ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sulla soglia dell'umanità: l’art. 35 ter della L. 354/1975. Un dialogo interrotto tra Roma e Strasburgo.
di Ezio Romano
Sommario: 1. Introduzione. - 2. L’art. 35 ter L. 354/1975. - 3. Il rimando alla giurisprudenza della Corte EDU: una inedita formula legislativa di individuazione per relationem del dettato normativo. – 3.1. Violazione dell’art. 3 CEDU per insufficiente spazio personale: nozione, criteri di calcolo e regole di giudizio nella giurisprudenza EDU. - 4. La giurisprudenza di legittimità sul metodo di calcolo e sulle regole di giudizio: a volo d’uccello sul prima e dopo le Sezioni Unite. – 5. Mobilio fisso e letto singolo: un problema tutto italiano? –5.1. L’applicazione delle regole di giudizio da parte della Grande Camera e la mancata detrazione degli arredi. - 5.2. La lettura congiunta delle proposizioni sul calcolo dello spazio personale e di quello di libero movimento; un errore metodologico. - 5.3. Meubles, Mobili e Furnitures, una questione linguistica. – 5.4. La più ampia garanzia dei diritti possibile: tra buone intenzioni ed inefficacia della tutela. - 6. Conclusioni.
1. Introduzione.
Il presente contributo si propone di analizzare, a circa dieci anni dalla sentenza Torreggiani v. Italy della Corte EDU, l’attuale assetto normativo e giurisprudenziale in relazione al divieto di trattamenti inumani e degradanti sancito dall’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, con particolare riferimento alla disciplina di cui all’art. 35 ter della L. 354/1975 (d’ora innanzi anche O.P.) ed al diritto vivente formatosi in seno alla giurisprudenza di merito e, soprattutto, di legittimità sulla nozione di trattamento inumano e degradante.
Ciò tanto in generale quanto con specifico riferimento al tema dello spazio personale minimo, su cui la giurisprudenza di Cassazione si è più volte espressa negli ultimi anni, tenendo vivo un dibattito che non risulta essersi placato neppure dopo l’intervento delle Sezioni Unite del 2021.
Intervento che, come si avrà modo di evidenziare funditus nel prosieguo della trattazione, pare aver in parte ecceduto gli standard accolti dalla giurisprudenza convenzionale, con argomenti non del tutto condivisibili e soluzioni che hanno posto ulteriori dubbi interpretativi, facendo emergere nuovi contrasti nella giurisprudenza.
Un dibattito nato a Roma ed in gran parte estraneo a Strasburgo il cui rischio, certamente non voluto, è quello di trasformare geneticamente il giudizio nella subjecta materia in una mera applicazione di regole aritmetiche stringenti ed automatiche in cui l’esercizio della giurisdizione, chiamata a individuare l’atteggiarsi della regola al caso concreto, si arrende alla calcolatrice del geometra.
2. L’art. 35 ter L. 354/1975.
L’art. 35 ter della L. 354/1975 disciplina uno strumento di tipo risarcitorio teso a fornire tutela rispetto a quelle situazioni in cui le modalità esecutive della detenzione abbiano prodotto in via indiretta una lesione dell’art. 3 CEDU, che stabilisce, tra gli altri, il divieto di trattamenti inumani e degradanti.
Si è trattato, in verità, di una normazione forzata dalla condanna dell’Italia nel caso Torreggiani, in cui la Corte di Strasburgo aveva censurato l’assenza di un rimedio effettivo nell’ordinamento nazionale che potesse riparare alle violazioni dell’art. 3 CEDU riscontrate nel nostro paese a causa del sovraffollamento carcerario.
La norma, come confermato dalla Cassazione con la sentenza n. 3117/2016 e poi ribadito dalle Sezioni Unite Civili[1], ha introdotto un meccanismo riparatorio del tutto nuovo e atipico, con carattere prevalentemente indennitario e di matrice solidaristica, non inquadrabile in alcun modo nella disciplina civilistica come eventuale sotto partizione della generale azione risarcitoria da illecito aquiliano (ex art. 2043 c.c.).
Il meccanismo di tutela previsto si articola in due modalità di ristoro, disciplinate dai commi 1 e 2 dell’art. 35 ter O.P., secondo un criterio di quantificazione fisso e non direttamente ancorato all’entità del danno patito, come in tutti gli istituti di natura indennitario-risarcitoria.
La prima modalità, che potremmo assimilare ad un ristoro lato sensu in forma specifica, prevede che, laddove la persona abbia vissuto condizioni tali da violare l’art. 3 CEDU per un periodo superiore ai quindici giorni, il Magistrato di Sorveglianza riconosca una riduzione della pena espianda pari ad un giorno ogni dieci.
La seconda trova applicazione “quando il periodo di pena ancora da espiare non è tale da consentire la detrazione dell’intera misura percentuale di cui al comma 1 […]”, prevedendo un rimedio di tipo monetario, liquidato nella misura fissa di euro 8,00 per ogni giorno di detenzione subita in condizioni tali da violare l’art. 3 CEDU.
Presupposto per il reclamo ex art. 35 ter O.P. è il grave pregiudizio all’esercizio di diritti richiamato dagli artt. 35 bis e 69 comma 6 lettera b) O.P. con una necessaria precisazione: a differenza di quanto previsto dall’art. 69 comma 6 lettera b) O.P., il pregiudizio rilevante consiste non in una generica violazione di legge o del regolamento, ma si concreta nell’esser stato il reclamante detenuto in condizioni tali da violare l’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della L. 4 agosto 1955 n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in quanto tradottesi in un trattamento inumano e degradante.
Ulteriore elemento peculiare del rimedio in esame rispetto al reclamo giurisdizionale di cui all’art. 35 bis O.P., attiene all’assenza del requisito dell’attualità del pregiudizio, sicché il reclamo previsto dalla norma è azionabile fisiologicamente anche in relazione a periodi detentivi già espiati.
Quando è ancora in atto la pena è, pertanto, possibile proporre reclamo innanzi al Magistrato di Sorveglianza anche in relazione a periodi detentivi antecedenti che, tuttavia devono essere afferenti al titolo in esecuzione (ad esempio periodi detentivi attribuiti a titolo di pre-sofferto o di fungibilità, ovvero ancora detenzioni imputabili a più titoli, ma poste in successione cronologica tra loro senza soluzione di continuità).
Una volta terminata l’espiazione della pena o laddove il periodo detentivo non sia afferente al titolo in esecuzione, il detenuto potrà adire direttamente il Tribunale ordinario in sede civile, come stabilito dal terzo comma dell’art. 35 ter O.P., per ottenere il ristoro di tipo monetario.
3. Il rimando alla giurisprudenza della Corte EDU: una inedita formula legislativa di individuazione per relationem del dettato normativo.
In virtù dell’espresso richiamo normativo alla giurisprudenza della Corte EDU, l’art. 35 ter O.P. individua il proprio contenuto precettivo per relationem attraverso il rinvio alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, chiamata a sua volta a definire e concretizzare i diritti e le libertà elencate nella Carta Europea dei Diritti dell’Uomo, generalmente racchiusi in enunciati e formule tendenzialmente aperti.
Si tratta, a ben vedere, di una operazione di non facile momento e che pone diversi problemi sia all’interprete che al giudice, tanto sul piano del sistema delle fonti quanto, più in concreto, sul piano della selezione della giurisprudenza EDU rilevante.
Sotto il profilo sistematico, la tecnica normativa utilizzata appare non del tutto coerente con la collocazione che la giurisprudenza della Consulta ha attribuito alla Convenzione nella gerarchia delle fonti, quale parametro interposto di costituzionalità, superiore alla legge ordinaria ma sotto-ordinato alla stessa Costituzione[2].
In un quadro così congeniato, l’art. 35 ter O.P. rinviando per la determinazione del proprio contenuto normativo alla giurisprudenza EDU, sembra consentire alla magistratura di sorveglianza di dare diretta applicazione dei principi in essa affermati e, dunque, degradare la stessa CEDU al rango di legge ordinaria.
Sotto il profilo più pragmatico della individuazione della norma rilevante, non può non osservarsi che la Corte EDU esprime una giurisprudenza necessariamente variegata, che potrebbe apparire non sempre coerente, in ragione dell’oggetto dei giudizi in cui sono chiamati a pronunciarsi i giudici di Strasburgo: la violazione nel caso sottoposto di uno dei diritti o principi enunciati dalla Convenzione.
L’approccio casistico adottato dalla Corte di Strasburgo, dunque, richiede al giudice di individuare quale interpretazione dell’art. 3 CEDU debba assurgere a parametro di integrazione del precetto normativo.
Sul punto, importanti statuizioni di principio e di metodo possono rinvenirsi nella giurisprudenza della Corte Costituzionale sul terreno dell’interpretazione convenzionalmente orientata.
Con la celebre Sentenza n. 49/2015 del 14.1.2015, infatti, la Consulta ha affermato che solo la giurisprudenza EDU espressiva di un orientamento consolidato, racchiusa in una sentenza c.d. pilota, ovvero proveniente da statuizioni della Grande Camera della Corte di Strasburgo, può assumere quel ruolo cogente per l’interprete, tale da doverne orientare l’ermeneutica in senso conforme al dettame convenzionale, e divenire parametro interposto di costituzionalità attraverso il richiamo di cui all’art. 117 della Costituzione[3].
Quanto affermato dalla Consulta sul terreno dell’interpretazione da parte del giudice deve valere evidentemente a fortiori laddove, come nel caso inedito dell’art. 35 ter O.P., la giurisprudenza EDU venga richiamata per integrare il dettato normativo: il giudice nazionale è dunque tenuto a conoscere ed attuare la giurisprudenza di Strasburgo, non avventurandosi in interpretazioni più ampie di quelle fornite dalla consolidata giurisprudenza della Corte EDU nella subjecta materia.
E ciò, si badi bene, primariamente con riferimento a quella ormai consolidata in tema di individuazione di uno spazio vitale minimo garantito (Sulejmanovic v. Italia del 16.7.2009; Ananyev c. Russia del 10.4.2012; Torreggiani c. Italia del 8.1.2013; Grande Camera del 20.10.2016 Mursic v. Croatia), ma anche rispetto ad altri profili che possono ridondare in una violazione dell’art. 3 CEDU.
Se è vero, infatti, che statisticamente il tema più indagato e di applicazione dell’art. 35 ter O.P. in ambito nazionale riguarda le condizioni di sovraffollamento carcerario e dello spazio minimo da garantire all’interno della cella, occorre precisare che il tema in esame si iscrive nel solco più ampio della giurisprudenza CEDU inerente alle condizioni della detenzione contrarie all’art. 3 CEDU.
Si tratta di una consolidata giurisprudenza, che comprende tutti quei casi in cui la violazione dell’art. 3 CEDU sotto il profilo dei trattamenti inumani e degradanti è stata ritenuta indirettamente derivante dalle modalità esecutive della privazione della libertà personale allorquando le stesse, in una valutazione complessiva, abbiano ecceduto l’inevitabile sofferenza legata alla detenzione e superato quella che la Corte indica quale soglia minima di gravità.
I parametri da ultimo indicati (superamento della sofferenza intrinseca nella privazione della libertà; superamento di una soglia minima di gravità) sono stati richiamati in numerose pronunce della Corte EDU in materia (tra le tante, Kudla v. Polonia del 1996; Kalachnikov v. Russia del 15.7.2002; Alver v. Estonia del 8.2.2006; Popov v. Russia del 13 luglio 2006; recentemente anche Georgia v. Russia II del 29 gennaio 2021 § 240 e seguenti), in cui si è affermato e consolidato il principio secondo cui “In the context of deprivation of liberty the Court has consistently stressed that, to fall under Article 3, the suffering and humiliation involved must in any event go beyond the inevitalble element of suffering and humiliation connected with detention. The State must ensure that a person in detainded in conditions which are compatible with respect of human dignity, that the manner and method of the execution of the measure do not subject him to distress or hardship of an intensity exceeding the unavoidable level of suffering inherent in detention […] When assessing conditions of detention, account has to be taken of the cumulative effects of these conditions, as well as of specific allegations made by the applicant […] The length of the period during which a person is detained in the particular conditions also has to be considered […]”[4].
3.1. Violazione dell’art. 3 CEDU per insufficiente spazio personale: nozione, criteri di calcolo e regole di giudizio nella giurisprudenza EDU.
In materia di violazione dell’art. 3 CEDU per insufficiente spazio personale derivante da sovraffollamento carcerario, giova osservare che la Corte Europea nelle proprie pronunce, pur avendo spesso fatto riferimento ad un parametro orientativo di 3 mq, ha asserito l’impossibilità di stabilire in maniera certa e definitiva lo spazio personale che deve essere riconosciuto a ciascun detenuto ai termini della Convenzione, dovendosi adottare un approccio complessivo che guardi alle particolari, specifiche condizioni della realtà vissuta dal detenuto[5].
Tale affermazione è il punto di partenza della sentenza della Grande Camera Mursic vs Croatia che rappresenta, allo stato, il principale e più solido arresto della giurisprudenza EDU in materia, non solo perché proveniente dal più ampio consesso della Corte di Strasburgo, ma anche perché con tale pronuncia la Grande Camera ha individuato le regole di giudizio e le situazioni rilevanti ai sensi dell’art. 3 CEDU attraverso un’opera di raccordo e selezione degli orientamenti emersi in seno alla Corte negli anni precedenti.
È a tale sentenza, dunque, che secondo la citata giurisprudenza costituzionale occorre primariamente fare riferimento per individuare il portato precettivo dell’art. 35 ter O.P.
La sentenza Mursic v. Croatia ha, anzitutto, stabilizzato l’indirizzo secondo cui nelle celle con più occupanti a ciascun detenuto dovrebbero essere garantiti almeno 3 mq di spazio personale.
Si tratta di un approdo non del tutto scontato né condiviso all’unanimità dai giudici di Strasburgo[6], atteso che vi era forte dibattito in seno alla Grande Camera circa la necessità di adottare il più elevato standard indicato dal Comitato per la Prevenzione della Tortura (d’ora innanzi CPT) nei propri report, fissato in 4 mq di spazio personale, che era stato accolto in alcune pronunce minoritarie (Cotleţ v. Romania (no. 2), n. 49549/11, §§ 34 e 36, 1.10.2013; Apostu v. Romania, n. 22765/12, § 79, 3.2.2015).
Tuttavia, la Grande Camera, a maggioranza, ha inteso ribadire che gli standard del CPT indicano livelli minimi auspicabili e svolgono, dunque, una funzione preventiva, laddove la Corte è chiamata a valutare situazioni reali ed effettive; pertanto, l’adozione di un parametro auspicabile per la valutazione dell’esistente, comporterebbe un giudizio non coerente con il tipo di tutela che la Corte EDU può assicurare nel sistema della Convenzione, andando a sovrapporsi a quella del Comitato[7].
Stabilito questo primo punto, la Corte EDU ritiene importante chiarire il metodo di calcolo dello spazio personale all’interno delle celle, affermando di fare proprio il sistema accolto dal CPT[8], secondo cui per determinare lo spazio a disposizione di ciascun detenuto occorre calcolare l’area della camera detentiva al netto del locale bagno[9] – necessariamente separato dal resto della stanza nelle celle con più occupanti[10] – ma al lordo degli arredi[11], dividendo poi tale area per il numero di detenuti ristretti.
La Corte, tuttavia, evidenzia la necessità di considerare l’incidenza dello spazio occupato dal mobilio sulla a concreta vivibilità degli ambienti, indicando che occorre anche valutare “se i detenuti avevano la possibilità di muoversi normalmente all’interno della cella”[12] (su questo passaggio della motivazione della sentenza Mursic v. Croatia si appuntano i dubbi emersi nella giurisprudenza interna, che saranno affrontati funditus più avanti nella trattazione).
Una volta determinati in linea di massima lo spazio pro capite ed il relativo criterio di calcolo, la Corte passa in rassegna le diverse situazioni che possono riscontrarsi in concreto e indica quali siano le regole di giudizio applicabili a ciascuna di esse.
Qualora lo spazio personale fruibile individuale risulti inferiore ai 3 mq per ciascun detenuto non si verifica un’automatica violazione dell’art. 3 CEDU, bensì di una “forte presunzione” di violazione della Convenzione cui si accompagna un’inversione dell’onere della prova, che pone in capo allo Stato l’obbligo di dimostrare la sussistenza di elementi in grado di escludere la violazione dell’art. 3 CEDU, secondo quello che la Corte indica come lo “strong presumption test” stabilito nel precedente Ananyev and Others v. Russia ed accolto dalla numerosa giurisprudenza successiva.
La forte presunzione, infatti, deve poter ammettere una prova contraria e può essere ribaltata dallo Stato laddove sussistano elementi positivi che, cumulativamente considerati, riescano ad escludere che nel caso concreto si sia prodotto un pregiudizio rilevante. Sarà certamente difficile, continua la Grande Camera, che la forte presunzione possa essere superata a fronte di una flagrante o prolungata carenza dello spazio minimo; ma, almeno in astratto, una prova contraria non è impossibile[13].
Conseguentemente, la sentenza Mursic v. Croatia ha affermato che, normalmente, per ribaltare la forte presunzione dovranno ricorrere congiuntamente le seguenti condizioni: a) i periodi detentivi sotto soglia dovranno essere occasionali, brevi e minori; b) il detenuto dovrà aver avuto sufficiente libertà di movimento fuori dalla cella e accesso a congrue attività trattamentali; c) la detenzione dovrà esser stata svolta in quello che può considerarsi un carcere in adeguate condizioni generali e in assenza di ulteriori fattori negativi aggravanti (cfr. §138).
Nella giurisprudenza EDU, in verità, non vi sono indicazioni univoche su cosa debba intendersi per detenzione breve, occasionale e relativamente minore; tuttavia poiché nel caso Mursic v. Croatia la Corte ha riscontrato una violazione in un periodo di ventisei giorni continuativi trascorsi dal ricorrente sotto-soglia, la giurisprudenza successiva si è orientata nel ritenere periodi superiori o prossimi a tale soglia sufficienti per affermare la sussistenza di una violazione dell’art. 3 CEDU.
Diverse sentenze più recenti, nell’applicare lo “strong presumption test”, inoltre, hanno primariamente valutato la durata del periodo detentivo, arrestandosi a tale stadio ove lo stesso fosse ritenuto non breve, occasionale e relativamente minore e, dunque, riconoscendo la produzione del danno rilevante senza ulteriore indagine sugli altri elementi compensativi (cfr. in particolare la recente J.M.B. and Others v. France del 30.1.2020).
Il dato temporale, dunque, appare il primo da tenere in considerazione.
Il secondo fattore compensativo guarda alla possibilità per i detenuti di trascorrere adeguato tempo fuori dalla cella ed avere accesso ad una congrua offerta trattamentale.
Particolarmente rilevante, in senso negativo, è l’impossibilità per il detenuto di stare fuori dalla cella o comunque di godere di un numero di ore al giorno sufficiente, e l’impossibilità di svolgere esercizio quotidiano all’aria aperta; fattori che incidono pesantemente sulla qualità della vita in Istituto, così come affermato dal secondo rapporto generale del CPT più volte citato dalla giurisprudenza della Corte EDU (v. in particolare sentenza Torreggiani) quale riferimento per i criteri valutativi da adottare in ordine alla presenza di una lesione dell’art. 3 CEDU pregiudizio.
Anche in questo caso, non vi è un parametro temporale fisso nella giurisprudenza di Strasburgo, ma può valutarsi certo come elemento fortemente positivo il rispetto del parametro delle otto ore di uscita dalla cella al giorno espressamente indicato dal secondo rapporto generale del CPT.
Sebbene tale indicazione è, infatti, da intendersi quale misura auspicabile e non rappresenta un parametro tassativo il cui mancato rispetto evidenzi un elemento autonomamente negativo, per converso, la disponibilità di un numero di ore pari o superiore allo standard auspicabile può essere fattore particolarmente idoneo ad escludere la produzione di una violazione del dettato convenzionale e, dunque, la produzione di un danno rilevante ai sensi dell’art. 35 ter O.P.
Per converso, qualora sia garantita la possibilità di uscire dalla cella per ampi lassi temporali inferiori alle otto ore, tale possibilità va attentamente bilanciata con le ulteriori condizioni detentive cumulativamente considerate.
Analoghe considerazioni possono svolgersi per l’accesso ad una congrua offerta trattamentale. Ciò che rileva è, secondo le parole del CPT, che i detenuti non vengano “lasciati a languire per settimane, a volte mesi, chiusi nelle loro celle”, venendo impegnati in attività utili al loro reinserimento sociale.
L’ultimo fattore compensativo attiene alla valutazione complessiva dell’istituto penitenziario, secondo un giudizio volto a verificare l’adeguatezza della struttura, della sua organizzazione, delle condizioni di igiene e di ogni altro elemento rilevante nel caso di specie.
Qualora lo spazio individuale in cella sia superiore a 3 mq, ma inferiore a 4 mq per ciascun detenuto, non essendovi una forte presunzione di violazione, l’elemento spaziale, comunque particolarmente ridotto, deve essere valutato unitamente ad altri fattori ambientali carcerari negativi tali da integrare il grave pregiudizio, secondo una considerazione complessiva delle condizioni detentive.
Il relativo giudizio consiste nel valutare l’incidenza dei già citati fattori compensativi – che non dovranno necessariamente ricorrere in via cumulativa – unitamente ad altri fattori di carattere positivo o negativo, esaminando tutti gli elementi che concorrono nella valutazione unitaria delle condizioni di detenzione.
In questo caso, non è il solo dato metrico a rilevare, ma l’effetto complessivo dei fattori allevianti, di ulteriori ed accertate condizioni di disagio e di altri elementi positivi che ricorrono nel caso concreto e, dunque, non espressamente tipizzati.
La valutazione, ancora una volta, dovrà essere effettuata guardando alla realtà delle condizioni di detenzione effettivamente sperimentate dal reclamante.
Da ultimo, qualora lo spazio pro capite all’interno della camera detentiva risulti pari 4 mq o superiore ai 4 mq non sussiste violazione in relazione al parametro spaziale, essendo lo stesso conforme all’indice auspicabile contemplato nelle decisioni della Corte EDU (non inferiore a 4 mq per detenuto allocato in cella collettiva in osservanza di quanto espresso da report CPT).
In questo caso, dunque, non sussiste lesione dell’art. 3 CEDU, quantomeno sotto il profilo dello spazio minimo garantito.
4. La giurisprudenza di legittimità sul metodo di calcolo e sulle regole di giudizio: a volo d’uccello sul prima e dopo le Sezioni Unite.
Sui criteri di determinazione dello spazio personale disponibile espressi dalla sentenza Mursic v. Croatia si è innestato un dibattito nella giurisprudenza interna alla Corte di Cassazione circa la necessità o meno di scomputare in fase di determinazione dello spazio pro capite l’area occupata dagli arredi tendenzialmente fissi tra cui letti e armadi.
Il filone giurisprudenziale maggioritario ha ritenuto che lo spazio occupato dai letti e armadi dovesse essere sottratto dalla metratura della camera di pernottamento, in quanto lo stesso inciderebbe sullo spazio vitale minimo nel quale i detenuti hanno la possibilità di muoversi (v. Cass. 9/9/2016 n. 52819/16).
Tale interpretazione ha ricevuto l’avallo delle Sezioni Unite (SS. UU. Sentenza n. 6551 del 29/4/2021) che – valorizzando il passaggio in cui la Corte EDU ha fatto espresso riferimento alla possibilità di libero movimento dei detenuti all’interno della cella – hanno rilevato come “la superficie destinata al movimento nella cella è limitata dalle pareti, nonché dagli arredi che non si possono in alcun modo spostare e che, quindi, fungono da parete o costituiscono uno spazio inaccessibile”.
Nella sentenza citata, le Sezioni Unite hanno indicato espressamente, tra gli arredi fissi armadi pesanti, ancorati al muro e letti a castello, senza specificare se analoghe considerazioni debbano valere anche per i letti singoli.
Sul punto, pertanto, si è creata una successiva giurisprudenza che, nel solco delle affermazioni di principio rese dalle Sezioni Unite circa la necessità di detrarre dallo spazio netto della cella quegli arredi fissi e che non si possono in alcun modo spostare, suole distinguere tra letti singoli fissati al suolo ovvero amovibili.
Tale indirizzo è stato espresso dalla Suprema Corte con sentenza n. 18682/2022, in cui si afferma: “Se il letto singolo è ancorato al suolo - non è, cioè, mobile – i detenuti all’interno della cella non possono utilizzare lo spazio dallo stesso occupato per camminare e spostarsi; se, invece, non è ancorato al suolo, c’è la possibilità di spostarlo durante il giorno per specifiche necessità, al pari delle sedie e dei tavolini, e, quindi, di utilizzare il relativo spazio” (Cass. Sez. I, Sent. n. 18682/2022).
Tuttavia, successivi e più recenti arresti (Cass. Sez. I. n. 18760/2023 depositata il 4.5.2023), hanno contestato tale orientamento, evidenziando che la circostanza che il letto singolo sia o meno ancorato al pavimento non incide sulla idoneità dello stesso di rappresentare un ostacolo alla libertà di movimento del detenuto all’interno della camera detentiva, che rappresenta la statuizione principale espressa dalle Sezioni Unite.
Ciò in quanto il letto singolo, anche se non ancorato al pavimento, è comunque un arredo da intendersi quale “arredo tendenzialmente fisso” e di non facile movimentazione all’interno della stanza[14].
In tal senso, la pronuncia da ultimo citata, ribaltando la prospettiva accolta dall’attuale giurisprudenza maggioritaria, ha ritenuto che il letto singolo debba sempre essere rimosso dal calcolo della superficie netta della cella, a meno che lo stesso non sia facilmente amovibile.
Tale arresto è, per verità, allo stato minoritario, ma pare nel complesso più coerente con la ratio della lettura offerta dalle Sezioni Unite del metodo di calcolo dello spazio personale rilevante ai sensi dell’art. 3 CEDU.
Non vi è dubbio, infatti, che la giurisprudenza precedente (Cass. Sez. I, Sent. n. 18682/2022) abbia omesso di considerare che, specialmente in celle di piccole dimensioni, la possibilità per i detenuti di spostare all’occorrenza un arredo ingombrante come il letto singolo non ancorato al pavimento si risolve in una facoltà meramente teorica ed in concreto difficilmente praticabile.
Le statuizioni di principio della sentenza n. 18760/2023 del 4.5.2023, viceversa, sembrano più vicine al dictum delle Sezioni Unite e non vi è motivo di ritenere che tale orientamento non venga poi seguito dalla giurisprudenza maggioritaria in sede penale; anche perché, giova evidenziarlo, in sede civile la giurisprudenza si è già assestata in tal senso[15].
Quanto alle regole di giudizio applicabili al caso in cui lo spazio personale sia inferiore a 3 mq, le Sezioni Unite hanno richiamato (quasi) pedissequamente i paragrafi 138 e seguenti della sentenza Mursic v. Croatia, affermando il principio di diritto secondo cui i fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a 3 mq solo se ricorrono congiuntamente (omettendo l’avverbio normally/normalement).
Anche la Cassazione, inoltre, ritiene primario il dato temporale; tuttavia, poiché l’art. 35 ter O.P. fissa normativamente un parametro temporale, pari a quindici giorni, per stabilire la rilevanza o meno del periodo ai fini del riconoscimento della riduzione di pena, nella giurisprudenza interna è ormai consolidato l’orientamento per cui qualsiasi periodo superiore a tale soglia sia da considerarsi non breve.
Quanto agli ulteriori criteri compensativi, non vi sono rilevanti divergenze rispetto a quanto già esposto supra al § 2.1, cui si rimanda per brevità.
5. Mobilio fisso e letto singolo: un problema tutto italiano?
Muovendo dalla rapida disamina sin qui svolta non ci si può esimere dal notare che le Sezioni Unite, nello stabilire i principi di diritto per cui nella determinazione dello spazio di 3 mq deve essere sottratta l’area occupata dagli arredi di difficile movimentazione e che i criteri compensativi debbano necessariamente ricorrere congiuntamente hanno adottato regole di giudizio più stringenti rispetto a quelle espressa dalla giurisprudenza EDU su quali condizioni detentive possano assurgere a trattamento disumano o degradante.
Se il secondo principio di diritto (necessaria compresenza dei fattori compensativi) può essere, comunque, valutato coerente con gli indirizzi CEDU, alla luce delle sentenze successive emerse nella giurisprudenza di Strasburgo, quello più problematico è il punto di partenza delle Sezioni Unite, laddove la sentenza n. 6551/2021 finisce col sovrapporre i concetti di spazio personale e quello di spazio di libero movimento ai fini della determinazione dell’operatività o meno della regola di giudizio dello strong presumption test.
Non si tratta, per verità, di una scelta inconsapevole, ma di un arresto interpretativo che le Sezioni Unite costruiscono sulla base del passaggio motivazionale in cui la Corte EDU indica che lo spazio debba essere calcolato al lordo degli arredi, ma è importante verificare se i detenuti avessero la possibilità di muoversi normalmente all’interno della cella: “On the other hand, calculation of the available surface area in the cell should include space occupied by furniture. What is important in this assessment is whether detainees had a possibility to move around within the cell normally”.
Secondo le Sezioni Unite una lettura disgiunta delle due proposizioni porterebbe a considerare la valutazione sulla libertà di movimento quale mero dato empirico, che dovrebbe essere accertato caso per caso dal Magistrato di Sorveglianza. Viceversa, una lettura sistematica delle due proposizioni porta il Collegio a ritenere che: “le stesse debbano essere lette congiuntamente, sì da attribuire loro un significato effettivo e conforme alle finalità perseguite dalla Corte e dalla legge in relazione al divieto di pene inumane e degradanti. L'interpretazione separata delle due proposizioni renderebbe il secondo parametro - quello della possibilità di muoversi normalmente nella cella - assai generico e di difficile applicazione da parte del magistrato di sorveglianza, se non in casi eclatanti di manifesta impossibilità di spostamento. Non è un caso che la Corte EDU, sia nella sentenza Ananyev c. Russia che nella decisione Muri e c. Croazia, utilizzi alternativamente due termini: «normalmente» (normally) e «liberamente» (freely), espressivi dell'evanescenza del criterio se adottato autonomamente, con conseguente rischio di penalizzazione del detenuto. La lettura combinata delle due proposizioni permette, invece, di attribuire rilievo, ai fini della possibilità di movimento in una stanza chiusa, quale è la cella, ad un armadio fisso oppure ad un pesante letto a castello che equivalgono ad una parete: in tale ottica la superficie destinata al movimento nella cella è limitata dalle pareti, nonché dagli arredi che non si possono in alcun modo spostare e che, quindi, fungono da parete o costituiscono uno spazio inaccessibile.”
A sostegno, le Sezioni Unite adducono un ulteriore argomento, di tipo etimologico, sostenendo che tale lettura sarebbe avallata dall’utilizzo da parte della Corte EDU del sostantivo "meuble" nella traduzione ufficiale della sentenza in lingua francese “En revanche, le calcul de la surface disponible dans la cellule doit inclure l'espace occupé par les meubles”. Secondo la Corte, poiché il sostantivo “indica un oggetto che può essere spostato, che è, appunto, mobile”, lo stesso può riferirsi esclusivamente a quegli arredi di facile movimento quali tavolini e sgabelli e non già al mobilio fisso o non agevolmente rimuovibile, il cui ingombro deve essere sottratto da quello valutabile ai fini dell’art. 35 ter O.P.
Da ultimo, le Sezioni Unite si preoccupano di specificare che tale interpretazione trova una propria ragione nella necessità di adottare nella subjecta materia l’interpretazione più “favorevole al benessere dei detenuti, ai quali viene garantito uno spazio più ampio concretamente utile per il movimento rispetto a quello ricavabile dalla soluzione opposta”.
A ben guardare, l’opzione ermeneutica delle Sezioni Unite non è così pianamente sostenibile ove la si ponga in relazione all’effettivo atteggiarsi della giurisprudenza della Corte di Strasburgo nella materia in esame, ed appare foriera di esiti non coerenti con il sistema di tutela garantito della Convenzione.
Pur condividendo, dunque, in linea di principio gli scopi fatti propri dalla Cassazione, l’interpretazione offerta eccede evidentemente i limiti fissati dalla giurisprudenza EDU, tradendo le indicazioni espresse dalla Corte Costituzionale nella Sentenza 49/2015, fatte proprie anche dalle stesse Sezioni Unite, quantomeno in premessa del proprio iter motivazionale[16].
5.1. L’applicazione delle regole di giudizio da parte della Grande Camera e la mancata detrazione degli arredi.
Un primo rilievo critico che si può muovere alla Sentenza n. 6551 del 2021 è che nella sua ricostruzione della giurisprudenza convenzionale rilevante manca qualsiasi riferimento al caso concreto oggetto di valutazione da parte della Grande Camera nel giudizio Mursic v. Croatia, nonché a qualsiasi concreta e pratica applicazione dei principi enunciati dalla Corte di Strasburgo in altri giudizi in materia.
Come si è rilevato in premessa, infatti, la Corte EDU esprime una giurisprudenza casistica e particolare, sicché omettere di considerare il caso sottoposto all’attenzione della Corte non consente di apprezzare in che termini sia stata riscontrata una violazione della Convenzione nel caso concreto; ciò mina irrimediabilmente la comprensione dei principi e delle regole di giudizio assunte, nonché della loro applicazione.
Andando ad esaminare il caso della sentenza Mursic v. Croatia ci si può rendere conto che la Corte ha ritenuto sussistente una violazione dell’art. 3 CEDU esclusivamente in relazione ad un periodo di ventisei giorni consecutivi in cui il ricorrente aveva potuto disporre di uno spazio personale di 2,62 mq.
Nel periodo indicato il sig. Mursic era stato ristretto in una cella di 22,88 mq al lordo del bagno, 20,98 mq al netto del bagno, unitamente ad altri sette detenuti, per un numero complessivo di otto occupanti.
Il calcolo operato dalla Corte, dunque, è il seguente: 20,98 diviso 8, uguale 2,62 mq.
Poiché lo spazio personale così determinato risulta inferiore ai 3 mq, la Corte applica lo strong presumption test e, ritenendo che ventisei giorni continuativi non possano essere considerati un periodo breve, accoglie, in parte qua il reclamo.
Viceversa, negli ulteriori periodi valutati dalla Grande Camera il dato metrico è molto variabile, ma sono riportati periodi lunghi e certamente significativi in cui la persona aveva a disposizione uno spazio personale tra i 3 ed i 4 mq, calcolato secondo il criterio del CPT (al netto del bagno e al lordo degli arredi).
Ebbene, in questi casi, la Corte di Strasburgo non procede mai a rettificare le misurazioni fornite, detraendo oltre al bagno lo spazio degli arredi; operazione che, ove effettuata, avrebbe evidentemente portato il dato metrico ben al di sotto dei 3 mq di suolo calpestabile secondo l’interpretazione accolta dalle Sezioni Unite ed avrebbe, pertanto, dovuto condurre all’applicazione dello strong presumption test.
Nulla di tutto ciò avviene nella sentenza e, anzi, la Corte evidenzia che mantenendosi il dato tra i 3 ed i 4 mq al lordo degli arredi, non opera la regola di giudizio più gravosa, rigettando il reclamo del sig. Mursic per tutti gli altri periodi rispetto ai quali vi era stata richiesta.
Per meglio comprendere il punto, si riporta una porzione della tabella delle misurazioni accolte dalla Grande Camera nel caso Mursic v. Croatia e sulla base delle quali è stato operato il relativo giudizio:
Esaminando alcuni dei periodi in cui la Grande Camera non ha ritenuto integrata una lesione dell’art. 3 CEDU, ci si accorge che in gran parte di questi le regole di giudizio affermati dalle Sezioni Unite avrebbero, viceversa, comportato l’applicazione della regola di giudizio dello strong presumption test e portato ad un accoglimento del reclamo avanzato ai sensi dell’art. 35 ter O.P.
In particolare, si osservi la detenzione espiata dal sig. Mursic nella cella 1/O, di dimensioni al netto del bagno 17,8 mq ed in cui il numero degli occupanti era variabile tra i 5 ed i 6.
È evidente che la cella prevedesse una capienza massima di sei persone, il che significa che potevano essere ivi presenti o sei letti singoli o tre letti a castello da due posti o due letti a castello da tre posti.
Immaginando le dimensioni standard di un letto singolo, che occupa circa uno spazio di 1,79-1,80 mq, anche nella migliore delle ipotesi, laddove la Corte di Strasburgo avesse inteso dare rilievo nella determinazione dello spazio personale agli arredi non mobili, come ritenuto dalle Sezioni Unite, lo spazio di 17,8 mq sarebbe stato ridotto di 3,6 mq (ingombro di due letti a castello da tre posti), giungendosi a 14,2 mq di spazio di effettivo movimento all’interno della cella.
Lo spazio di libero movimento pro capite, dunque, avrebbe dovuto essere considerato pari a 2,84 mq laddove la cella era occupata da cinque detenuti e 2,36 mq quando erano presenti sei ristretti.
Viceversa, la Grande Camera esprime il suo giudizio sui calcoli indicati nella tabella su riportata, rigettando il ricorso, quanto ai periodi in cui il dato metrico di spazio personale al lordo degli arredi è superiore ai 3 mq, considerando gli stessi come spazio compreso tra i 3 ed i 4 mq e senza applicare lo strong presumption test.
Quanto al periodo 20.11.2009 -05.02.2010, in cui lo spazio personale al lordo degli arredi è appena sotto i 3 mq (2,96), la Corte applica lo strong presumption test, ma rigetta il ricorso sul punto, motivando, da un lato sulla ritenuta insufficienza delle allegazioni del ricorrente circa l’inadeguatezza del regime detentivo subìto; dall’altro sulla valutazione secondo cui il mero dato metrico era comunque prossimo ai 3 mq (sicché la restrizione era valutata di minore importanza), la persona poteva godere di un regime detentivo che assicurava cinque ore da trascorrere fuori dalla cella (numero di ore ritenuto idoneo ad alleviare gli effetti della ristrettezza di spazio personale) e l’istituto era in buone condizioni generali[17].
L’applicazione concreta che la Corte di Strasburgo fa della propria giurisprudenza, dunque, pare porsi in antitesi con la regola di giudizio espressa dalle Sezioni Unite circa lo scomputo dei mobili, nonché sulla validità del mero dato metrico a determinare, anche in situazioni non brevi, un’automatica violazione dell’art. 3 CEDU.
5.2. La lettura congiunta delle proposizioni sul calcolo dello spazio personale e di quello di libero movimento; un errore metodologico.
Passando ad esaminare l’ulteriore argomento speso dalla Cassazione, vale a dire la necessità di leggere le due proposizioni sul calcolo dello spazio e la valutazione della libertà di movimento congiuntamente e non disgiuntamente, pena rendere il secondo criterio “assai generico e di difficile applicazione da parte del magistrato di sorveglianza, se non in casi eclatanti di manifesta impossibilità di spostamento”, le Sezioni Unite sembrano non considerare il tipo di giudizio reso dalla Corte di Strasburgo e le peculiarità della giurisprudenza EDU, il cui faro è la verifica della realtà detentiva effettivamente sperimentata dal ricorrente.
La lettura disgiunta delle due proposizioni, infatti, significa esattamente che, posto che il calcolo sullo spazio personale deve essere effettuato senza considerare l’ingombro degli arredi (tutti, indistintamente), occorre tuttavia verificare se in concreto uno spazio di 3 mq o di poco superiore, dunque in astratto non problematico secondo i parametri EDU, sia reso insufficiente dalla presenza di un numero di arredi tale da non consentire il normale/libero movimento tra gli stessi.
Ma tale profilo (come si è evidenziato sopra) non incide nella determinazione della regola di giudizio applicabile, venendo al più in considerazione quale ulteriore elemento di pregiudizio (ove dedotto) da valutare unitamente agli altri elementi che hanno caratterizzato la detenzione di cui il reclamante denuncia la non conformità al divieto di trattamenti inumani e degradanti.
Questa lettura, lungi dall’essere estranea alle finalità di massima tutela dei diritti fondamentali, è in verità pienamente coerente con il tipo di giudizio che effettua la Corte EDU.
Del resto, anche da una lettura della sentenza Ananyev & others v. Russia, che rappresenta il case-law in cui per la prima volta è stato chiaramente espresso il principio della libertà di movimento ripreso poi dalla Grance Camera, ci si rende conto che tale affermazione è logicamente subordinata rispetto a quella del calcolo dello spazio personale e che, peraltro, non riguarda esclusivamente gli arredi fissi.
Il passaggio motivazionale rilevante, sul punto, si trova ai paragrafi 143 e seguenti della sentenza Ananyev & others v. Russia[18]in cui la Corte evidenzia che in alcune situazioni già giudicate si era potuto ritenere che, pur a fronte di un dato metrico di spazio personale di 3 mq, calcolato al lordo degli arredi, lo spazio in concreto consentiva a stento di camminare da una parte all’altra della cella per l’ingombro dei letti, di un tavolo e di un lavabo ricavato in una nicchia.
I casi citati dalla Corte, tuttavia, riguardano una serie di precedenti pronunce contro la Russia in cui si era accertato che il reclamante avesse avuto a disposizione uno spazio nominalmente di 3 mq secondo la metodologia di calcolo del CPT, ma in cui non era effettivamente possibile muoversi per la presenza del mobilio. In particolare, viene citata la sentenza Yevgeniy Alekseyenko v. Russia, no. 41833/04, in cui la impossibilità di movimento è stata valutata in relazione ad un periodo in cui il ricorrente aveva occupato una cella di 6 mq unitamente ad altro detenuto; cella in cui erano presenti due letti singoli, un tavolo ed un lavabo. È in queste circostanze, dunque, che il criterio del libero movimento viene in considerazione, quale valutazione suppletiva e concreta rispetto ad un formale rispetto del parametro dei 3 mq[19].
5.3. Meubles, Mobili e Furnitures, una questione linguistica.
Ulteriore argomento che le Sezioni Unite utilizzano per sostenere la propria interpretazione fa leva sull’etimologia del francese meubles, mobili in italiano, che secondo la Cassazione indicherebbe solo gli arredi che si possono spostare. Pertanto, laddove la Corte EDU indica che nella determinazione dello spazio pro capite all’interno di una cella con più occupanti non deve tenersi conto dello spazio occupato dai mobili è solo a tali elementi di arredo che la stessa si riferisce; viceversa, gli arredi fissi o non movimentabili devono essere computati quale estensione delle pareti e, dunque, detratti dall’area disponibile ai detenuti.
Il passaggio motivazionale, tuttavia, oltre a suscitare perplessità da un punto di vista etimologico[20], risulta poi intrinsecamente contraddittorio laddove le stesse Sezioni Unite evidenziano che il ragionamento condotto sul sostantivo meubles presente nel testo francese non può essere esteso all’omologo termine utilizzato nella traduzione inglese della sentenza, “furniture, che ha un'etimologia differente”.
Furniture, infatti, è un sostantivo di cui il Cambridge Dictionary fornisce la seguente definizione: “things such as chairs, tables, and beds that you put into a room or building” (cose quali sedie, tavoli e letti che si mettono in una stanza o un edificio; grassetto aggiunto dal redattore); nella lingua italiana può essere tradotto con “mobile - elemento di arredo” e sta ad indicare, etimologicamente, tutto ciò di cui è fornito un ambiente domestico e che è essenziale alle esigenze di vita.
L’indizio offerto dalla presenza del sostantivo furnitures nella versione inglese, dunque, avrebbe dovuto più correttamente orientare la comprensione del testo della sentenza Mursic v. Croatia nel senso di adottare l’interpretazione che restituisse un significato comune ad entrambe le versioni linguistiche ufficiali, intendendo il termine meubles – furniture come utilizzato per indicare gli elementi di arredo; peraltro senza distinzione tra mobili o fissi.
Se, secondo un vecchio adagio, tradurre significa tradire, il tradimento di senso in questo caso appare lampante e non condivisibile.
5.4. La più ampia garanzia dei diritti possibile: tra buone intenzioni ed inefficacia della tutela.
Da ultimo, l’interpretazione che le Sezioni Unite hanno reso della sentenza Mursic v. Croatia è dal supremo collegio giustificata sulla scorta di un argomento teleologico: quello di offrire, nel dubbio tra le due interpretazioni possibili della giurisprudenza EDU, la soluzione che assicuri la più ampia tutela possibile ai diritti delle persone ristrette, promuovendone il benessere e garantendo che le stesse abbiano maggiore spazio a disposizione.
Sebbene l’obiettivo perseguito sia certamente condivisibile (ed infatti, in linea di principio, è condiviso), da un lato non può non osservarsi che il ragionamento condotto non convince appieno e, dall’altro, lo strumento giuridico in oggetto appare, di fatto, inidoneo o comunque insufficiente allo scopo.
In primo luogo, ciò che non convince è l’asserita necessità di comporre un dubbio interpretativo che, alla luce della disamina compiuta supra, sembra, invero, non sussistere: la Corte EDU, infatti, nella concreta applicazione dei principi da essa stessa enunciati non detrae lo spazio occupato dagli arredi, se non in alcuni casi limite (in cui, peraltro, sono stati valorizzati sia gli arredi fissi che quelli non fissi letti, tavolo etc.), accogliendo per l’individuazione della regola di giudizio una nozione di spazio personale al netto del bagno e al lordo del mobilio, secondo le indicazioni del CPT.
E che tale dubbio non sussista può desumersi anche dalla circostanza che le varie dissenting opinions allegate alla sentenza Mursic v. Croatia hanno criticato la decisione della maggioranza solo nella parte in cui non ha accolto lo standard dei 4 mq indicato dal CPT, mentre in nessuna di esse si critica il metodo di calcolo adottato asserendo la necessità di detrarre lo spazio degli arredi fissi. Anzi, proprio su tali calcoli la più articolata di esse, redatta dal giudice Pinto de Albuquerque, costruisce la propria critica al decisum della maggioranza.
Ma, ponendosi in un’ottica prospettica ed evolutiva, anche la giurisprudenza di Strasburgo successiva a Mursic v. Croatia ha mantenuto fermo il metodo di calcolo indicato dal CPT, confermando l’impressione che in ambito CEDU non vi sono tentennamenti sul punto [21].
In secondo luogo, non può non evidenziarsi che la tutela offerta dall’art. 35 ter O.P. è di tipo meramente indennitario-risarcitorio, giacché interviene quando ormai la lesione del diritto fondamentale si è già prodotta, ed offre un magro ristoro rispetto alla violazione di un diritto fondamentale che sarebbe da considerarsi assoluto. In altri termini, ampliare le maglie per l’accoglimento dei reclami 35 ter O.P. anche in situazioni che in Corte EDU non determinerebbero il riconoscimento di una violazione dell’art. 3 della Convenzione, non comporta necessariamente un miglioramento per la condizione dei detenuti.
È chiaro che, a fronte di un elevato numero di accoglimenti dei reclami da parte della magistratura, potrebbe prodursi un effetto di pressione sull’Amministrazione Penitenziaria affinché adotti scelte organizzative sull’allocazione dei detenuti e sui regimi detentivi volte ad evitare che possa essere riconosciuto un pregiudizio rilevante ai sensi dell’art. 35 ter O.P.; ma si tratta, appunto, di una mera eventualità che non giustifica lo stravolgimento della giurisprudenza convenzionale in materia e, sul piano delle fonti, la messa in discussione dei limiti al potere di interpretazione della convenzione da parte del giudice nazionale.
6. Conclusioni.
La scelta ermeneutica delle Sezioni Unite della Cassazione, dunque, amplia in via pretoria la nozione di spazio personale, calcolata al lordo degli arredi, facendola coincidere con quella di spazio di libero movimento, calcolata detraendo solo gli arredi fissi o di non facile movimentazione; l’esito di tale operazione comporta l’attrazione all’interno della regola di giudizio dello strong presumption test di condizioni detentive che non verrebbero così valutate a Strasburgo.
Il combinato disposto di tale regola di giudizio con quella della necessaria compresenza di tutti i fattori compensativi, comporta in concreto il riconoscimento da parte della giurisprudenza interna di una soglia di tutela dell’art. 3 CEDU più elevata di quella fatta propria dalla Corte di Strasburgo.
Un esempio per tutti.
Un detenuto ristretto in una cella di dimensioni pari 9,50 mq, già detratto lo spazio del bagno, che condivida la stessa con un altro compagno di detenzione ha uno spazio personale di 4,75 mq.
Pertanto, quantomeno sotto il profilo spaziale, secondo la giurisprudenza della Corte di EDU si trova in una condizione compatibile con la Convenzione e, anzi, gode di uno spazio superiore a quello che il Comitato di Prevenzione della Tortura considera lo standard minimo in ottica preventiva per evitare la violazione dell’art. 3 CEDU (4 mq pro capite nelle multy occupancy cells).
Laddove lamentasse condizioni di sovraffollamento in sede convenzionale, molto probabilmente otterrebbe il rigetto del ricorso per essere la sua condizione non idonea ad assurgere a trattamento inumano o degradante.
Il medesimo giudizio, tuttavia, avrebbe esito diverso in ambito nazionale, alla luce dei principi di diritto affermati dalla Cassazione e fatti propri dalla magistratura di merito sia in sede civile che in sorveglianza. Immaginando che i due detenuti dispongano di due letti singoli di 1,80 mq ancorati al pavimento o comunque non eliminabili dalla cella, oltre a un paio di mobili da 0,35 mq ancorati al muro, dunque, non liberamente movimentabili, il giudice nazionale che applicasse i principi di diritto espressi da S.S. U.U. n. 6551 del 29/4/2021, dovrebbe rimuovere tale ingombro, pervenendo ad un dato metrico di spazio pro capite di libero movimento inferiore a 3 mq e, nello specifico, prossimo a 2,60 mq.
A questo punto, il giudice sarebbe costretto ad applicare lo strong presumption test e, laddove l’intervallo temporale fosse superiore ai 15 giorni, dovrebbe riconoscere il pregiudizio, non potendo ritenere breve la detenzione in esame.
E ciò anche laddove sussistano, in concreto, elementi ulteriori tali da bilanciare adeguatamente la ristrettezza degli spazi, quale ad esempio la vigenza del regime a celle aperte adottato in moltissimi istituti italiani, che garantisce ai detenuti otto ore al giorno da trascorrere al di fuori della propria cella, secondo lo standard del CPT, o una congrua offerta lavorativa e trattamentale che abbia impegnato la persona in un reale percorso di reinserimento.
La condizione qui descritta (che è ipotetica, ma rappresentativa della realtà di diversi istituti di pena italiani) restituisce un dato algebrico analogo a quello valutato dalla Grande Camera nel caso Mursic v. Croatia, 2,60-2,66 mq; tuttavia, è di palmare evidenza la profonda differenza intercorrente in concreto tra chi come il sig. Mursic abbia trascorso 26 giorni in una cella di 20 mq con altre cinque persone, con sole cinque ore di uscita al giorno e chi debba condividere una cella di 9,50 mq con un solo altro compagno di detenzione, potendo trascorrere almeno otto ore al di fuori della camera detentiva.
Assoggettare entrambe le situazioni alla medesima regola di giudizio, appare non solo tecnicamente, ma anche ontologicamente scorretto, svilendo il concetto stesso di trattamento inumano e degradante.
L’effetto distorsivo dell’interpretazione accolta dalle Sezioni Unite è, dunque, primariamente, quello di far scivolare nell’ambito di applicazione della regola dello strong presumption test situazioni che non dovrebbero rilevare in tal senso, almeno secondo l’attuale assetto della giurisprudenza di Strasburgo.
Ulteriore profilo problematico è l’elusione del generale divieto del giudice nazionale di adottare nozioni più ampie di quelle espresse dalla giurisprudenza di Strasburgo nell’interpretazione della Convenzione mediante la prospettazione di un dubbio ermeneutico di cui non vi è traccia in Corte EDU, con l’esercizio di un potere che (anche nell’equilibrio tra i poteri dello Stato) non compete certo al giudice nazionale.
Se, infatti, la tutela offerta dalla CEDU ai diritti fondamentali individua la soglia minima sempre derogabile in melius dai singoli Stati della Grande Europa, tale scelta pare più correttamente rientrante nelle facoltà del legislatore. Legislatore che, quantomeno rispetto all’art. 35 ter O.P., ha inteso chiaramente non volersi discostare dallo standard minimo accolto a Strasburgo, che Roma sembra aver sorpassato.
Da ultimo, l’operazione condotta si traduce in una sostanziale eliminazione degli spazi valutativi del giudice, rendendo il giudizio de quo una mera applicazione di criteri matematici fissi (su presupposti in parte anche errati) che non consentono di valutare la concreta realtà detentiva vissuta dal detenuto cui la CEDU fa costante riferimento nelle proprie sentenze.
Il cammino intrapreso dalla giurisprudenza italiana, dunque, pare assumere i tratti di quella proverbiale strada lastricata di buone intenzioni, che porta, però, lontano da porti sicuri.
[1] Cass. civ., Sez. Un., sent. 30 gennaio 2018 (dep. 8 maggio 2018) n. 11018.
[2] Si vedano le celebri sentenze gemelle 348 e 349 del 2007.
[3] Con le parole della Consulta: “Non sempre è di immediata evidenza se una certa interpretazione delle disposizioni della CEDU abbia maturato a Strasburgo un adeguato consolidamento, specie a fronte di pronunce destinate a risolvere casi del tutto peculiari, e comunque formatesi con riguardo all’impatto prodotto dalla CEDU su ordinamenti giuridici differenti da quello italiano. Nonostante ciò, vi sono senza dubbio indici idonei ad orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento: la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano.
Quando tutti, o alcuni di questi indizi si manifestano, secondo un giudizio che non può prescindere dalle peculiarità di ogni singola vicenda, non vi è alcuna ragione che obblighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU per decidere una peculiare controversia, sempre che non si tratti di una “sentenza pilota” in senso stretto.
Solo nel caso in cui si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota”, il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di «ogni strumento ermeneutico a sua disposizione», ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all’incidente di legittimità costituzionale (sentenza n. 80 del 2011). Quest’ultimo assumerà di conseguenza, e in linea di massima, quale norma interposta il risultato oramai stabilizzatosi della giurisprudenza europea, dalla quale questa Corte ha infatti ripetutamente affermato di non poter «prescindere» (ex plurimis, sentenza n. 303 del 2011), salva l’eventualità eccezionale di una verifica negativa circa la conformità di essa, e dunque della legge di adattamento, alla Costituzione (ex plurimis, sentenza n. 264 del 2012), di stretta competenza di questa Corte.
Mentre, nel caso in cui sia il giudice comune ad interrogarsi sulla compatibilità della norma convenzionale con la Costituzione, va da sé che questo solo dubbio, in assenza di un “diritto consolidato”, è sufficiente per escludere quella stessa norma dai potenziali contenuti assegnabili in via ermeneutica alla disposizione della CEDU, così prevenendo, con interpretazione costituzionalmente orientata, la proposizione della questione di legittimità costituzionale.”.
[4] ECHR, Case Mursic v. Croatia § 99.
[5] ECHR, Case Mursic v. Croatia, § 103-123: “The Court has stressed on many occasions that under Article 3 it cannot determine, once and for all, a specific number of square metres that should be allocated to a detainee in order to comply with the Convention. Indeed, the Court has considered that a number of other relevant factors, such as the duration of detention, the possibilities for outdoor exercise and the physical and mental condition of the detainee, play an important part in deciding whether the detention conditions satisfied the guarantees of Article 3 […] Accordingly, the Court’s assessment whether there has been a violation of Article 3 cannot be reduced to a numerical calculation of square metres allocated to a detainee. Such an approach would, moreover, disregard the fact that, in practical terms, only a comprehensive approach to the particular conditions of detention can provide an accurate picture of the reality for detainees”.
[6] Rilevanti, sul punto, le opinioni parzialmente dissenzienti allegate alla sentenza, tutte in massima parte concordi tra loro nel ritenere scorretta la scelta della maggioranza di adottare uno standard più basso di quello accolto dal CPT.
[7] ECHR, Case Mursic v. Croatia, § 110“[…] the Court performs a conceptually different role to the one assigned to the CPT, whose responsibility does not entail pronouncing on whether a certain situation amounts to inhuman or degrading treatment or punishment within the meaning of Article 3(see paragraph 52 above). The thrust of CPT activity is pre-emptive action aimed at prevention, which, by its very nature, aims at a degree of protection that is greater than that upheld by the Court when deciding cases concerning conditions of detention (see paragraph 47 above, the First General Report, § 51). In contrast to the CPT’s preventive function, the Court is responsible for the judicial application in individual cases of an absolute prohibition against torture and inhuman or degrading treatment under Article 3 (see paragraph 46 above). Nevertheless, the Court would emphasise that it remains attentive to the standards developed by the CPT and, notwithstanding their different positions, it gives careful scrutiny to cases where the particular conditions of detention fall below the CPT’s standard of 4 sq. m (see paragraph 106 above)”.
[8] ECHR, Case Mursic v. Croatia, § 114 “Lastly, the Court finds it important to clarify the methodology for the calculation of the minimum personal space allocated to a detainee in multi-occupancy accommodation for its assessment under Article 3. The Court considers, drawing from the CPT’s methodology on the matter, that the in-cell sanitary facility should not be counted in the overall surface area of the cell (see paragraph 51 above). On the other hand, calculation of the available surface area in the cell should include space occupied by furniture. What is important in this assessment is whether detainees had a possibility to move around within the cell normally (see, for instance, Ananyev and Others, cited above, §§ 147-148; and Vladimir Belyayev, cited above, § 34)”.
[9] La necessità di escludere lo spazio dedicato ai sanitari dal computo della cella, infatti, è stata affermata dal Comitato di Prevenzione della Tortura nei suoi report sin dagli anni ‘90, per esser poi adottata come regola di giudizio dalla Corte di Strasburgo in numerose pronunce, tra cui anche Sulejmanovic v. Italia, ove il computo dello spazio individuale è stato attuato al netto della metratura relativa all’annesso servizio igienico. Si veda ECHR, Case Sulejmanovic v. Italia v. in sentenza b) n. 3 sulle Condizioni detentive e sub Valutazioni della Corte paragrafo b) -3).
[10] Venendo, viceversa, a crearsi una condizione di promiscuità tale sufficiente, secondo la giurisprudenza EDU, a ridondare in una violazione dell’art. 3 CEDU a prescindere dal dato metrico dello spazio personale; si veda sul punto il caso. Peers v. Greece del 19 aprile 2001, in cui la Corte ha riconosciuto una violazione dell’art. 3 CEDU nell’esser stato il ricorrente ristretto unitamente ad altri detenuti in una cella in cui il bagno era a vista, costringendo gli occupanti ad espletare le proprie funzioni corporali alla presenza degli altri compagni di detenzione.
[11] ECHR, Case Mursic v. Croatia, § 114 “On the other hand, calculation of the available surface area in the cell should include space occupied by furniture. What is important in this assessment is whether detainees had a possibility to move around within the cell normally”.
[12] Già la sentenza Corte EDU Torreggiani v. Italia del 8.1.2013 aveva affermato come anche la dimensione di 3 mq pro capite, in concreto, potesse risultare non adeguata perché ridotta dall’area occupata dagli arredi, adottando un principio di valutazione già accolto l’anno prima nella sentenza Ananyev v. Russia del 10.4.2012.
[13] ECHR, Case Mursic v. Croatia, § 125 “The “strong presumption” test should operate as a weighty but not irrebuttable presumption of a violation of Article 3. This, in particular, means that, in the circumstances, the cumulative effects of detention may rebut that presumption. It will, of course, be difficult to rebut it in the context of flagrant or prolonged lack of personal space below 3 sq. m. The circumstances in which the presumption may be rebutted will be set out below.”
[14] Cass. Sez. I. n. 18760/2023, cit. § 8 e ss.
[15] Cass. civ., Sez. 6, n. 5441 del 18/02/2022; Sez. 1, n. 5064 del 24/02/2021; Sez. 3, n. 1170 del 21/01/2020, Rv. 656636-01; Sez. 1, n. 25408 del 10/10/2019; Sez. 3, n. 16896 del 25/06/2019; Sez. 3, n. 4561 del 15/02/2019; Sez. 1, n. 4096 del 20/02/2018, Rv. 647236-01.
[16] Le stesse Sezioni Unite, infatti, censurano espressamente parte della giurisprudenza interna che si era avventurata in interpretazioni della Convenzione più ampie rispetto quanto enunciato dalla Corte di Strasburgo: “Benché tali pronunce siano ispirate dalla giusta esigenza di garantire al meglio i diritti fondamentali dei detenuti, in ossequio al dettato costituzionale, è il sistema fin qui delineato che impedisce al giudice nazionale di adottare un'interpretazione dell'art. 3 della CEDU differente da quella consolidata fornita dalla Corte EDU su uno specifico aspetto, perché ciò violerebbe sia il principio dell'obbligo per il giudice comune di uniformarsi alla giurisprudenza europea consolidata sulla norma conferente, sia lo stesso art. 35-ter ord. pen. che, appunto, ha reso la predetta giurisprudenza consolidata la fonte normativa mediante il rinvio per relationem più volte ricordato.” (SS. UU. Cit. § 10).
[17] ECHR, Case Mursic v. Croatia, cit. § 162 e ss. “162. Furthermore, it is undisputed by the applicant that he was allowed three hours per day of free movement outside his cell within the prison facility. Taking also into account the period of two hours of outdoor exercise, as well as the periods necessary for serving breakfast, lunch and dinner, it cannot be said that the applicant was left to languish in his cell for a significant proportion of his day without any purposeful activity. This is particularly true given the entertainment facilities available in Bjelovar Prison, such as the possibility of watching TV or borrowing books from the local library, as follows from the material available before the Court (compare Valašinas, cited above, § 111).
163. Against the above background, the Court finds that, even taking into account that the applicant was unable to obtain work, which related not only to the objective impossibility (see paragraph 20 above) but also arguably to the applicant’s previous behaviour (see paragraph 13 above), the possibility of free out-of-cell movement and the facilities available to the applicant in Bjelovar Prison could be seen as significantly alleviating factors in relation to the scarce allocation of personal space.”
[18] ECHR, Case Ananyev & others v. Russia, 10.1.2012 (final 10.4.2012): “143. The extreme lack of space in a prison cell weighs heavily as an aspect to be taken into account for the purpose of establishing whether the impugned detention conditions were “degrading” from the point of view of Article 3 (see Karalevičius v. Lithuania, no. 53254/99, § 36, 7 April 2005).[……] 147. Where the cell accommodated not so many detainees but was rather small in overall size, the Court noted that, deduction being made of the place occupied by bunk beds, a table, and a cubicle in which a lavatory pan was placed, the remaining floor space was hardly sufficient even to pace out the cell (see Yevgeniy Alekseyenko v. Russia, no. 41833/04, § 87, 27 January 2011; Petrenko v. Russia, no. 30112/04, § 39, 20 January 2011; Gladkiy, § 68, Trepashkin (no. 2), § 113, both cited above; Arefyev v. Russia, no. 29464/03, § 59, 4 November 2010; and Lutokhin, cited above, § 57).
148. It follows that, in deciding whether or not there has been a violation of Article 3 on account of the lack of personal space, the Court has to have regard to the following three elements:
(a) each detainee must have an individual sleeping place in the cell;
(b) each detainee must have at his or her disposal at least three square metres of floor space; and
(c) the overall surface of the cell must be such as to allow the detainees to move freely between the furniture items.
The absence of any of the above elements creates in itself a strong presumption that the conditions of detention amounted to degrading treatment and were in breach of Article 3.”
[19] Vale, inoltre, la pena evidenziare che nel caso sottoposto la persona aveva una sola ora di uscita dalla cella e spesso, nel corso della detenzione, aveva dovuto dormire per terra per assenza di letti.
[20] Si veda la voce della Treccani sul sostantivo/aggettivo mobile laddove si indica che:
“Un MOBILE è un oggetto d’arredamento (come un tavolo, una sedia, un letto, un armadio, un divano ecc.) che in genere ha una collocazione fissa all’interno di un edificio, ma che può essere spostato; i mobili sono solitamente presenti in tutti gli edifici, sia nelle abitazioni, sia nei luoghi di lavoro e locali pubblici (mobili in noce; fabbrica, negozio di mobili; mobili di design). 2. Quando è usato in funzione di aggettivo, mobile indica qualcosa che può essere spostato o rimosso (scaffale a piani mobili; l’invenzione della stampa a caratteri mobili), 3. oppure che si muove o può essere mosso (l’occhio e la lingua sono organi mobili). 4. In senso figurato, mobile significa mutevole, riferito soprattutto al volto di una persona (ha un viso, uno sguardo molto m.), 5. oppure incostante o volubile, riferito al carattere (temperamento m.). Il termine si usa anche in alcuni linguaggi di settori specifici: 6. in medicina, per esempio, si dice mobile un organo che si sposta in modo rilevante, molto più del normale, dalla propria sede (cuore, rene m.); 7. in fisica e chimica si dice di sostanze fluide molto scorrevoli (l’alcol è un liquido m.); 8. in filosofia, infine, si chiama mobile tutto ciò che è soggetto al movimento, in contrapposizione all’immobilità dell’assoluto, cioè di ciò che esiste di per sé ed è fondamento di tutte le cose.”
[21] Si veda la già citata sentenza J.M.B. and Others v. France del 30.1.2020. Con riferimento alla posizione del ricorrente F.R., infatti, la Corte osserva che “Dans son formulaire de requête, le requérant indique partager une cellule de 9 m2 avec deux codétenus, espace encore réduit par l’ameublement” ed accetta le misurazioni dello spazio personale sulla base delle informazioni fornite dal Governo Francese (§ 76-78), da cui risulta che lo spazio della cella al netto del bagno fosse pari 7,45 mq. Lo spazio personale valutato dalla Corte per ciascun detenuto è, pertanto quello di 2,48 mq quando vi era la presenza di due detenuti e di 3,72 mq quando il ricorrente aveva condiviso la cella con altro detenuto. La stessa pronuncia, poi, valuta le condizioni detentive nei seguenti termini: “279. La Cour note qu’il ressort du paragraphe précédent que le requérant a disposé pendant plusieurs périodes non consécutives d’un espace personnel compris entre 3 et 4 m² – de 3,72 m² exactement. 280. La Cour rappelle que lorsqu’un détenu dispose d’un espace personnel compris entre 3 et 4 m2, le facteur spatial demeure un élément de poids dans l’appréciation du caractère adéquat ou non des conditions de détention. En pareil cas, elle conclura à la violation de l’article 3 si le manque d’espace s’accompagne d’autres mauvaises conditions matérielles de détention, notamment d’un défaut d’accès à la cour de promenade ou à l’air et à la lumière naturelle, d’une mauvaise aération, d’une température insuffisante ou trop élevée dans les locaux, d’une absence d’intimité aux toilettes ou de mauvaises conditions sanitaires et hygiéniques (Muršić, précité, § 139). Dunque, la Corte valuta uno spazio personale di 3,72 mq calcolato dividendo per due 7,45 mq, applicando la regola di giudizio compresa tra 3 e 4 mq, senza ridurre ulteriormente lo spazio in ragione della presenza dei mobili.
(Immagine: 24-4-13, prison de Fresnes, intérieur de cellule, Agence Rol, 1913. Fonte: Bibliothèque Nationale de France)
L’11 gennaio 1999, 25 anni fa, moriva Fabrizio De Andrè, forse il più grande tra gli autori di musica e parole passati alla storia con il nome di “cantautori” e tra i più importanti intellettuali italiani degli ultimi decenni.
Per ricordarlo avremmo potuto pescare una qualsiasi tra le decine di capolavori contenuti nei suoi (dolorosamente pochi) album: abbiamo scelto “Smisurata preghiera”, che può essere considerato una sorta di testamento spirituale non solo per la collocazione nel canzoniere (è l’ultimo brano del suo ultimo disco), ma soprattutto perché riassume in poche immagini di abbacinante bellezza la sua visione del mondo (e un po’ la nostra).
Una preghiera laica, ma profondamente mistica, un affresco dell’umanità abbracciata idealmente in uno sguardo corale che dall’alto mostra l’eterna divisione del mondo in due categorie tra loro inconciliabili.
Da un lato, in alto, la maggioranza delle persone, che vive di parole celebrative del nulla, portata e cullata dal “facile vento della sazietà”, un mondo fondato sull’astuzia e sulla superbia.
Dall’altro lato, in basso, come in una bolgia dantesca, chi non ce l’ha fatta, i respinti, i marchiati dalla disperazione.
Chiunque conosce De Andrè sa dove egli ha messo il suo cuore in questa scena apocalittica e bellissima: il suo amore, la sua attenzione, le sue carezze poetiche sono tutte per il popolo dei disperati, dei diversi, perché è lì che si cela l’unico senso della vita: custodire e consegnare alla propria morte “una goccia di splendore”, un briciolo di umanità nel senso più vivo e pieno.
E allora eccola la preghiera che Fabrizio consegna a Dio e a tutti noi: non dimenticare ogni singolo volto di questi servi disobbedienti, e donare loro un pizzico di fortuna.
Tutti siamo chiamati a questo dovere civico: perché aiutare i respinti, ristabilire la giustizia, ognuno a proprio modo, “è appena giusto”, è un dovere che ci coinvolge, ciascuno, ogni giorno.
De Andrè è stato nei suoi piccoli poemi uno dei più feroci castigatori della magistratura, associata alla gestione del potere e in definitiva alla perpetrazione delle ingiustizie del “mondo di sopra”.
Ma esiste un altro modo di esercitare la nostra funzione: farne strumento per il contrasto alle disuguaglianze e alle ingiustizie, per la riduzione delle distanze tra gli altri e tra i mondi.
Smisurata preghiera (1996)
Alta sui naufragi
dai belvedere delle torri
china e distante sugli elementi del disastro
dalle cose che accadono al disopra delle parole
celebrative del nulla
lungo un facile vento
di sazietà di impunità
Sullo scandalo metallico
di armi in uso e in disuso a guidare la colonna
di dolore e di fumo
che lascia le infinite battaglie al calar della sera
la maggioranza sta la maggioranza sta
recitando un rosario
di ambizioni meschine
di millenarie paure
di inesauribili astuzie
Coltivando tranquilla
l'orribile varietà
delle proprie superbie
la maggioranza sta
come una malattia
come una sfortuna
come un'anestesia
come un'abitudine
per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità di verità
per chi ad Aqaba curò la lebbra con uno scettro posticcio
e seminò il suo passaggio di gelosie devastatrici e di figli
con improbabili nomi di cantanti di tango
in un vasto programma di eternità
ricorda Signore questi servi disobbedienti
alle leggi del branco
non dimenticare il loro volto
che dopo tanto sbandare
è appena giusto che la fortuna li aiuti
come una svista
come un'anomalia
come una distrazione
come un dovere
In occasione del ventennale della morte di Norberto Bobbio, ‘Giustizia Insieme’ offre ai suoi lettori il ricordo e l’analisi di una particolare esperienza di riflessione del filosofo torinese. Si tratta di una rievocazione che assume un suo specifico significato, non solo sul piano storico, ma anche sul terreno del riconoscimento della nobiltà di quanti, attraverso l’impegno culturale, testimoniano il valore civile e politico della libertà, del dialogo e dell’incontro con l’altro.
Lungo l’arco dei primi anni ’50 del secolo scorso – all’indomani delle prime esperienze dei governi democratico-cristiani e della riorganizzazione politico-culturale delle sinistre uscite sconfitte dalle elezioni del 1948 – Norberto Bobbio aveva avviato la pubblicazione di numerosi scritti sul tema dei rapporti tra politica e cultura e sul ruolo politico dell’intellettuale.
Lo sfondo su cui la riflessione di Bobbio veniva inserendo i propri contributi era quello che descriveva i termini delle prime contrapposizioni tra gli intellettuali di ispirazione marxista e la più articolata ‘costellazione’ della cultura laica non comunista.
La lucida intuizione dei rischi connessa all’approfondimento e alla radicalizzazione di quella frattura, può ragionevolmente indicarsi all’origine dell’impegno profuso da Bobbio nella pubblicazione di quegli scritti e, successivamente, nella relativa ricomposizione unitaria nel volume einaudiano ‘Politica e Cultura’ del 1955.
L’‘invito al colloquio" posto ad apertura della raccolta dei saggi evidenziava, proprio nello spazio di esordio del discorso bobbiano, il valore e il senso condiviso del ruolo dell’intellettuale (dell’uomo di cultura chiamato a rendere il proprio servizio per il vantaggio della ‘città’) nel contesto di quella radicale contrapposizione che veniva separando gli esponenti della cultura liberale dagli intellettuali marxisti: “Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccoglier certezze. Di certezze - rivestite dalla fastosità del mito o edificate con la pietra dura del dogma - sono piene, rigurgitanti, le cronache della pseudocultura degli improvvisatori, dei dilettanti, dei propagandisti interessati. Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione: valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva. [...] Si dirà che l’uomo di cultura non può appartarsi, che anch’egli deve impegnarsi, cioè scegliere uno dei due lati dell’alternativa. Ma l’uomo di cultura ha il suo modo di non appartarsi: che è quello di riflettere di più di quello che si faccia di solito negli istituti ufficiali della cultura accademica sui problemi della vita collettiva […], e di discutere un po’ meno coi propri colleghi sul primato del pensiero e dell’essere. Ha il suo modo d’impegnarsi: quello di agire per la difesa delle condizioni stesse dei presupposti della cultura. Se vogliamo, ha anch’egli il suo modo di decidere, purché s’intenda bene che egli non può decidersi che per i diritti del dubbio contro le pretese del dogmatismo, per i doveri della critica contro le seduzioni della infatuazione, per lo sviluppo della ragione contro l’impero della cieca fede, per la veridicità della scienza contro gli inganni della propaganda. Non vi è nulla di più seducente, oggi, che il programma di una filosofia militante contro la filosofia degli ‘addottrinati’. Ma non si confonda la filosofia militante con una filosofia al servizio di un partito che ha le sue direttive, o di una chiesa che ha i suoi dogmi, o di uno stato che ha la sua politica. La filosofia militante che ho in mente è una filosofia in lotta contro gli attacchi, da qualsiasi parte provengano - tanto da quella dei tradizionalisti come da quella degli innovatori - alla libertà della ragione rischiaratrice. Non era forse una filosofia militante quella di colui che contro sette, chiese e stati del suo tempo proclamò come prima condizione di dignità dell’uomo il diritto alla libertas philosophandi, e combatté con incrollabile fermezza lo spirito superstizioso delle religioni ufficiali? Eppure, proprio Benedetto Spinoza, scrivendo a un amico durante l’infuriar di una guerra, disse parole che scandalizzerebbero oggi uno di quegli ostinati fautori dell’engagement: «Queste turbe non m’inducono né al riso né al pianto, ma piuttosto a filosofare e ad osservar meglio la natura umana... Lascio, dunque, che ognuno viva a suo talento e che chi vuol morire muoia in santa pace, purché a me sia dato di vivere per la verità» […]. Spinoza sapeva esattamente qual sorta d’impegno fosse quello che spettava al filosofo. Non già ch’egli non fosse impegnato: era impegnato per la verità.”[1]
La filosofia ‘rischiaratrice’, alla cui coltivazione Bobbio rivendicava l’austero compito dell’intellettuale, si inseriva - tra i sostenitori ‘liberali’ della cultura (civilisation) tradizionale contro la ‘barbarie’ comunista, e i fautori della ‘nuova’ civiltà destinata a soppiantare la cultura borghese antica e decadente - come un tentativo di demistificazione delle implicazioni ideologiche e propagandistiche delle due posizioni. Ammonendo, gli uni, a non disconoscere, nei programmi dei marxisti (frettolosamente accostati ai ‘barbari’ della tradizione altomedievale), la comune eredità del pensiero moderno (dalla rivoluzione scientifica all’illuminismo) nel suo impegno destinato a contrastare le contraddizioni dell’ingiustizia sociale; e invitando gli altri a riconoscere, nella conquista ‘moderna’ dei valori di ‘libertà’ (da quella religiosa, a quella politica, a quella intellettuale), l’acquisizione di un patrimonio dalle dimensioni ‘universali’, non liquidabile, riduttivamente, nei termini di un mero ‘strumento’ del dominio della classe borghese.[2]
Il tema della difesa della ‘libertà’ della cultura assume così la dimensione dello scenario entro cui diviene possibile il ‘dialogo’ tra le posizioni contrapposte, il ‘colloquio’ che prelude all’integrazione, piuttosto che al conflitto e alla reciproca distruzione.
Su questo terreno, la severità del giudizio bobbiano nei confronti delle clausure del mondo comunista appare inequivocabile. Muovendo dal tema relativo alla ‘libertà dell’arte’, nella prospettiva aperta dalla ‘politica culturale’ dei regimi comunisti dell’Europa orientale, scrive Bobbio: “La questione che divide liberali e comunisti riguardo ai rapporti tra arte e politica è, in ultima analisi, una questione di valore e non di fatto. Non si tratta di accertare se vi sia o non vi sia in certi paesi libertà dell’arte, se ve ne sia di più qui e di meno lì; si tratta di stabilire quale sia il valore della libertà dell’arte. La domanda ultima, dunque, a cui non si può non risalire, se si vuol comprendere le ragioni profonde del dissidio, non è la seguente: «l’arte è più libera nei paesi occidentali o in quelli orientali?»; ma quest’altra: «è bene o male che l’arte sia libera?». […] Ammettiamo dunque, sia pure per ipotesi, che l’arte sia un valore strumentale. Diventano lecite, allora, alcune domande che rovesciano completamente i termini della discussione: è vero o non è vero che l’arte può determinare correnti di gusto, tendenze psicologiche, orientamenti spirituali, insomma formare una opinione pubblica? È vero o non è vero che questa opinione pubblica può essere formata dall’arte o da alcune correnti artistiche in contrasto coi fini perseguiti dalla classe politica? Se si concedono queste due proposizioni, posto che si sia già dato per ammesso che tutto debba essere subordinato in quel particolare momento storico ai fini perseguiti dalla classe politica, che sono fini di trasformazione radicale della società per dare a tutti gli uomini il diritto di vivere, allora non si vede, proprio non si vede, perché l’arte non debba essere anch’essa controllata, o conformandola a quei fini o più semplicemente impedendole di nuocere. […] Solo mettendo l’accento sul valore della libertà, anziché su quello dell’arte, ci si può contrapporre efficacemente alla politica culturale. Si è in grado cioè di chiarire che la politica culturale viene respinta non perché riduce l’arte a valore strumentale, ma perché nega il valore della libertà, non perché i quadri sono brutti, ma perché gli artisti non sono liberi di dipingere né i quadri belli né quelli brutti. Per assurdo si dovrebbe ammettere che si stima di più un quadro brutto dipinto liberamente che uno bello dipinto per obbligo”.[3]
Contro la ‘politica culturale’, che asserve la cultura agli obiettivi del potere politico strumentalizzandone indirizzi e contenuti, Bobbio chiama gli intellettuali a rendersi protagonisti di una vera e propria ‘politica della cultura’, attraverso la difesa strenua della ‘verità’ (come rigoroso metodo di ricerca costantemente animato da spirito ‘critico’) e della ‘libertà’ [4], non come “libertà metafisica” o “ideale morale dell’umanità” o “spirito del mondo”, bensì, “da studioso di diritto”, come espressione delle “istituzioni giuridiche che caratterizzano lo stato liberale e al di fuori delle quali non c’è posto che per stati assoluti e totalitari”. Quelle istituzioni liberali appaiono, nella ricostruzione del filosofo torinese, come niente altro “che una tecnica della convivenza politica, adattabili a diverse ideologie; e possono essere sì perfezionate, ma è pericoloso distruggerle come se fossero indissolubilmente legate all’ideologia che ha maggiormente contribuito alla loro elaborazione”; istituzioni che appartengono “a quella cultura materiale la cui tecnica importa trasmettere da una civiltà all’altra, e la cui conservazione e trasmissione spetta in primo luogo agli uomini di cultura”.[5]
Cadeva incidentalmente, nei diversi passaggi del discorso bobbiano, condotta con spirito e tono severamente critici, l’analisi del rapporto fra la tradizione del liberalismo - per come venutasi configurando, tra giusnaturalismo e illuminismo, nei secoli tra il XVI e il XVIII - e la figura, imponente nel panorama della cultura nazionale del tempo, di Benedetto Croce. Su questo terreno, Bobbio misurava (nell’evidenziare la consuetudine crociana con scrittori e culture tutt’affatto diverse da quelle che avevano materialmente contribuito all’edificazione ‘concreta’ della storia delle libertà [6]) l’estraneità della nostra stessa tradizione culturale, rispetto ai valori del liberalismo classico; la distaccata insofferenza rispetto all’esperienza, umile e pragmatica, della costruzione paziente delle istituzioni positive attorno a quel nucleo di libertà ‘materiali’ che, solo, giustifica e garantisce lo spazio dell’umanità dell’uomo nel contesto dell’esperienza politica.[7]
Sulla base di queste premesse, Bobbio rende conto, nel riordinare i suoi scritti, delle asprezze dei dialoghi instaurati - sui temi della democrazia e della dittatura o sui diversi aspetti della nozione della libertà - con intellettuali di ispirazione comunista, come Bianchi Bandinelli o come Galvano della Volpe, e della polemica aperta con lo stesso Palmiro Togliatti [8]. E tuttavia, dialoghi destinati a concludersi con la convinta riaffermazione del ruolo essenziale dell’intellettuale nell’opera di ‘mediazione’ critica tra visioni del mondo in contrasto tra loro.[9]
Nel rendere ragione, sul piano metodologico, delle ‘nuove’ strade da raccomandare all’impegno degli intellettuali italiani, negli anni della ricostruzione politica e morale della giovane democrazia italiana – e, fra questi, in primo luogo, dei filosofi, “non solo per ragioni di mestiere, ma anche perché [la filosofia] è o pretende di essere lo specchio della cultura di un’epoca” [10] -, Bobbio si schiera in aperto contrasto con gli indirizzi delle diverse e varie filosofie dell’‘evasione’ o dell’‘elusione’ - come un certo esistenzialismo, come l’attualismo o lo spiritualismo [11] - e invita a recuperare il valore di quella filosofia ‘rischiaratrice’ che rende “la sua opera a combattere l’ignoranza e la schiavitù che ne deriva; di una filosofia, come ho detto altrove, militante”.[12]
Il senso della ‘militanza’ qui accolto da Bobbio rifugge da ogni riferimento alla dipendenza da un partito, da una setta o da una confessione, ed assume, al contrario, il valore dell’impegno intellettuale che, lungi dal “guardar le cose dall’alto di una saggezza ossificata”, assume consistenza nello studio di “problemi concreti e solo dopo aver condotto la sua ricerca minuta e metodica, prende posizione”; che significa “tender l’orecchio a tutte le voci che si levano nella società in cui viviamo e non a quelle così seducenti che provengono dalla nostra pigrizia o dalla nostra paura esaltate come virtù del distacco e dell’imperturbabilità; ascoltare i richiami dell’esperienza e non soltanto quelli che ci detta un esasperato amor di noi stessi, gabellato per illuminazione interiore. E solo dopo aver ascoltato e cercato di capire, assumere la propria parte di responsabilità”.[13]
La predilezione bobbiana per le inclinazioni della filosofia empirista appare qui intimamente legata, sul piano della riflessione politica, alla verifica del successo storico della democrazia anglosassone: “il paese in cui l’empirismo è considerato come filosofia nazionale, è anche quello dove il sentire democratico […] è in più larga misura sviluppato […]. Non vogliamo renderci conto che una delle ragioni del divorzio fra politica e cultura […] è questo pigro attaccamento al «nostro genio speculativo»? che a un rinnovamento della politica in senso democratico dovrebbe corrispondere un rinnovamento della cultura, e che come la democrazia è fondata sul principio del dialogo, del consenso e del progresso sociale, così una cultura adatta ad una società democratica dovrebbe essere non dogmatica ma critica, non chiusa ma aperta, non speculativa ma positiva?”.[14]
Non sfuggiva a Bobbio lo stretto e indissolubile rapporto che intercorre tra l’intellettuale e la società in cui è chiamato a vivere e prestare la propria opera; che gli intellettuali stessi costituiscono, in un certo senso, l’espressione della società cui appartengono. Con riguardo al nostro paese, quella premessa si traduceva nella necessità di tener conto dei diversi tipi di società che si erano andati parallelamente sviluppando in Italia nel corso del tempo: “una società prevalentemente industriale e una prevalentemente contadina, una di più lunghe tradizioni individualistico-borghesi e sindacali-socialiste, l’altra ancora semi-feudale e anarchica; non si può non tener conto, diciamo schematicamente, che esiste un’Italia del Nord e un’Italia del Sud, le quali rappresentano nei movimenti avanzati della loro cultura in lotta contro la cultura tradizionale, clericale, retorica, umanistica, due direzioni ben diverse e caratterizzate, la prima di tipo scientifico, dal sensismo del Romagnosi al prepositivismo di Cattaneo, alla scuola positivistica che, non bisogna dimenticarlo, fu un fenomeno quasi esclusivamente settentrionale, la seconda di tipo storicistico con le sue alternanze di storicismo spiritualistico e materialistico (le coppie Spaventa-Labriola, Croce-Gramsci). Anche oggi, se di un rinnovamento culturale si può parlare, già si vedono i segni che esso avviene in due direzioni: in una direzione illuministica, propria del liberalismo radicale, e in una direzione storico-materialistica, propria del neo-marxismo, la prima rappresentante dell’Italia della rivoluzione liberale, l’altra dell’Italia della rivoluzione comunista, simboleggiate rispettivamente da Gobetti e da Gramsci. E di queste due direzioni mi par di vedere che la prima fiorisca soprattutto nell’Italia del Nord (i gruppi neo-positivistici sono a Milano, Torino, Bologna), la seconda del Sud (il centro d’irradiazione del neo-marxismo sono Napoli e Bari)”.[15]
Negli anni a venire, la sensibilità bobbiana per il tema dei rapporti tra politica e cultura (sulle cui tracce sarebbe stata in seguito compilata, alla fine degli anni ’60, la rassegna del ‘Profilo ideologico del ‘900 [16]) avrebbe assunto le forme di un impegno riflessivo condotto sulla figura dell’intellettuale e sulle sue responsabilità nel mondo contemporaneo: “Viviamo in un’età in cui, fra tanti processi degenerativi […], mi pare che uno dei più preoccupanti […] sia la progressiva deresponsabilizzazione dell’individuo, una volta diventato uomo-massa. […] Mi limito a richiamare la […] frequenza, invadenza, insistenza delle manifestazioni di massa in cui l’individuo perde la propria personalità e si identifica, si perde, si annulla nel gruppo, non parla ma grida, non discorre ma inveisce, non ragiona ma esprime il proprio pensiero nello stile primitivo dello slogan, non agisce ma si agita, e fa gesti ritmici con il braccio teso, che – meraviglia dell’immagine trasmessa con rapidità fulminea da Paese a Paese – appaiono a noi attoniti, nonostante la varietà dei costumi, dei regimi e delle civiltà, eguali, perfettamente eguali in tutto il mondo. L’etica di gruppo prevale sull’etica individuale: intendo l’etica secondo cui la mia azione è imputabile al gruppo di cui faccio parte e solo il gruppo, quindi, qualunque azione compia, anche la più efferata, e che io personalmente non condivido, ne è il responsabile”. Da qui il passaggio sulla figura dell’intellettuale: “Intellettuale e massa sono due termini incompatibili: esiste l’uomo-massa, la massa anonima, amorfa, spersonalizzata, sempre più moralmente e politicamente degradata, delle grandi città, l’edilizia di massa, che ha reso tutte le città del mondo uguali […]. Non esiste, non può esistere, l’uomo di cultura di massa. O se esiste, e purtroppo esiste, nessuno di noi sarebbe disposto ad additarlo ad esempio. Il dire che non esiste, e non può esistere, l’intellettuale-massa, significa che per nessun altro vale il principio della responsabilità, intendo della responsabilità individuale, quanto per chi si assume il compito ingrato, difficile ed esposto continuamente al rischio dell’incomprensione o del fallimento, di esercitare la propria intelligenza per muovere e smuovere l’intelligenza altrui”.[17]
Quanto alla dimensione ‘referenziale’ della responsabilità (“noi dobbiamo preoccuparci delle conseguenze delle nostre azioni perché dobbiamo rispondere a qualcuno. A chi?”), Bobbio riafferma il principio secondo cui “l’irresponsabilità di chi detiene il potere è uno dei tratti caratteristici di un governo autocratico, mentre la democrazia, nella qual viviamo e intendiamo continuare a vivere, è caratterizzata, almeno teoricamente, dal principio della responsabilità […]. In democrazia nessuno è - o dovrebbe essere - irresponsabile. In questo senso parlare di responsabilità degli intellettuali significa che anch’essi come tutti debbono rispondere a qualcuno. Beninteso, qui parlo della responsabilità politica dell’intellettuale, o se volete della responsabilità dell’intellettuale rispetto alla sfera della politica in cui vive o di cui è, volente o nolente, una parte. A questo punto s’innesta il discorso intorno al rapporto tra intellettuali e politica […]: la cultura non dev’essere apolitica, ma la sua politica non è la politica tout court, quella che noi chiamiamo abitualmente la politica ordinaria, ma è una politica propria della cultura, che non coincide, non deve coincidere, con la politica dei politici. […] Quando parlo di una dimensione politica della cultura, intendo parlare di una politica diversa dalla politica dei politici – della cosiddetta politica ordinaria -, di un’azione che pur rientra in una concezione larga della politica, intesa come un’attività volta alla formazione e alla trasformazione della vita degli uomini. Non c’è solo la politica dei politici. Se ci fosse solo la politica dei politici non ci sarebbe posto per i grandi dibattiti delle idee […]. Naturalmente una posizione di questo genere, in cui io fermamente credo, presuppone il principio dell’autonomia della cultura, o almeno di un’autonomia relativa della cultura”.[18]
Individuato nella ‘politica della cultura’ il territorio in cui si manifesta ed esprime l’azione e la responsabilità ‘politica’ dell’intellettuale, Bobbio definisce i contenuti sostanziali e i termini di riferimento di quella responsabilità richiamando la testimonianza fornita - all’indomani del secondo conflitto mondiale e di fronte alla tragedia della guerra fredda - dall’esperienza della Società europea di cultura, che aveva raccolto, attorno ad un comune progetto di riflessione, il contributo di intellettuali provenienti da diversi Paesi. Quegli uomini, ammonisce Bobbio, “non avendo accettato la separazione del mondo in due parti contrapposte, si rifiutarono di mettersi, come la grande politica degli Stati esigeva, o di qua o di là, e reclamarono il diritto di contrapporre all’aut-aut imposto dalla politica ordinaria l’et-et, che solo permetteva di gettare un ponte sopra l’abisso, al no-no di coloro che vedono soltanto la ragione della propria opposizione, il sì-sì di coloro che guardano […] più a quello che può unire gli uomini attraverso le frontiere che a quello che li divide. […] La politica della cultura è ispirata a un determinato modo di intendere il rapporto fra politica e cultura, e quindi la funzione degli intellettuali, perché ha un suo modo specifico di intendere la politica e di delimitare la sfera della politica (intendo la politica ordinaria) e rispettivamente della cultura, che ha, deve avere, la sua politica […]. La politica non è tutto. Chi crede che la politica sia tutto, come crede l’uomo del ‘tutto o niente’, è già sulla via della politicizzazione o statalizzazione integrale della vita in cui consiste lo Stato totalitario. […] Solo chi crede che la politica non sia tutto giunge a convincersi che la cultura svolge un’azione a lunga scadenza anch’essa politica, ma di una politica diversa. La politica ordinaria […] è la sfera dei rapporti umani in cui si esercita la volontà di potenza, anche se coloro che la esercitano credono che la loro potenza – beninteso non quella degli altri – sia a fin di bene.[…] Solo chi crede in un’altra storia – vi crede perché la vede correre parallelamente alla storia della volontà di potenza -, può concepire un compito della cultura diverso da quello di servire i potenti per renderli più potenti, o da quello ugualmente sterile di appartarsi e di parlare con sé stesso”.[19]
Nella preservazione della libertà del dialogo e delle sue stesse condizioni di possibilità - e dunque nell’impegno a garantirne la difesa, Bobbio veniva quindi individuando il principio della responsabilità ‘politica’ dell’intellettuale, e, in definitiva, della sua stessa ‘legittimazione’ politica, nel contesto di una strutturazione istituzionale di tipo democratico: il contributo che l’uomo di cultura, e la cultura stessa, avrebbe infine assicurato alla difesa e allo sviluppo delle ragioni dell’uomo nel suo rapporto con la ‘città’.[20]
[1] N. Bobbio, Politica e Cultura, Torino, Einaudi, 1955 pp. 15 ss.
[2] “La libertà, introdotta dai liberali, introdotta nel senso che l’hanno teorizzata e hanno creato istituzioni giuridiche varie per garantirla, riassumendole nella nota formula dello «stato di diritto», è una conquista civile, è una conquista della civiltà, una di quelle conquiste che l’umanità dovrà integrare e arricchire, non lasciare disperdere, perché tornare indietro significa imbarbarimento. Che i borghesi oggi siano disposti […] a lasciarla cadere pur di salvare i propri privilegi, significa semplicemente che i borghesi non sono più liberali, non significa affatto che la libertà individuale non sia più un valore per l’uomo. […] Che la libertà dei borghesi fosse una libertà di pochi, non vuol dire che fosse libertà per nessuno, mentre è certo che in uno stato non liberale non c’è libertà per nessuno. […] Dobbiamo preoccuparci dello scomparire della libertà individuale, proprio perché la libertà individuale non è una conquista borghese, ma è una conquista umana, o per lo meno la borghesia l’ha conquistata per tutta l’umanità. E dobbiamo preoccuparcene, in quanto uomini di cultura, perché spetta primamente agli uomini di cultura difendere i valori della civiltà” (N. Bobbio, Dialogo sulla libertà, in Società, 8, n. 3 (settembre 1952), pp. 517 s., anche in Id., Politica e Cultura, cit., pp. 282 ss.).
[3] N. Bobbio, Politica e Cultura, cit., pp. 92 ss.
[4] “La cultura vive e si sviluppa soltanto nella libertà. Una politica della cultura non può non essere anche una politica per la libertà. Non vi è peggior nemico della cultura che il conformismo, la docilità verso i potenti, la condiscendenza alle parole d’ordine della politica. In una formula riassuntiva: non vi è verità senza libertà” (N. Bobbio, Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, Roma, Carocci, 2001, (1993) p. 66).
[5] N. Bobbio, Politica e Cultura, cit., pp. 141-142.
[6] “Il suo primo maestro in politica era stato Carlo Marx […]. Il secondo autore era stato Giorgio Sorel […]. Durante gli anni della guerra esibì un terzo autore, più dei due precedenti consono ai suoi ideai di conservatore, il Treitschke […]. Questi tre autori gli offrono continuamente occasione di risalire a colui che possiamo ben dire il suo quarto autore, ma che avremmo dovuto per l’importanza storica nominare per il primo, Niccolò Machiavelli” (N. Bobbio, Bendetto Croce e il liberalismo, in Rivista di filosofia, 46, n. 3 (luglio 1955), pp. 262 ss., inserito in N. Bobbio, Politica e Cultura, cit., pp. 211 ss.).
[7] “Anche su Croce e in genere, se pur più gravemente, sugli idealisti italiani, che si consideravano e vantavano eredi della tradizione hegeliana napoletana, pesarono due pregiudizi filosofici che risalivano ad Hegel: che l’empirismo inglese non fosse degno di essere assegnato alla storia del pensiero filosofico, e che il popolo tedesco avesse fatto teoreticamente, cioè mediante la filosofia idealistica, la rivoluzione che gli altri popoli, segnatamente l’inglese e il francese, avevano fatto praticamente. Il primo pregiudizio li esonerava dall’indagare i rapporti tra la mentalità trionfante in Inghilterra che era la mentalità empiristica e il successo della politica liberale inglese, e per usare la loro stessa terminologia, tra la teoria e la prassi; il secondo faceva mettere loro il cuore in pace di fronte a tanto divario tra il corso della storia inglese e francese e quello della storia italiana e tedesca, perché la provvidenza aveva voluto per i suoi imperscrutabili disegni che agli Inglesi e ai Francesi fosse assegnato il compito di realizzare la libertà, ai Tedeschi, e chissà anche agli Italiani, di comprenderne l’essenza; quelli di viverla senza sapere che cosa fosse e a noi di farne la filosofia in istato di perpetuo servaggio” (N. Bobbio, Politica e Cultura, cit., p. 256).
[8] Presentatosi, nel dialogo con Bobbio, con lo pseudonimo di ‘Roderigo Di Castiglia’ (cfr. N. Bobbio, Politica e Cultura, cit., pp. 269 ss.).
[9] “Agli, intellettuali non spetta il compito di rimasticare formule o di recitare canoni. Spetta un’opera di mediazione. E mediazione non vuol dire, sintesi astratta, sguardo olimpico, distacco magico, ma, il guardar per ogni dove con l’interesse del più fervido degli spettatori e insieme col disinteresse del più rigido dei critici, interessati nello spettacolo, disinteressati, quanto le passioni lo consentono, nel giudizio finale. Penso che quest’opera di mediazione nell’attuale situazione storica sia estremamente, importante e degna di essere perseguita. Ci siamo lasciati alle spalle il decadentismo, che era l’espressione ideologica di una classe in declino. L’abbiamo abbandonato perché partecipiamo al travaglio e alle speranze di una nuova classe. Io sono convinto che se non avessimo imparato dal marxismo a veder la storia del punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati. O avremmo cercato riparo nell’isola della interiorità o ci saremmo messi al servizio dei vecchi padroni. Ma tra coloro che si son salvati, solo alcuni hanno tratto in salvo un piccolo bagaglio dove, prima di buttarsi in mare, avevano deposto, per custodirli, i frutti più sani della tradizione intellettuale europea: l’inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogò, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose” (N. Bobbio, Politica e Cultura, cit., pp. 281 ss.).
[10] N. Bobbio, Cultura vecchia e politica nuova, in Il Mulino, 4, n. 7 (luglio 1955) p. 582 (anche in Id., 1955, Politica e Cultura, cit., pp. 195 ss.).
[11] “Noi abbiamo conosciuto negli anni della crisi in Italia una filosofia della evasione, di cui già tanto si è parlato, finita, con l’ultima fase del pensiero di Heidegger, nell’idoleggiamento del primitivo, che è quell’atteggiamento per cui tutta la storia, considerata come un groviglio inesplicabile, viene condannata e respinta e si vagheggia, sospinti dalla nostalgia del paradiso perduto, il ritorno a quell’Urwelt – di cui parla Hölderlin – in cui jeder die Erde streifte wie ein Gott. Ma è tanto più radicata nella nostra storia recente, e tanto maggior dominio ha esercitato sul nostro pensiero, la filosofia della elusione che va dall’attualismo allo spiritualismo e nella quale il filosofo non cerca più un rifugio per mettersi al riparo dalle responsabilità di uomo del proprio tempo, ma un sotterfugio mediante il quale egli assume responsabilità fittizie. […] Ed ecco allora che matura la situazione nella quale ci troviamo oggi con la filosofia: la gente non si interessa della filosofia, perché i filosofi non si interessano della gente, ma soltanto di sé stessi. E una filosofia che non si interessa degli uomini, delle loro miserie e dei loro errori, è una filosofia inutile, e inutili sono tanto la filosofia dell’evasione che quella dell’elusione: tutte e due sanno bene che il mondo è uno scandalo, ma l’una lo nasconde, contrapponendo al mondo scandaloso un mondo senza miserie ed errori, o fuori della storia o alla fine della storia; l’altra lo dissimula, dicendo che, sì, il mondo è uno scandalo, ma così è stabilito per eterno decreto, oppure è razionale perché reale, oppure la vera società, il vero stato non è quello esterno che fa le leggi, che fa pagare le tasse, ci conduce a morire in una guerra qualunque, ma è quello interno a ciascuno di noi: «Societas in interiore homine», che è una magnifica società dove non ci sono né padroni né servi, né oppressi né oppressori” (N. Bobbio, Cultura vecchia e politica nuova, in Il Mulino, 4, n. 7 (luglio 1955) pp. 582 s. (anche in Id., Politica e Cultura, cit., pp. 195 ss.).
[12] N. Bobbio, Cultura vecchia e politica nuova, in Il Mulino, 4, n. 7 (luglio 1955) pp. 582 s. (anche in Id., Politica e Cultura, cit. pp. 195 ss.).
[13] Op. ult. cit., p. 583.
[14] Ivi, p. 586.
[15] Ivi, pp. 586 s.
[16] N. Bobbio, Profilo ideologico del ‘900, Garzanti, Milano, 1990.
[17] N.Bobbio, Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, Roma, Carocci, 2001, (1993), pp. 143 s.
[18] N.Bobbio, Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, cit., pp. 145 ss.
[19] N.Bobbio, Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, cit., pp. 149 s.
[20] “La prima espressione della politica della cultura è il dialogo. Colui che ha raggiunto certezze dogmatiche crede di poter fare a meno del dialogo. Chi dubita, invece, ha il dovere di tenere aperta la comunicazione con gli altri.” (N.Bobbio, Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, cit., p. 63). Ed ancora: “Forza non politica [la cultura], vale a dire, per Croce, forza morale. Qui è la missione dell’uomo di cultura; qui vorrei dire la sua politica. In quanto difende ed alimenta valori morali, nessuno può accusarlo di essere schiavo delle passioni di parte. Ma, nello stesso tempo, in quanto acquista ben chiara coscienza che di questi valori nessuna repubblica può fare a meno, la sua opera di artista e di poeta, di filosofo e di critico, è efficace nella società di cui è cittadino. Si faccia, dunque, l’uomo di cultura, consapevolmente, senza ritegni né false paure, portatore di questa forza non politica: non sarà né traditore né vanificatore” (N.Bobbio, Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, cit., p. 24).
di Maria Baldari
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il procedimento sanzionatorio e la vicenda giudiziaria. – 3. La decisione della CGUE: la ricevibilità e la prima questione pregiudiziale – 3.1 La decisione della CGUE: la seconda questione pregiudiziale – 3.2 La decisione della CGUE: la terza questione pregiudiziale – 4. Il ne bis in idem: da garanzia processuale a garanzia sostanziale. Ricadute applicative - 5. Il recepimento in ambito interno. Considerazioni di sistema.
1. Premessa
Con la sentenza del 14 settembre 2023 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea conferma la propria adesione alla nozione sostanzialista di «materia penale», da cui discende l’applicazione dello statuto giuridico proprio delle pene anche alle sanzioni che, sebbene formalmente amministrative, siano considerate penali sulla scorta dei cd. Engel criteria.
In tale contesto, torna a pronunciarsi sui requisiti richiesti ai fini della deroga al principio del ne bis in idem, ritenendo irrinunciabile la verifica in ordine alla sussistenza di un effettivo coordinamento tra i diversi procedimenti.
La pronuncia si è resa necessaria per fare luce nel clima di incertezza generato dalle interpretazioni evolutive che, a più riprese, hanno interessato il principio in esame.
2. Il procedimento sanzionatorio e le vicende giudiziarie
Con decisione del 4 agosto 2016 l’AGCM ha irrogato in solido alla Volkswagen Group Italia SpA, (VWGI) e alla Volkswagen Aktiengesellschaft (VWAG) una sanzione pecuniaria di importo pari a 5 milioni di euro per aver posto in essere pratiche commerciali scorrette ai sensi dell’articolo 20, secondo comma, dell’articolo 21, primo comma, lettera b), e dell’articolo 23, primo comma, lettera d), del codice del consumo[1].
In dettaglio, alle due società sono state contestate da un lato, l’installazione, sui veicoli diesel commercializzati a far data dal 2009, di un software finalizzato ad alterare la misurazione dei livelli di emissione di ossidi di azoto durante i test per il controllo delle emissioni inquinanti; dall’altro, la diffusione di messaggi pubblicitari contenenti informazioni relative all’attenzione prestata da tali società al livello delle emissioni inquinanti e all’asserita conformità dei veicoli in questione alle norme di legge. Il provvedimento è stato impugnato dinnanzi al T.a.r. Lazio.
Quando il ricorso dinnanzi al giudice amministrativo si trovava ancora pendente, la procura di Braunschweig (Germania) ha irrogato alla VWAG una sanzione pecuniaria di importo pari a 1 miliardo di euro in ragione della contestata manipolazione dei gas di scarico di taluni motori diesel del gruppo Volkswagen. Nell’ambito di tale decisione è stato precisato che, mentre una parte dell’importo complessivo - pari a 5 milioni di euro - sanzionava la condotta illecita, la restante somma era destinata a privare la VWAG dei benefici economici ricavati dall’installazione del software de quo.
La decisione tedesca è divenuta definitiva il 13 giugno 2018, quando la VWAG, versando la sanzione pecuniaria, ha formalmente rinunciato alla proposizione del ricorso. Conseguentemente, nell’ambito del procedimento pendente dinnanzi al T.a.r. Lazio, la VWGI e la VWAG hanno dedotto l’illegittimità sopravvenuta della decisione controversa per violazione del principio del ne bis in idem di cui all’articolo 50 della Carta e all’articolo 54 della CAAS.
Con sentenza del 3 aprile 2019, il giudice di primo grado ha respinto il ricorso ritenendo che il principio invocato non osti al mantenimento della sanzione pecuniaria prevista dalla decisione impugnata; avverso tale sentenza la VWGI e la VWAG hanno proposto appello.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto di dover risolvere preliminarmente la questione relativa all’applicazione del principio del ne bis in idem al caso di specie. A tal fine, ha osservato che dalla giurisprudenza della Corte[2]risulta che l’articolo 50 della Carta dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato per le quali è già stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società dal reato commesso, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva.
Il giudice di secondo grado, interrogatosi innanzitutto sulla qualificazione della sanzione oggetto della controversia, ha richiamato la ormai costante giurisprudenza della Corte, così concludendo per il riconoscimento della sua natura sostanzialmente penale.
In secondo luogo, il giudice di secondo grado ha osservato che il principio del ne bis in idem mira ad evitare che un’impresa sia condannata o perseguita una seconda volta, circostanza questa che presuppone che la prima decisione non sia più impugnabile. Con particolare riferimento alla questione se la decisione dell’AGCM e la decisione tedesca riguardino gli stessi fatti, il Consiglio di Stato ha rilevato «l’analogia, se non l’identità», nonché l’«omogeneità» dei comportamenti oggetto di tali due decisioni, precisando altresì che, benché la sanzione dell’AGCM sia stata irrogata in un tempo antecedente, la decisione tedesca sia quella divenuta definitiva per prima.
In terzo e ultimo luogo, il giudice di secondo grado, dopo aver ricordato che una limitazione al principio del ne bis in idem può essere giustificata sulla scorta dell’articolo 52, paragrafo 1, si è interrogato sulla eventuale rilevanza ai fini di tale disposizione della normativa del codice del consumo oggetto di applicazione nella decisione controversa.
All’esito di siffatte considerazioni, il Consiglio di Stato ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte i seguenti quesiti interpretativi: in primo luogo, se le sanzioni irrogate in tema di pratiche commerciali scorrette, ai sensi della normativa interna attuativa della direttiva 2005/29, siano qualificabili alla stregua di sanzioni amministrative di natura penale; in secondo luogo, se l’articolo 50 della Carta vada interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale che consente di confermare in sede processuale una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale per condotte illecite che integrano pratiche commerciali scorrette, per le quali nel frattempo è stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico in uno Stato membro diverso, laddove la seconda condanna sia divenuta definitiva anteriormente al passaggio in giudicato dell’impugnativa giurisdizionale della prima sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale; da ultimo, se la disciplina di cui alla direttiva 2005/29, con particolare riferimento agli articoli 3, paragrafo 4, e 13, paragrafo 2, lettera e), possa giustificare una deroga al divieto di ne bis in idem stabilito dall’articolo 50 della Carta e dall’articolo 54 della CAAS[3].
3. La decisione della CGUE: la ricevibilità del ricorso e la prima questione pregiudiziale
Preliminarmente la Corte, respingendo entrambi gli argomenti sostenuti dall’AGCM, dichiara ricevibili le questioni pregiudiziali.
Innanzitutto, per quanto attiene all’eccezioni secondo cui nel caso di specie l’articolo 50 della Carta e l’articolo 54 della CAAS non troverebbero applicazione in quanto la normativa tedesca rilevante non deriverebbe dal diritto dell’Unione, chiarisce che la decisione controversa è stata adottata sulla base della normativa italiana; quest’ultima, nella misura in cui recepisce la direttiva 2005/29, costituisce attuazione del diritto dell’Unione con conseguente applicazione della Carta. Parimenti, per quanto riguarda l’interpretazione dell’articolo 54 della CAAS, ricorda che la CAAS fa parte integrante del diritto dell’Unione in forza del protocollo n. 19 sull’acquis di Schengen, allegato al Trattato di Lisbona.
Inoltre, con riferimento al rilievo secondo cui nel caso di specie non sussisterebbe l’identità dei fatti, in quanto la decisione dell’AGCM e la decisione tedesca riguarderebbero persone e condotte diverse, la Corte osserva che le questioni relative alla interpretazione del diritto dell’Unione sono di regola assistite da una presunzione di rilevanza. Sul punto, ritiene che l’AGCM non abbia assolto l’onere della prova a suo carico, non essendo riuscita a dimostrare che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta dal giudice del rinvio non abbia alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto del procedimento principale o riguardi un problema di carattere ipotetico.
Passando ad esaminare nel merito le questioni pregiudiziali, per rispondere al primo quesito la Corte ribadisce che la natura penale dei procedimenti e delle sanzioni, ai fini dell’applicazione dell’art. 50 della Carta, deve essere vagliata sulla scorta di tre criteri, e segnatamente: la qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, la natura medesima dell’illecito e il grado di severità della sanzione[4].
Ebbene, nel caso di specie, la sanzione e il procedimento di cui all’art. 27, co. 9 cod. cons. risultano qualificati come “amministrativi”; questo dato, tuttavia, non è di per sé ostativo all’applicazione dell’art. 50 CDFUE, dovendosi compiere una verifica alla luce degli ulteriori criteri.
Per quanto attiene alla natura dell’illecito, questa impone di verificare se la sanzione persegua una finalità repressiva, eventualmente anche non disgiunta da una preventiva. Nel caso di specie, la sanzione prevista da tale disposizione si aggiunge, obbligatoriamente, alle altre misure che l’AGCM può adottare rispetto a pratiche commerciali scorrette e che comprendono, in particolare, il divieto di proseguire o ripetere le pratiche in questione. Tant’è che, secondo quanto osservato dal Governo italiano, sarebbe proprio tale ultimo divieto a svolgere una funzione repressiva, con la conseguenza che la sanzione de qua avrebbe la diversa finalità di privare l’impresa interessata dell’indebito vantaggio concorrenziale acquisito.
Tuttavia, un siffatto scopo non è affatto menzionato nella disposizione in esame; inoltre, anche a ritenere che sia questa la finalità, la circostanza che la sanzione pecuniaria varia a seconda della gravità e della durata dell’illecito di cui trattasi testimonia una certa gradualità e progressività tipica delle sanzioni. Da ultimo, lo scopo di privare l’impresa dell’indebito vantaggio acquisito collide con la previsione di un importo massimo (il raggiungimento dello scopo sarebbe infatti vanificato in tutti quei casi in cui l’indebito vantaggio concorrenziale superi tale soglia) e di un importo minimo (nell’ambito di determinate pratiche commerciali scorrette quest’ultimo potrebbe infatti risultare superiore al vantaggio concorrenziale).
Per quanto concerne infine il terzo criterio, la Corte rileva come il grado di severità venga valutato in funzione della pena massima, con la conseguenza che una sanzione amministrativa pecuniaria che può raggiungere un importo di 5 milioni di euro presenta un grado di severità tale da far propendere per il riconoscimento della natura penale.
Sulla scorta di siffatte argomentazioni, la Corte conclude ritenendo che l’art. 50 della Carta deve essere interpretato nel senso che una sanzione amministrativa pecuniaria prevista dalla normativa nazionale, irrogata a una società dall’autorità nazionale competente in materia di tutela dei consumatori per pratiche commerciali sleali, benché sia qualificata come sanzione amministrativa dalla normativa nazionale, costituisce una sanzione penale quando persegue una finalità repressiva e presenta un elevato grado di severità.
3.1 La decisione della CGUE: la seconda questione pregiudiziale
Con riferimento al secondo quesito la Corte ricorda che l’applicazione del principio del ne bis in idem è soggetta a una duplice condizione, vale a dire, da un lato, che vi sia una decisione definitiva anteriore (bis) e, dall’altro, che gli stessi fatti siano oggetto tanto della decisione anteriore quanto del procedimento o della decisione successivi (idem)[5].
Nel caso di specie, la decisione tedesca è divenuta definitiva il 13 giugno 2018 e dunque in epoca successiva alla decisione dell’AGCM sicché, rettamente, la stessa non è stata invocata nell’ambito del procedimento dinnanzi all’autorità amministrativa italiana. Ad opposte conclusioni deve giungersi a seguito dell’acquisizione del carattere di definitività, in conseguenza del quale la medesima decisione può certamente essere fatta valere dinnanzi al giudice amministrativo; a nulla rilevando la circostanza che la stessa sia divenuta definitiva a seguito del pagamento e della rinuncia alla contestazione da parte della VWA[6].
Per quanto attiene al requisito dell’idem, dalla formulazione dell’articolo 50 della Carta discende che esso vieta di perseguire o sanzionare penalmente una stessa persona più di una volta per lo stesso reato. Ebbene, da un lato, entrambe le decisioni riguardano la stessa persona giuridica, vale a dire la VWAG, a nulla rilevando la circostanza che la decisione AGCM sia diretta anche alla VWGI; dall’altro, il criterio rilevante ai fini della valutazione della sussistenza di uno stesso reato è quello dell’identità dei fatti materiali, intesi come esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro che hanno condotto all’assoluzione o alla condanna definitiva dell’interessato[7].
Nel caso di specie, il giudice del rinvio prende in considerazione una situazione in cui una persona giuridica è oggetto di sanzioni di natura penale per gli stessi fatti nell’ambito di due procedimenti distinti, con la conseguenza che, secondo tale giudice, la condizione dell’idem risulterebbe soddisfatta. Tuttavia, la Corte rileva come il medesimo giudice faccia altresì riferimento all’«analogia» e all’«omogeneità» dei fatti, condizioni, queste ultime, insufficienti ai fini dell’applicazione del principio del ne bis in idem.
Sul punto, la Corte osserva in primo luogo che la negligenza nella supervisione dell’attività da parte di un’organizzazione con sede in Germania (oggetto della decisione tedesca) è condotta distinta dalla commercializzazione in Italia di veicoli muniti di un impianto vietato e dalla diffusione di pubblicità ingannevole in tale Stato membro (oggetto della decisione AGCM). In secondo luogo, nella misura in cui la decisione tedesca riguarda la commercializzazione di veicoli muniti di un siffatto impianto di manipolazione vietato anche in Italia, nonché la diffusione di messaggi pubblicitari scorretti relativi alle vendite di tali veicoli, la mera circostanza che un’autorità di uno Stato membro menzioni un elemento di fatto che riguarda il territorio di un altro Stato membro non può essere sufficiente per ritenere che tale elemento di fatto sia stato considerato tra gli elementi costitutivi di tale infrazione; a tali fini, piuttosto, occorre da un lato, accertare che tale autorità si sia effettivamente pronunciata su detto elemento di fatto nell’accertamento dell’infrazione, dall’altro, dimostrare la responsabilità della persona perseguita per tale infrazione ed eventualmente sanzionarla[8]. In terzo luogo, dalla decisione tedesca risulta che le vendite di siffatti veicoli in altri Stati membri sono state prese in considerazione dalla Procura in sede di calcolo della somma di 995 milioni di euro, disposta a carico della VWAG. In quarto luogo, la stessa Procura ha espressamente rilevato che, trattandosi di medesimi fatti[9], il principio del ne bis in idem, quale sancito nella costituzione tedesca, osterebbe all’irrogazione di ulteriori sanzioni penali al gruppo Volkswagen.
Alla luce delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene che il principio del ne bis in idem sancito all’articolo 50 della Carta deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che consente il mantenimento di una sanzione pecuniaria di natura penale irrogata a una persona giuridica per pratiche commerciali sleali nel caso in cui tale persona abbia riportato una condanna penale per gli stessi fatti in un altro Stato membro, anche se detta condanna è successiva alla data della decisione che irroga tale sanzione pecuniaria ma è divenuta definitiva prima che la sentenza sul ricorso giurisdizionale proposto avverso tale decisione sia passata in giudicato.
3.2 La decisione della CGUE: la terza questione pregiudiziale
Prima di rispondere al terzo quesito, la Corte ricorda la propria facoltà di riformulare le questioni sottopostele. Nel caso di specie, i giudici di Lussemburgo ritengono che i riferimenti normativi indicati dal giudice del rinvio[10] non siano rilevanti ai fini della soluzione della controversia.
In primo luogo, l’articolo 54 della CAAS mira a garantire che una persona condannata che abbia scontato la sua pena o, viceversa, che sia stata definitivamente assolta in uno Stato membro, possa circolare all’interno dello spazio Schengen senza dover temere di essere perseguita per gli stessi fatti in un altro Stato membro[11]; il procedimento principale, tuttavia, attiene a due imprese con sede l’una in Germania e l’altra in Italia, sicché la norma in esame non appare rilevante. In secondo luogo, l’articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29 dispone che, in caso di contrasto tra le disposizioni di tale direttiva e altre norme dell’Unione disciplinanti aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, queste ultime debbano essere ritenute prevalenti; dall’ordinanza di rinvio, però, non risulta che nel caso di specie sussista un contrasto tra norme dell’Unione. In ogni caso, poiché l’articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29 mira specificamente ad evitare un cumulo di procedimenti e di sanzioni, tale disposizione non è rilevante al fine di stabilire in quali circostanze siano ammesse deroghe al principio del ne bis in idem. In terzo luogo, l’articolo 13, paragrafo 2, lettera e), della direttiva non è applicabile ratione temporis al procedimento principale, poiché tale disposizione, introdotta dalla direttiva 2019/2161, è in vigore solo a far data dal 28 maggio 2022.
Tanto premesso, i giudici di Lussemburgo ritengono che, con la sua terza questione, il giudice del rinvio abbia chiesto, in sostanza, a quali condizioni siano ammesse limitazioni al principio del ne bis in idem, sancito dall’articolo 50 della Carta.
Limitazioni di tal fatta possono essere giustificate sulla base dell’articolo 52, paragrafo 1 a condizione che: siano previste dalla legge, garantiscano il contenuto essenziale di detti diritti e libertà e, nel rispetto del principio di proporzionalità, siano necessarie per il perseguimento di finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o per la protezione di diritti e libertà altrui. Nel caso di specie, è compito del giudice del rinvio verificare se l’intervento di ciascuna delle autorità nazionali interessate fosse previsto dalla legge e se tale requisito possa dirsi rispettato anche laddove vengano in considerazione normative diverse.
Con riferimento al perseguimento di un obiettivo di interesse generale, la Corte osserva che le due normative nazionali perseguono obiettivi legittimi e distinti, e nello specifico: la disposizione tedesca mira a far sì che le imprese e i loro dipendenti agiscano nel rispetto della legge e sanziona, pertanto, l’inadempimento colposo dell’obbligo di vigilanza nell’ambito di un’attività imprenditoriale; di contro, le norme del codice del consumo applicate dall’AGCM recepiscono la direttiva 2005/29 e mirano a conseguire un livello elevato di tutela dei consumatori, contribuendo nel contempo al corretto funzionamento del mercato interno.
Riguardo al principio di proporzionalità, quest’ultimo richiede che il cumulo di procedimenti e di sanzioni previsto dalla normativa nazionale non superi i limiti di quanto idoneo e necessario al conseguimento degli scopi legittimi perseguiti dalla normativa, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta fra più misure appropriate, è opportuno ricorrere alla meno restrittiva. La circostanza che due procedimenti perseguano obiettivi di interesse generale distinti - la cui tutela cumulativa risulta legittima -, può essere presa in considerazione quale fattore diretto a giustificare tale cumulo, a condizione che tali procedimenti siano complementari e che l’onere supplementare rappresentato da tale cumulo possa trovare giustificazione proprio nel perseguimento dei due diversi obiettivi.
Sulla scorta di siffatte argomentazioni, la Corte ribadisce pertanto che, affinché un cumulo possa essere giustificato, occorre che siano soddisfatte tre condizioni, vale a dire: che tale cumulo non costituisca un onere eccessivo per l’interessato; che esistano norme chiare e precise che consentano di prevedere quali atti e omissioni possano essere oggetto di cumulo; che i procedimenti in questione siano stati condotti in modo sufficientemente coordinato e ravvicinato nel tempo[12].
Ebbene, per quanto attiene alla prima di tali condizioni, la Corte osserva che la decisione dell’AGCM prevede una sanzione pecuniaria di cinque milioni di euro, che si aggiungerebbe alla sanzione pecuniaria di un miliardo di euro irrogata dalla decisione tedesca. Considerato che la VWAG ha accettato tale ultima sanzione pecuniaria, non risulta che la sanzione irrogata dall’AGCM - il cui importo peraltro corrisponde soltanto allo 0,5% della sanzione impartita dalla decisione tedesca - abbia avuto come conseguenza l’eccessiva onerosità del cumulo; né, in senso contrario, rileva la circostanza che l’AGCM abbia irrogato la sanzione massima prevista dalla legge.
Quanto alla seconda condizione, la Corte ritiene che, nonostante il giudice del rinvio non abbia fatto menzione di disposizioni tedesche o italiane che prevedano specificamente la possibilità di un cumulo, la VWAG avrebbe comunque potuto prevedere che la propria condotta potesse comportare l’apertura di procedimenti e la conseguente irrogazione di sanzioni in almeno due Stati membri, in ragione della violazione di norme applicabili alle pratiche commerciali sleali o anche di norme diverse come quelle previste dalla legge sugli illeciti amministrativi.
Per quanto riguarda la terza condizione, i giudici di Lussemburgo rilevano che non vi è stato alcun coordinamento tra la Procura tedesca e l’AGCM, nonostante i procedimenti in questione siano stati condotti in parallelo per alcuni mesi e la stessa Procura tedesca fosse a conoscenza del provvedimento dell’AGCM nel momento in cui ha adottato la propria decisione.
Ed in effetti, sebbene il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio preveda un meccanismo di cooperazione e coordinamento tra le autorità nazionali responsabili dell’esecuzione della normativa che tutela i consumatori, la Procura tedesca, a differenza dell’AGCM, non rientra tra queste autorità. Peraltro, la Procura tedesca ha preso contatti con Eurojust proprio al fine di evitare il cumulo di procedimenti penali nei confronti della VWAG in vari Stati membri[13]; tuttavia, per i fatti oggetto della decisione tedesca, le autorità italiane non hanno rinunciato ai procedimenti penali a carico della medesima società, né AGCM ha partecipato al tentativo di coordinamento nell’ambito di Eurojust.
Sul punto, nonostante il governo italiano affermi che, per ritenere giustificato il cumulo, sia sufficiente verificare soltanto se il principio del ne bis in idem sia rispettato nella sua «dimensione sostanziale», così dovendosi verificare solo se la sanzione complessiva risultante dai due procedimenti non sia manifestamente sproporzionata, senza che occorra anche il coordinamento tra i due procedimenti, la Corte ribadisce che le condizioni che giustificano siffatto cumulo - così come stabilite dalla giurisprudenza della stessa CGUE -, non possono subire variazioni a seconda del caso concreto. Sicché, nonostante il coordinamento di procedimenti o sanzioni riguardanti gli stessi fatti possa rivelarsi più difficile nei casi in cui le autorità appartengano a Stati membri diversi, tali aspetti pratici non possono in ogni caso comportare una relativizzazione del requisito in questione.
Sulla sorta di tali argomentazioni la Corte conclude ritenendo che l’articolo 52, paragrafo 1, della Carta deve essere interpretato nel senso che esso autorizza la limitazione dell’applicazione del principio del ne bis in idem, sancito all’articolo 50 della Carta, in modo da consentire un cumulo di procedimenti o di sanzioni per gli stessi fatti, purché le condizioni previste all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, come precisate dalla giurisprudenza, siano soddisfatte, vale a dire qualora, in primo luogo, tale cumulo non rappresenti un onere eccessivo per l’interessato, in secondo luogo, esistano norme chiare e precise che consentano di prevedere quali atti e omissioni possano essere oggetto di cumulo e, in terzo luogo, i procedimenti di cui trattasi siano stati condotti in modo sufficientemente coordinato e ravvicinato nel tempo.
4. Il ne bis in idem: da garanzia processuale a garanzia sostanziale. Ricadute applicative
La sentenza in commento interviene nel clima di incertezza generato dalle rivisitazioni che hanno interessato il principio in esame. Infatti, com’è noto, l’istituto del ne bis in idem, da tempo presente nell’ordinamento interno ed europeo, grazie all’apporto della giurisprudenza ha subito diverse innovazioni che ne hanno mutato - con esiti differenti - il campo applicativo.
Nello specifico, sul piano sovranazionale, il principio si trova sancito da un lato, dall’art. 50 CDFUE[14] e dall’art. 54 della Convenzione di Schengen[15]; dall’altro, dall’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU[16]. I due concetti non sono tra loro slegati dovendo semmai essere intesi in un rapporto di armonia e coerenza, in virtù della clausola orizzontale di salvaguardia di cui all’art. 52 CDUE in base alla quale, quando la Carta riconosce un diritto corrispondente ad uno previsto dalla CEDU, deve garantire almeno lo stesso livello di tutela[17]. In ambito interno, il principio è poi codificato dall’art. 649 c.p.p., che sancisce il divieto di sottoporre l’imputato, già prosciolto o condannato con decisione divenuta irrevocabile, ad un secondo giudizio per il medesimo fatto.
Ebbene, entrambi i requisiti richiesti ai fini dell’applicazione della garanzia sono statti oggetto di interpretazioni evolutive da parte della giurisprudenza sovranazionale.
Da un lato, incidendo sul concetto di idem, la Corte EDU ha esteso il principio de quo anche ai casi in cui uno dei due procedimenti in questione, sebbene formalmente amministrativo, comporti l’irrogazione di una sanzione sostanzialmente penale[18]. Tale assunto trova una compiuta giustificazione nel progressivo processo di assimilazione tra le due figure, che ha interessato tanto le garanzie sostanziali quanto quelle procedimentali e processuali.
Dall’altro, la stessa Corte Edu ha operato un revirement in relazione alla nozione di bis. In dettaglio, in occasione del caso A e B c. Norvegia, la Grande Chambre ha chiarito che «Non viola il ne bis in idem convenzionale la celebrazione di un processo penale, l’irrogazione della relativa sanzione, nei confronti di chi sia già stato sanzionato in via definitiva dall’amministrazione tributaria con una sovrattassa (nella species pari al 30% dell’imposta evasa) purché sussista tra i due procedimenti una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta»[19].
Con questa pronuncia, dunque, la Corte Edu non ha escluso che ciascuno Stato possa articolare la risposta sanzionatoria tramite procedimenti distinti, purché temporalmente vicini e prevedibili ex ante; di conseguenza, ha invitato gli Stati ad adottare meccanismi in grado di unificare i procedimenti sanzionatori tramite una adeguata interazione tra le varie autorità competenti.
Nell’adempiere siffatto compito, i legislatori nazionali avrebbero dovuto curare, da un lato, che l’accertamento dei fatti in un procedimento venisse utilizzato anche nell’altro procedimento, così evitando inutili duplicazioni anche a livello istruttorio; dall’altro, che la sanzione imposta nel procedimento conclusosi per primo venisse tenuta in debito conto nell’altro, il fine di irrogare un trattamento sanzionatorio complessivamente proporzionato.
All’evidenza, con una simile interpretazione la Corte Edu ha inciso in maniera significativa sulla portata del ne bis in idem. Il principio in esame, infatti, da garanzia “processuale assoluta” - idonea cioè ad impedire l’instaurazione di nuove azioni penali o anche solo il rischio di tali azioni - è divenuto garanzia “sostanziale relativa”, in quanto dipendente dall’ulteriore requisito della connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta tra i due procedimenti[20].
Quest’ultimo corso giurisprudenziale, fondato appunto sul criterio della connessione sufficientemente stretta tra i procedimenti, ha evidenziato fin da subito molteplici criticità.
Innanzitutto, ha comportato una drastica riduzione del campo applicativo del divieto, con conseguenze ancora più dirompenti in relazione a quel processo di estensione delle garanzie CEDU cui si faceva poc’anzi riferimento.
In secondo luogo, l’indeterminatezza del criterio indicato ha l’effetto ultimo di lasciare ampio margine di apprezzamento all’interprete, il quale di volta in volta si trova a dover ricavare la regola dal singolo caso concreto, con un approccio inevitabilmente casistico e foriero di plurime incertezze.
Le problematiche indicate sembravano essere state parzialmente risolte dalla stessa Corte di Giustizia, che qualche anno fa è stata chiamata a pronunciarsi sulla questione in conseguenza di tre rinvii pregiudiziali sollevati dai giudici italiani[21].
In dettaglio, con la sentenza Grande Sezione, 20 marzo 2018, C-537/16, la CGUE, aderendo al medesimo orientamento della Corte Edu, ha ritenuto ammissibile il cumulo, purché nel rispetto delle condizioni indicate, vale a dire: il perseguimento di un interesse generale e di scopi complementari; l’indicazione di regole chiare e precise, tali da consentire al soggetto accusato di prevedere quali atti e quali omissioni possano costituire oggetto del cumulo; un coordinamento fra i procedimenti, al fine di limitare a quanto è strettamente necessario l’onere supplementare che un cumulo comporta; la proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio rispetto alla gravità dell’illecito[22].
Peraltro, anche in ottemperanza alla clausola di salvaguardia di cui all’art. 52 CDFUE, la CGUE ha precisato che i criteri indicati «assicurano un livello di tutela del principio del ne bis in idem che non incide su quello garantito all’art. 4 del protocollo n. 7 della CEDU, quale interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».
In altri termini, secondo i giudizi di Lussemburgo lo standard UE in materia di ne bis in idem sarebbe più elevato, essendo le eccezioni al divieto di cumulo meglio definite e, per tale motivo, di applicazione più circoscritta.
5. Il recepimento in ambito interno. Considerazioni di sistema
Nonostante quell’intervento della CGUE, che negli intenti avrebbe dovuto svolgere una portata chiarificatrice, le problematiche applicative legate al nuovo corso giurisprudenziale non hanno trovato una compiuta risoluzione.
A livello interno, un parziale recepimento del revirement è avvenuto ad opera della Corte Costituzionale che, intervenuta per rigettare l’ennesima q.l.c. dell’art. 649 c.p.p., lo ha fatto proprio in ossequio ai nuovi dettami indicati nella causa A e B c. Norvegia.
Nello specifico, la Consulta ha sottolineato come si sia passati «dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti» tra loro indipendenti, alla facoltà di «coordinare nel tempo e nell'oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati ad un'unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva»[23].
Nella medesima occasione la Corte ha auspicato un intervento normativo, anche al fine di evitare che la soluzione del problema venisse lasciata agli organi giudicanti[24]. Questi ultimi, infatti, proprio in ragione della laconicità del principio enunciato, a cui spesso si aggiunge l’elevato tecnicismo della materia, risultano privi di chiari riferimenti legislativi.
Tant’è che, proprio a riprova delle persistenti difficoltà interpretative, il giudice amministrativo ha sollevato il nuovo rinvio pregiudiziale a cui la CGUE ha risposto con la sentenza in commento[25].
Come in parte già anticipato, all’atto della verifica circa la sussistenza delle condizioni necessarie ai fini della deroga al ne bis in idem, erano emersi i seguenti elementi fattuali: mancanza di una regola chiara e certa che rendesse prevedibile il doppio binario; assenza di qualsiasi forma coordinamento fra i procedimenti indicati; sanzione irrogata nella misura massima in entrambi i casi.
Trattandosi peraltro di una materia diversa (vale a dire quella attinente alle pratiche commerciali scorrette) da quella rispetto alla quale la Corte era già intervenuta per recepire il ne bis in idem come garanzia “sostanziale” (rappresentata generalmente dal tema delle manipolazioni del mercato), la Sesta Sezione ha ritenuto di dover chiedere chiarimenti interpretativi alla CGUE.
Il nuovo rinvio da parte del giudice amministrativo era apparso come una sorta di invito alla Corte di Giustizia quanto meno a circoscrivere, nella portata applicativa, le deroghe al principio in esame, a riprova della preoccupazione in ordine ai possibili effetti distorsivi in termini di garanzie.
Ed in effetti la Corte, aderendo ad una interpretazione rigida dei requisiti che giustificano le deroghe al ne bis in idem, sembra aver colto tali sollecitazioni, ritenendo il coordinamento tra i procedimenti elemento indispensabile ai fini delle limitazioni del principio.
Peraltro, come accennato in apertura, la decisione in commento riveste importanza anche sotto altro profilo: tale sentenza rappresenta ulteriore conferma dell’adesione, da parte della CGUE, al filone giurisprudenziale volto a vagliare la natura penalistica di una sanzione sulla scorta di criteri di matrice sostanziale.
Ed in effetti, alla base dell’applicazione del principio del ne bis in idem si pone proprio il riconoscimento della natura sostanzialmente penale della sanzione irrogata dall’AGCM sulla scorta degli Engel criteria.Anche sotto tale profilo, la pronuncia non rappresenta una assoluta novità, inserendosi in quel percorso di adesione ai dettami sanciti dalla Corte EDU già da tempo avviato anche da parte della CGUE[26].
Dal riconoscimento della natura punitiva della sanzione deriva l’applicazione del regime giuridico proprio delle pene in senso stretto, nell’ambito di un processo di progressiva commistione tra i due modelli sanzionatori[27].
Ebbene, siffatto processo trova in questa sentenza un ulteriore passo in avanti, rappresentato dall’estensione alle sanzioni “punitive” di un’altra garanzia processuale, quale risulta essere appunto il divieto del bis in idem[28].
[1] In dettaglio, ai sensi dell’art. 20, co. 2 «Una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori»; ai sensi dell’articolo 21, co. 1 «È considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso: (...) b) le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione, la composizione, gli accessori, l’assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto»; ai sensi dell’articolo 23, co. 1, lett. d) : «Sono considerate in ogni caso ingannevoli le seguenti pratiche commerciali: (...) d) asserire, contrariamente al vero, che un professionista, le sue pratiche commerciali o un suo prodotto sono stati autorizzati, accettati o approvati, da un organismo pubblico o privato o che sono state rispettate le condizioni dell’autorizzazione, dell’accettazione o dell’approvazione ricevuta».
[2] Ed in particolare il riferimento è alla nota sentenza del 20 marzo 2018, Garlsson Real Estate e a., causa C‑537/16.
[3] Così Cons. Stato, Sez. VI, ord. 7 gennaio 2022, n. 68.
[4] Così sentenza del 4 maggio 2023, MV – 98, C‑97/21, EU:C:2023:371.
[5] Cfr. sentenza del 22 marzo 2022, bpost, C‑117/2.
[6] Il principio del ne bis in idem, infatti, trova applicazione indipendentemente dalle specifiche modalità con cui la singola decisione è divenuta definitiva.
[7] Così sentenza del 22 marzo 2022, bpost, C‑117/20, EU:C:2022:202
[8] V., in tal senso, sentenza del 22 marzo 2022, Nordzucker e a., C‑151/20, EU:C:2022:203, punto 44).
[9] Ed in effetti, l’installazione di detto impianto, il rilascio dell’omologazione, nonché la promozione e la vendita dei veicoli in questione costituiscono un insieme di circostanze concrete inscindibilmente connesse tra loro.
[10] Vale a dire l’articolo 54 della CAAS, l’articolo 3, paragrafo 4, e l’articolo 13, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2005/29.
[11] V., in tal senso, sentenze del 29 giugno 2016, Kossowski, C‑486/14 e del 28 ottobre 2022, Generalstaatsanwaltschaft München C‑435/22.
[12] In questo senso la CGUE si era già espressa nella sentenza del 22 marzo 2022, bpost, C‑117/20, punto 51).
[13] Tale circostanza risulta dalle informazioni fornite dalla VWAG all’udienza dinanzi alla Corte.
[14] Il quale prevede il divieto di perseguire o condannare una persona per un reato per il quale sia già stata assolta o condannata nell’Unione con sentenza penale definitiva. In questa versione, il principio de quo attiene ai rapporti tra Stati membri e si applica solo nell’attuazione del diritto UE.
[15] Secondo cui una persona già giudicata con sentenza definitiva in uno Stato contraente non può essere sottoposta, per i medesimi fatti, ad un procedimento penale in un altro Stato contraente.
[16] Tale disposizione vieta che ogni persona possa essere perseguita o condannata penalmente dallo stesso Stato per un reato per il quale sia già stata assolta o condannata con sentenza definitiva.
[17]Per un commento alla clausola di salvaguardia si rinvia a F. Ferraro - N. Lazzerini, Art. 52, in R. Mastroianni, O. Pollicino, S. Allegrezza, F. Pappalardo, O. Razzolini (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Milano, 2017, p. 1061 ss. Sui rapporti tra CDUE e CEDU cfr. B. Nascimbene, Il principio di attribuzione e l’applicabilità della Carta dei diritti fondamentali: l’orientamento della giurisprudenza, in Riv. dir. int., 2015, p 49 ss., I. Anrò, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e CEDU: dieci anni di convivenza, in Federalismi.it, 2020.
[18] Cfr. Corte EDU, sent. 4 marzo 2014, caso Grande Stevens c. Italia. In dottrina, v. A.F. Tripodi, Uno più uno (a Strasburgo) fa due. L’Italia condannata per violazione del ne bis in idem in tema di manipolazione del mercato, in Dirittopenalecontemporaneo.it; G.M. Flick – V. Napoleoni, A un anno di distanza dall'affaire Grande Stevens: dal bis in idem all'e pluribus unum?, in Rivista delle Società, fasc.5, 2015; S. Calvetti, CEDU, sentenza Grande Stevens, e il diritto a non essere giudicati due volte, in Diritto & Giustizia, fasc.32, 2015, pag. 17.
[19]Corte Edu (Grande Camera),15 novembre 2016, A.e B. c. Norvegia, ric. n. 24130/11 e 29758/11.
[20] Sulla tematica si rinvia a C. Lamberti, Sanzioni e ne bis in idem nelle sentenze della corte europea e del giudice nazionale. L’involuzione del principio, in giustamm.it, 2015. Lo stesso criterio, del resto, veniva ribadito dalla Corte qualche anno dopo, in un caso in cui la violazione del ne bis in idem è stata riscontrata proprio in ragione della limitata sovrapposizione nel tempo dei due procedimenti nonché della circostanza che la raccolta e la valutazione delle prove nei procedimenti fosse stata largamente indipendente; il riferimento è Corte Edu, 18 maggio 2017, Jóhannesson c. Islanda.
[21] Il riferimento è in particolare a: causa Menci, sollevata dal Tribunale di Bergamo; causa Garlsson e causa Di Puma, sollevata dalla II sez. civile della Cassazione, tutte riunite dalla CGUE e decise con sentenza Grande Sezione, 20 marzo 2018, C-537/16.
[22] In dottrina si rinvia a B. Nascimbene, Il divieto di bis in idem nella elaborazione della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in Sistema penale, 2020, fasc. 4, p. 95-108; L. Mariconda, Diritto antitrust e ne bis in idem nel dialogo tra le corti europee, in Diritto del Commercio Internazionale, fasc.4, dicembre, 2020, pag. 1053; S. Schiavone, La nozione di “idem” nel dialogo tra Corti: un unico criterio per una tutela effettiva, anche in materia di concorrenza , in Cassazione Penale, fasc.7-8, luglio 2022.
[23] Così Corte Cost., sent. 2 marzo 2018, n. 43.
[24] In questa direzione v. G. Angiolini, Una giustizia ancora irrisolta: il ne bis in idem “europeo” e l’Italia, in Riv. it. dir. e proc. Penale, 2018, fasc. 4, p. 2136.
[25] Cons. Stato, Sez. VI, ord. 7 gennaio 2022, n. 68.
[26] Si v. in tal senso CGUE sentenze del 20 marzo 2018, Menci, C-524/15 e Garlsson Real Estate, C-537/16; del 20 marzo 2018, Di Puma e Zecca, C-596/16 e C-597/16; CGUE, sentenza 2 febbraio 2021, causa C-481/19.
[27] Sul tema, la dottrina è amplissima; tra gli altri, si rinvia a F. Goisis, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, Torino, 2018; P. Cerbo, La nozione di sanzione amministrativa e la disciplina applicabile, in A. Cagnazzo - S. Toschei - F.F. Tuccari (a cura di), La sanzione amministrativa, Milano, 2016; M.A. Sandulli, Sanzioni non pecuniarie della pa, in Treccani. Il libro dell’anno del diritto, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Roma, 2015; M. Allena, Il caso Grande Stevens c. Italia: le sanzioni CONSOB alla prova dei principi CEDU, in Giornale dir. amm., 2014, pp. 1053 ss.; Id, La sanzione amministrativa tra garanzie costituzionali e principi CEDU: il problema della tassatività-determinatezza e prevedibilità, in www.federalismi.it.
[28] Appare il caso di precisare come, in ambito interno, l’applicazione del ne bis in idem alle sanzioni “punitive” sia già stata riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza 12 maggio 2016, n. 102. Per un commento alla sentenza, si rinvia a F. Vigano’, Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio in materia di abusi di mercato: dalla sentenza della Consulta un assist ai giudici comuni, in Dirittopenalecontemporaneo.it, maggio 2016.
Nella giornata di oggi, 12 gennaio 2024, presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma 3, sarà conferito il premio “Giulia Cavallone” edizione 2023, premio nato da un’iniziativa della Fondazione Piero Calamandrei e della Famiglia Cavallone per ricordare e onorare la memoria di Giulia Cavallone, una giovane donna, magistrata, scomparsa a soli trentasei anni dopo una lunga lotta contro il cancro. Una malattia che peraltro non le impedì di amministrare giustizia fino all’ultimo in quell’aula del Tribunale Penale di Roma che, per tale motivo, da allora porta il suo nome.
Come è stato già più volte ricordato in occasione delle precedenti edizioni del premio, Giulia Cavallone è stata una donna e una giurista di respiro internazionale.
Dopo essersi laureata in Giurisprudenza con il massimo dei voti presso l’Università Roma Tre, con una tesi dal titolo “Il reato transnazionale in materia di terrorismo”, conseguì successivamente il dottorato di ricerca presso l’Università “La Sapienza” di Roma, in cotutela con l’Universitè Paris II – Panthéon Assas, con una tesi dal titolo “Obblighi europei di tutela penale e principio di legalità in Italia e in Francia”.
Grazie a numerose borse di studio vinte, svolse periodi di ricerca anche presso l’Università di Losanna e presso l’Istituto di diritto penale straniero e internazionale “Max Planck” di Friburgo, in Germania.
Svolse altresì uno stage presso la Rappresentanza permanente dell’Italia presso l’Unione Europea, a Bruxelles, ove ebbe modo di approfondire la sua conoscenza del diritto e delle istituzioni europee.
Fu giudice penale presso il Tribunale di Velletri, sino all’ottobre 2018, e successivamente ricoprì le medesime funzioni presso il Tribunale di Roma sino alla data della sua morte, prematura e ingiusta, avvenuta in una tiepida mattina del 17 aprile 2020.
In considerazione dell’apprezzamento unanime della sua figura professionale e umana, del prestigio acquisito in Italia e all’estero nonostante la giovane età, del suo instancabile esercizio della funzione giurisdizionale, che la portò a presiedere sino all’ultimo le udienze di un delicato processo d’interesse nazionale, nonché del suo impegno sociale nel promuovere in prima persona l’emancipazione e la difesa dei diritti delle donne lavoratrici in Senegal, la Giunta Capitolina di Roma ha deliberato il 30 ottobre 2020 di riservarle un’area presso il Cimitero Monumentale del Verano, quale persona che ha onorato con la sua vita la città di Roma in Italia e nel mondo.
Anche il Tribunale di Velletri, sua prima sede di servizio ha deliberato, come già avvenuto a Roma, di intitolarle l’aula dove ella aveva tenuto le sue udienze.
In linea con la sua storia personale, il Premio “Giulia Cavallone” ha pertanto lo scopo di finanziare soggiorni di studio presso Università e altri centri esteri di riconosciuto prestigio per consentire a giovani dottorandi nel campo del diritto e della procedura penale di ampliare le loro conoscenze, così da formare giuristi sensibili alle diversità culturali, con una mente aperta, critica e disposta al confronto, la cui azione sia improntata ai valori della solidarietà e della tutela della persona, così com’era Giulia Cavallone.
Come hanno già scritto di lei, Giulia Cavallone «era arrivata in magistratura dopo anni di vita vissuta, dedicati con passione alla ricerca e all’accademia, da giurista (e da persona) matura e raffinata, cui erano bastati pochi mesi di preparazione per superare il concorso. Pochi mesi in cui Giulia studiava di sera, in un monolocale al sesto piano senza ascensore dal cui abbaino si vedeva la Tour Eiffel, di ritorno da lunghe giornate passate all’Institut de Droit Pénal china sulla sua tesi di dottorato. Pochi mesi durante i quali aveva vinto prestigiose borse di studio internazionali, aveva fatto la spola tra Parigi ed Heidelberg, aveva pubblicato articoli scientifici in lingue diverse, e diverse dalla propria, si era fatta ospitare a casa degli amici la sera prima delle conferenze internazionali in cui aveva relazionato. Mesi in cui aveva portato avanti il suo impegno nel volontariato, dando il via a nuovi importanti progetti, partendo per l’Africa. Tutto questo senza mai mancare una serata a teatro, una mostra, un concerto, un’occasione di viaggio, una cena con gli amici. E a cena Giulia dava il meglio di sé. Era una delle persone più brillanti che si potesse sperare di avere intorno. Il suo senso dell’umorismo era la punta dell’iceberg della sua intelligenza. Portava la propria erudizione ed il proprio spessore come si portano un paio di jeans, con la stessa leggerezza con cui, poi, avrebbe portato il fardello della malattia. Che non le avrebbe impedito di continuare a viaggiare, di costruire una casa con il suo compagno, di rinsaldare e coltivare le sue amicizie ed i suoi interessi, ed anzi l’avrebbe spinta a farlo con sempre maggior convinzione. La fatica fisica e morale delle cure, l’apprensione con cui parlava della malattia, l’estenuante alternarsi di speranza e sconforto, nel suo quotidiano sbiadivano dietro l’ironia con cui sapeva celarli …. La gentilezza di cui tutti raccontano era il sintomo di una grande maturità e consapevolezza di sé: non solo indole, ma frutto delle tante esperienze fatte, di un convinto e profondo umanismo. Di pari passo con la dedizione per il lavoro in cui così tanto credeva andava l’impegno che metteva in ogni altro aspetto del vivere, la cura che dedicava alle proprie relazioni, ai propri interessi e passioni, al costruire la propria esistenza di essere umano. Giulia aveva compreso che l’unico modo per essere un buon giudice, un giudice giusto, è essere una persona giusta, qualsiasi cosa voglia dire. Rispettosa della vita e del mondo. Studiosa non solo del diritto, ma dell’umano. (Sibilla Ottoni, Giustizia Insieme, 17 Aprile 2021)»
L’eredità che ci lascia Giulia Cavallone è quella di un esercizio della funzione giurisdizionale come servizio da rendere, mai come un privilegio, sempre con competenza, compostezza, garbo e umanità, aspetti della sua personalità particolarmente ammirabili in un momento storico in cui sembrano prevalere su tutto l’incompetenza, la superficialità, l’incontinenza verbale ed emotiva, il desiderio di fama e di potere come massima realizzazione dell’essere umano.
In questo spirito, il Premio si propone quindi come obiettivo di contribuire a formare non soltanto migliori operatori del diritto ma, anche, migliori cittadini del mondo.
Nell’edizione 2023 il Premio, che, come detto, sarà formalmente consegnato il 12 gennaio 2024, è stato attribuito alla dottoressa Federica Ceccaroni, dottoranda presso l’Università della Tuscia, relativamente al progetto di ricerca “Il concorso dell’impresa nei crimini internazionali tramite azioni “neutrali”. Profili di diritto penale internazionale economico”.
La dottoranda di ricerca in diritto penale internazionale propone di perfezionare presso l’École normale supérieure (ENS) di Parigi lo studio della responsabilità penale degli enti per crimini internazionali, in particolare sollevando l’interrogativo sulla natura delle c.d. azioni neutrali (attività commerciali ordinarie, che appaiono non correlate alla condotta illecita di altri attori), attraverso la lente degli emergenti obblighi di due diligence in materia di diritti umani.
La salvaguardia dei diritti umani attraverso il diritto internazionale è da tempo al centro degli interessi della dottoressa Ceccaroni. Ella, infatti, ha svolto periodi di studi in importanti università straniere (Università di Oxford e Stockholms Universitet, Max Planck Institute for Comparative Public Law and International Law).
La ricerca proposta parte dalla rilevazione fattuale della inadeguatezza dello strumento penale ad affrontare il tema delle violazioni massive dei diritti umani, perpetrate attraverso attività imprenditoriali che si avvalgono di condizioni ambientali che le rendono possibili.
La dottoressa Ceccaroni osserva come la globalizzazione abbia esacerbato forme di criminalità di impresa che attentano ai diritti umani più “nucleari”, nonché avviato un processo di crisi della forza regolativa della legge. L’emergere di nuove forme di giuridicità finisce però, nelle parole della dottoressa, per tessere uno ius commune, che ella auspica poter costituire la base per la rinascita di strumenti regolativi vincolanti. Vengono così introdotte le risposte giuridiche, policentriche e multilivello, relative al fenomeno considerato, al cui interno si situa il diritto punitivo, nazionale e internazionale. Da questo discendono insieme l’importanza e il limite del diritto penale dinanzi al c.d. State corporate crime, ove si intrecciano pubblico e privato e anch’esso oggetto di approfondimento nel progetto di ricerca.
In questo contesto appare puntuale e di particolare interesse l’attenzione verso l’estensione dei limiti della territorialità del diritto punitivo, anche attraverso il concetto di due diligence. A questa idea di un diritto senza confini contribuisce, nell’impostazione della ricerca proposta, anche la giurisdizione domestica, per “la tendenza dei tribunali nazionali a farsi carico delle domande di giustizia provenienti dalle vittime di abusi commessi da attori economici” che si inserisce nel “processo di «denazionalizzazione» del diritto interno, resa possibile attraverso l’attività delle corti giudiziarie”.
Infine, la ricerca analizza le potenzialità e i rapporti con il diritto punitivo classico, interno ed internazionale, di nuovi strumenti sanzionatori, c.d. unilaterali, con finalità preventive e di conformazione della condotta ma che si presentano come vere e proprie sanzioni parapenali, senza peraltro necessità di nesso territoriale, quali quelle previste dal Global Magnitsky Human Rights Accountability Act statunitense.
La complessa proposta di ricerca si conclude con l’interrogativo, cui intende fornire elementi valutativi, circa il diritto penale internazionale come ultima ratio e il suo rapporto con la risposta simbolica degli Stati.
La dr.ssa Ceccaroni potrà avvalersi della opportunità di studio presso l’ENS per completare i molti aspetti aperti della sua ricerca, contribuendo così a un settore del diritto penale in rapida evoluzione e centrale per la tutela dei diritti umani.
È stato altresì giustamente segnalato, dalla Commissione aggiudicatrice del Premio, l’impegno della vincitrice nel volontariato, sia nell’assistenza ai detenuti duranti i corsi di laurea, sia all’estero per la formazione e istruzione di bambini in condizioni disagiate presso il Potter’s Village di Dodowa, nella Regione della Grande Accra in Africa (Ghana), impegno che rimanda inevitabilmente a quello di Giulia Cavallone per l’emancipazione delle donne lavoratrici in Senegal, in un ideale passaggio di testimone nelle attività a favore dei soggetti più deboli.
È auspicio della Fondazione Calamandrei e della Famiglia Cavallone che, anche per il futuro, l’esempio di Giulia possa contribuire a cambiamenti verso una società più giusta, in armonia con quello che può essere ricordato come il suo invito rivolto a tutti noi: “Siate giusti, siate gentili”.
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