di divorzio può operare anche nell’ambito del procedimento su domanda congiunta di cui all’art. 473 bis.51 c.p.c.[1]
Si tratta dell’ennesimo intervento del legislatore volto ad accelerare la conversione della separazione in divorzio, nella consapevolezza che, secondo il costume sociale, con la separazione cessa definitivamente il rapporto coniugale e deve essere facilitato il recupero del libero stato. Siffatto intervento, tuttavia, è più pervasivo dei precedenti andando ad intaccare la stessa funzione della separazione personale dei coniugi.
Questa è la prima questione che la riforma del 2022 pone all’interprete, amplificata dalla sentenza che si annota. Se il passaggio dalla separazione al divorzio costituisce un automatismo,[2] sfuma totalmente il senso, già effimero, dell’istituto della separazione dei coniugi nel nostro ordinamento, intesa quale momento di riflessione funzionale ad un’ipotetica riconciliazione, ed appare quanto mai ragionevole ed attuale la proposta della dottrina di abrogare la separazione giudiziale.[3]
2. Separazione e divorzio, storicamente, hanno costituito un rimedio alternativo alla crisi coniugale
In effetti, separazione e divorzio, storicamente, hanno costituito risposte alternative ad un medesimo problema, ossia quello di fornire una risposta alla crisi coniugale, e la loro contestuale presenza nell’ordinamento è motivo di rilevante criticità. Se viene meno il principio d’indissolubilità del matrimonio ed è introdotto il divorzio, quale rimedio alla crisi coniugale, a meno di vistose forzature logico-giuridiche, la separazione, che a presidio di quel principio è stata concepita e configurata,[4] ragionevolmente deve essere abrogata.
Notoriamente, questo peculiare istituto che, in definitiva, consente la sopravvivenza di un matrimonio svuotato della sua essenza (la convivenza tra i coniugi), origina dalle nozze cristiane, caratterizzate dalla loro natura sacramentale che ne implica l’indissolubilità: «Quod Deus coniunxit, homo non separet».[5] Non potendosi più ammettere il divorzio, essendosi trasformato il matrimonio in un sacramento indissolubile, i Padri della Chiesa e la Scolastica teorizzarono la separazione dei coniugi quale nuovo rimedio alla crisi coniugale, che consente, appunto, di interrompere la convivenza nel rispetto dell’indissolubile vincolo sacramentale. I decretisti e i decretalisti, nei secoli successivi, diedero veste giuridica all’istituto.
Con la separazione, in ossequio ad un dogma religioso (l’indissolubilità delle nozze sacramentali), si pretende dunque la sopravvivenza di un matrimonio ridotto a mera «forma giuridica».[6]
Soltanto il superamento di questa peculiare visione delle nozze, fondata su elementi teologici e, dunque, metagiuridici, consentirà nei secoli successivi la ricomparsa del divorzio e la contestuale abrogazione della separazione. Il divorzio è riscoperto nei Paesi protestanti, quale unico rimedio alla crisi coniugale, contestualmente all’affacciarsi di una nuova concezione del matrimonio, di cui Martin Lutero aveva negato la natura sacramentale, e ritornerà più tardi nella Francia rivoluzionaria e anticlericale della fine del Settecento, che nel matrimonio vedeva soltanto uno dei tanti contratti, nella disponibilità dei privati.
L’alternatività tra gli istituti della separazione e del divorzio, strumenti diversi per risolvere il problema della crisi coniugale, è stata lucidamente colta da Napoleone Bonaparte. Nel Code civil, per le medesime cause tipizzate dal legislatore, il cittadino cattolico poteva separarsi e quello laico poteva ottenere lo scioglimento del matrimonio (art. 306 c.c.). Si trattava di due vie parallele che, in definitiva, perseguivano una medesima finalità: «Le divorce rompt le lien conjugal, la séparation laisse encore subsister ce lien; à cela près, les effets de l’un et de l’autre sont peu différents: cette union des personnes, cette communauté de la vie, qui forment si essentiellement le mariage, n’existent plus».[7]
La fisiologica alternatività tra i due istituti è rimasta anche quando, nell’Ottocento, il principio di indissolubilità del matrimonio, alla base della scelta della separazione, ha trovato un fondamento laico nella c.d. concezione pubblicistica del diritto di famiglia, radicata nel pensiero di Hegel e veicolata attraverso lo Storicismo tedesco, che, ravvisando nella famiglia la cellula primaria ed essenziale dello Stato, funzionalizzata al perseguimento dell’interesse collettivo, ne predicava la necessaria unità. Concezione pubblicistica che ha impregnato il nostro Codice civile del 1865 ed, ancor più, quello del 1942, che infatti si limitavano ad «ammettere» la separazione, concependola, oltretutto, come un rimedio eccezionale, accordato soltanto al coniuge incolpevole, nelle ipotesi tassativamente predeterminate dalla legge, per sanzionare macroscopiche violazioni dei doveri matrimoniali imputabili all’altro coniuge. Il disfavore verso l’istituto derivava dal fatto che esso comunque incrinava l’unità della famiglia.
Pur costituendo l’alternatività tra i due istituti caratteristica comune degli ordinamenti di civil law europei, quando, nel 1970, il legislatore italiano introduce il divorzio, la separazione rimane. La paura dei divorzi facili spinse a mantenere in vita il vecchio istituto, riconoscendogli, con non celata ipocrisia, l’incerta funzione di anticamera del divorzio, ossia di pausa di riflessione in attesa di quello che fu definito il «felice evento» della futura riconciliazione,[8] destinato, peraltro, nella pratica, a non verificarsi mai. La soluzione adottata, per cui la separazione legale costituisce un passaggio necessario lungo la strada che conduce al divorzio, «si segnala alla stregua di una eccezione rispetto ai principi affermatisi in ambito continentale»[9] e ha connotato l’istituto di «una carica di ambiguità».[10]
Indipendentemente da ciò, la permanenza di entrambi gli istituti, regolati da leggi diverse (il Codice civile e la l. n. 898/1970), ha dato vita al c.d. doppio binario della crisi familiare, altamente contraddittorio e problematico, traducendosi in quella che è stata efficacemente definita una via Crucis, alla quale i coniugi devono sottoporsi per potere recuperare il libero stato: ipoteticamente, tre gradi di giudizio di separazione e tre gradi di giudizio di divorzio, in cui si discute, essenzialmente, delle medesime questioni, giacché il problema è lo stesso, ossia l’individuazione di un regolamento della crisi familiare, che è unitaria (determinazione di un assegno per il coniuge debole, affidamento dei figli minori e loro mantenimento, assegnazione della casa familiare). Nei casi più conflittuali, questo interminabile percorso condiziona la sana ed equilibrata crescita dei figli, strumentalizzati nel processo, e – a dispetto del dichiarato intento di tutelare la famiglia fondata sul matrimonio, cui questo contorto meccanismo dovrebbe presiedere, scongiurando divorzi poco meditati – proliferano nuove unioni di fatto, spesso non volute ma coatte, giustificandosi esclusivamente per il fatto che uno o entrambi i conviventi non hanno ancora potuto recuperare il libero stato.
Consapevole di tutto ciò la giurisprudenza, attraverso la sua attività ermeneutica, si è spinta ad anticipare già al momento della separazione, in cui il matrimonio è ridotto ad «una forma giuridica», gli effetti che dovrebbero invece prodursi con lo scioglimento del matrimonio, muovendo dall’esatto presupposto che i doveri matrimoniali, per effetto della separazione, non esistono più.[11] Conseguenziale, peraltro, a tale scelta, l’appiattimento della separazione sul divorzio.
Dal suo canto, il legislatore ha reagito accelerando la conversione della separazione in divorzio, rispondendo in tal modo anche al mutato costume sociale, nel tempo sempre più incline ad agevolare il recupero del libero stato, e dando attuazione al principio del favor libertatis, consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità.[12] La novella della legge sul divorzio del 1987 ha ridotto da cinque a tre anni il periodo minimo di separazione propedeutico alla presentazione della domanda di scioglimento del matrimonio e ha consentito la sentenza parziale sul divorzio, prevedendo che la stessa sia suscettibile soltanto di appello immediato (art. 4, comma XII l. div.), con il chiaro intento di accelerare il recupero del libero stato. Con la medesima finalità, l’art. 709 bis cod. proc. civ., introdotto nel 2005, ha riconosciuto la possibilità di pronunciare sentenza parziale sulla separazione, ammettendo avverso di essa solo l’appello immediato da decidersi in camera di consiglio. In seguito, il termine di durata della separazione, necessario per la proposizione della domanda di scioglimento del matrimonio, è stato ulteriormente ridotto ad un anno dalla comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale, in caso di separazione giudiziale, e a sei mesi in caso di separazione consensuale (l. 6 maggio 2015, n. 55, sul c.d. «divorzio breve»).
Soprattutto è stata riconosciuta la possibilità di una separazione e di un divorzio senza processo, rimettendo all’autonomia privata la cessazione dello status coniugale. La l. 10 novembre 2014 n. 162 ha introdotto due nuovi modelli di separazione e di divorzio, mediante negoziazione assistita e direttamente avanti al Sindaco (artt. 6 e 12). In tal modo «la separazione è stata sottratta al principio (che sino a quel momento rappresentava nell’ordinamento un dogma assoluto e irrefutabile) della tutela giurisdizionale costitutiva necessaria in materia di status, principio che rendeva imprescindibile nelle controversie in materia di famiglia l’intervento dell’autorità giudiziaria».[13]
La c.d. legge “Cirinnà” (n. 76/2016), infine, ha previsto che l’unione civile si sciolga senza passare attraverso la separazione, con una sentenza di divorzio immediato (ed, addirittura, per recesso unilaterale degli uniti civilmente: artt. 1, commi 23 e 24, l. 20 maggio 2016 n. 76), con ciò anticipandosi per l’unione civile, indipendentemente dalle ragioni della scelta legislativa, un’evoluzione auspicabile anche per il matrimonio.
3. Necessità di abrogare la separazione giudiziale e di mantenere la separazione consensuale, quale rimedio alternativo al divorzio.
Già la legge sul c.d. divorzio breve aveva chiaramente manifestato i limiti della “convivenza” dei due istituti all’interno del medesimo ordinamento,[14] aggiungendo ulteriori problemi a quelli già segnalati, in virtù della contemporanea pendenza dei giudizi di separazione e di divorzio, in dipendenza della riduzione del periodo di separazione propedeutico al divorzio, e, dunque, della sovrapposizione dei processi.
Autorevole dottrina aveva denunciato il «progressivo svuotamento del giudizio di separazione»,[15] ancor più marcato ove si consideri la possibilità della riunione dei due giudizi, contemporaneamente pendenti innanzi allo stesso giudice, oggi ammessa dalla riforma del processo di famiglia (art. 473 bis.49, comma 3, c.p.c.). Dal momento del deposito del ricorso di divorzio (o quanto meno dall’adozione dei provvedimenti presidenziali), il giudice della separazione non può più pronunciarsi sulle questioni concernenti i figli (loro affidamento, mantenimento e assegnazione della casa familiare), avendo esclusiva potestas decidendi il giudice del divorzio. Lo stesso è a dirsi con riguardo agli effetti economici tra i coniugi. È, inoltre, controverso se sia giuridicamente possibile, dopo il passaggio in giudicato della sentenza parziale sul divorzio, continuare a discutere dell’addebito della separazione.[16]
La riforma Cartabia del processo civile, tuttavia, compromette la stessa residua funzione della separazione. La possibilità del cumulo delle domande di separazione e di divorzio e, dunque, l’automatismo della conversione della separazione in divorzio rende la separazione giudiziale priva di senso, mostrandola per quello che oggi è: un relitto storico. L’improbabile lieto evento della riconciliazione dei coniugi, in funzione del quale è loro imposta una pausa di riflessione, è negato dallo stesso legislatore.
La crisi coniugale costituisce un evento unitario e il rimedio, caduto il principio di indissolubilità, è il divorzio. Tra le righe lo dice anche la sentenza che si annota, laddove, allo scopo di ammettere il cumulo, discostandosi da una giurisprudenza tetragona,[17] afferma che le domande di separazione e di divorzio hanno la medesima causa petendi, «in quanto tese a regolare, in successione, la crisi matrimoniale che i coniugi avvertono come irreversibile».[18]
La domanda di separazione, nel difficile coordinamento con la domanda di divorzio, auspicato dalla riforma del 2022, costituisce soltanto un intralcio processuale al recupero del libero stato, cui le parti effettivamente aspirano.
Si impone, dunque, a nostro avviso, mai come oggi l’abrogazione della separazione giudiziale, consentendo ai coniugi il divorzio immediato. Come abbiamo già avuto modo di rilevare,[19] l’eliminazione dell’addebito, da tempo auspicata da parte della dottrina, non impedirebbe di attribuire rilevanza alle cause della crisi. Le gravi violazioni dei doveri matrimoniali, indipendentemente dal rimedio generale della responsabilità civile, possono, infatti, rilevare anche al momento del divorzio, rientrando tra i criteri determinativi dell’assegno divorzile, espressi dall’art. 5 l. div., anche quello risarcitorio (le c.d. “ragioni della decisione”).[20]
Deve invece essere consentita ai coniugi, nel rispetto della loro comune volontà e libertà di coscienza, la possibilità di richiedere la separazione consensuale che, una volta ammesso il divorzio diretto, si presenta, coerentemente, come un rimedio alternativo allo scioglimento del matrimonio.
4. Il cumulo delle domande congiunte di separazione e di divorzio consente la conclusione di un accordo complessivo della crisi coniugale, intesa quale fenomeno unitario.
La sentenza che si annota, animata da encomiabile concretezza, ha anche il merito di avere sdoganato i patti della crisi familiare.
Con l’introduzione della negoziazione assistita in ambito familiare e la legge sul c.d. divorzio breve, che ha accelerato al massimo la conversione della separazione in divorzio, si è fatta tangibile la frustrazione del ceto forense, impossibilitato a definire la crisi coniugale mediante un accordo globale, nonostante l’accessibilità dello strumento negoziale. La possibilità di rivedere tutto al momento del divorzio era d’ostacolo al raggiungimento di un accordo onnicomprensivo e finale, da stipularsi necessariamente al momento della separazione. Vi ostava l’affermazione giurisprudenziale della nullità, per illiceità della causa, degli accordi con i quali i coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico-patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale di cui all'art. 160 c.c. Principio, questo, tetragono presso il giudice di legittimità, benché la dottrina da tempo abbia proceduto a dimostrarne l’evanescenza.
In effetti, il richiamo all’art. 160 c.c. non appare pertinente, trattandosi di norma dettata nel vigore del principio di indissolubilità delle nozze e presupponendo, per la sua applicazione, l’effettività del matrimonio,[21] mentre la separazione – come abbiamo visto - sospende (rectius: estingue) i doveri matrimoniali. Se le parti possono richiedere il divorzio, a maggior ragione devono poter regolamentare il regime patrimoniale in vista del recupero libero stato.[22] L’accordo, del resto, non concerne lo status, che effettivamente è indisponibile, ma i rapporti patrimoniali riguardanti quello status. E se pacificamente si ritengono lecite le attribuzioni effettuate nell’ambito della separazione e del divorzio su domanda congiunta, non essendovi in tal caso commercio di status, appare logico ritenere lecite anche le pattuizioni patrimoniali effettuate in funzione del futuro divorzio, con il limite, ovviamente, del rispetto dei diritti indisponibili dei figli minori, rispetto ai quali la riforma Cartabia ha mantenuto il più ampio spettro delle tutele:[23] il giudice, nel procedimento innanzi al tribunale, e gli avvocati e il procuratore della Repubblica, in quello di negoziazione assistita, devono verificare che l’accordo non sia lesivo dell’interesse della prole.
A ben vedere, la giurisprudenza che reputa nulli gli accordi in vista del divorzio opera «un’indebita commistione tra la regolamentazione dell’assetto economico concordato tra i coniugi in vista del futuro status e la volontà di determinare lo status»,[24] mentre le due questioni devono rimanere del tutto separate.
Alla luce di siffatti rilievi perde di consistenza la critica alla possibilità del cumulo delle domande congiunte di separazione e di divorzio incentrata sulla natura indisponibile dei diritti in gioco e sull’invalidità degli accordi in vista del divorzio, cui il cumulo delle domande congiunte sarebbe riconducibile.
La sentenza annotata muove dalla obiettiva considerazione che il ruolo dell’autonomia privata nella definizione delle conseguenze economiche della crisi coniugale si è notevolmente incrementato a seguito degli interventi legislativi in materia di negoziazione assistita, di divorzio breve e di riforma del processo di famiglia, andando ad incidere sul dogma della disponibilità degli status. Con ammirabile concretezza, ravvisa proprio nella possibilità di concludere un accordo definitivo sugli aspetti economici e personali della crisi matrimoniale una delle ragioni giustificanti il cumulo delle domande congiunte di separazione e di divorzio: «trovare per le parti, a fronte della irreversibilità della crisi matrimoniale, in un’unica sede, un accordo complessivo sia sulle condizioni di separazione che sulle condizioni di divorzio, concentrando in un unico ricorso l’esito della negoziazione delle modalità di gestione complessiva di tale crisi, disciplinando una volta per tutte i rapporti economici e patrimoniali tra loro e i rapporti tra ciascuno di essi e i figli minorenni o maggiorenni non ancora autosufficienti, realizza indubbiamente un “risparmio di energie processuali” che può indurre le stesse a far ricorso al predetto cumulo di domande congiunte».[25] In effetti, la crisi coniugale impone, anche sul piano solidaristico, la più rapida soluzione delle questioni economiche che rischiano di alimentarla.
E il cumulo – precisa la sentenza «non incide sul c.d. carattere indisponibile dei patti futuri, trattandosi di un accordo, unitario, dei coniugi sull’intero assetto delle condizioni, che regolamenteranno oltre alla crisi la loro vita futura, pur sempre sottoposto al complessivo vaglio del Tribunale». In effetti, il carattere unitario della crisi coniugale – confermato, nel procedimento su domanda congiunta e in caso di cumulo, da una separazione di brevissima durata (sei mesi) destinata a convertirsi automaticamente in divorzio – garantisce l’attualità dei diritti patrimoniali di cui i coniugi dispongono e, dunque, la loro negoziabilità, nel rispetto del superiore interesse della prole.
In conclusione, secondo la Corte di cassazione, «sia nei procedimenti contenziosi, di separazione e divorzio, che in quelli congiunti le parti propongono le proprie domande all’organo giudiziario e formulano le relative conclusioni e quindi non dispongono anticipatamente degli status». Il tribunale può intervenire sui sottostanti accordi nel caso in cui essi risultino contrari all’interesse dei figli e a norme inderogabili.[26]
Un’ulteriore critica mossa alla possibilità del cumulo delle domande di separazione e divorzio nel procedimento su domanda congiunta era rappresentata dall’assenza di una disposizione destinata a gestire le “sopravvenienze” di fatto, in grado di incidere sulla regolamentazione del divorzio, analoga all’art. 473 bis.19, comma 2, c.p.c. È stato poi osservato che il cumulo impedirebbe la revoca unilaterale del consenso al divorzio.
La sentenza annotata, peraltro, ha facile gioco nel confutare siffatti argomenti, sia richiamando principi giurisprudenziali consolidati (la giurisprudenza di legittimità reputa inefficace la revoca unilaterale del consenso alla domanda di divorzio[27] ed attribuisce natura negoziale all’accordo ad essa sotteso, concernente la prole e i rapporti economici, ritenendolo intangibile se non per violazione di norme inderogabili e dell’interesse della prole[28]), sia disposizioni normative specifiche introdotte dalla riforma Cartabia, quali l’art. 473 bis.51 c.p.c, che consente il rigetto «allo stato» della domanda congiunta «se gli accordi sono in contrasto con gli interessi dei figli», e l’art. 473 bis.19 c.p.c., che, per il procedimento contenzioso, condiziona l’ammissibilità della modifica delle domande, nel corso del procedimento avviato, a «mutamenti nelle circostanze».
In definitiva, secondo la sentenza che si annota, attraverso il cumulo delle domande congiunte di separazione e di divorzio è possibile concludere un valido accordo complessivo regolante gli effetti economici e personali della crisi familiare, in grado di estendersi anche al periodo successivo allo scioglimento del matrimonio, purché nel rispetto delle norme inderogabili e del superiore interesse della prole. L’accordo è dotato di una certa stabilità, non essendo unilateralmente revocabile il consenso prestato al divorzio. Tuttavia il mutamento delle circostanze fattuali, intervenuto nelle more della pronuncia del divorzio, può incidere sulla valutazione da parte del giudice della rispondenza dell’accordo stesso all’interesse della prole.
5. Il problema del cumulo delle domande di separazione e di divorzio nel procedimento di negoziazione assistita
Vi è da chiedersi, infine, se il cumulo delle domande di separazione e di divorzio congiunte possa essere proposto anche in sede di negoziazione assistita.
In via generale, la riforma Cartabia ha ampliato l’operatività della negoziazione assistita in ambito familiare nell’ottica di favore e di impulso allo sviluppo dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie. È, peraltro, vero che non tutto si può fare in sede di negoziazione assistita. Ad esempio, i trasferimenti immobiliari con efficacia reale possono operarsi in sede di separazione o divorzio su domanda congiunta[29] ma non all’interno di una procedura di negoziazione assistita, dove è ammessa soltanto la stipulazione di patti di trasferimento immobiliare con effetti obbligatori (art. 6 l n. 162/2014 novellato).
Qui, peraltro, manca una norma che detti una differente disciplina tra le due procedure, quella giudiziale e quella stragiudiziale.
A noi sembra che il cumulo debba ammettersi nell’ambito della negoziazione assistita, che costituisce la sede più consona in cui le parti, supportate dai legali, possono concludere un accordo con cui venga definitivamente regolamentata la loro crisi coniugale, caratterizzata da un’unitarietà correttamente colta dalla sentenza che si annota. Decorsi sei mesi dal nullaosta o dall’autorizzazione del procuratore della Repubblica, le parti ricompariranno innanzi ai legali per confermare di non volersi riconciliare e le condizioni già formulate con riferimento allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, implicitamente dando atto della mancanza di sopravvenienze rilevanti. Inevitabile un secondo passaggio innanzi al procuratore della Repubblica.
[1] Cass., 16 ottobre 2023, n. 28727.
[2] I coniugi, nel ricorso, possono anche dichiarare di non volersi riconciliare, rinunciando all’udienza di comparizione delle parti in cui il giudice tentava la conciliazione: art. 423 bis. 51, comma 2, c.p.c.).
[3] Cfr. il nostro La crisi coniugale tra separazione e divorzio, Milano, 2001, passim.
[4] A. MORACE PINELLI, L’irragionevole compresenza nell’ordinamento della separazione giudiziale e del divorzio, in Divorzio 1970-2020. Una riflessione collettiva, a cura di V. CUFFARO, Milano, 2021, 519 e ss.
[5] Matteo, 19, 6.
[6] S. SATTA, Commentario al Codice di procedura civile, Libro Quarto, Procedimenti speciali, I, Vallardi, 1968, 304.
[7] Così Trehilard (Esposizione dei motivi, Sessione 21 marzo 1803, in J.G. LOCRÈ, Legislazione civile commerciale e criminale, ossia commentario e compimento dei codici francesi, trad. da G. CIOFFI, II, Napoli, 1840, 760).
[8] C. GRASSETTI, La separazione personale dei coniugi. Problemi di diritto sostanziale e processuale. Diritto civile, in Giust. civ., 1964, IV, 4.
[9] E. AL MUREDEN, La separazione personale dei coniugi, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 2015, 17.
[10] M. FORTINO, La separazione personale tra coniugi, nel Trattato dir. fam., diretto da P. ZATTI, I, 2, cit., 1266; E. QUADRI, Crisi della coppia: a cinquant’anni dalla legge sul divorzio, in Foro it., 2020, V, 175, secondo il quale la separazione è divenuta un istituto «nel semisecolare rapporto con quello del divorzio, a dir poco di perplessa definizione funzionale e di incerta collocazione sistematica».
[11] Cfr. Cass., 19 settembre 1997, n. 9317, in Fam. e dir., 1998, 14; Cass., 7 dicembre 1994, n. 10512, in Foro it., 1995, I, 1202. Secondo Cass., 20 agosto 2014, n. 18078, in Foro it., 2014, I, 3481, «la separazione non è più un momento di riflessione e ripensamento prima di riprendere la vita di coppia, e nemmeno solo l'anticamera del futuro divorzio, ma rappresenta il momento della "sostanziale esautorazione dei principali effetti del vincolo matrimoniale"».
[12] Cass., ord., 22 giugno 2012, n. 10484; Cass., 8 aprile 2011, n. 8050; Cass., 29 settembre 1999, n. 13312, in Foro it., 2000, I, 445.
In dottrina, cfr. F. DANOVI, I rapporti tra il processo di separazione e il processo di divorzio alla luce della l. n. 55/2015, in Fam. e dir., 2016, 1093 e ss.
[13] DANOVI, I presupposti della separazione, ovvero quando il diritto “cede il passo” alla libertà del singolo (e per il divorzio?), in Fam. e dir., 2019, 73 e ss.
[14] Noi avevamo ribadito la necessità di abrogare la separazione giudiziale. Cfr. il nostro I provvedimenti concernenti i figli in caso di crisi del matrimonio o dell’unione civile, in La riforma della filiazione, a cura di C.M. BIANCA, Padova, 2015, 682 e ss.
[15] Così F. DANOVI, I rapporti, cit., 1093 e ss.
[16] Contra F. CIPRIANI, Sulle domande di separazione, di addebito e di divorzio, in Foro it., 2002, I, 385.
[17] Cfr., ad esempio, Cass. S.U., 20 luglio 2001, n. 9884. La giurisprudenza ha sempre affermato l’autonomia dei giudizi di separazione e di divorzio, rivendicando il potere del giudice del divorzio di decidere in assoluta autonomia rispetto a quanto stabilito in sede di separazione. Cfr., Cass., 9 aprile 1983, n. 2514; Cass., 2 giugno 1981, n. 3549, in Giur. it., 1982, I, 1, 43.
[18] § 7 della sentenza.
[19] A. MORACE PINELLI, L’irragionevole compresenza nell’ordinamento, cit., 534 e ss.
[20] Cfr. Cass., sez. un., 11 luglio 2018, n. 18287, in Foro it., 2018, I, 2671 e 3615, con nota di A. MORACE PINELLI, L’assegno divorzile dopo l’intervento delle Sezioni Unite.
[21] Sul punto cfr. il nostro Interesse della famiglia e tutela dei creditori, Milano, 2003, 180 e ss.
[22] G. DORIA, Autonomia privata e causa familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano, 1996, 184 e ss.
[23] L’art. 473 bis. 19 c.p.c. consente alle parti di introdurre sempre nuove domande e nuovi mezzi di prova relativi all’affidamento e al mantenimento dei figli minori. Inoltre l’art. 473 bis. 51 c.p.c. consente il rigetto della domanda congiunta di separazione e divorzio soltanto nel caso in cui gli accordi siano in contrasto con l’interesse dei figli. Rientrano, invece, nell’alveo dei diritti disponibili le domande relative al mantenimento del coniuge (M.A. LUPOI, Commento all’art. 473 bis.19 c.p.c., in La riforma Cartabia del processo civile, a cura di R. TISCINI, 2023, Pacini Editore, 811). Del resto, come abbiamo appena rilevato, soltanto la violazione del superiore interesse della prole consente il rigetto della domanda congiunta di separazione o di divorzio. È dunque a nostro avviso irrilevante, ai fini dell’ammissione degli accordi sulla crisi coniugale, la questione circa la natura dell’assegno divorzile. Cfr. invece C. RIMINI, Funzione compensativa e disponibilità del diritto all’assegno divorzile. Una proposta per definire i limiti di efficacia dei patti in vista del divorzio, in Fam. e dir. 2018, 1041, secondo il quale l’ammissibilità dei patti in vista del divorzio dipenderebbe dall’asserita funzione compensativa dell’assegno divorzile. Sulla natura dell’assegno divorzile, cfr. C.M. BIANCA, Le sezioni unite sull’assegno divorzile: una nuova luce sulla solidarietà postconiugale, in Fam. e dir., 2018, 955 e ss., il quale ribadisce la natura esclusivamente assistenziale di siffatto emolumento anche dopo Cass. S.U. n. 18287/2018; A. MORACE PINELLI, Diritto all’assegno divorzile e convivenza more uxorio, in Nuova giu. civ. comm., 2021, 1158 e ss.
[24] M. COMPORTI, Autonomia privata e convenzioni preventive di separazione, di divorzio e di annullamento del matrimonio, in Foro it., 1995, V, 113.
[25] § 5 della sentenza.
[26] § 8 della sentenza.
[27] Secondo Cass., ord., 7 luglio 2021, n. 19348; Cass., 24 luglio 2018, n. 19540; Cass., 2 maggio 2018, n 10463.
[28] Cass., S.U., 29 luglio 2021, n. 21761, in Giur. it., 2022, 873.
[29] Cfr. Cass., S.U. 29 luglio 2021, n. 21761, cit.
(Immagine: fotogramma del film Divorzio all'italiana di Pietro Germi, 1961)
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. L’ordinanza del Tribunale di Verona: dubbi di legittimità costituzionale dell’art.171 bis c.p.c. per eccesso di delega e violazione del principio del contraddittorio. 2. Programma della presente nota. 3. La ratio per la quale l’eccesso di delega è incostituzionale. 4. Gli eccessi di delega che potrebbero riscontrarsi nell’ultima riforma del processo civile. L’insussistenza di essi per rispetto della ratio della legge delega da parte del decreto legislativo. 5. Segue: l’insussistenza altresì dell’incostituzionalità dell’art. 171 bis c.p.c. per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. 6. Osservazioni di sintesi.
1. L’ordinanza del Tribunale di Verona; dubbi di legittimità costituzionale dell’art.171 bis c.p.c. per eccesso di delega e violazione del principio del contraddittorio
Il Tribunale di Verona, con ordinanza del 22 settembre 2023 (R.G. 4138/2023) ha dichiarato “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 171 bis del codice di procedura civile per contrasto con gli articoli 76, 77, 3, e 24 Cost.”.
Il Tribunale ha sostenuto che tale nuova disposizione processuale, inserita nel codice di rito a seguito della riforma c.d. Cartabia di cui al d. lgs. 10 ottobre 2023 n. 149, presenta due possibili difetti di costituzionalità, uno riguardante eccesso di delega, in relazione agli artt. 76 e 77 Cost., e l’altro riguardante il diritto al contraddittorio e al trattamento di parità delle parti nel processo in relazione agli artt. 3 e 24 Cost.
In particolare il Tribunale di Verona ha rilevato:
a) quanto al primo aspetto che: “la legge delega (l. 26 novembre 2021, n.206), pur contenendo, all’art. 1, comma 5, lett. i), alcuni principi molto dettagliati relativi alla fase di trattazione, non prevede però un intervento anticipato del giudice prima dell'udienza di comparizione delle parti.
Al contempo, i principi di cui all'articolo 1, comma 5, lett. da c) a g), che disciplinano il contenuto degli atti di parte e i termini del loro deposito, non indicano tra le memorie delle parti, successive agli atti introduttivi, anche la trattazione delle questioni rilevate d'ufficio dal giudice.
Nella legge 206/2021 i due regimi (quello della fase di trattazione e quello delle attività delle parti) risultano quindi tra loro coerenti tanto più che l’art. 1, comma 5, lett. i), stabilisce che le disposizioni sulla trattazione devono essere adeguate proprio alle condizioni di cui alle lettera f) e g).
Sulla scorta di tali dati normativi, invero inequivoci, può affermarsi che la legge delega non aveva contemplato minimamente una fase, antecedente all’udienza di prima comparizione delle parti, deputata alle verifiche preliminari, alla quale invece il d. lgs. attribuisce il rilievo di cui si è detto, dedicandovi una disciplina alquanto articolata e differenziata”.
Da ciò, dunque, per il Tribunale di Verona, l’eccesso di delega e la violazione degli artt. 76 e 77 Cost.
b) Quanto ai profili di incostituzionalità relativi agli artt. 3 e 24 Cost., il Tribunale di Verona ha ancora osservato che l’art. 171 bis c.p.c. pone oggi una discriminazione, poiché prevede: “la decisione del giudice, inaudita altera parte, per solo alcune questioni rilevabili d’ufficio, quelle che condizionano la stessa nascita del processo o la sua estensione soggettiva (così il difetto di legittimazione, di capacità di essere parte, o di interesse ad agire), mentre per tutte le altre, non espressamente menzionate, differisce la decisione alla udienza di prima comparizione con una scelta che risulta in contrasto con l’art.3 Cost.”.
Peraltro, tale scelta discriminatoria, per il Tribunale di Verona, non viola solo l’art. 3 Cost., ma non rispetta nemmeno l’art. 24 Cost., in quanto: “nel regime ante riforma, la verifica in esame avveniva per la prima volta all’udienza di prima comparizione”, e quindi nel contraddittorio con le parti e i loro difensori, mentre oggi l’art. 171 bis c.p.c. dispone che le questioni indicate nel suo primo comma siano decise dal giudice senza udire sul punto le parti, e quindi la nuova norma: “lede il principio del contraddittorio, sancito ora in termini generali dall’art. 101, comma 2, secondo periodo, come integrato dal d. lgs. 149/2022”.
2. Programma della presente nota
Che dire?
Sinceramente, non so quante possibilità di successo possa avere questa ordinanza.
E poiché mi è stato insegnato di non esprimere giudizi in materie ancora sub iudice, in questa nota non elaborerò aspetti tecnici posati e ponderati, ma solo, scherzosamente, alcune osservazioni più generali tanto in punto di eccesso di delega quanto in riferimento al diritto alla difesa e al contraddittorio.
Se si vuole, ciò che segue è solo una caricatura delle ragioni in base alle quali, forse, chissà, perché no?, le questioni verranno dichiarate infondate.
3. La ratio per la quale l’eccesso di delega è incostituzionale
Iniziando dagli artt. 76 e 77 Cost., credo sia utile ricordare preliminarmente la ratio per la quale l’eccesso di delega è incostituzionale.
E la ratio è semplicissima: poiché la funzione legislativa spetta al Parlamento, e il Governo non ha funzione legislativa se non nei limiti dati dal Parlamento, se il Governo non rispetta detti limiti ed emana un decreto legislativo che esorbita dalle direttive ricevute, esso si appropria di una funzione che non le spetta, ovvero di quella legislativa, e da ciò ne segue l’incostituzionalità.
3.1. Orbene, il problema, però, si potrebbe osservare, è che porre simili questioni in una realtà nella quale, ormai da anni, la contrapposizione tra funzione legislativa ed esecutiva si è persa, e il Governo si è sostanzialmente appropriato anche della funzione legislativa svuotando le funzioni del Parlamento, può suscitare ilarità, poiché delle due l’una: o abbiamo la forza di opporsi a questa nuova realtà costituzionale, oppure ritenere incostituzionale che il Governo, nell’emanazione di un decreto legislativo, non rispetti la legge delega che egli stesso si è dato, è qualcosa che non può non far sorridere.
E se questo ragionamento vale in generale, ancor più vale nel caso della riforma del processo civile di cui al d. lgs. 10 ottobre 2022 n. 149.
Conviene al riguardo non dimenticare le modalità con le quali la riforma si è perfezionata.
3.2. Il Governo nomina una commissione affinché rediga un progetto.
La commissione redige il progetto, ma il Governo lo condivide solo in parte.
Il progetto è reso pubblico ed riceve critiche piuttosto numerose dagli addetti ai lavori.
Il Governo, tuttavia, non si preoccupa di queste critiche, e presenta in modo sostanzialmente invariato il suo progetto al Senato.
Il Senato è tenuto ad approvare il progetto senza discussione parlamentare, in quanto su esso viene messo dal Governo la fiducia.
E, proprio al fine di evitare la discussione parlamentare, il disegno di legge delega viene riscritto, seppur con analogo contenuto, in un solo articolo a fronte di 16 articoli che conteneva il progetto n. 1662.
Il nuovo unico articolo presentato al Senato sarà infatti lungo ben 39 pagine.
In questo modo, e in queste condizioni, il Senato, approva il disegno di legge delega di riforma del processo civile in data 21 settembre 2021 (poi l. 26 novembre 2021 n. 206).
3.3. È naturale osservare che il paradosso di un Governo che si fa legislatore è ancora più forte nelle leggi delega.
In quei casi, infatti, si realizza la grottesca situazione nella quale il Governo, imponendo la legge al Parlamento, di fatto delega sé stesso a fare quella cosa che egli stesso ha determinato.
In meccanismi di questo genere, davvero abbiamo ancora la voglia di discutere di eccesso di delega?
Io, accanto all’istituto dell’eccesso di delega, proporrei quello del ripensamento: una cosa è dunque l’eccesso di delega, come tale incostituzionale; altra cosa il ripensamento, irrilevante invece ai fini della legittimità costituzionale.
Il Governo, quando ha scritto la legge delega, pensava di poter fare una cosa, poi ne ha fatta un’altra; evidentemente ha cambiato idea, che male c’è?
A tutti deve essere riconosciuto il diritto che i romani etichettavano con l’espressione re melius perpensa.
4. Gli eccessi di delega che potrebbero riscontrarsi nell’ultima riforma del processo civile. L’insussistenza di essi per rispetto della ratio della legge delega da parte del decreto legislativo.
Comunque, anche a voler convenire che l’art. 171 bis c.p.c. contenga un eccesso di delega così come rilevato dal Tribunale di Verona, questo non potrebbe egualmente comportare l’incostituzionalità della norma, poiché il d. lgs. 10 ottobre 2022 n. 149 è pieno di eccessi di delega, e certo non è possibile dichiarare l’incostituzionalità dell’intera legge per queste ragioni.
4.1. Fra il serio e faceto mi sia così consentito ricordare almeno quattro tra questi eccessi di delega, aventi ad oggetto momenti centrali del nuovo processo civile: faccio riferimento alla disciplina della sinteticità e chiarezza degli atti processuali, oggi regolati dal decreto ministeriale 7 agosto 2023 n. 110 in attuazione dell’art. 46 delle disp. att. c.p.c., alla disciplina delle udienze cartolari e a distanza, oggi regolate dagli artt. 127 bis e ter c.p.c., alla disciplina della nuova procedura in appello di cui agli artt. 348 bis, 349 bis, 350, 3° comma, 350 bis c.p.c., e infine alla disciplina del procedimento in cassazione ex nuovo art. 380 bis c.p.c.
4.2. Quanto alla sinteticità e chiarezza degli atti processuali si osserva che:
a) la legge delega (art. 1, comma 17, lettera d) ribadiva il principio della libertà delle forme nella redazione degli atti processuali, stabilendo che questi possano essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo, nel rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità, mentre il decreto legislativo ha abbandonato il criterio della libertà delle forme degli atti ed ha espressamente previsto che un decreto del Ministro della Giustizia stabilirà i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti, disponendo altresì che l’atto processuale debba avere in ogni caso un indice e una breve sintesi del contenuto dell'atto stesso.
b) La legge delega, poi, semplicemente prevedeva che gli atti processuali dovessero essere redatti in modo da assicurare la strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo, mentre il decreto legislativo ha disposto, oltre ciò, che con decreto del Ministro della Giustizia sono stabiliti i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti. Nella determinazione dei limiti non si tiene conto dell'intestazione e delle altre indicazioni formali dell'atto, fra le quali si intendono compresi un indice e una breve sintesi del contenuto dell'atto stesso. Il decreto è aggiornato con cadenza almeno biennale.
c) La legge delega, infine, giustificava l’inquadramento e la regolamentazione degli atti processuali semplicemente sulla esigenza della raccolta dati nel processo telematico, ovvero strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo; il decreto legislativo ha superato al contrario questa ratio e ha previsto una regolamentazione ministeriale di tipo generale (……rispettano la normativa, anche regolamentare, concernente la redazione……), in grado così di investire gli atti processuali in ogni momento, e non solo in quello della raccolta telematica dei dati.
4.3. Qualcosa di simile è avvenuto con riferimento alle udienze a distanza e cartolari.
La disciplina delle udienze a distanza e cartolari, disposte per la prima volta nella legislazione di emergenza da COVID 19 con l’art. 221 della l. n. 77 del 2020, venivano riportate anche nella legge delega 26 novembre 2021 n. 206, e ciò esattamente nell’art. 1, comma 17, lettere l) e m).
Lì si prevedeva che il giudice: ”fatta salva la possibilità per le parti costituite di opporsi, può disporre che le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice, si svolgano con collegamenti audiovisivi a distanza…oppure (alle medesime condizioni)…disporre che le udienze civili siano sostituite dal deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni”.
Orbene, non v’è bisogno di particolare acume giuridico per accorgersi che i nuovi artt. 127 bis e 127 ter c.p.c. sono andati oltre un limite affatto secondario della legge delega, e che era quello che le parti potessero opporsi alla scelta del giudice di disporre udienze cartolari e/o a distanza.
Infatti, l’opposizione delle parti prevista dalla legge delega è stata di fatto soppressa dalle nuove norme del decreto legislativo, che hanno sì previsto che queste possano chiedere l’udienza in presenza, ma hanno parimenti disposto che spetta in ogni caso al giudice assumere ogni decisione finale con “decreto non impugnabile”.
Ora, come è noto, in base all’art. 135, 3° comma c.p.c. i decreti sono privi di motivazione se la motivazione non è espressamente prescritta dalla legge, e gli artt. 127 bis e ter c.p.c. non prevedono che i decreti in questione debbono essere motivati, e quindi i decreti che dispongono le udienze a distanza o cartolari non sono motivati; inoltre essi sono espressamente definiti dalla legge “non impugnabili”.
Ne segue, così, che mentre la legge delega prevedeva che gli avvocati potessero opporsi allo svolgimento delle udienze non in presenza (“salva la possibilità per le parti costituite di opporsi”), e non semplicemente potessero presentare una richiesta in tal senso, i nuovi articoli scaturiti dal decreto legislativo hanno trasferito ogni potere al giudice, il quale lo esercita addirittura con un provvedimento che ha la forma del decreto (una eccezione, poiché sulle istanze delle parti il giudice deve provvedere di regola con ordinanza e non con decreto), e il decreto non è ne’ motivato ne’ impugnabile (quindi il potere del giudice di disporre udienze non in presenza è pieno, e le parti non hanno strumenti per opporsi a ciò).
4.4. In tema di appello, l’idea della legge delega era quella di rivedere la disciplina degli artt. 348 bis e ter c.p.c. introdotti nel 2012, che avevano creato non pochi problemi alla Corte di Cassazione prevedendo che le impugnazioni senza ragionevole possibilità di accoglimento dovessero essere decise con ordinanza.
La legge delega, all’art. 1, comma 8, lettera e), disponeva conseguentemente che la definizione di quegli appelli dovesse essere data con sentenza e non più con ordinanza, e così statuiva che: “la decisione di manifesta infondatezza sia assunta a seguito di trattazione orale con sentenza succintamente motivata anche mediante rinvio a precedenti conformi”; e sulla base di ciò andavano modificati “conseguentemente gli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c.”
Il decreto legislativo, al contrario, è andato ben oltre: a) ha provveduto all’abrogazione dell’art. 348 ter c.p.c.; b) poi alla riscrittura degli artt. 348 bis e 350 c.p.c.; c) e infine ad inserire nuovi artt. 349 bis e 350 bis del codice di procedura civile.
Da segnalare, che mentre per la legge delega, in conformità con la disciplina già fatta propria dall’art. 348 bis c.p.c. nel suo testo originario, la possibilità della definizione dell’appello in via breve era riservata ai soli casi di manifesta infondatezza ovvero alle ipotesi nelle quali l’impugnazione non avesse alcuna ragionevole possibilità di essere accolta, il nuovo art. 348 bis c.p.c. ha aggiunto anche i casi di manifesta fondatezza, di nuovo non previsti dalla legge delega, e soprattutto l’art. 350, 3° comma c.p.c. ha ricompreso in tal alveo anche altre ipotesi del tutto libere, che si hanno quando il giudice discrezionalmente “lo ritenga opportuno in ragione della ridotta complessità o dell’urgenza della causa”, e ciò anche in contrasto con la lettera l) della medesima disposizione di legge delega, che individuava i poteri del giudice istruttore senza ricomprenderne questo.
Inoltre, l’art. 349 bis c.p.c. ha previsto per la prima volta la contrapposizione in appello tra un giudice “istruttore” e un giudice “relatore”, e ha rimesso al Presidente, in limine litis, e in un momento che appare addirittura anteriore alla costituzione dell’appellato, la scelta discrezionale di optare per la definizione dell’impugnazione in un modo o nell’altro.
Ed ancora, il nuovo art. 350, bis, 3° comma c.p.c. prevede che la sentenza sia “motivata in forma sintetica, anche mediante esclusivo riferimento al punto di fatto o alla questione di diritto ritenuti risolutivi o mediante rinvio a precedenti conformi”, e ciò tanto per i casi di decisione immediata con la nomina del “relatore”, quanto con riferimento ai casi ordinari a seguito di trattazione con “l’istruttore”, visto che l’art. 350 bis c.p.c., fa riferimento sia al primo caso nel 1° comma, sia al secondo caso nel 2° comma.
La legge delega, invece, e per la verità, prevedeva che la sentenza in forma semplificata si potesse pronunciare solo per le ipotesi di impugnazione manifestamente infondata; al contrario con il decreto legislativo, e secondo meccanismi non conosciuti dalla legge delega ne’ nella lettera e) ne’ nella successiva lettera n), l’attuale art. 350 bis c.p.c. consente invece che tutte le sentenze in appello possano essere definite con sentenza in forma semplificata, in quanto lo stesso art. 352 c.p.c. consente all’istruttore di scegliere tra la modalità di definizione ordinaria e la modalità di definizione prevista dall’art. 350 bis c.p.c. anche fuori dai casi di cui agli artt. 348 bis e 350, 3° comma c.p.c.
4.5. Discorso analogo può essere sviluppato con riguardo al giudizio di cassazione.
L’art. 1, comma 9 lettera e) della legge delega prevedeva l’introduzione di un procedimento accelerato rispetto alla camera di consiglio per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati.
Questo procedimento accelerato si doveva realizzare attraverso: “una proposta di definizione del ricorso”, da comunicare “agli avvocati delle parti”, e “se nessuna delle parti chiede la fissazione della camera di consiglio nel termine di venti giorni dalla comunicazione, il ricorso si intende rinunciato e il giudice pronuncia decreto di estinzione, liquidando le spese”.
Orbene, anche in questo caso non è difficile rilevare come il nuovo art. 380 bis c.p.c. sia andato oltre i limiti della legge delega.
A parte la circostanza che il termine per richiedere la camera di consiglio è stato portato da venti a quaranta giorni, soprattutto l’art. 380 bis c.p.c. inserisce due nuovi elementi che condizionano fortemente la natura e la struttura dell’istituto: a) si è previsto infatti che la richiesta della camera di consiglio debba esser “sottoscritta dal difensore munito di una nuova procura speciale”; b) e si è previsto altresì che, nelle ipotesi nelle quali la definizione con ordinanza collegiale sia richiesta, se la Corte di cassazione “definisce il giudizio in conformità alla proposta applica il terzo e il quarto comma dell’art. 96”.
Non v’è bisogno di spendere troppe parole per rilevare quanto queste due novità, non contenute nella legge delega, disciplinino in modo del tutto diverso il diritto alla difesa e il trattamento paritario di tutti i cittadini di fronte alla legge, poiché par evidente che solo le parti benestanti potranno affrontare le eventuali ulteriori spese di cui all’art. 96 c.p.c., mentre le classi meno abbienti avranno senz’altro più difficoltà ad accettare simili rischi per esercitare il diritto all’azione.
Ed inoltre, ad abundantiam, mentre la legge delega prevedeva che la proposta dovesse contenere “la sintetica indicazione delle ragioni di inammissibilità, dell’improcedibilità o della manifesta infondatezza ravvisata”, l’art. 380 bis c.p.c. si limita a disporre che il consigliere deve dare una “sintetica proposta”, senza altro aggiungere.
In questo modo, non solo è venuto meno il riferimento alle ragioni di inammissibilità o manifesta infondatezza che il parere del consigliere doveva contenere, ma anche l’aggettivo sintetico è stato spostato dalla motivazione alla proposta stessa: è la proposta oggi che deve essere sintetica, non più la motivazione o le ragioni di manifesta infondatezza della proposta; queste ultime infatti potranno anche non esserci in base al tenore del nuovo testo.
4.6. Che fare dunque? Possiamo dichiarare incostituzionale tutta la riforma Cartabia?
Evidentemente no, e allora si tratta di ridurre, forse anche di azzerare, il problema dell’eccesso di delega.
La questione, se si vuole, è trattata dallo stesso Tribunale di Verona, laddove ricorda che la Corte costituzionale, con più di una pronuncia, ha già statuito che non può darsi eccesso di delega se il decreto legislativo non ha comunque violato la ratio della legge delega (così il Tribunale di Verona: “Occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente, ex plurimis: sentenze n. 230 del 2010, n. 98 del 2008, nn. 340 e 170 del 2007, e, più recentemente, sentenza 24 ottobre 6 dicembre 2012, n. 272”).
La soluzione è perfetta: in questo modo la risoluzione della questione non dipende più da una sola valutazione tecnica scaturente dall’esegesi dei testi, bensì sostanzialmente da una valutazione discrezionale, rimessa al contenuto di una espressione elastica ed imprecisa quale quella della ratio, che può contenere tutto e il contrario di tutto.
La filosofia del linguaggio ci insegna che per collegare una qualunque cosa con una qualunque altra è sufficiente aumentare il livello di astrazione delle parole, e la parola ratio è ideale per ciò.
Si può, così, sempre ritenere che il decreto legislativo non abbia violato la ratio della legge delega, e il problema si dissolve.
5. Segue: l’insussistenza altresì dell’incostituzionalità dell’art. 171 bis c.p.c. per violazione degli artt. 3 e 24 Cost.
E passiamo all’altra parte dell’ordinanza, ovvero a quella che dubita della legittimità costituzionale dell’art. 171 bis c.p.c. in relazione agli artt. 3 e 24 Cost.
Sostanzialmente, il problema, per il Tribunale di Verona, è questo: l’art. 171 bis c.p.c. si pone in contrasto con l’art. 3 Cost., poiché tale norma divide le questioni processuali tra quelle che si decidono prima dell’udienza, e quindi senza contraddittorio (ad esempio le questioni di cui agli artt. 102, 107, 164), e quelle che si mantengono invece quali questioni che si decidono in udienza, e quindi nel contraddittorio tra le parti e i loro difensori (scrive il Tribunale di Verona: mentre per tutte le altre, non espressamente menzionate, differisce la decisione alla udienza di prima comparizione).
Si tratterebbe di una disparità di trattamento non giustificata.
Soprattutto, il Tribunale di Verona rileva che le questioni indicate nel 1° comma dell’art. 171 bis c.p.c. prima stavano nel vecchio art. 183 c.p.c.: nel vecchio sistema, quindi, tale verifiche si realizzavano nel rispetto del contraddittorio con le parti e i loro difensori, perché appunto avvenivano in udienza, mentre oggi, essendo state dalla riforma anticipate in un momento anteriore, esse sono rese nella completa solitudine del giudice, che provvede senza sentire nessuno.
E qui, veramente, siamo alla parte romantica dell’ordinanza, quasi commovente per un avvocato, poiché si scopre, così, che esistono ancora giudici che ritengono costituzionalmente necessaria l’attività difensiva.
A pensarci, però, il dubbio di costituzionalità della norma per ragioni di questo genere non può che risultare alla fine infondato, e ciò non solo perché i provvedimenti resi dal giudice senza contraddittorio ai sensi dell’art. 171 bis, 1° comma c.p.c. potranno sempre essere rivisti e modificati a seguito del successivo contraddittorio nel successivo svolgimento del processo, e ciò non solo perché l’ordinanza prende a parametro del ragionamento una norma abrogata quale il vecchio resto dell’art. 183 c.p.c. e questo potrebbe addirittura condurre all’inammissibilità della questione, ma soprattutto perché è totalmente contrario allo spirito della riforma quello di immaginare una qualche rilevanza costituzionale della presenza degli avvocati nell’esercizio della funzione giurisdizionale.
Tutta la riforma, infatti, risponde alla logica contraria, e per la quale meno attività si fanno svolgere agli avvocati, meglio si realizza quella leale collaborazione necessaria alla realizzazione del principio di ragionevole durata dei processi e del PNRR.
Credo che nessuno possa mettere in dubbio che lo spirito della riforma sia questo: gli avvocati devono infatti scrivere gli atti in modo chiaro e sintetico e nel rispetto dei criteri e dei limiti dimensionali previsti dall’art. 46 disp. att. c.p.c.; gli avvocati non hanno diritto di interloquire personalmente con il giudice, in quanto gli artt. 127 bis e 127 ter c.p.c. hanno sostanzialmente annullato la loro possibilità di opporsi alla fissazione di udienze a distanza e/o cartolari; la decisione giurisdizionale può essere chiesta solo se le parti hanno anteriormente provato a conciliare la lite, e lo stesso giudice, tanto in primo grado (artt. 183 e 185 c.p.c.) quanto in appello (art. 350, 4° comma c.p.c.), può e deve oggi formulare “la proposta transattiva o conciliativa….fino al momento in cui fissa l’udienza di rimessione della causa in decisione” (art. 185 bis c.p.c.); tutti i termini per il deposito delle memorie sono stati ridotti (artt. 171 ter e 189 c.p.c.), e la funzione delle comparse conclusionali è stata gravemente ridimensionata, e ciò perché la definizione dei giudizi deve darsi sempre più in forma breve, tanto in primo grado (art. 281 sexies c.p.c.) quanto in appello (art. 350 bis c.p.c.), con procedure che escludono le difese scritte nella fase conclusiva del giudizio; è stato reintrodotto l’obbligo della presenza personale delle parti in prima udienza (art. 183 c.p.c.); si è previsto che il giudice, anche a fronte di una causa introdotta nelle forme ordinarie dalla parte attrice, possa sempre trasformare quel rito in sommario (art. 183 bis c.p.c.), e quindi poi decidere in via breve ex art. 281 sexies c.p.c., e sempre con facoltà di ridurre gli atti conclusionali scritti ex nuovo art. 275 bis c.p.c.; si è altresì previsto che l’avvocato che intenda chiedere in cassazione la definizione del giudizio con ordinanza collegiale debba munirsi di nuova procura speciale da parte del cliente (art. 380 bis c.p.c.); nel processo di famiglia sono aumentati i poteri d’ufficio del giudice (art. 473 bis 2 c.p.c.) e imposti alle parti nelle allegazioni doveri di verità (art. 473 bis 18 c.p.c.).e di completezza (art. 473 bis 48 c.p.c.); soprattutto ogni comportamento difensivo da considerare scorretto può costituire presupposto di sanzione a favore della controparte (art. 96, 3° comma c.p.c.) o dello Stato (art. 96, 4° comma c.p.c.), e si è arrivati perfino a sanzionare la mancata partecipazione al primo incontro di mediazione (art. 12 bis, 2° e 3° comma d. lgs. 28/2010).
In breve, la questione sollevata dal Tribunale di Verona è facilmente superabile: la svalutazione della funzione difensiva è parte integrante della riforma, e pertanto non si comprende perché l’art. 171 bis c.p.c., dovrebbe considerarsi in contrasto con l’art. 24 Cost. nella parte in cui prevede che i provvedimenti ivi indicati siano presi senza contraddittorio e/o l’ausilio dei difensori.
6. Osservazioni di sintesi.
In estrema sintesi, dunque, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Verona appaiono infondate: nel nostro nuovo sistema nessuna rilevanza costituzionale può avere l’eccesso di delega, e nessuna rilevanza costituzionale ha l’esercizio della difesa; l’art. 171 bis c.p.c. è quindi rispettoso dei dettati della nostra costituzione.
E poi, non dimentichiamo, detta norma si inserisce nel contesto di una riforma finalizzata all’attuazione del PNRR e porta il nome di un ex Presidente della Corte costituzionale.
Cosa vogliamo fare? Pretendiamo che la Corte dichiari l’incostituzionalità di sé stessa?
Suvvia, vedrete, andrà tutto bene.
(Immagine)
di Giorgio Spangher
Rimasto sotto traccia e progressivamente attenzionato dagli “addetti ai lavori” - soprattutto nelle fasi di merito delle misure cautelari - il tema dei criptofonini è diventato di grande attualità, anche nella informazione non solo specialistica: si attende infatti a breve la pronuncia delle Sezioni Unite e quella della Corte di Giustizia a seguito di un rinvio pregiudiziale da parte tedesca (è già disponibile un parere - ondivago - dell’Avvocato Generale).
In breve: a seguito di un sequestro di un criptofonino, cioè cellulare, ad Anversa, che quelle autorità non riuscivano a “leggere”, perché contenente messaggistica criptata, scambiata sulla piattaforma Sky ECC, venivano investite le autorità francesi che - attraverso una attività che interessava il server e con uso di trojan - riusciva a decodificare i contenuti criptati della messaggistica (in ordine al tema è stato posto il segreto di Stato), acquisendo una mole enorme di comunicazioni relative - sul piano internazionale - al traffico di droga e forse di terrorismo (da cui forse il segreto di Stato).
Informate, probabilmente anche da Eurojust, le autorità dei vari Stati, tra cui l’Italia, hanno richiesto tramite OIE il riferito materiale ponendolo alla base di indagini in corso (che così venivano irrobustite), ovvero avviandone nuove.
Tutto ciò, come detto, confluiva in provvedimenti cautelari, decisioni di riesame, di rigetto di argomentazioni difensive, di ricorsi per Cassazione, risoltisi con reiterate decisioni di rigetto.
Il progressivo approfondimento delle questioni coinvolte ha sollecitato risposte maggiormente attente anche perché nel frattempo erano maturate modifiche normative (tabulati) ed era stata pronunciata una sentenza (C. cost. 170 del 2023) in tema di messaggistica.
Con due sentenze della Cassazione che hanno annullato con rinvio due misure cautelari, il tema è stato significativamente approfondito (Cass. n. 44154 e n. 44155), ma la sua “immediata” mancata condivisione ha sollecitato la riferita richiesta di intervento delle sezioni unite (i quesiti andrebbero riscritti e resi più attinenti alle questioni implicate dal contrasto).
Il tema si articola attorno a tre aspetti, tra loro collegati: l’attività svolta in Francia; la natura degli atti trasmessi, la legittimazione e il contenuto dell’OIE emesso dal p.m. italiano.
Un punto dovrebbe essere fermo, cioè, nel caso di specie, non si può fare riferimento all’art. 234 bis c.p.p. e non si tratta di richiesta di attività da svolgere all’estero ma di consegna di materiali esistente presso le autorità francesi.
Sotto il primo profilo, si tratta di capire come l’autorità francese abbia acquisito quegli atti, cioè, se con attività statica o dinamica, ovvero con entrambe. Sotto il profilo del materiale, si tratta di capire se, escluso che si tratti di documenti, si tratti di corrispondenza (C. cost. 170 del 2023) ovvero (anche) di intercettazione (artt. 264 e segg.). Con riferimento alla legittimazione si tratta di verificare se ci sia stato o meno l’intervento del giudice per le indagini preliminari (in relazione alla natura degli atti richiesti e trasmessi).
Si tratta degli interrogativi che la sentenza di annullamento (Cass. n. 44154) pone dettagliatamente al giudice di rinvio e che tuttavia, consentono già di formulare un punto di non ritorno: non possono entrare nel processo penale italiano, neppure attraverso l’art. 270 c.p.p., atti avuti attraverso indagini presso altri paesi, atti che non avrebbero, per la nostra legislazione, possibilità di essere valutati dai nostri giudici.
Come si può agevolmente intendere, anche da questi riferimenti seppur schematici, si tratta di temi centrali, destinati ad un confronto alla cui base si pongono i temi del bilanciamento tra diritti individuali (riservatezza; diritto di difesa) riserva di giurisdizione, ed esigenze investigative (e securitarie) legate alla gravità dei reati oggetto di indagini (significativi gli interventi del Procuratore Nazionale Antimafia e del Capo del ROS che ha sottolineato, come l’attività svolta in Francia no sarebbe stata possibile in Italia).
Sotto questi profili - di ordine generale - dando il giusto rilievo alle Sezioni Unite (che non dovrebbero discostarsi dalle pronunce della VI Sezione), sicuramente la decisione della Corte di Giustizia assumerà un pregnante significato.
Nel secondo dopoguerra romano ancora presidiato dalle forze alleate, Ivano e Delia, coppia popolare afflitta da un ménage coniugale gravato dal mito del dominio maschile, duplicato e potenziato dalla convivenza con nonno Ottorino, papà di Ivano, e con tre figli da mantenere, incarnano, con l’enfasi della rappresentazione filmica, gli estremi di un modello familiare integralista che ancora oggi genera non pochi proseliti. Un modello del quale lo schiaffo del mattutino buongiorno che Ivano dà a Delia al primo risveglio, ancora a letto, inscena il suo prologo più espressivo, avvisando lo spettatore, già da questo suo esordio, che la narrazione procederà per iperbole e come un rock in quattro quarti, dove musica e danza, che già si annunciano offrirsi in coerente sequenza, sono convocate ad animare i fotogrammi di un riscatto di genere.
Dei tre figli la ragazza, Marcella, mal tollerando la soggezione materna, alimenta la coscienza di Delia con continue arringhe, sollecitatrici di una ribellione che in verità già cova nel ventre materno, ma che per maturare necessita di una strategia del silenzio da mescolare senza troppi danni collaterali alla tirannia di un Ivano violento e sospettoso.
Le donne devono tenere la bocca chiusa! Questo il mantra destinato ad attraversare l’intero racconto, ben cadenzato nel convinto sermone fatto al figlio da sor Ottorino (un assai convincente Giorgio Colangeli) come lascito di una moribonda e malintesa saggezza sulla necessità del silenzio femminile; e pure nella flemmatica censura del ricco borghese all’azzardata incursione verbale della moglie, rea di avere espresso un suo pensiero in una salottiera discussione tra uomini; e ancora nella dispotica asserzione di Mario alla moglie Orietta - pittoreschi genitori di Giulio, promesso sposo di Marcella, e proprietari di un bar poi esploso e finito in fumo all’unisono con le nozze dell’ormai nullatenente figliolo - nel prospettare l’imposizione di una scelta paterna per il matrimonio della figlia femmina.
Ed è in questo clima che l’accesso al voto delle donne del 1946, annunciato in pressoché tutte le riprese esterne con visibili manifesti, diventa occasione e ragione di una vittoria universale della parola al femminile; una vittoria della e per la civiltà, messaggera di uno slancio rivoluzionario dall’energia creativa di un atto d’amore.
Un atto d’amore, infatti, già sospettato come tale nel contenuto della lettera spiegata solo sul finale quale certificato elettorale e sulle prime fatta invece deliberatamente equivocare allo spettatore come scritto di un innamorato; amore e ribellione civile, dunque, trasfigurati come sinonimi tattili di indipendenza esistenziale.
Un gesto d’amore, ancora, che, a ritroso di pellicola, rinviene già i suoi germi nel riuscito girotondo scenico al sapore - e colore - di cioccolata tra Delia e Nino (un ottimo Vinicio Marchioni), spiantato meccanico di periferia colmo d’amore per la donna; simboli statici ed estatici insieme di una trasgressione dei sensi, con la forza potente dell’ammutinamento e la gentile vibrazione di un’intesa che nella miseria di quei tempi, ma nell’eterna influenza dell’amore, ritrova il senso della resistenza.
La fuga di Delia da Ivano e la corsa verso la fila delle votanti - più gagliarda di un ceffone, più persuasiva di un lauto guadagno - edifica l’altare del riscatto, innanzi al quale Ivano, simbolo di un esercito ormai piegato, silenziosamente retrocede sconfitto.
Un film felicemente rock si diceva, senza implicazioni cromatiche eppure con la lucentezza di uno spettro variopinto di intime coloriture e dove musica e danza con felice espediente scenico concorrono da protagoniste nel proposito di rendere invisibili le violenze maschili, senza però privarle dell’implicita barbarie.
Ancora un prodotto d’abilità di una Cortellesi attrice, marionetta pasionaria questa volta alla sua regia d’esordio, in grado di emergere illesa in piena consonanza espressiva con un brillante e sempre efficace Mastandrea.
In occasione del centenario dalla prima legge sugli stupefacenti, n. 396 del 18 febbraio 1923, la Rivista Giustizia insieme ha organizzato il convegno dal titolo:
“100 anni di leggi sugli stupefacenti”
che si terrà a Roma, il 1° dicembre 2023 presso l’Aula magna della corte di Cassazione.
Il convegno si articolerà in due sessioni.
La prima sessione al mattino riguarderà la legislazione sulle droghe nella società italiana dal 1923 ad oggi. Ad una relazione sull’evoluzione della normativa vista nel suo sviluppo storico e nei rapporti con i vari assetti politici, seguirà una tavola rotonda sullo scenario nazionale e internazionale del traffico degli stupefacenti, sull’attuale situazione sociale e politica, sugli effetti psicofisici del consumo di droghe e sui possibili prossimi sviluppi della legislazione riguardanti proibizionismo, forme di legalizzazione, normativa sull’uso personale.
Partendo dalla illustrazione del quadro attuale delle dimensioni del fenomeno nei suoi risvolti sociali e criminali, delle diverse risposte date da un numero sempre crescente di paesi, si affronterà la questione da tempo assai dibattuta delle effetti delle sostanze stupefacenti e in particolare della cannabis, la sua evoluzione a livello di tipologia di pianta e di modalità di utilizzo, per esporre il quadro delle ipotesi di nuove normative in cui si contrappongono approcci di minore tolleranza e proposte di legalizzazione, nelle sue diverse accezioni.
La seconda sessione nel pomeriggio si incentrerà sui vari aspetti dell’intervento riguardante il consumo di sostanze stupefacenti.
A due relazioni che inquadreranno la disciplina attuale e in particolare il ruolo della giurisprudenza, seguirà una tavola rotonda sul trattamento del consumo e della dipendenza, con una riflessione sull’approccio istituzionale al fenomeno da parte delle istituzioni: sulla tossicodipendenza, sulle forme di esecuzione della pena, sul trattamento carcerario, sul ruolo delle Comunità e dei servizi territoriali.
Partendo dalla descrizione del quadro attuale del consumo di stupefacenti e del suo rapporto con il disagio sociale, si approfondiranno gli aspetti del coinvolgimento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nella difficile gestione dei detenuti per droga, delle misure alternative attuali o che potrebbero essere incentivate, della condizione del tossicodipendente in carcere, della funzione dei SERD e del trattamento del tossicodipendente sul territorio, delle molteplici facce della dipendenza (ludopatia, alcolismo, anoressia/bulimia ecc.), del ruolo delle Comunità e delle richieste alle istituzioni.
Entrambe le sessioni termineranno con un dibattito.
La partecipazione dà diritto al riconoscimento di 6 crediti formativi.
Qui la registrazione video del convegno (tre video):
Introduzione e indirizzi di saluto
Prima sessione
Seconda sessione
(Immagine: Gaetano Previati, Fumatrici di oppio, bozzetto, 1887, olio su tela, cm 27 x 51,5. Collezione privata)
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