ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Quando tempus non regit actum. Ancora sulla c.d. “autotutela” in materia di s.c.i.a.: dichiarazioni non veritiere, interesse pubblico in re ipsa e termine ragionevole per l’esercizio del potere inibitorio postumo (nota a Cons. Stato, sez. IV, 30 giugno 2023, n. 6387)
di Piergiuseppe Otranto
Sommario: 1. I fatti di causa. – 2. Il potere inibitorio postumo sugli interventi soggetti a s.c.i.a. (c.d. “annullamento della s.c.i.a.”) nella riforma Madia. Cenni. – 3. S.c.i.a. ed esercizio del potere inibitorio postumo in alcuni orientamenti giurisprudenziali. Ovvero quando tempus non regit actum. – 3.1. segue:oscillazioni giurisprudenziali tra “termine ragionevole” e “termine di diciotto mesi”. – 3.2. Incertezze lessicali e temporali: il c.d. “annullamento della s.c.i.a.” e l’irrilevanza delle riforme sulla ragionevolezza del termine in taluni approdi giurisprudenziali. – 3.3. Spostando dies a quo e dies ad quem: quando il solo avvio del procedimento rende “ragionevole” il termine di esercizio del potere. – 4. Falsa rappresentazione dei fatti ed esercizio del potere inibitorio postumo. – 4.1. Non veritiera rappresentazione dei fatti, falsità ed onere della prova. – 5. Linee ricostruttive.
1. I fatti di causa
Nel 2010 la proprietaria di un immobile presentava al Comune di Noci una d.i.a. per la realizzazione di un intervento straordinario di demolizione e ricostruzione di un immobile e di un piccolo locale deposito costruito in aderenza al primo.
Il procedimento era promosso in ossequio alla disciplina pugliese del c.d. “piano casa”[1] che ammetteva la demolizione e ricostruzione con la realizzazione di un aumento di volumetria superiore massimo del 35% rispetto all’esistente.
La d.i.a. era stata integrata nel 2012 e successivamente nel luglio 2013, in relazione a profili che, tuttavia, non riguardavano il locale deposito[2].
Nel settembre 2013 il Comune comunicava l’avvio del procedimento di “annullamento in autotutela” della d.i.a., prospettando – sulla base della segnalazione di alcuni vicini pervenuta pochi giorni prima – la “non pre-esistenza del locale deposito di dimensioni di mt. 7 x 3,40 in aderenza all’immobile oggetto di d.i.a.”.
Erano seguite due memorie partecipative mediante le quali l’interessata intendeva provare l’esistenza del deposito in epoca antecedente alla d.i.a.
Solo sul finire del 2014 il Comune, contestualmente ad un secondo avviso di avvio del procedimento di “autotutela”, ordinava all’interessata la sospensione dei lavori sino alla conclusione del procedimento stesso.
L’ente, tuttavia, restava inerte pur innanzi alla diffida con la quale l’interessata chiedeva la conclusione del procedimento con provvedimento espresso. Avverso il silenzio serbato dal Comune, la denunciante proponeva ricorso ex art. 117 c.p.a. innanzi al T.a.r. Puglia. Solo a quel punto l’Amministrazione, il 3 novembre 2015, adottava il provvedimento di “annullamento” della d.i.a., impugnato dalla ricorrente con motivi aggiunti.
Il giudice di prime cure, dichiarata l’improcedibilità del ricorso principale avverso il silenzio, accoglieva il ricorso per motivi aggiunti ritenendo che il provvedimento impugnato, espressione del “potere di autotutela decisoria”, fosse illegittimo siccome intempestivo in relazione ai limiti temporali previsti dall’art. 21 nonies, l. n. 241/1990, e dunque, sia rispetto al termine di diciotto mesi – introdotto dall’art. 6 della l. n. 124/2015 – sia rispetto al “termine ragionevole” previsto dall’art. 21 nonies sin dalla sua formulazione ante riforma[3]. Il Tribunale riteneva inoltre che attraverso la d.i.a. la ricorrente non avesse operato una falsa rappresentazione della realtà e che, piuttosto, il provvedimento impugnato fosse (oltre che tardivo) affetto da gravi carenze istruttorie e motivazionali.
Il Consiglio di Stato, tuttavia, ha affermato la legittimità del provvedimento del Comune riformando la decisione del T.a.r. con una sentenza che induce qualche osservazione poiché, muovendo dal caso particolare, finisce per lambire temi, di ordine generale, come quelli del ruolo stesso del giudice amministrativo nell’ordinamento[4] e della tecnica del richiamo al precedente giurisprudenziale, adoperata talvolta in modo improprio.
2. Il potere inibitorio postumo sugli interventi soggetti a s.c.i.a. (c.d. “annullamento della s.c.i.a.”) nella riforma Madia. Cenni
Una prima considerazione riguarda la scelta del diritto applicabile al caso concreto ratione temporis.
La controversia, infatti, ha ad oggetto la legittimità del provvedimento adottato dalla p.A. in applicazione degli artt. 19, comma 3, e 21 nonies, l. n. 241/1990.
Si tratta, come è noto, di disposizioni oggetto di non trascurabili riforme per effetto della legge c.d. Madia, n. 124/2015, entrata in vigore il 28 agosto del 2015.
Nel testo vigente prima della riforma Madia, ad esempio, l’art. 19, comma 3, prevedeva che, decorso il termine ordinario di sessanta giorni (trenta per la d.i.a. edilizia) per l’esercizio dei poteri inibitori e ripristinatori previsti in via ordinaria, fosse comunque salvo il potere dell’Amministrazione competente “di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies”: i) in caso di pregiudizio per un interesse a protezione rafforzata (comma 4)[5]; ii) “in ogni tempo” in ipotesi di “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci”. Per altra via, il potere di annullamento d’ufficio ex art. 21 nonies doveva essere esercitato comunque non oltre un “termine ragionevole”. Gli art. 19 e 21 nonies andavano letti in combinato con l’art. 21, comma 1, a mente del quale, “in caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge (…) ed il dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’articolo 483 del codice penale, salvo che il fatto costituisca più grave reato”; inoltre le sanzioni previste in caso di svolgimento dell’attività in carenza dell’atto di assenso dell’amministrazione o in difformità di esso si sarebbero dovute applicare anche a coloro che avessero dato inizio all’attività ex art. 19 “in mancanza dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente” (art. 21, comma 2).
Con la riforma Madia le norme su richiamate sono state interessate da non trascurabili modifiche[6].
Anzitutto all’art. 21 nonies, comma 1, si prevede che il “termine ragionevole” per l’esercizio dell’autotutela in riferimento a provvedimenti autorizzatori o attributivi di vantaggi economici non possa essere superiore a diciotto mesi (oggi dodici). Ed è sempre la l. n. 124/2015 ad aver introdotto il comma 2 bis dell’art. 21 nonies, l. n. 241/1990, a mente del quale il termine di diciotto mesi non opera in relazione all’annullamento dei “provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”. Per effetto della riforma del 2015, inoltre, nell’art. 19 scompare il riferimento esplicito all’autotutela amministrativa e si ammette la possibilità che l’Amministrazione, “in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies” adotti i provvedimenti inibitori e ripristinatori anche decorso il termine ordinario[7]; viene abrogato, infine, il comma 2 dell’art. 21, lasciando tuttavia in vigore la disposizione di cui al comma 1.
3. S.c.i.a. ed esercizio del potere inibitorio postumo in alcuni orientamenti giurisprudenziali. Ovvero quando tempus non regit actum
Proprio perché si tratta di modifiche non marginali della disciplina, è importante stabilire quali siano le norme di diritto positivo applicabili e quali i principi giurisprudenziali da considerare nel caso di un provvedimento con il quale l’Amministrazione, dopo il decorso del termine ordinario per l’esercizio dei propri poteri inibitori e ripristinatori, privi di effetto una s.c.i.a., ed eserciti, così, poteri inibitori, repressivi o conformativi ex post che solo in via semplificativa (ed impropriamente) possono definirsi di “annullamento d’ufficio della s.c.i.a.”[8].
È noto che il procedimento amministrativo è regolato dal principio tempus regit actum, con la conseguenza che la legittimità degli atti del procedimento deve essere valutata con riferimento alle norme vigenti al tempo in cui è stato adottato l’atto che conclude una autonoma fase dello stesso[9].
Come ha precisato anche di recente il Consiglio di Stato[10], nei procedimenti amministrativi la corretta applicazione di tale principio comporta che la pubblica Amministrazione tenga conto delle modifiche normative intervenute durante il procedimento “non potendo considerare l’assetto normativo cristallizzato in via definitiva alla data dell’atto che vi ha dato avvio”.
Ne consegue che la legittimità del provvedimento deve essere valutata con riferimento alla disciplina vigente al tempo in cui esso è stato adottato e non al tempo in cui è stato avviato il relativo procedimento e questo perché “lo ius superveniens reca sempre una diversa valutazione degli interessi pubblici” operata dal legislatore e dalla quale l’Amministrazione non può autonomamente discostarsi.
Questo principio di carattere generale stenta, tuttavia, a trovare concreta applicazione in materia di autotutela decisoria dal momento che le Amministrazioni, con l’avallo di una parte della giurisprudenza, sovente esercitano il proprio potere di annullamento d’ufficio come se a partire dal 2015 il legislatore non ne avesse modificato in maniera profonda la struttura ed i limiti.
Non è certamente questa la sede per ripercorrere l’evoluzione del diritto positivo e del dibattito giurisprudenziale e dottrinario sull’autotutela decisoria: basterà qui ricordare che in piena coerenza con gli orientamenti giurisprudenziali maturati sin da epoca risalente, l’art. 21 nonies, l. n. 241/1990 – introdotto con la l. n. 15/2005 – non ancorava l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio a casi e modalità stabiliti dalla legge. Esso continuava ad apparire, di contro, “espressione di un privilegio generale dell’amministrazione di tornare unilateralmente sulle decisioni (…) che enfatizza la flessibilità dell’atto amministrativo, nel presupposto che esso debba essere sempre adattato alle mutevoli esigenze dell’interesse pubblico ed aderente al principio di legalità dell’azione amministrativa”[11]. Tuttavia, la disposizione aveva l’innegabile merito di precisare che l’annullamento si sarebbe potuto pronunciare solo in presenza di ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
È con le modifiche introdotte dalla l. n. 124/2015 che l’autotutela decisoria appare ancorata al principio di legalità e non più un’implicita espressione dell’immanenza ed inesauribilità del potere di amministrazione attiva derivanti dalla necessità di garantire la continua corrispondenza dell’attività amministrativa al pubblico interesse[12].
L’introduzione del termine di diciotto mesi (oggi dodici) per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio era stata salutata come “un nuovo paradigma nei rapporti tra cittadini e pubbliche amministrazioni: nel quadro di una regolamentazione attenta ai valori della trasparenza e della certezza giuridica, il legislatore del 2015 ha fissato termini decadenziali di valenza nuova, non più volti a determinare l’inoppugnabilità degli atti nell’interesse dell’amministrazione, ma a stabilire limiti al potere pubblico nell’interesse dei cittadini, al fine di consolidare le situazioni soggettive dei privati”[13].
Per scongiurare il rischio che a seguito della limitazione del potere di annullamento d’ufficio potessero consolidarsi posizioni di vantaggio ottenute in maniera fraudolenta, fu introdotto il già richiamato comma 2 bis dell’art. 21 nonies, che esclude l’applicabilità del termine decadenziale per l’esercizio del potere rispetto a “provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”.
Anche il potere di intervento tardivo sulla s.c.i.a. appare mutato per effetto della l. n. 124/2015. L’art. 19, comma 4, infatti nel rinviare alle “condizioni” previste dall’art. 21 nonies, supera la contraddittorietà delle preesistenti ricostruzioni dell’istituto quale forma di annullamento amministrativo di un atto privato[14]. Siamo cioè innanzi ad un provvedimento attraverso il quale, ricorrendo i presupposti per l’applicazione dell’art. 21 nonies, l’Amministrazione non interviene ad annullare d’ufficio la segnalazione, ma esercita un potere inibitorio “supplementare” che consente di rimuove gli effetti prodotti dalla s.c.i.a. e dal mancato esercizio del potere inibitorio in via ordinaria.
Dopo la legge Madia, dunque, il limite dei diciotto (poi dodici) mesi finisce per applicarsi anche al provvedimento di rimozione degli effetti della s.c.i.a., entro i limiti delineati con riferimento ai “provvedimenti” conseguiti sulla base di condotte fraudolente “accertate con sentenza passata in giudicato”.
Come si è già ricordato, di contro, ante riforma non solo mancava un termine inderogabile per l’esercizio dell’autotutela – valendo unicamente il limite del “termine ragionevole” –, ma l’Amministrazione poteva intervenire “in ogni tempo” in ipotesi di “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci”, e ciò senza che assumesse alcun rilievo l’accertamento di tale presupposto per effetto di un giudicato penale.
L’entrata in vigore della l. n. 124/2015 avrebbe dunque dovuto segnare uno spartiacque tra due regimi giuridici.
In particolare, proprio in virtù del ricordato principio generale del tempus regit actum (ed in assenza di una norma transitoria), ai provvedimenti adottati dopo il 28 agosto 2015 si sarebbe dovuta applicare la nuova disciplina, più attenta ad offrire tutela alle esigenze di certezza giuridica ed all’affidamento dei soggetti beneficiati dal provvedimento di primo grado asseritamente illegittimo[15].
3.1. segue: oscillazioni giurisprudenziali tra “termine ragionevole” e “termine di diciotto mesi”
L’interpretazione della giurisprudenza, specie con riguardo all’operatività del termine di diciotto mesi, tuttavia, non è stata univoca.
Secondo un indirizzo rimasto minoritario, il termine perentorio avrebbe trovato applicazione per i provvedimenti di secondo grado adottati dopo l’entrata in vigore della riforma e decorsi diciotto mesi dal provvedimento ritenuto illegittimo[16].
Altri orientamenti hanno cercato di attenuare – ove non di neutralizzare – l’impatto innovativo della riforma.
Si è così affermato che la nuova disciplina dell’art. 21 nonies sarebbe applicabile solo ai provvedimenti di annullamento di atti (di “primo grado”) emanati dopo l’entrata in vigore della riforma[17]. Secondo un altro indirizzo giurisprudenziale in riferimento ai provvedimenti di annullamento adottati dopo il 28 agosto 2015 – ma con riguardo ad atti di primo grado adottati ante riforma – il termine di diciotto mesi decorrerebbe non dalla data di adozione del provvedimento originario, ma dal 28 agosto 2015[18] (e spirerebbe, dunque, in ogni caso il 28 febbraio 2017)[19]; in tale ipotesi, tuttavia, sarebbe comunque salva l’operatività del termine ragionevole già previsto dall’originaria versione dell’articolo 21 noniesdella legge n. 241/1990 sicché – allorquando i diciotto mesi non possano considerarsi ancora decorsi – “la novella non può non valere come prezioso indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell’osservanza della regola di condotta in questione”[20].
D’altro canto, finanche con riferimento alla legittimità di provvedimenti di annullamento d’ufficio adottati prima della riforma del 2015, la giurisprudenza aveva osservato che la disposizione novellata – pur non applicabile ratione temporis – nella parte in cui fissava il termine dei diciotto mesi dovesse comunque valere come indice ermeneutico ai fini della valutazione sulla ragionevolezza del termine[21].
Ciò significa che per i provvedimenti di annullamento d’ufficio adottati dopo il 28 agosto 2015 – dunque assoggettati ad uno ius superveniens che è comunque espressione di una diversa valutazione degli interessi pubblici operata dal legislatore – ed anche prendendo atto degli orientamenti giurisprudenziali su richiamati, il potere di annullamento d’ufficio si consumerebbe solo dopo diciotto (oggi dodici) mesi che decorrono: a) dal 28 agosto 2015 se il provvedimento di primo grado è anteriore a tale data; b) dalla data di adozione del provvedimento di primo grado (se successiva al 28 agosto 2015).
Nell’ipotesi appena richiamata sub a), il provvedimento di annullamento d’ufficio ancorché adottato prima dello spirare dei diciotto (o dodici) mesi potrebbe comunque risultare illegittimo qualora, per le circostanze concrete, il termine complessivamente decorso dal provvedimento annullato appaia non “ragionevole”[22].
3.2. Incertezze lessicali e temporali: il c.d. “annullamento della s.c.i.a.” e la irrilevanza delle riforme sulla ragionevolezza del termine in taluni approdi giurisprudenziali
In materia di s.c.i.a. la giurisprudenza continua a considerare impropriamente l’atto adottato ai sensi dell’art. 19, comma 4, (e dunque “in presenza delle condizioni previste dall’art. 21 nonies”), quale espressione del potere di autotutela e non, come ormai dovrebbe risultare definitivamente chiaro, quale manifestazione di un potere inibitorio, repressivo o conformativo postumo o “supplementare”.
È evidente che il richiamo alla nozione di “autotutela” (ovviamente inammissibile, da un punto di vista logico rispetto ad un atto del privato) risponde probabilmente ad esigenze di celerità nella redazione delle decisioni. Tuttavia, questa semplificazione lessicale finisce per confondere le categorie dommatiche e per creare ulteriore incertezza che non dovrebbe essere ancora alimentata a distanza di otto anni dall’entrata in vigore della l. n. 124/2015 e dopo che già nel 2016 il Consiglio di Stato si era soffermato sulla “inconfigurabilità di un’autotutela in senso tecnico” in materia di s.c.i.a.[23].
Con riguardo al perdurare di orientamenti giurisprudenziali che neutralizzano la riforma Madia è significativo, ad esempio, come i principi enunciati dalla sentenza 17 ottobre 2017, n. 8 dell’Adunanza plenaria[24], pur se dichiaratamente elaborati con riferimento al regime precedente alla l. n. 124/2015, continuino ad essere richiamati anche con riguardo a fattispecie che dovrebbero essere disciplinate dagli artt. 19, 21, 21 nonies, l. n. 241/1990 post riforma.
Balza agli occhi, tuttavia, come il richiamo ai principi enunciati in quella sede dal Consiglio di Stato valga, in una parte della giurisprudenza, quasi a sterilizzare ogni possibile “tentazione” di proporre interpretazioni differenti.
La sentenza n. 6387/2023 che qui si annota è emblematica sia quanto al reiterato riferimento alla nozione di autotutela applicata alla s.c.i.a., sia con riguardo al richiamo ad orientamenti giurisprudenziali tralatizi che – sebbene riferibili a fattispecie differenti da quelle sottoposte alla cognizione del giudice – fondano (recte si ritiene possano fondare) la decisione.
A tale ultimo proposito il Collegio espressamente richiama tre principi enunciati dall’Adunanza plenaria n. 8/2017:
i) il termine ragionevole per l’annullamento d’ufficio decorre solo dalla scoperta da parte dell’Amministrazione di fatti e circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro;
ii) in caso di interessi pubblici “autoevidenti” l’onere motivazionale risulta attenuato;
iii) la non veritiera prospettazione di circostanze in fatto ed in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo non fa sorgere alcun affidamento in capo al privato sicché l’annullamento potrà dirsi adeguatamente motivato richiamando la non veritiera prospettazione di parte.
Di tali principi il Consiglio di Stato afferma “la perdurante validità”, anche in ossequio a taluni precedenti (sez. IV, n. 2839/2023 e n. 4374/2018).
Tuttavia, la vicenda oggetto della sentenza in commento è relativa ad un provvedimento inibitorio ex art. 19, comma 4, adottato il 3 novembre 2015 la cui legittimità, dunque, si sarebbe dovuta scrutinare alla luce della disciplina post riforma Madia.
Sia l’Adunanza plenaria nella sentenza n. 8/2017, sia la richiamata sentenza n. 2839/2023, di contro, si riferiscono a fattispecie che – in ossequio al principio tempus regit actum – rientravano nella disciplina pre riforma[25]. Quanto poi alla sentenza n. 4374/2018, anch’essa richiamata nella decisione in commento, in quell’occasione il Consiglio di Stato, in ossequio all’orientamento già ricordato innanzi[26] ha ritenuto che la disciplina dell’art. 21 nonies, nella sua versione novellata dalla l. n. 124/2015[27], non fosse applicabile ad un provvedimento di annullamento d’ufficio del 2016, in quanto relativo ad un atto di primo grado adottato prima dell’entrata in vigore della legge Madia.
Nella sentenza che qui si annota, il richiamo da parte del Giudice a precedenti riferiti a fattispecie che, sotto il profilo del diritto applicabile ratione temporis, sono del tutto differenti rispetto a quella oggetto del ricorso, rende la decisione assolutamente non prevedibile in quanto fondata, tra l’altro, su un quadro normativo niente affatto chiaro.
Un contributo di chiarezza deriverebbe anzitutto dall’espressa individuazione del diritto applicabile al caso di specie.
Sul punto il Consiglio di Stato nella sentenza in commento ritiene che al provvedimento (di c.d. “autotutela”) si applicherebbe la disciplina vigente nel momento dell’avvio del relativo procedimento.
Si legge infatti: “in ogni caso, non si ravvisa la violazione del termine ragionevole per l’esercizio dei poteri di autotutela – l’art. 21 nonies, comma 1, della l. n. 241/1990, nel testo vigente al momento dell’avvio del procedimento di annullamento in autotutela della d.i.a. [10 settembre 2013, n.d.a.], disponeva: «il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge» – in quanto il procedimento di autotutela è stato avviato dopo pochi giorni dall’esposto dei proprietari dei fondi limitrofi [datato 8 agosto 2013, n.d.a.], che hanno denunciato una non veritiera rappresentazione nella denuncia di inizio attività dello stato di fatto effettivamente esistente” [28].
La deviazione dal principio tempus regit actum non potrebbe essere più evidente: il provvedimento impugnato è del 3 novembre 2015, ma il Collegio ritiene applicabile la disciplina vigente al momento dell’avvio del procedimento (2013), nonostante le significative innovazioni introdotte dapprima con d.l. n. 133/2014 e poi con la l. n. 124/2015.
Tale soluzione interpretativa è proposta (recte affermata e seguita) senza il supporto di alcuna argomentazione, quasi alla stregua di un’opzione volitiva del giudicante che liberamente sceglie quale diritto applicare alla fattispecie sottoposta alla sua cognizione.
Una possibile spiegazione di tale scelta, tuttavia, si rinviene proseguendo nella lettura della sentenza: secondo il Consiglio di Stato il provvedimento ex art. 19, comma 4, l. n. 241/1990 sarebbe comunque tempestivo nonostante sia stato adottato a distanza di oltre due anni dall’esposto dei proprietari dei fondi limitrofi; e ciò perché, alla luce dei “principi enunciati dalla Adunanza plenaria sopra richiamati, il termine ragionevole per l’adozione dell’annullamento d’ufficio decorre soltanto dalla scoperta dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro”.
Discostandosi dal principio temupus regit actum il Collegio può così richiamare direttamente quei principi che l’Adunanza plenaria aveva enunciato facendo esplicito riferimento alla disciplina ante riforma.
Ma anche di tali principi offre una lettura in parte innovativa.
3.3. Spostando dies a quo e dies ad quem: quando il solo avvio del procedimento rende “ragionevole” il termine per l’esercizio del potere
Con la sentenza n. 8/2017, l’Adunanza plenaria aveva chiarito che “la nozione di ragionevolezza del termine è strettamente connessa a quella di esigibilità in capo all’amministrazione, ragione per cui è del tutto congruo che il termine in questione (nella sua dimensione ‘ragionevole’) decorra soltanto dal momento in cui l’amministrazione è venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell’atto”.
Nel caso di specie, quindi, il dies a quo per il computo del termine ragionevole si sarebbe potuto individuare nella data in cui il Comune, a seguito dell’esposto dei vicini, aveva avuto notizie del presunto abuso (3 agosto 2013).
Certamente a partire da tale data diviene “esigibile” una condotta attiva dell’Amministrazione volta all’esercizio del potere (inibitorio postumo) entro un termine ragionevole. L’Adunanza plenaria, tra l’altro, aveva precisato che “in particolare, in caso di titoli abilitativi rilasciati sulla base di dichiarazioni oggettivamente non veritiere (e a prescindere dagli eventuali risvolti di ordine penale), laddove la fallace prospettazione abbia sortito un effetto rilevante ai fini del rilascio del titolo, è parimenti congruo che il termine ragionevole decorra solo dal momento in cui l’amministrazione ha appreso della richiamata non veridicità”.
Se nell’interpretazione “creativa” dell’Adunanza plenaria il dies a quo, ai fini del calcolo del termine ragionevole è quello in cui diviene esigibile la condotta attiva dell’Amministrazione, per lo meno quanto al dies ad quem non sembrava potersi dubitare della necessità di guardare alla data di adozione del provvedimento di annullamento.
Nel caso di specie tra la denuncia dei vicini (8 agosto 2013) e il provvedimento espressione del potere inibitorio ex post (3 novembre 2015) era decorso un termine di quasi ventisette mesi ed è rispetto a questo che, a tutto voler concedere, si sarebbe dovuta valutare la ragionevolezza[29].
È indubbio che il Consiglio di Stato avrebbe dovuto scrutinare la legittimità del provvedimento del 3 novembre 2015 applicando la disciplina successiva alla riforma Madia. Dunque, ai sensi dell’art. 19, comma 4, l. n. 241/1990 (vigente ratione temporis) il Comune avrebbe dovuto provvedere entro diciotto mesi decorrenti dalla presentazione della s.c.i.a. o, secondo altra interpretazione, dalla scadenza del termine per l’esercizio in via ordinaria dei poteri inibitori[30].
Nel caso di specie la prima d.i.a. era stata presentata nel febbraio 2010 ed era stata successivamente integrata nel 2012 e nel luglio 2013, pur se con riferimento a profili diversi da quelli poi contestati.
Pertanto, a stretto rigore, è dal febbraio 2010 (o, al più, dal luglio 2013) che si sarebbe dovuta valutare la decorrenza del termine di diciotto mesi. Ed in effetti il giudice di primo grado aveva ritenuto illegittimo il provvedimento osservando come rispetto alla prima d.i.a. “ai cui grafici e relazione si fa riferimento per sostenere la falsa rappresentazione della volumetria pre-esistente, il potere di ‘autotutela’ è intervenuto ad oltre cinque anni” e che “l’asserita difformità tra la consistenza planovolumetrica del deposito come dichiarata e come esistente prima della demolizione avrebbe dovuto e potuto essere verificata dal Comune prima dello spirare dei trenta giorni dalla presentazione della d.i.a., essendo in suo possesso la relazione del tecnico di parte (corredata da allegati grafici e planimetria catastale) ed essendo all’epoca ancora esistente il deposito, poi demolito per effetto dell’intervento. Il decorso di un sì considerevole lasso temporale non trova dunque alcuna giustificazione”.
Ma anche accedendo alla già ricordata interpretazione “creativa” che fissa il dies a quo nella data di entrata in vigore della riforma Madia[31], non può trascurarsi come quella stessa giurisprudenza ritenga che la ragionevolezza del termine debba essere scrutinata anche avendo riguardo al decorso dei diciotto mesi.
In ogni caso, quindi, l’esercizio nel novembre 2015 del potere inibitorio postumo sarebbe risultato irragionevole sia rispetto alla data di presentazione della d.i.a. (2010), sia rispetto alla data della denuncia delle presunte irregolarità da parte dei vicini (8 agosto 2013).
Ciò anche in considerazione della condotta serbata dalla segnalante che: aveva partecipato al procedimento con proprie memorie e documenti fornendo un principio di prova sulla insussistenza della irregolarità contestata; prima dell’avvio del procedimento ex art. 19, comma 4, l. n. 241/1990 aveva demolito il piccolo manufatto oggetto di contestazione ed aveva già ultimato il rustico della nuova costruzione[32]; aveva addirittura sollecitato la conclusione del procedimento con provvedimento espresso.
Il Consiglio di Stato, invece, nella sentenza in commento non solo fa riferimento alla disciplina ante riforma, ma valuta la ragionevolezza del termine con riguardo al tempo intercorso tra ricezione della denuncia e avvio del procedimento di “autotutela”, così palesemente discostandosi dalla lettera (e dallo spirito) della legge.
Non può che destare perplessità, dunque, il passaggio in cui si afferma che “secondo i principi enunciati dalla Adunanza plenaria sopra richiamati, il termine ragionevole per l’adozione dell’annullamento d’ufficio decorre soltanto dalla scoperta dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro. Nel caso di specie, dopo pochi giorni dalla presentazione dell’esposto da parte dei proprietari dei terreni confinanti, la amministrazione comunale ha dato avvio al procedimento di annullamento in autotutela della d.i.a.”.
È evidente a questo punto che se non si compie uno sforzo almeno per individuare in modo puntuale le questioni di fatto volta a volta affrontate (ed il diritto applicabile ratione temporis) e si ammette che il dies ad quem sia quello dell’avvio del procedimento inibitorio postumo, il parametro della ragionevolezza del termine – già di per sé indeterminato ed elastico – finisce per essere privo di qualsiasi capacità ordinante del sistema.
Così facendo, tuttavia, si schiude (ancora una volta) lo spazio ad interpretazioni creative che in nome di una concezione del potere di autotutela che le più recenti riforme intendevano superare, continuano a sacrificare l’interesse del privato alla tutela dell’affidamento e l’interesse generale alla certezza giuridica.
4. Falsa rappresentazione dei fatti ed esercizio del potere inibitorio postumo
Nel caso che ci occupa il Comune aveva esercitato il proprio potere inibitorio postumo (art. 19, comma 4, l. n. 241/1990) rispetto ai lavori oggetto di s.c.i.a., sulla base del rilievo per il quale la dichiarata consistenza plano-volumetrica del piccolo locale deposito non sarebbe stata conforme all’esistente[33].
Come abbiamo ricordato, nella sentenza in commento il Consiglio di Stato ha espressamente richiamato il principio enunciato dall’Adunanza plenaria n. 8/2017 ed in forza del quale “la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte”.
Nell’argomentare del Consiglio di Stato, il richiamo al precedente dell’Adunanza plenaria vale a fondare la decisione anche nel caso di specie, come se al provvedimento in questione non si applicasse la (diversa) disciplina introdotta con la riforma Madia.
Come se, in particolare, la legittimità del provvedimento andasse scrutinata alla luce della disciplina vigente prima della l. n. 124/2015 ed in forza della quale in caso di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci il potere inibitorio postumo sulla s.c.i.a. poteva essere esercitato anche oltre il “termine ragionevole” ed indipendentemente dal giudicato penale[34].
Ma, come si è già avuto modo di osservare, nella sua attuale formulazione l’art. 21 nonies, comma 2 bis, prevede che “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”[35].
Tuttavia, per il Consiglio di Stato in presenza di una non veritiera rappresentazione della realtà, il “potere di annullamento in autotutela (…) non può essere paralizzato dalla mancanza di un giudicato penale, rilevante per il solo caso (non ricorrente nella fattispecie in esame) di dichiarazioni sostitutive o atti di notorietà mendaci o falsi”.
Tale affermazione riecheggia gli insegnamenti di quella giurisprudenza che attraverso un’articolata esegesi dell’art. 21 nonies, comma 2 bis, ha affermato che l’inciso “per effetto di condotte costituenti reato accertate con sentenza passata in giudicato” debba riferirsi esclusivamente al mendacio nelle dichiarazioni sostitutive e non anche alle “false rappresentazioni dei fatti”[36]. Secondo tale impostazione, oggetto di severa critica da parte della dottrina, finanche presunte inesattezze commesse dal privato nella descrizione o nella qualificazione tecnico-giuridica della fattispecie (pur se chiaramente riconducibili a meri errori di valutazione) giustificherebbero l’esercizio del potere ex art. 21 nonies oltre il termine decadenziale.
Ma perfino questa giurisprudenza – attenta più alla legalità del titolo che alla tutela dell’affidamento del cittadino ed alle esigenze di certezza giuridica – aveva individuato alcuni limiti all’annullamento “tardivo” del provvedimento frutto di false rappresentazioni dei fatti. Infatti, il necessario dolo (cui è equiparata la colpa grave) dell’agente e la sussistenza di uno “specifico e pregnante” nesso causale (tra condotta della parte e conseguimento del beneficio) avrebbero dovuto connotare la fattispecie concreta, sicché attraverso il limite della ragionevolezza del termine, si rimetteva all’Amministrazione il compito di “apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco”[37].
Occorre infatti certamente garantire che gli istituti di (presunta) semplificazione o liberalizzazione dei titoli abilitativi non divengano un pericoloso strumento a disposizione di privati che consapevolmenteforniscano una rappresentazione dei fatti oggettivamente falsa dando luogo così ad una situazione nella quale non può invocarsi alcuna tutela dell’affidamento; e ciò perché, semplicemente, non vi è alcun affidamento. Al contempo, tuttavia, si deve prendere atto della scelta del legislatore, chiaramente orientata verso l’intento di accrescere la fiducia degli operatori economici e la certezza giuridica, sicché la nozione di “falsa rappresentazione dei fatti” non può estendersi sino a ricomprendervi l’errore incolpevole o una certa interpretazione delle norme giuridiche e tecniche di riferimento che la p.A. (ovviamente ex post!) ritenesse non condivisibile[38].
Di contro, si assiste sovente ad interpretazioni che tendono ad allargare i confini della “falsa rappresentazione dei fatti” (e, dunque, dell’esercizio del potere caducatorio ex post oltre il termine ragionevole) sino a ricomprendervi – sotto il profilo oggettivo – anche l’ipotesi dell’errata ricostruzione delle norme giuridiche e tecniche di riferimento[39] e, sotto il profilo soggettivo, qualsiasi condotta del dichiarante, indipendentemente dall’elemento psicologico[40].
Particolarmente delicato è l’accertamento dell’elemento psicologico affidato in prima battuta all’Amministrazione e, in un secondo momento, (eventualmente) al giudice[41].
Infatti, se si prescinde dal dolo – che pare dover connotare intrinsecamente la falsa dichiarazione – si legittima l’esercizio dell’autotutela in qualsiasi caso di errore attribuibile al segnalante nella ricostruzione del quadro normativo (e tecnico), anche con riguardo a circostanze che presentano un certo grado di opinabilità.
L’Adunanza plenaria, tuttavia, a proposito della nozione di “dichiarazione non veritiera” rilevante ai fini espulsivi nell’ambito dei contratti pubblici (art. 80, comma 5, lett. f bis, d.lgs. n. 50/2016) ha affermato che la falsità di una dichiarazione è “predicabile rispetto ad un «dato di realtà», ovvero ad una «situazione fattuale per la quale possa alternativamente porsi l’alternativa logica vero/falso», rispetto alla quale valutare la dichiarazione resa dall’operatore economico”, ma non in riferimento a profili suscettibili di interpretazione e, dunque, opinabili[42].
I profili oggettivi e soggettivi relativi alla nozione di falso, a ben vedere, non paiono facilmente scindibili ove si rammenti che, secondo una parte della giurisprudenza “il concetto di «falso», nell’ordinamento vigente, si desume dal codice penale, nel senso di attività o dichiarazione consapevolmente rivolta a fornire una rappresentazione non veritiera. Dunque, il falso non può essere meramente colposo, ma deve essere doloso”[43].
4.1. Non veritiera rappresentazione dei fatti, falsità ed onere della prova
Nel caso di specie il Comune aveva esercitato i poteri inibitori ex post osservando che “la consistenza plano volumetrica del locale deposito dichiarato nei relativi grafici come costruita ante 1942 e così nella perizia giurata (…) alla stessa allegata non è quella realmente esistente in quanto la precedente struttura del locale deposito risultava in pietra a secco e il successivo ampliamento (di cui non consta un titolo edilizio, neppure richiamati dalla parte) risulta eseguito con parametri murari recenti”.
La rappresentazione dello stato dei luoghi offerta in sede di d.i.a. dal denunciante viene per ciò solo considerata “non veritiera” e, quindi, idonea a fondare la legittimità del provvedimento impugnato indipendentemente dalla ragionevolezza del termine di adozione dello stesso.
Sul punto, tuttavia, il giudice di prime cure aveva correttamente osservato, da un lato, che “rispetto alla presentazione della prima d.i.a. ai cui grafici e relazione si fa riferimento per sostenere la falsa rappresentazione della volumetria pre-esistente), il potere di «autotutela» era intervenuto ad oltre 5 anni di distanza” e, per altro verso, come “l’asserita difformità tra la consistenza planovolumetrica del deposito come dichiarata e come esistente prima della demolizione avrebbe dovuto e potuto essere verificata dal Comune prima dello spirare dei trenta giorni dalla presentazione della d.i.a., essendo in suo possesso la relazione del tecnico di parte (corredata da allegati grafici e planimetria catastale) ed essendo all’epoca ancora esistente il deposito, poi demolito per effetto dell’intervento”. In ordine alla presunta non veridicità della consistenza plano-volumetrica denunciata dal proprietario, il T.a.r. aveva criticamente rilevato come nell’atto impugnato mancasse “a monte una puntuale «contestazione» circa la concreta difformità tra l’esistente ed il dichiarato, non comprendendosi se la difformità attenga solo alle dimensioni ovvero alla effettiva consistenza del locale (ad esempio, se fosse chiuso o meno o se sia mutata anche la sua altezza)”. Così, rilevata l’assenza nel provvedimento di “una compiuta descrizione delle caratteristiche essenziali del manufatto pre-esistente” il T.a.r. ne aveva disposto l’annullamento ritenendo che il Comune non potesse “fondatamente addurre la falsità della rappresentazione quale unico presupposto legittimante per l’annullamento, considerate le foto dello stato dei luoghi prodotte da parte ricorrente (ma anche dal Comune) che comprovano (quanto meno alla stregua di “principio di prova”) l’esistenza di un manufatto in epoca antecedente all’intervento”.
In altri termini, secondo il giudice di primo grado, in una situazione nella quale il dichiarante aveva fornito elementi plausibili in ordine all’esistenza ed alla consistenza del manufatto, sarebbe spettato al Comune contestare puntualmente la falsa rappresentazione dei fatti. Ciò tanto più ove si consideri che proprio l’inerzia dell’Amministrazione nell’esercizio degli ordinari poteri repressivi e inibitori – nel termine di trenta giorni dalla presentazione della d.i.a. (art. 19, comma 6 bis, l. n. 241/1990) – aveva reso possibile la (legittima) demolizione della porzione del piccolo locale deposito contestato.
Sembra, in altri termini, che la condotta del denunciante fosse complessivamente ispirata a buona fede in quanto non solo aveva preso parte al procedimento attraverso due memorie scritte, ma si era addirittura attivato – dapprima in sede procedimentale e, successivamente, proponendo un ricorso al T.a.r. ex art. 117 c.p.a. – affinché l’Amministrazione definisse il procedimento di c.d. “autotutela” avviato anni addietro.
Il Consiglio di Stato, di contro, non ha preso neanche in considerazione questa condotta, ma ha desunto la falsità delle dichiarazioni dalla mancata prova, da parte del denunciante, della datazione del manufatto e della sua originaria consistenza plano-volumetrica.
A sostegno della propria tesi il collegio afferma che “costituisce ius receptum nella giurisprudenza amministrativa il principio secondo il quale la prova delle dimensioni (consistenza) di un manufatto, la prova della esistenza o inesistenza di un rudere, la prova della data di costruzione e così via, grava su colui che attiva il procedimento di rilascio del titolo e poi agisce in giudizio, specie se si tratta di demo ricostruzione (cfr. sez. IV, n. 148 del 2022, sez. IV n. 463 del 2017, sez. VI n. 5106 del 2016)”.
Ma, ancora una volta, il principio giurisprudenziale è impropriamente richiamato. Ed infatti – come si desume dalla lettura proprio di quegli stessi precedenti cui la sentenza fa riferimento – esso è enunciato in relazione a fattispecie in cui il privato invocava l’applicazione di una norma a sé favorevole, senza tuttavia riuscire a fornire la prova della sussistenza dei presupposti di fatto e conseguentemente di diritto posti a fondamento della propria pretesa[44] (art. 2967 c.c.).
Nel caso che ci occupa, di contro, è l’Amministrazione che per esercitare dopo oltre cinque anni i propri poteri inibitori e ripristinatori ex post avrebbe dovuto provare la sussistenza dei relativi presupposti, tra i quali rientra la non veritiera rappresentazione della realtà[45].
Applicando un principio giurisprudenziale enunciato in una fattispecie differente, il Consiglio di Stato finisce per sancire un’illegittima inversione dell’onere della prova, quasi che l’esercizio del potere da parte dell’Amministrazione debba considerarsi ex se legittimo, spettando al cittadino il compito di provare (e non solo di contestare in giudizio) l’insussistenza dei relativi presupposti.
Alle medesime critiche si presta quel passaggio della sentenza nel quale il Collegio rigetta il motivo di ricorso relativo alla carenza di motivazione richiamando il proprio “consolidato” orientamento giurisprudenziale, secondo il quale, quando un titolo abilitativo sia stato ottenuto dall’interessato in base ad una falsa o “comunque erronea rappresentazione della realtà sia consentito all’amministrazione di esercitare il proprio potere di autotutela, ritirando l’atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19 marzo 2019, n. 1795)”.
Non si intende qui richiamare l’articolato dibattito sull’interesse pubblico in re ipsa in materia di autotutela innanzi a dichiarazioni false o mendaci. Piuttosto è interessante notare come nel sostenere la propria tesi il Consiglio di Stato faccia riferimento alla sentenza n. 1795/2019, relativa – questo è il fatto rilevante – ad un provvedimento di annullamento d’ufficio di una concessione edilizia adottato nel lontano 1990, quando era appena entrata in vigore la legge sul procedimento amministrativo. In quel caso i giudici avevano precisato che il provvedimento impugnato era stato adottato “in un’epoca – antecedente alla riforma della legge n. 241 del 1990 ad opera della l. n. 15 del 2005 – in cui non era stato ancora codificato il potere amministrativo di riesaminare i precedenti provvedimenti come annullamento d’ufficio” riconoscendo la sussistenza dell’interesse in re ipsa all’annullamento del titolo ottenuto attraverso una falsa rappresentazione della realtà.
Il riferimento ad una sentenza relativa a fattispecie assoggettata ad una disciplina totalmente differente da quella applicabile nel caso deciso dal giudice “richiamante” costituisce l’ulteriore riprova della necessità di un uso accorto e sorvegliato del “richiamo del precedente” da parte della giurisprudenza.
5. Linee ricostruttive
È noto che il giudice rappresenta sovente l’ultimo baluardo per la tutela effettiva di interessi pubblici la cui cura troppo spesso è colpevolmente trascurata da quelle stesse Amministrazioni cui l’ordinamento affida il potere-dovere di farsene gelose custodi a beneficio della generalità dei consociati.
Tuttavia, l’innegabile rilevanza di questo ruolo di supplenza che è stato assunto dal Giudice – e che è tutt’ora vivo nell’ordinamento– non può consentire di avallare indirizzi interpretativi che, come accade in ambito edilizio, finiscono per derogare alle scelte legislative in nome di un interesse pubblico rielaborato e reinterpretato in via pretoria[46].
In particolare, in materia edilizia, il tentativo di ricondurre a sistema una disciplina resa particolarmente complessa (e confusa) dal susseguirsi delle modifiche normative – e dalle aporie generate talvolta da uno scarso coordinamento con la normativa vigente[47] – risulta ancor più arduo per effetto di orientamenti giurisprudenziali che muovono da una non condivisione della ratio e degli obiettivi delle riforme introdotte e finiscono per sterilizzarne gli effetti.
Inoltre, la confusione tra categorie giuridiche e una certa tendenza a richiamare orientamenti ermeneutici maturati in un quadro normativo a volte profondamente differente sembrano emergere in talune pronunzie del giudice amministrativo. È il caso, ad esempio, delle decisioni sulla operatività ratione temporis della “nuova” autotutela all’indomani dell’entrata in vigore della legge Madia, o di quelle che tendono ad equiparare l’errore di diritto alla falsa dichiarazione di un fatto oggettivamente verificabile[48] e, dunque, indirettamente a scaricare sul cittadino le conseguenze pregiudizievoli derivanti da un ordinamento nel quale la certezza giuridica, da sempre vagheggiata, risulta in realtà smarrita.
In un contesto ordinamentale in cui il diritto, sempre più frammentato in una pluralità di fonti normative, appare mutevole ed in continua evoluzione è auspicabile che la giurisprudenza non abdichi alla propria funzione di tutela del cittadino e, al contempo, dell’interesse generale e contribuisca a fornire certezza giuridica attraverso le proprie decisioni.
A tal fine, tuttavia, è indispensabile un richiamo ad un uso più meditato della tecnica del rinvio al precedente che non può risolversi nel riferimento tralatizio a massime e sentenze risalenti e relative a fattispecie a volte del tutto inconferenti. Occorre, piuttosto, muovere dalla ricostruzione dei fatti di causa e del diritto applicabile ratione temporis e, solo a quel punto, individuare precedenti realmente pertinenti senza trascurare che lo ius superveniens reca sovente una diversa valutazione degli interessi pubblici operata dal legislatore, dalla quale né l’Amministrazione, né il giudice possono legittimamente discostarsi se non entro gli stringenti limiti ammessi dall’ordinamento.
[1] Art. 4 della legge della Regione Puglia 30 luglio 2009, n. 14, “Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale”.
[2] In proposito, nella sentenza di primo grado (T.a.r. Puglia – Bari, sez. III, 28 dicembre 2017, n. 1372), si legge: “nel caso di specie, l’annullamento travolge una d.i.a risalente al febbraio 2010, successivamente integrata (con eliminazione del sottotetto adibito a volume tecnico) nel luglio 2013. Rispetto alla presentazione della prima d.i.a. (ai cui grafici e relazione si fa riferimento per sostenere la falsa rappresentazione della volumetria pre-esistente), il potere di “autotutela” è intervenuto ad oltre 5 anni di distanza, in epoca in cui l’immobile risultava praticamente già ultimato a rustico (circostanza non contestata da parte del Comune e risultante dalle fotografie all. 14 al ricorso per motivi aggiunti) ed all’esito di un confronto partecipativo con la ricorrente instaurato dal Comune (attivatosi su sollecitazione di terzi) ben due anni prima (cfr. prima comunicazione di avvio del procedimento del 10/9/13 prontamente riscontrata dalla ricorrente)”.
[3] Nella sentenza di primo grado si legge: “Parte ricorrente contesta la tempestività dell’auto-annullamento emesso il 3/11/15 alla luce del dettato di cui all’art. 21 nonies cit. Sul punto va precisato che un problema di tempestività rispetto al termine di diciotto mesi non si pone - in radice - ove si aderisca alla tesi secondo cui l’art. 21 nonies come modificato dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 1, l. n. 124/2015 (da qualificare come norma in esame di sicuro carattere innovativo e non meramente interpretativo) si applica solo ai provvedimenti di autotutela di provvedimenti di primo grado emanati dopo l’entrata in vigore di tale norma, cioè emanati dopo il 28.8.2015 (T.a.r. Basilicata, sez. I, sent. 16/3/17 n. 199). L’atto impugnato è, altresì, tempestivo (rispetto al predetto termine legale) ove si segua l’impostazione secondo cui - rispetto ai provvedimenti illegittimi (di primo grado) adottati anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 - il termine di diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione (Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 13/7/17 n. 3462). Tanto premesso, si osserva che tutte le opzioni ermeneutiche fanno salva l’operatività del “termine ragionevole” già previsto dall’originaria versione dell’art. 21 nonies. Anche ove trovi applicazione la novella legislativa, il termine di diciotto mesi non è “necessariamente un termine legittimante l’inibitoria sempre e comunque, perché è comunque un termine massimo” (T.a.r. Campania, Napoli, sez. IV, sent. 5/4/16 n. 1658). Rispetto alla previgente formulazione dell’art. 21 nonies, infatti, non mutano gli altri presupposti per l’annullamento del provvedimento da parte dell’Amministrazione emanante o all’uopo legalmente autorizzata e quindi: (i) la sussistenza di ragioni di interesse pubblico, (ii) l’esistenza di un termine comunque “ragionevole”, (iii) la necessaria considerazione degli interessi dei destinatari e dei contro interessati, (iv) le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
[4] Una difesa motivata del ruolo del giudice amministrativo nella costruzione delle regole dell’ordinamento amministrativo e quale baluardo della garanzia di diritti ed interessi del cittadino e dell’interesse generale, si ritrova nelle considerazioni svolte da V. Caputi Jambrenghi durante la relazione al Convegno su “L’attuazione dei principi del risultato e della fiducia nel nuovo codice dei contratti pubblici. Il modello del collegio consultivo tecnico”, indetto a Roma il 3 ottobre 2023 nella biblioteca della Camera dei deputati a Palazzo San Macuto.
[5] Si tratta degli interessi relativi alla tutela del patrimonio artistico e culturale, dell’ambiente, della salute, alla sicurezza pubblica o alla difesa nazionale.
[6] Tra i primi commenti, cfr. M.A. Sandulli, Gli effetti diretti della L. 7 agosto 2015 n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in Federalsimi.it, n. 17/2015, 1 ss. Della stessa A., cfr., inoltre, S.c.i.a., in Libro dell’anno del diritto 2017, Roma, 2017; Id., La segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.) (artt. 19 e 21 l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2023, 363 ss. Cfr. inoltre, senza pretesa di esaustività, W. Giulietti – N. Paolantonio, La segnalazione certificata di inizio attività, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 902 ss.; F. Liguori, I modelli settoriali: s.c.i.a. delizia e procedure semplificate in tema di rifiuti, ivi, 937 ss.; G. Strazza, La s.c.i.a. nei decreti attuativi della “riforma Madia”, in M.A. Sandulli (a cura di), Le nuove regole della semplificazione amministrativa. La legge n. 241/1990 nei decreti attuativi della “riforma Madia”, Milano, 2016, 74 ss.; Id., La s.c.i.a. tra semplificazione, liberalizzazione e complicazione, Napoli, 2020.
[7] L’art. 19, comma 4, come introdotto dall’ art. 6, comma 1, lett. a), l. n. 124/2015 dispone: “decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6 bis, l’amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21 nonies”.
[8] Cons. Stato, commissione speciale, parere 30 marzo 2016, n. 839, reso sullo schema di decreto s.c.i.a., § 8.2: “Considerata la natura dichiaratamente non provvedimentale della SCIA, occorre comprendere come possa innestarsi ad essa un meccanismo (quello dell’autotutela) originariamente sorto per disciplinare l’annullamento d’ufficio di un precedente provvedimento. Ad avviso della Commissione Speciale, il nuovo sistema introdotto dalla legge n. 124 prevede un «ruolo espansivo» dei princìpi contenuti nel riformato art. 21 nonies della legge n. 241. Tale norma viene infatti richiamata nel meccanismo della SCIA di cui all’art. 19 con una funzione innovativa, che non può più definirsi di ‘autotutela’ in senso tecnico, poiché l’autotutela costituisce un provvedimento di secondo grado ed esso appare impossibile nel caso di specie, dove il provvedimento iniziale manca del tutto. L’art. 21 nonies detta piuttosto, per la SCIA, la «disciplina di riferimento» per l’esercizio del potere ex post dell’amministrazione: un potere inibitorio, repressivo o conformativo da esercitarsi solo «in presenza delle condizioni previste dall’art. 21 nonies» (…). Ciò sembra trovare riscontro anche nella lettera del comma 4 dell’art. 19, che nella nuova versione non fa più riferimento a «provvedimenti di autotutela», bensì ai «provvedimenti previsti dal comma 3» (ovvero agli interventi inibitori, repressivi o confermativi): il richiamo al 21 nonies è operato per rimandare a «le condizioni previste» in quella sede, a conferma che si tratta di una disciplina generale di riferimento, non della combinazione di due modelli tra loro incompatibili”.
[9] Cons. St., sez. III, 6 dicembre 2019, n. 8348 che richiama Cons. St., sez. IV, 21 agosto 2012 n. 4583. Cfr. anche Cons. St., sez. III, 17 febbraio 2020, n. 1199.
[10] Sez. IV, 24 ottobre 2022, n. 9045, con espresso richiamo a id., sez. IV, 16 novembre 2020, n. 7052; id., sez. III, 29 aprile 2019, n. 2768; id., sez. V, 18 marzo 2019, n. 1733; id., sez. V, 10 aprile 2018, n. 2171; id., sez. IV, 21 agosto 2012, n. 4583. Cfr., inoltre, Cons. St., sez. III, 29 aprile 2019, n. 2768; sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1450; 22 settembre 2014, n. 4727.
[11] F. Francario, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, in Federalismi.it, n. 8/2017, 15-16. Sul punto, cfr. inoltre, Id., Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124), in Federalismi.it, n. 20/2015.
[12] Cfr. F. Francario, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, cit., 30 per il quale le diverse norme in materia di autotutela decisoria, oggi contenute nella legge n. 241/1990, non sono “meramente dichiarative di un principio generale immanente nell’ordinamento, ma costitutive di un potere eccezionalmente attribuito alla pubblica Amministrazione e che dipende, pertanto, nella sua concreta configurazione, dai modi e termini in cui è plasmato dalla legge”.
[13] Cons. Stato, parere 30 marzo 2016, n. 839 cit. Per la tesi secondo la quale l’art. 21 nonies, l. n. 241/1990, nella parte in cui prevede il termine di dodici mesi dall’emanazione del provvedimento come limite massimo per l’esercizio dell’autotutela (in riferimento ai soli provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici), avrebbe introdotto non già una norma d’azione con la quale disciplina l’esercizio del potere, ma una norma di relazione, idonea a tracciare quella linea di demarcazione che il potere pubblico non può oltrepassare senza ledere la sfera dei diritti del cittadino, sia consentito il rinvio a P. Otranto, Autotutela decisoria e certezza giuridica tra ordinamento nazionale e sovranazionale, in Federalismi.it, n. 14/2020, 235 ss.
[14] M.A. Sandulli, Edilizia, in Riv. giur. ed., 2022, 206.
[15] Sul problema del diritto applicabile a seguito della riforma e sui primi orientamenti giurisprudenziali, cfr. G. Strazza, La s.c.i.a. nei decreti attuativi della “riforma Madia”, 82.
[16] Cfr., ad esempio, T.a.r. Puglia, Bari, sez. III, 17 marzo 2016, n. 351.
[17] T.a.r. Campania, Napoli, sez. II, 8 settembre 2016, n. 4193; id., 30 gennaio 2017, n. 614; T.a.r. Basilicata, sez. I, 16 marzo 2017, n. 199.
[18] Ex multis, Cons. St., sez. V, 19 gennaio 2017, n. 250; sez. VI, 13 luglio 2017, n. 3462; sez. VI, 14 ottobre 2019, n. 6975; id. 20 marzo 2020, n. 1987; sez. VI, 15 giugno 2020, n. 3787.
[19] “Se per un verso il termine dei diciotto mesi previsto dal nuovo art. 21 nonies non può applicarsi in via retroattiva, nel senso di computare anche il tempo decorso anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 124 del 2015 – atteso che tale esegesi, oltre a porsi in contrasto con il generale principio di irretroattività della legge (art. 11 preleggi), finirebbe per limitare in maniera eccessiva ed irragionevole l’esercizio del potere di autotutela amministrativa – per un altro verso, rispetto a un titolo anteriore all’attuale versione dell’art. 21 nonies, l. n. 241 del 1990, il termine dei diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione”. In tal senso, tra le tante, Cons. St., sez. VI, 15 giugno 2020, n. 3787.
[20] Cons. St., sez. VI, 20 marzo 2020, n.1987.
[21] Ex multis, Cons. St., sez. VI, 20 marzo 2020, n. 1987, con ulteriori riferimenti giurisprudenziali. Sulla ragionevolezza del termine, da valutare anche alla luce della norma che individua in talune ipotesi il temine fisso di diciotto mesi, cfr. Cons. St., sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5625 ove si osserva che “pur se tale norma non è applicabile ratione temporis, in ogni caso, rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti”. Secondo Cons. St., sez. VI, 18 novembre 2022, n. 10186, “anche in relazione alla ragionevolezza del termine trascorso dal rilascio del titolo, se il termine di diciotto mesi è applicabile solo per i provvedimenti adottati successivamente alla entrata in vigore della l. 124/2015 (avutasi in data 28 agosto 2015) in considerazione della natura innovativa (e non interpretativa) della disposizione, con conseguente inapplicabilità ratione temporis nel caso di specie, resta salva l’operatività del «termine ragionevole», secondo la formulazione del testo previsto dall’originaria versione del citato art. 21-nonies, con la conseguenza che la novella non può non valere come prezioso indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell’osservanza della regola di condotta in questione (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI , 08/09/2020, n. 5410); ragionevolezza assente nel caso di specie, laddove l’atto di ritiro risulta adottato dieci anni dopo il titolo annullato”.
[22] Ad esempio, in Cons. St., sez. VI, 13 luglio 2017, n. 3462, il giudice era chiamato a pronunciarsi sulla legittimità di un provvedimento di annullamento d’ufficio adottato dopo l’entrata in vigore della l. n. 124/2014 ma comunque prima del 28 febbraio 2017 (diciotto mesi dall’entrata in vigore della riforma). Il provvedimento impugnato disponeva l’annullamento di atti di primo grado adottati alcuni anni prima ed il collegio ne ha dichiarato l’illegittimità non già per violazione del termine decadenziale di diciotto mesi (che non risultava ancora decorso), ma perché era stato emanato dopo oltre tre anni, termine ritenuto non ragionevole.
[23] Cons. Stato, parere 30 marzo 2016, n. 839, cit., § 8.2.
[24] La sentenza è stata criticamente commentata, tra gli altri, da N. Posteraro, Annullamento d’ufficio e motivazione in re ipsa: osservazioni a primissima lettura dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 2017, in Riv. giur. ed., 2017, 1103 ss.; L. Bertonazzi, Annullamento d’ufficio di titoli edilizi: note a margine della sentenza dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8/2017, in Dir. proc. amm., 2018, 730 ss.; G. Manfredi, La Plenaria sull’annullamento d’ufficio del permesso di costruire: fine dell’interesse pubblico in re ipsa?, in Urb. e app., 2018, 52 ss.; C. Pagliaroli, La “storia infinita” dell’annullamento d’ufficio dei titoli edilizi: nessun revirement da parte dell’Adunanza plenaria, Riv. giur. ed., 2018, 92 ss.; E. Zampetti, Osservazioni a margine della Plenaria n. 8 del 2017 in materia di motivazione nell’annullamento d’ufficio, in Riv. giur. ed., 2018, 404 ss.; M.A. Sandulli – G. Strazza, L’autotutela tra vecchie e nuove incertezze: l’Adunanza plenaria rilegge il testo originario dell’art. 21 -nonies, l. n. 241 del 1990, in S. Toschei (a cura di), L’attività nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2019.
[25] Sul punto, cfr. Cons. St., Ad. plen., n. 8/2017 ove si precisa: “Va in primo luogo osservato che la vicenda per cui è causa resta pacificamente governata dalle disposizioni in tema di annullamento d’ufficio di cui all’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 nell’originario testo introdotto dall’articolo 14 della l. 15 del 2005. Non rilevano, quindi, ai fini della presente decisione, le modifiche apportate al medesimo art. 21-nonies dall’articolo 6 della l. n. 124 del 2015. Tale disposizione non provvede che per il futuro, sicché dalla stessa non possono essere tratti elementi o spunti interpretativi ai fini della soluzione di questioni ricadenti sotto la disciplina del previgente quadro normativo”. Cons. St., sez. IV, 21 marzo 2023, n. 2839, è relativa alla legittimità dell’annullamento d’ufficio intervenuto nel 2009, rispetto ad un titolo edilizio del 2006: “con riferimento alla parametrazione temporale in termini di ragionevolezza in relazione alla disposizione dell’art. 21-nonies, comma 1, nel testo applicabile ratione temporis, è evidente che il termine ragionevole può decorrere soltanto dal momento in cui l’amministrazione abbia effettiva contezza del vizio invalidante, come puntualizzato dalla nota sentenza dell’Adunanza plenaria n. 8 del 17 ottobre 2017”.
[26] V. supra, nota 17.
[27] Cons. St., sez. IV, 18 luglio 2018, n. 4374/2018, ove si legge “nel caso di specie, deve recisamente negarsi l’applicabilità della disposizione come novellata: in tal senso è ormai consolidato l’orientamento secondo cui, in ossequio al principio generale di ordinaria irretroattività di cui all’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, la novellapuò trovare applicazione soltanto in relazione all’esercizio dei poteri di autotutela relativi a provvedimenti emanati dopo la sua entrata in vigore, ossia al 28 agosto 2015: cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 13 luglio 2017, n. 3462 e Sez. III, 28 luglio 2017 n. 3780, nonché Ad Plen., 17 ottobre 2017, n. 8, specie §§ 4.9.6. e 10.5)”. Si tratta di un’interpretazione seguita da una parte della giurisprudenza subito dopo l’entrata in vigore della novella, ma successivamente superata dal Consiglio di Stato proprio nelle pronunce richiamate dalla sentenza n. 4374/2018. Ed invero, in quelle sentenze il Consiglio di Stato non ha mai messo in discussione l’applicabilità della novella ai provvedimenti di secondo grado adottati dopo il 28 agosto 2015 (anche se relativi a provvedimenti di primo grado adottati ante riforma) ed ha affermato soltanto che “rispetto ai provvedimenti illegittimi (di primo grado) adottati anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, il termine dei diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione”(cfr. n. 3462/2017 e n. 3780/2017).
[28] Cfr. il § 7.5 della sentenza in commento.
[29] Sulla ragionevolezza del termine, da valutare anche alla luce della norma che individua in talune ipotesi il temine fisso di diciotto mesi, cfr. Cons. St., sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5625 ove si osserva che “pur se tale norma non è applicabile ratione temporis, in ogni caso, rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti”.
[30] Cfr. l’art. 2, comma 4, d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222, che, nel chiarire una questione interpretativa affrontata dalla giurisprudenza e dalla dottrina, ha precisato che “nei casi del regime amministrativo della Scia, il termine di diciotto mesi di cui all’articolo 21 nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, decorre dalla data di scadenza del termine previsto dalla legge per l’esercizio del potere ordinario di verifica da parte dell’amministrazione competente”.
[31] Cfr. supra nota 18.
[32] Si veda il §7.3 della sentenza di primo grado.
[33] Secondo il provvedimento impugnato, infatti, “la precedente struttura del locale deposito risultava in pietra a secco e il successivo ampliamento (di cui non consta un titolo edilizio, neppure richiamati dalla parte) risulta eseguito con parametri murari recenti” sicché costituiva “legittimo motivo di annullamento della d.i.a. di che trattasi la non veritiera rappresentazione delle consistenze plano-volumetriche del locale deposito”.
[34] Cfr., in particolare, l’art. 19, comma 3, l. n. 241/1990 nel testo introdotto dall’art. 49, comma 4 bis, d.l. 31 maggio 2010, n. 78 s.m.i.
[35] Sulle difficoltà di coordinamento della disciplina del 21 nonies comma 2 bis con la disciplina dell’art. 21, comma 1, per non impegnare vanamente il lettore si rinvia a M.A. Sandulli, Edilizia, cit., 2022, 212-213.
[36] Secondo un orientamento consolidato a partire da Cons. St., sez. V, 27 giugno 2018, n. 3940 il superamento del termine decadenziale è consentito “a) sia nel caso in cui la falsa attestazione, inerente ai presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo, abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state all’uopo rese dichiarazioni sostitutive), nel qual caso sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale; b) sia nel caso in cui l’acclarata erroneità dei ridetti presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ed imputabile, per contro, esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave e corrispondente alla mala fede oggettiva) della parte, nel qual caso – non essendo parimenti ragionevole pretendere dalla incolpevole Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica nella gestione dell’iniziativa rimotiva – si dovrà esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco”. Sulla sentenza si vedano le considerazioni di M.A. Sandulli, Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, in Riv. giur. ed., 2018, 687 ss.
[37] Di recente Cons. St., sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415, riferendosi alla nozione di “autotutela doverosa parziale”, ha affermato che l’accertamento irrevocabile operato in sede penale in ordine al falso fa sorgere in capo all’Amministrazione l’obbligo di avviare il procedimento di annullamento d’ufficio, ma non anche l’obbligo di provvedere sempre e comunque all’annullamento.
[38] M.A. Sandulli, Edilizia, cit., 211, osserva: “appare dunque evidentemente più coerente e corretto, in via principale, leggere la falsa rappresentazione della realtà come un’endiadi della dichiarazione falsa o mendace, richiedendo quindi per entrambe la copertura del giudicato penale e, in via subordinata, delimitarne la portata alle rappresentazioni di dati strettamente fattuali (es. dimensioni del manufatto, distanze, ecc.) non legati ad alcun elemento valutativo e comunque diversi da quelli attestati nella dichiarazione, che, per il tipo di responsabilità che implica, deve essere sempre presunta come veritiera fino ad accertamento definitivo del giudice penale”. L’A. ricorda, peraltro, che il Consiglio di Stato, nei propri pareri sui decreti s.c.i.a. 1 (Cons. St., Comm. spec., parere 30 marzo 2016, n. 839, § 8.3) e s.c.i.a. 2 (Cons. St., Comm. spec., parere 4 agosto 2016, n. 1784, § 1.3.1) aveva suggerito una riscrittura della norma che prevedesse “la possibilità di superare i 18 mesi, al di là delle condanne penali passate in giudicato, in tutti i casi in cui il falso è immediatamente evincibile dal contrasto con pubblici registri, come nel caso di percezione di pensione a nome di persona defunta”.
[39] Secondo Cons. St., sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2207, la lettura costituzionalmente orientata (artt. 3 e 97 Cost.) dell’art. 21 nonies, comma 1, l. 241/1990, conduce a ritenere “il limite temporale dei 18 mesi, introdotto nel 2015, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell'atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole. Nel caso contrario, non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, non può trovare applicazione il limite temporale di 18 mesi oltre il quale è impedita la rimozione dell'atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario”. Su questa pronunzia si vedano le annotazioni di V. Sordi, La concessione della Certosa di Trisulti al Dignitatis Humanae Institute. Autotutela e “anestetizzazione” del termine per provvedere, in Giustiziainsieme.it, 21 maggio 2021.
[40] Sul tema si rinvia, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, allo studio di M.A. Sandulli, La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio (art. 18 l. n. 241 del 1990 s.m.i. e d.P.R. n. 445 del 2000 s.m.i.), in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, cit., 253 ss. In senso critico, cfr. anche E. Zampetti, Osservazioni a margine della Plenaria n. 8 del 2017 in materia di motivazione nell’annullamento d’ufficio, cit., 411-412, il quale osserva: “se infatti ci sono casi in cui l’erronea rappresentazione è certamente imputabile a negligenza e malafede del privato, ve ne sono altri in cui essa può dipendere da un’incertezza interpretativa della normativa o da fattori che rendono oggettivamente difficile rappresentare la situazione di fatto. Si pensi all’ipotesi in cui la vetustà dell’immobile e l’assenza di precedenti misurazioni renda oggettivamente incerta l’esatta quotazione delle altezze (…). In questi casi un’ipotetica erronea rappresentazione non può essere ascritta a malafede o negligenza, proprio in quanto strettamente connessa alla situazione d’incertezza che caratterizza il contenuto della dichiarazione. Sul piano generale se ne deduce che una situazione di affidamento può ritenersi sussistente anche in presenza di rappresentazioni non veritiere, poiché ciò che in ipotesi esclude l’affidamento non è la falsa dichiarazione in sé ma il dolo o la colpa che eventualmente l’assista”.
[41] Cfr. M.A. Sandulli, Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, cit., secondo la quale spetta al g.a. “l’arduo e delicato compito di accertare la ricorrenza dell’elemento soggettivo, per il quale dovrà però fare corretta applicazione dei principi penalistici in tema di onere della prova, chiarezza e univocità della situazione rappresentata, favor rei, ecc.”.
[42] Cons. St., Ad. plen., 28 agosto 2020, n. 16: “è risalente l’insegnamento filosofico secondo cui vero e falso non sono nelle cose ma nel pensiero e nondimeno dipendono dal rapporto di quest’ultimo con la realtà. In tanto una dichiarazione che esprima tale pensiero può dunque essere ritenuta falsa in quanto la realtà cui essa si riferisce sia in rerum natura”. Da questa premessa l’Adunanza plenaria fa discendere la non rilevanza ai fini espulsivi (almeno in relazione all’ipotesi delineata ex art. 80, comma 5, lett. f bis) di una dichiarazione in relazione alla quale la presunta non veridicità sarebbe derivata non già da un contrasto dei fatti ivi esposti rispetto alla realtà materiale, ma dall’interpretazione di una norma giuridica. Si trattava, in particolare, di una dichiarazione concernente il possesso (effettivamente sussistente) di un certo volume d’affari da parte di un soggetto che era stato tuttavia estromesso dal Consorzio stabile indicato quale proprio ausiliario dall’operatore economico escluso dalla gara. La sentenza è stata annotata, tra gli altri, da C. Napolitano, La dichiarazione falsa, omessa o reticente secondo l’Adunanza plenaria (nota a Cons. Stato, Ad. plen., 28 agosto 2020, n. 16), in Giustiziainsieme.it, 8 ottobre 2020, nonché da G.A. Giuffrè – G. Strazza, L’Adunanza plenaria e il tentativo di distinguo (oltre che di specificazione dei rapporti) tra falsità, omissioni, reticenze e “mezze verità” nelle dichiarazioni di gara, in Riv. giur. ed., 2020, 1343 ss.
[43] Cons. St., sez. V, 12 maggio 2020, n. 2976.
[44] In Cons. St., sez. IV, 10 gennaio 2022, n. 148 il ricorrente, nel contestare la quantificazione degli oneri di urbanizzazione relativi ad un permesso di costruire in un intervento di demolizione e ricostruzione, pretendeva che una parte del manufatto preesistente non fosse qualificato alla stregua di un rudere, come era avvenuto, invece, nel provvedimento impugnato. In quel caso il collegio rilevava che “al momento dell’intervento tale parte dell’edificio risultava fatiscente e i muri perimetrali diroccati coperti posticciamente, con la conseguenza che tale manufatto era sostanzialmente qualificabile come un rudere”, ma soprattutto che la parte privata non aveva “fornito alcun contrario elemento concreto che possa smentire l’effettiva consistenza, sotto il profilo quantitativo-dimensionale, delle caratteristiche del preesistente manufatto collocato al piano terreno e delle attività ivi svolte”. In Cons. St., sez. IV, 3 febbraio 2017, n. 463, il giudice aveva rilevato che ai fini del rilascio del provvedimento di condono edilizio ricade sul privato l’onere della prova rigorosa in ordine alla ultimazione delle opere entro il termine previsto dalla legge, sicché in assenza della prescritta prova, l’istanza di condono era stata legittimamente rigettata dall’Amministrazione. Infine, Cons. St., sez. VI, 5 dicembre 2016, n. 5106, non affronta specificamente il problema dell’onere della prova, limitandosi ad affermare che “la ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire [sicché] non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all’an anche il quantum e cioè l’esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione”.
[45] In tal senso cfr., ad esempio, Cons. St., sez. VI, 18 novembre 2022, n. 10186. In quel caso l’annullamento d’ufficio era stato pronunciato dopo dieci anni dal rilascio di un permesso di costruire in sanatoria. Nonostante il lungo lasso di tempo intercorso, il provvedimento di secondo grado era stato ritenuto legittimo dal T.a.r. in quanto, anche a seguito di accertamenti della Guardia di Finanza, emergeva “un quadro indiziario comunque grave, preciso e concordante” in ordine alla non veridicità delle dichiarazioni rese dal privato. Il Consiglio di Stato ha annullato tale pronunzia osservando che nel caso di specie non potesse ritenersi “applicabile l’eccezione – presente in giurisprudenza - derivante dalla falsa rappresentazione dello stato dei luoghi intesa come base sufficiente dell’interesse pubblico alla rimozione, in quanto la prospettazione in proposito formulata nell’informativa della Guardia di Finanza, non ha trovato corso in alcuno specifico procedimento penale (avviato per ipotesi diverse dalla dichiarazione mendace). Premesso che di per sé un tale elemento formale è insufficiente a sostenere la motivazione di un atto di tale rilevanza quale il ritiro di un titolo già rilasciato dieci anni prima, le stesse prospettazioni ivi contenute non risultano esser state considerate di alcun rilievo per avviare un processo penale, né risultano adeguatamente sviluppate dal Comune al fine di sostenere l’atto adottato. Peraltro, i meri indizi ivi tratti dal Comune, non sono all’evidenza sufficienti al fine di sostenere l’onere della prova che, a differenza del procedimento ordinario di rilascio della sanatoria (dove l’onere probatorio incombe sul privato), fa capo unicamente all’amministrazione procedente in autotutela. Ed a quest’ultimo riguardo l’amministrazione non ha svolto alcun approfondimento istruttorio autonomo né alcuna valutazione delle risultanze, con ciò rendendo evidente la fondatezza delle censure dedotte in termini di difetto di istruttoria e di motivazione” (corsivo aggiunto).
[46] M.A. Sandulli, Edilizia, cit. 2022, 209.
[47] Si pensi, in via esemplificativa, al difficile coordinamento tra la norma di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis, l. n. 241/1990 e quella di cui all’art. 75, d.P.R. n. 445/2000, secondo cui “fermo restando quanto previsto dall'articolo 76, qualora dal controllo di cui all’articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione, il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”. Sul punto, il Consiglio di Stato ha di recente osservato “come l’art. 21-novies e l’art. 75 si sovrappongono solo in parte con riferimento all’oggetto della dichiarazione. Il primo, infatti, distingue chiaramente le «false rappresentazioni», dizione ad ampia valenza contenutistica nella quale sicuramente rientra la descrizione dello stato dei luoghi ove si va ad inserire un intervento edilizio, dalle «dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci», ovvero quella specifica e tipica tipologia di dichiarazioni disciplinate dagli artt. 46 e 47 del d.P.R. n. 445 del 2000, in relazione alle quali l’art. 75 irroga la decadenza quale conseguenza del mendacio. A tutto concedere, quindi, alla lettura rigorista che vuole far prevalere sempre e comunque la decadenza sull’annullamento d’ufficio, ciò deve essere limitato ai casi in cui il mendacio sia contenuto in una dichiarazione sostitutiva di certificazione (i cui oggetti sono analiticamente elencati all’art. 46 del d.P.R. n. 445/2000) ovvero di «atto notorio», vale a dire quello stato di fatto la cui conoscenza è di comune dominio («notoria», appunto) che il privato è autorizzato a formalizzare in un documento a sua firma. Nei casi, invece, di «rappresentazioni di fatto» non veritiere non rientranti in tali tipologie, ovvero rese da soggetti cui l’ordinamento attribuisce una specifica qualifica soggettiva, l’art. 75 non rileva, vuoi che lo si ritenga un rimedio (sanzionatorio o meno) aggiuntivo all’autotutela, vuoi che, per quanto sopra detto, lo si assorba nella stessa, piuttosto che identificarla con essa. Anche per tale strada, tuttavia, la sostanziale ritenuta operatività, ancorché limitata a specifici casi, del solo art. 75 finisce per vanificare la decantata svolta garantista che il legislatore ha inteso imprimere con la novella del 2015, sottraendo alla valutazione della singola amministrazione la valenza inficiante della declaratoria falsa e pretendendone l’accertamento definitivo da parte di un giudice penale” (sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415).
[48] Secondo Cons. St., sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2207, ad esempio, “la Sezione ha già chiarito che (cfr., tra le ultime, Cons. Stato, sez. VI, 31 dicembre 2019 n. 8920) è ferma in giurisprudenza, per i più vari casi d’esercizio di una funzione amministrativa ampliativa delle facoltà giuridiche del privato e connessa ad autodichiarazioni rese da quest’ultimo (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2019 n. 3940, 3 febbraio 2016 n. 404 e 24 luglio 2014 n. 3934), la regola secondo cui, in base a detto art. 75, la non veridicità di quanto descritto nella dichiarazione sostitutiva presentata implica la decadenza dai benefici ottenuti con il provvedimento conseguente a tale dichiarazione, senza che, per l’applicazione di detta norma, abbia rilievo la condizione soggettiva del dichiarante (rispetto alla quale è irrilevante l’accertamento della falsità degli atti in forza di una sentenza penale definitiva di condanna), facendo invece leva sul principio di autoresponsabilità”. Nella medesima occasione il Consiglio di Stato ha affermato che, in caso di dichiarazioni non veritiere, il termine ragionevole per l’annullamento d’ufficio decorre dalla scoperta dei fatti da parte della p.A. e non dall’adozione del provvedimento: “laddove la fallace dichiarazione abbia sortito un effetto rilevante ai fini del rilascio del provvedimento amministrativo, è del pari congruo che il termine ragionevole (massimo di 18 mesi) decorra solo dal momento in cui la pubblica amministrazione abbia appreso tale non veridicità (cfr., ancora per tutte, seppure in materia edilizia ma con principi sovrapponibili pienamente al caso in esame, Cons. Stato, Ad. pl., 17 ottobre 2017 n. 8)”.
di Maria Sabina Calabretta
Sommario: 1. Introduzione: le agevolazioni fiscali nella normativa vigente - 2. La piattaforma cessione crediti - 3. Il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 del D.lgs. 74 del 2000) - 4. La fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p. - 5. La riconducibilità dei fatti all’ipotesi di truffa, anche ai sensi degli artt. 640 comma primo e cpv e 640 bis c.p. - 6. Il sequestro dei crediti e l’opponibilità ai terzi: riflessioni in tema di confisca - 7. Contabilizzazione dei crediti generati da operazioni fraudolente - 8. Conclusioni.
1. Introduzione: le agevolazioni fiscali nella normativa vigente
Il legislatore ha introdotto nell’ordinamento, con numerose disposizioni assolutamente speciali, plurime agevolazioni fiscali finalizzate al rilancio economico, specie post pandemico.
In particolare, con il D.L. 34 del 2020 (meglio noto come “Decreto Rilancio”) e con il D.L. 18 del 2020 sono state introdotte e potenziate talune tipologie di crediti di imposta utilizzabili in compensazione o cedibili a terzi.
Nel complesso sistema normativo vigente si distinguono le seguenti tipologie di credito:
Ulteriori crediti sono poi previsti rispettivamente per l’installazione di impianti fotovoltaici e di colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici, ed infine per il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche (art. 119 e 119-ter del D.L. 34 del 2020), nonché dall’art. 120 del medesimo Decreto Rilancio per l'adeguamento degli ambienti di lavoro.
Tali crediti si caratterizzano, quindi, per essere tutti previsti in relazione a determinate categorie di spese in astratto gravanti sul contribuente (lavori di efficientamento energetico, recuperi di patrimoni edilizi, antisismica) delle quali lo Stato si fa carico riconoscendo per importi variabili (fino all’importo massimo previsto per il c.d. “super bonus” addirittura superiore al 100 per cento, e pari al 110 per cento) non già una diretta assunzione del relativo costo, piuttosto un credito di imposta.
In sede di primo approccio all’istituto, rileva premettere che il meccanismo “incentivante” adottato dallo Stato non contempla l’erogazione di finanziamenti diretti in favore del contribuente: piuttosto, a fronte di un costo che graverebbe sul soggetto committente, lo Stato spende non già moneta contante, bensì “moneta fiscale” riconoscendo, per l’importo percentuale previsto rispetto alle singole categorie di costi, un corrispondente credito d’ imposta consentendo ai soggetti che ne siano divenuti titolari di scegliere tra: optare per la detrazione del costo dal reddito imponibile, utilizzare il credito in proprio compensando con debiti fiscali, ovvero cedere il credito a terzi disposti a pagarlo cosi convertendo la moneta fiscale in moneta contante. I cessionari saranno disposti ad acquistare i crediti d’imposta intendendo evidentemente lucrare l’importo differenziale tra il relativo valore nominale e il corrispettivo della cessione.
Si parla di “monetizzazione” proprio per indicare l’ipotesi in cui il credito d’imposta venga da questi ceduto a fronte del versamento di una somma di denaro da parte dei cessionari: l’intervento di questi soggetti, terzi rispetto al rapporto strettamente tributario che lega contribuente e erario, trasforma il valore del credito in moneta.
Risulta di agevole comprensione la finalità dell’istituto, volto a rilanciare settori dell’economia (edilizia, commercio, servizi accessori a tali ambiti) senza però tradursi in una mera concessione di provvidenze economiche bensì stimolando e sollecitando la reattività dei vari settori produttivi del paese, rendendo così possibile al contempo la circolazione di ricchezza (a favore delle maestranze, dei progettisti, delle imprese fornitrici delle materie prime, dei commercianti, del settore dei trasporti e di tutti i servizi accessori).
Tale finalità prevalente aveva indotto il legislatore, nella prima fase di applicazione dei bonus a consentire, in alternativa alla detrazione, plurime cessioni consecutive sostanzialmente senza limiti posto che l’originario testo dell’art. 121 comma 1 lett. b) del Decreto Rilancio prevedeva la “trasformazione del corrispondente importo in credito di imposta, con facoltà di successiva cessione ad altri soggetti, ivi inclusi istituti di credito e altri intermediari finanziari” senza limitarne il numero e senza prevedere particolari qualità soggettive dei cessionari.
A fronte delle condotte fraudolente riscontrate e note alle cronache, il legislatore ha poi modificato le disposizioni, introducendo stringenti limitazioni con specifico riferimento alle cessioni successive alla prima, che sono oggi consentite solo in favore di soggetti “qualificati” ex art. 121 comma 1 lett. b) del Decreto Rilancio che, nel testo vigente, prevede, appunto, l’opzione “per la cessione di un credito d'imposta di pari ammontare ad altri soggetti, compresi gli istituti di credito e gli altri intermediari finanziari, senza facoltà di successiva cessione, fatta salva la possibilità di tre ulteriori cessioni solo se effettuate a favore di banche e intermediari finanziari iscritti all'albo previsto dall'articolo 106 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, di società appartenenti a un gruppo bancario iscritto all'albo di cui all'articolo 64 del predetto testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia ovvero di imprese di assicurazione autorizzate ad operare in Italia ai sensi del codice di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, ferma restando l'applicazione dell'articolo 122-bis, comma 4, del presente decreto, per ogni cessione intercorrente tra i predetti soggetti, anche successiva alla prima; alle banche, ovvero alle società appartenenti ad un gruppo bancario iscritto all'albo di cui all'articolo 64 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, è sempre consentita la cessione a favore di soggetti diversi dai consumatori o utenti, come definiti dall'articolo 3, comma 1, lettera a), del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, che abbiano stipulato un contratto di conto corrente con la banca stessa, ovvero con la banca capogruppo, senza facoltà di ulteriore cessione.”
Disciplina diversa, quanto all’opzione relativa alla cessione, è dettata dall’art. 122 a far data dall’entrata in vigore del decreto e fino al 31 dicembre 2021con riferimento ai crediti di imposta per botteghe e negozi, per i canoni di locazioni di immobili ad uso non abitativo, per l’adeguamento degli ambienti di lavoro nonché per la sanificazione e per l’acquisto di dispositivi di protezione, crediti riconosciuti da provvedimenti emanati per fronteggiare l’emergenza COVID-19. Per tali crediti il legislatore ha fortemente limitato la facoltà di cessioni successive alla prima consentendone oggi fino al massimo di due solo se in favore di soggetti “qualificati”. Anche per questi crediti l’esercizio dell’opzione “cessione” deve essere svolto per via telematica.
2. La piattaforma cessione crediti
Le concrete modalità di fruizione del credito di imposta sono stabilite dalla legge, come detto: utilizzo diretto della detrazione spettante all’avente diritto, sconto in fattura, cessione a terzi (art. 121 del Decreto Rilancio, “Opzione per la cessione o per lo sconto in luogo delle detrazioni fiscali”).
La legge prevede che tale operatività sia condizionata alla avvenuta comunicazione all’Agenzia delle Entrate sia dell’esistenza del credito che della eventuale cessione: la diposizione si rinviene nell’art. 121 comma 7 del decreto rilancio per il quale “ Con provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono definite le modalità attuative delle disposizioni di cui al presente articolo, comprese quelle relative all'esercizio delle opzioni, da effettuarsi in via telematica, anche avvalendosi dei soggetti previsti dal comma 3 dell'articolo 3 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322”.
Per agevolare tali comunicazioni, l’Agenzia delle Entrate ha individuato una specifica procedura “web”, denominata “Piattaforma cessione crediti” (dal sito dell’Agenzia delle entrate è facilmente accessibile una guida aggiornata al maggio 2023) che ne illustra le funzionalità e l’obiettivo, ovvero quello di consentire ai titolari di crediti di imposta di comunicare appunto all’Agenzia delle Entrate l’eventuale cessione dei crediti di soggetti terzi ai sensi delle disposizioni pro tempore vigenti.
L’importanza della piattaforma, ed il valore delle comunicazioni in essa inserite, emerge evidente dalla lettura delle disposizioni contenute nell’art. 122-bis del Decreto rilancio, articolo rubricato “Misure di contrasto alle frodi in materia di cessioni dei crediti. Rafforzamento dei controlli preventivi.”, introdotto dal D.L. 157 dell’11 novembre 2021 e modificato dalla legge 234 del 30 dicembre del 2021. Tale norma introduce infatti un rafforzamento dei controlli preventivi nell’ambito delle misure di contrasto alle frodi in materia di cessioni dei crediti che si incentra tutto sul valore delle comunicazioni dell’avvenuta cessione del credito. Si prevede che L’agenzia delle Entrate entro cinque giorni lavorativi dall'invio della comunicazione dell'avvenuta cessione del credito, può sospendere, per un periodo non superiore a trenta giorni, gli effetti delle comunicazioni delle cessioni, anche successive alla prima, e delle opzioni inviate alla stessa Agenzia ai sensi degli articoli 121 e 122 che presentano profili di rischio, ai fini del relativo controllo preventivo. I profili di rischio, dice la legge, sono individuati utilizzando criteri relativi alle diverse tipologie dei crediti ceduti e riferiti:
“a) alla coerenza e alla regolarità dei dati indicati nelle comunicazioni e nelle opzioni di cui al presente comma con i dati presenti nell'Anagrafe tributaria o comunque in possesso dell'Amministrazione finanziaria;
b) ai dati afferenti ai crediti oggetto di cessione e ai soggetti che intervengono nelle operazioni a cui detti crediti sono correlati, sulla base delle informazioni presenti nell'Anagrafe tributaria o comunque in possesso dell'Amministrazione finanziaria;
c) ad analoghe cessioni effettuate in precedenza dai soggetti indicati nelle comunicazioni e nelle opzioni di cui al presente comma.”
Sembra utile richiamare la disposizione di cui al comma 2 del citato art. 122 bis del Decreto Rilancio per il quale: “Se all'esito del controllo risultano confermati i rischi di cui al comma 1, la comunicazione si considera non effettuata e l'esito del controllo è comunicato al soggetto che ha trasmesso la comunicazione. Se, invece, i rischi non risultano confermati, ovvero decorso il periodo di sospensione degli effetti della comunicazione di cui al comma 1, la comunicazione produce gli effetti previsti dalle disposizioni di riferimento.” Per consentire un più agevole utilizzo del predetto credito di imposta in compensazione, l’Agenzia delle Entrate con apposito decreto (Decreto 83/E del 28 dicembre 2020) ha istituito appositi codici tributo da utilizzare nel prescritto modello F24 a decorrere dalla data dell’1 gennaio 2021.
3. Il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 del D.lgs. 74 del 2000)
A fronte di questa ragionata dimensione economica del meccanismo dei c.d. “bonus”, occorre interrogarsi sull’eventuale rilievo penale di taluni comportamenti umani che, anche profittando della disciplina eventualmente semplificata introdotta dal legislatore ovvero mediante meccanismi di aggiramento delle norme, siano tesi a procurare profitti indebiti e, ancor peggio, illeciti profitti e producano quale deprecabile risultato finale un danno sia per eventuali soggetti privati direttamente coinvolti nella fase della monetizzazione sia per lo stesso Erario, su cui graverebbe in ultima istanza il costo del riconoscimento di crediti non spettanti ovvero non esistenti.
La premessa generale rende evidente la necessità di individuare gli strumenti a disposizione della Polizia Giudiziaria, degli organi di accertamento tributario, del Pubblico Ministero e del Giudice penale (per quanto qui interessa) per fornire adeguati strumenti di tutela anche preventiva verso condotte di abuso penalmente rilevanti.
Si anticipa la conclusione: la fattispecie di cui all’art. 8 del D.lgs. n. 74 del 2000 risulta quella più calzante ed efficace rispetto allo scopo di fornire tutela penale in ipotesi di comportamenti abusivi e di frode finalizzati ad ottenere il riconoscimento di crediti non corrispondenti ad operazioni commerciali realmente realizzate.
Certamente false sono le fatture che, alla base, vengono emesse per giustificare la creazione del credito di imposta ove i lavori non sia stati eseguiti, in tutto o in parte, ovvero siano riferibili a soggetti diversi, secondo lo schema noto delle fatture oggettivamente o soggettivamente inesistenti in via totale o parziale.
La prova della falsità delle suddette fatture viene per lo più acquisita sulla base di indizi gravi precisi e concordanti:
- la creazione della società esecutrice dei lavori a breve distanza temporale dalla relativa ultimazione;
- l’emissione, in arco temporale breve, di fatture per lavorazioni ingenti sia negli importi che quanto alla tipologia e quantità di lavori eseguiti;
- la circostanza che i lavori risultino tutti conclusi alla medesima data ovvero asseverati dallo stesso tecnico, con atti recanti la medesima datazione;
- la carenza, in capo alla società asseritamente realizzatrice delle opere, di una effettiva struttura operativa per carenza totale di dipendenti, sede e azienda dimostrata anche attraverso accesso alle banche dati;
- la mancanza di fatturazione valevole a comprovare l’acquisto delle materie prime necessarie all’esecuzione dei lavori;
- l’inesistenza dei soggetti committenti ovvero la carenza di legittimazione in capo ai dichiaranti, per essere gli stessi estranei al novero dei soggetti legittimati ovvero deceduti in epoca non compatibile con le risultanze documentali.
Parimenti, la falsità delle fatture può essere provata attraverso sopralluoghi, acquisizione di rilevazioni fotografiche da fonti aperte che dimostrino, specie per talune lavorazioni che non possano che modificare lo stato esterno dei luoghi, che alcun intervento è stato realizzato.
Ed ancora, la prova può essere tratta da attività tecniche di intercettazione (esperibili in relazione agli elevati limiti edittali oggi previsti dal legislatore in relazione alle condotte di cui all’art. 8 del D.lgs. 74 del 2000).
Non ultime, le indagini sui flussi finanziari che possono fornire prova della falsità delle lavorazioni e della fraudolenza delle successive cessioni dei crediti di imposta: così ad esempio, verificando le movimentazioni delle somme ricavate dalle monetizzazioni, possono essere riscontrati flussi di ritorno di tali provviste che dagli ultimi cessionari rientrano nella disponibilità diretta o indiretta (tramite ad esempio prestanome o società schermo) dei soggetti autori della frode presupposta e da questi vengono eventualmente reimpiegate in attività economiche o produttive.
Certamente, nei casi richiamati sussiste la “finalità” che connota, nella previsione del legislatore, il delitto di emissione di fatture o documenti per operazioni inesistenti, ovvero la finalità di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, atteso che il credito di imposta generato è destinato ad essere detratto dal titolare ovvero ceduto a terzi con un’unica destinazione finale, ovvero quella della compensazione con debiti verso l’erario (sicché, infine, i crediti di imposta generati sono elettivamente destinati ad essere strumento di compensazione e, in ipotesi di superamento delle soglie di punibilità, corpo del reato di cui all’art. 10 quater del D.lgs. 74/00).
L’ipotesi che segue presenta invece ulteriori profili di criticità: si pensi al caso in cui il primo cessionario del credito di imposta relativo a lavori mai eseguiti proceda ad una ulteriore cessione del credito a soggetto compiacente, magari quale legale rappresentante di persona giuridica all’uopo costituita dal medesimo primo cessionario, priva di autonoma struttura operativa ovvero di mezzi e, in definitiva di provvista con cui pagare la cessione (che acquista pertanto “allo scoperto”), che inoltre si assegni il credito a un prezzo di particolare favore procedendo a registrare sul portale la relativa cessione lucrando, in ipotesi sul differenziale.
Occorre in questo caso interrogarsi circa la possibilità di ricondurre anche tale condotta (ovvero l’inserimento della cessione al portale da parte di soggetto, diverso dal cedente, consapevole della falsità del credito) ad un’ulteriore ipotesi di violazione dell’art. 8 D.lgs.. 74/00 (e non di mero post factum non punibile) in tutti i casi in cui, ad esempio, non sia possibile provare che lo stesso fosse ab initio concorrente negli illeciti presupposti (sicché non possa contestarsi un’ipotesi di concorso nel delitto di emissione di false fatturazioni). Incidentalmente, risulta opportuno considerare che l’ipotesi descritta risulta tanto più verificabile quante più siano le cessioni consentite del credito.
In ipotesi, la particolarità è costituita dalla circostanza che la falsità attiene all’oggetto della cessione del credito di imposta successiva alla prima, per essere inesistente il credito ceduto: occorre quindi verificare se sia possibile applicare la norma, dettata dal legislatore con riferimento alle falsità delle fatture (sottostanti), anche alla registrazione sul portale della cessione falsa per essere falso il credito di imposta sottostante.
A ben vedere, sia con l’art. 8 del D.lgs. n. 74 del 2000 che con le norme del medesimo testo normativo che contengono il quadro definitorio, il legislatore fornisce all’interprete strumenti per sanzionare anche tali comportamenti quale ipotesi di ulteriore violazione penal-tributaria, sempre riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 8 del D.lgs. n. 74 del 2000.
L’art. 1 comma 1 lett. a) del decreto legislativo n. 74 citato, recita, infatti: “per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi valore analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”.
La Corte di Cassazione (Cass. Sez. 3, sent. n. 32088 del 22/03/2023 Ud. Rv. 284900), chiamata a pronunciarsi su specifico motivo di ricorso difensivo, si è recentemente soffermata sulle rispettive nozioni di fattura e di documento avente valore analogo alle fatture. Il caso concreto aveva riguardo a documenti, diversi dalle fatture, valutati come strettamente contrattuali in rigone del titolo e del contenuto (nel caso di specie infatti la Corte ha escluso che l'oggetto materiale del reato potesse essere costituito da una scrittura privata relativa a una "consulenza tecnica senza vincoli di subordinazione per ricerca di mercato, rapporti con i clienti e fornitori") . In tale occasione il giudice di legittimità ha in primo luogo argomentato circa taluni requisiti essenziali della fattura, di poi parimenti affrontando la diversa questione della individuazione del “documento avente valore analogo”. Quanto alla fattura, la motivazione espressamente giunge ad elencarne taluni requisiti irrinunciabili, sulla base dello specifico richiamo alla disposizione tributaria di cui all’art. 21 del DPR 633 del 1972, sicché si considera fattura il documento che contenga le seguenti indicazioni:
a) la data di emissione;
b) il numero progressivo che la identifichi in modo univoco;
c) ditta, denominazione o ragione sociale, nome e cognome, residenza o domicilio del soggetto cedente o prestatore, del rappresentante fiscale nonché ubicazione della stabile organizzazione per i soggetti non residenti;
d) il numero di partita IVA del soggetto cedente o prestatore;
e) ditta, denominazione o ragione sociale, nome e cognome, residenza o domicilio del soggetto cessionario o committente, del rappresentante fiscale nonché ubicazione della stabile organizzazione per i soggetti non residenti;
f) il numero di partita IVA del soggetto cessionario o committente ovvero, in caso di soggetto passivo stabilito in un altro Stato membro dell'Unione europea, numero di identificazione IVA attribuito dallo Stato membro di stabilimento; nel caso in cui il cessionario o committente residente o domiciliato nel territorio dello Stato non agisce nell'esercizio d'impresa, arte o professione, codice fiscale;
g) natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell'operazione;
g-bis) la data in cui è effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi ovvero data in cui è corrisposto in tutto o in parte il corrispettivo, sempreché' tale data sia diversa dalla data di emissione della fattura;
h) i corrispettivi ed altri dati necessari per la determinazione della base imponibile, compresi quelli relativi ai beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono di cui all'articolo 15, primo comma, n. 2; i) i corrispettivi relativi agli altri beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono;
I) aliquota, ammontare dell'imposta e dell'imponibile con arrotondamento al centesimo di euro;
m) la data della prima immatricolazione o iscrizione in pubblici registri e numero dei chilometri percorsi, delle ore navigate o delle ore volate, se trattasi di cessione intracomunitaria di mezzi di trasporto nuovi, di cui all'articolo 38, comma 4, del decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427;
n) l'annotazione che la stessa è emessa, per conto del cedente o prestatore, dal cessionario o committente ovvero da un terzo.
Tali requisiti formali, tornando al caso che ci occupa, senz’altro risultano soddisfatti con riferimento alle fatture relative alle lavorazioni falsamente dedotte quale base per la creazione del bonus.
Occorre piuttosto verificare se la contestazione del delitto di cui all’art. 8 più volte citato possa essere invece elevata con riferimento all’inserimento, nel portale delle cessioni, del credito così generato e tale verifica va fatta utilizzando, all’evidenza, la diversa categoria del “documento avente valore analogo” alla fattura, nozione per la quale si impone un’attenta verifica al fine di evitare ogni interpretazione che non sia conforme al principio di tassatività.
Il dato normativo, fornisce comunque all’interprete uno criterio di orientamento nella selezione, tra tutti i documenti possibili, di quelli che possa ritenersi abbiano valore analogo alla fatture: il legislatore, infatti, non ha espressamente riferito il giudizio di equivalenza a criteri formali di redazione del documento(quali l’identità fiscale dell’emittente il numero d’ordine di emissione, l’imponibile e l’IVA) ed ha piuttosto avuto riguardo al “valore analogo in base alle norme tributarie”.
La disposizione legislativa risulta quindi, orientata verso un criterio sostanzialistico: condotta penalmente rilevante è quella di emissione o utilizzo non solo della fattura ma anche di un “documento” di “analogo valore secondo la legge tributaria”.
Procediamo con ordine: dobbiamo verificare in prima istanza la nozione di documento, non esplicitata né dal legislatore nel D. lgs. 74/2000 né altrimenti contenuta nei codici penali e civili e nelle discipline processuali corrispondenti. Pare possa condividersi una nozione di documento, quale “cosa rappresentativa di un fatto giuridicamente rilevante”: nozione senz’altro ampia ed idonea a ricomprendere il documento avente natura informatica.
In sede di successiva approssimazione, si osserva che la dimensione informatica del documento costituito nel caso di specie dall’inserimento della cessione nella apposita piattaforma, non costituisce una variabile che muta la natura giuridica dell’atto e la valenza probatoria dell’inserimento: costituisce, in altri termini, un elemento indifferente.
Occorre poi soffermarsi sull’ulteriore requisito normativo, ovvero che il documento debba avere valore analogo alla fattura secondo le leggi tributarie: ragionando in tema di comunicazione attraverso il portale dei crediti della avvenuta cessione, e tenendo in debito conto la previsione di cui all’art. 122 bis del decreto Rilancio sopra citato, risulta ragionevole optare per un autonomo riconoscimento di quel documento informatico quale documento avente valore analogo alla fattura in senso proprio, considerando che ove la comunicazione superi il vaglio imposto dal legislatore e svolto dall’Agenzia delle Entrate, la stessa comporta il riconoscimento di un credito di imposta “monetizzabile”, ove previsto, con successive cessioni o comunque utilizzabile per le compensazioni. In sintesi, l’inserimento al portale documenta una transazione commerciale avente ad oggetto il credito di imposta che, superata la verifica spettante all’Agenzia delle Entrate, consolida i propri effetti. Il citato art. 122 bis del decreto Rilancio costituirebbe proprio la norma tributaria che attribuisce al documento informatico (inserimento) un valore analogo alle fatture, documentando una transazione relativa al credito di imposta.
Nel rispetto del principio di tassatività, il legislatore consente, in conclusione, all’interprete di individuare il limite interno della tutela penale con riferimento ai documenti (diversi evidentemente dalla fattura) di valore analogo ad essa: ed allora non può dubitarsi che anche la condotta di l’inserimento nel portale del credito ceduto (inesistente per inesistenza soggettiva o oggettiva dell’operazione in essa dedotta) costituisca condotta di emissione di un documento “informatico” il cui valore è quello di registrare e rendere opponibile al creditore ceduto il mutamento della titolarità del credito di imposta. Ne discende la possibilità di contestare, nei confronti di chi fraudolentemente proceda all’inserimento consapevole nella piattaforma dell’Agenzia delle Entrate di cessioni relative a crediti inesistenti (totalmente o parzialmente sia oggettivamente che soggettivamente), il delitto di cui all’art. 8 D.lgs. n. 74 del 2000.
La circostanza che la cessione riguardi un credito di imposta varrebbe poi a semplificare la valutazione di equivalenza, poiché l’inserimento della cessione nel portale costituisce al contempo prova del negotium costituito dalla cessione del credito e prova dell’ammontare e della spettanza del credito di imposta. L’unica differenza tra questo documento informatico e la fattura (che può comunque essere a sua volta elettronica) sarebbe quella di non indicare il valore imponibile poiché ciò che si trasferisce è “moneta tributaria”.
L’opzione interpretativa sopra delineata consentirebbe di valutare ogni singola cessione, connotata dai necessari requisiti oggettivi e soggettivi (in termini di consapevolezza della inesistenza del credito ceduto) quali distinte ipotesi di emissione di false fatture a carico dei diversi soggetti persone fisiche coinvolte.
La contestazione, nelle ipotesi che ci occupano, del delitto di cui all’art. 8 del D.lgs. 74 del 2000, comporta poi l’applicabilità della previsione di cui all’art. 12- bis del medesimo D.lgs., in ragione del quale “Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto.”.
4. La fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p.
Occorre comunque verificare l’applicabilità, in ipotesi di creazione e successiva cartolarizzazione dei crediti di imposta falsi, della fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p. (Indebita percezione di erogazioni pubbliche).
La fattispecie, collocata nell’ambito dei reati contro la pubblica amministrazione, è normativamente costruita come reato comune che sanziona, fuori dai casi di truffa ex art, 640 bis c.p., tutti i comportamenti decettivi attraverso i quali il soggetto attivo del reato consegua indebitamente “contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee…”.
Si deve pertanto indagare se i comportamenti decettivi costituiti dalla creazione e cessione di crediti di imposta non corrispondenti ad operazioni reali siano riconducibili all’ambito applicativo di questa fattispecie incriminatrice, peraltro valutata come concretamente applicabile in taluni casi quali ad esempio quello oggetto della sentenza del 13 giugno 2023 della Corte di Cassazione, sez. 2, n. 37138, relativo al caso di provvedimento cautelare reale adottato dal giudice per le indagini preliminari previa riqualificazione del fatto, originariamente contestato dal Pubblico Ministero come violazione dell’art. 640 comma secondo n. 1 c.p., in quello di cui all’art. 316 ter c.p. (cfr. Cass. Sez. 2, 13 giugno 2023 dep. 12 settembre n. 37138).
Il primo spunto di riflessione che si ritiene di formulare al riguardo è costituito dalla circostanza che la fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p., sebbene corrispondente al fatto quanto alla dimensione finale, in termini di conseguimento di un vantaggio in capo al soggetto che attivi il procedimento funzionale al riconoscimento del credito di imposta, risulti costruita dal legislatore con rifermento ai casi in cui vi sia un trasferimento di ricchezza dall’ente al soggetto in termini positivi: la casistica applicativa della fattispecie riguarda infatti emolumenti non dovuti, pensioni non spettanti (cfr. Cass. Sez. 6 - Sentenza n. 9661 del 03/02/2022 Ud. (dep. 21/03/2022) Rv. 282942), finanziamenti assistiti e talune specifiche ipotesi di bonus (ad esempio il bonus docente, cfr. Cass. Sez 6 - Sentenza n. 30770 del 12/07/2023 Rv. 284968) che comunque prevedono sempre la costituzione di una provvista vincolata quanto ai beni con essa acquistabili. Detto altrimenti, la fattispecie risulta costruita con riferimento ai casi in cui via sia trasferimento di ricchezza (anche mediante rimborso) dal soggetto erogante al beneficiario, che ne ottenga la disponibilità mediante condotte artificiose generative di errore quanto alla spettanza della provvista. Il dato letterale sembra quindi non del tutto corrispondente allo schema dei crediti di imposta, che al beneficiario, come sopra detto, trasferiscono una moneta fiscale e non una ricchezza in senso proprio, sebbene anche tale ipotesi possa essere ricondotta all’alveo della citata disposizione sub specie “altre erogazioni”.
Nella sentenza sopra citata (Cass. Sez. 2, Sent. N. 37138 del 2023) Corte di legittimità ha ritenuto che "Il reato di cui all'art.316-ter c.p. si consuma nel luogo in cui il soggetto pubblico erogante dispone l'accredito dei contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre provvidenze in favore di chi ne abbia indebitamente fatto richiesta, perché con tale atto si verifica la dispersione del denaro pubblico, e non in quello in cui avviene la materiale apprensione degli incentivi (Sez.6, n. 9060 del 30/11/2022, GSE S.p.a. dep.02/03/2023, Rv. 284336), è evidente che con il riconoscimento del credito di imposta, immediatamente monetizzabile, il reato è già consumato in quanto l'ente erogatore non è più nella possibilità di recuperare quanto erogato ed il soggetto beneficiario ha già avuto l'accrescimento del proprio patrimonio;…”.
La Corte ritiene quindi configurabile l’ipotesi di cui all’art. 316 ter c.p. con riferimento allo specifico momento in cui l’amministrazione preposta effettui il “riconoscimento” del credito, cui consegue l’immediata possibilità di trasformarlo in moneta. Tale ipotesi ermeneutica pone poi in via successiva ulteriori questioni in tema di concorso di reati laddove all’emissione delle false fatture, all’inserimento della cessione di crediti di imposta falsi nel portale segua effettivamente il riconoscimento del credito monetizzabile, giungendo a ritenere che al fatto siano astrattamente applicabili le diverse norme penali valutando il “riconoscimento” come elemento che qualifica l’ulteriore disvalore del fatto in termini di reato contro la pubblica amministrazione.
Peraltro, la attuale formulazione dell’art. 122 bis del Decreto Rilancio, non prevede un “atto di riconoscimento” in senso proprio: la norma infatti prevede che l’Agenzia delle Entrate possa entro cinque giorni sospendere l’efficacia della cessione procedendo ad ulteriori approfondimenti e che, ove questi confermino le ragioni di rischio individuate, dichiari inefficace la cessione (che si considera non effettuata) dando notizia all’interessato dell’esito negativo del controllo. Ove invece non ravvisi ragioni di criticità o le stesse non trovino conferma nei successivi approfondimenti, l’Agenzia non deve provvedere ad emettere alcun atto e gli effetti della cessione si producono per effetto della comunicazione già svolta. Questa disciplina sembra quindi spostare gli effetti della cessione al mero inserimento, senza che sia necessario un atto di riconoscimento: piuttosto, solo un atto di rifiuto potrebbe paralizzare gli effetti della cessione inserita.
Gli argomenti che precedono suggerirebbero, quindi, particolare cautela nel ricondurre le ipotesi che interessano alla fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p., soprattutto in ragione della circostanza che la norma non copre la “speciale” finalità delle condotte di creazione di falsi crediti di imposta, condotte tutte orientate e connotate dal sottostante dolo di evasione conseguente alla finalità elettiva di tutti i crediti di imposta, ovvero quella, come detto, di essere strumenti di pagamento di debiti tributari mediante compensazione.
5. La riconducibilità dei fatti all’ipotesi di truffa, anche ai sensi degli artt. 640 comma primo e cpv e 640 bis c.p.
Altra norma utilizzata ed astrattamente applicabile nei casi di frode connessi alla creazione di falsi crediti di imposta è quella che tutela la dimensione strettamente patrimoniale del fenomeno attraverso la riconduzione dei fatti di frode all’archetipo di cui all’art. 640 c.p.
Va detto che la fattispecie, sia nella declinazione aggravata ai sensi del capoverso dell’art. 640 c.p., sia avuto riguardo alla più grave ipotesi di cui all’art. 640 bis c.p., risultano astrattamente suscettibili di ricomprendere anche le condotte artificiose di creazione di falsi crediti di imposta e di inserimento dei medesimi nel portale, laddove l’induzione in errore sarebbe quella dell’Agenzia delle Entrate (che peraltro non compie un atto dispositivo in senso stresso), tentata o consumata in relazione alla sospensione o meno dell’efficacia dell’inserimento dei crediti nel portale. Tuttavia, anche in questo caso, posto che la sorte finale dei crediti di imposta è quella della compensazione con debiti tributari risulterebbe prevalente, in tutte le condotte sopra descritte, la finalità di evasione che rende le norme penal-tributarie applicabili per l’esistenza di profili di specialità ex art. 15 c.p. in relazione all’archetipo costituito dalla norma penale incriminatrice in tema di truffa.
Viceversa, la dimensione patrimoniale dell’offesa risulta presente e in concreto riconducibile alla fattispecie incriminatrice della truffa con riferimento alle condotte di monetizzazione commesse in danno di persone fisiche private ovvero persone giuridiche anche di rilievo pubblicistico (nel quale caso potrà operare la più grave previsione sanzionatoria di cui all’art. 640 bis c.p. cui consegue altresì l’applicabilità della disciplina del sequestro e della confisca anche per equivalente ex art. 240 bis c.p.), che rivestano la posizione di cessionari dei predetti crediti, in tale veste autori di un esborso monetario corrispettivo della cessione medesima. Sicché, nei casi di monetizzazione ad opera di terzi cessionari di buona fede, non concorrenti nel delitto di false fatturazioni presupposto della fraudolenta cessione, i cedenti ed i loro concorrenti potranno incorrere anche in responsabilità per truffa, procedibile a querela se commessa ai danni di soggetto privato anche ove aggravata dall’avere i fatti cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante gravità (ex art. 61 n. 7 c.p.).
Tali cessionari, meri danneggiati dal reato di false fatturazioni, sono invece persone offese del reato di truffa in ragione dell’esborso monetario sostenuto e, a rigore, dovrebbero essere loro destinati eventuali recuperi eseguiti attraverso l’esecuzione di provvedimenti di sequestro.
6. Il sequestro dei crediti e l’opponibilità ai terzi: riflessioni in tema di confisca
Si tratta, forse, della questione di maggiore complessità da affrontare con grande cautela dovendosi in questa ipotesi valutare comparativamente le esigenze preventive e sanzionatorie presidiate dalle norme sul sequestro e sulla confisca, da un alto, e dall’altro quelle di tutela del patrimonio dei terzi estranei al reato (in ipotesi i cessionari i cessionari dei crediti di imposta non realmente esistenti).
È infatti ben possibile l’adozione, in relazione a detti crediti di imposta (la cui materialità consta proprio nell’inserimento del credito nel portale delle cessioni) di provvedimento di sequestro preventivo, tanto ex art. 321 comma 1 c.p.p. che ai sensi del successivo comma 2.
Partiamo dalla previsione di cui al comma 1 del citato art. 321 c.p.p., che ammette l’adozione del sequestro preventivo quando vi sia pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso, ovvero agevolare la commissione di altri reati. Va premesso che il legame pertinenziale tra la cosa e il reato deve intendersi quale collegamento che comprende non solo le cose sulle quali o a mezzo delle quali il retro è stato commesso, ma anche quelle che ne costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto ed altresì quelle legate anche solo indirettamente alla fattispecie criminosa (con la sola esclusione di relazioni meramente occasionali tra la res e l’illecito penale – cfr. sul punto Cass., Sez. 5 Sent. N. 26444 del 28 maggio 2014 Rv 259850)
In primo luogo, occorre valutare se il credito di imposta generato all’esito di operazioni fraudolente costituisca cosa pertinente al reato per cui si procede. Anche in questo caso la riposta è positiva, sia che si valuti la pertinenzialità con riferimento all’ipotesi di reato di cui all’art. 8 del D.lgs. 74/00 sia che la si consideri con riferimento all’ipotesi ex art. 316 ter c.p. sia infine in relazione all’ipotesi di cui all’art. 640 cpv o 640 bis c.p., posto che con riferimento a tutte le fattispecie suddette i crediti costituiscono il prodotto dei reati ipotizzati
Vale sul punto richiamare l’insegnamento della Corte di Cassazione che così definisce le differenti nozioni di prodotto, profitto e prezzo del reato: “… In sintesi, il prodotto è il risultato dell'azione criminosa, ovvero la cosa materiale creata, trasformata o acquisita mediante l'attività delittuosa, che con quest'ultima abbia un legame diretto e immediato; si tratta del frutto diretto ed immediato dell'attività criminosa, ossia del risultato ottenuto direttamente con l'attività illecita. Il profitto comporta invece un accrescimento del patrimonio dell'autore del reato ottenuto attraverso la acquisizione la creazione o la trasformazione di cose suscettibili di valutazione economica, corrispondente all'intero valore delle cose ottenute attraverso la condotta criminosa (vantaggio economico di diretta derivazione del reato, vedi Sez. U, Sentenza n. 31617 del 26/06/2015, Lucci Rv. 264436 - 01: "Il profitto del reato si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell'illecito."). Prezzo, infine, è il compenso dato o promesso per indurre istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato, quale fattore che incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l'interessato a commettere il reato.” (cfr. Cass., sez. 2, Sent. N. 37138 del 13 giugno 2023 -dep. 12 settembre 2023).
Parimenti, non vi sono dubbi quanto alla possibilità di adottare un provvedimento di sequestro per pertinenzialità dei crediti di imposta generati attraverso schemi fraudolenti anche con riferimento all’ulteriore requisito previsto dalla legge: la libera disponibilità di tali crediti aggrava le conseguenze del reato, poiché consente al titolare dello stesso di optare per l’utilizzo in compensazione ovvero per la successiva monetizzazione, andando così a produrre ulteriori effetti comunque dannosi o per l’Erario (cui infine si imputeranno gli effetti delle compensazioni in ragione delle quali non introiterà i tributi spettanti) o per i terzi cessionari che avranno monetizzato l’importo delle cessioni.
Trattandosi di sequestro fondato sul legame di pertinenzialità tra res e reato, il vincolo suddetto consente il sequestro a prescindere dalla verifica della condizione soggettiva del terzo che sia venuto nella disponibilità della cosa, cui il sequestro risulterebbe quindi opponibile a prescindere dalla condizione di buona o mala fede (cfr. sul punto Cass Sez. 3, Sent. n. 40865 del 21/09/2022 Cc. (dep. 28/10/2022) Rv. 283701 e Sez. 3 Sent. n. 40480 del 2010 Rv. 248741, nonché Cass. Sez. 2 sentenza n. 28306 del 2019 Rv. 276660).
Sotto altro profilo, il sequestro preventivo dei crediti di imposta generati da false fatturazioni è comunque esperibile anche ai sensi del comma 2 dell’art. 321 c.p.p., quale sequestro funzionale alla confisca. Nella definizione codicistica, la confisca (e quindi anche il sequestro preventivo ad essa funzionale) è prevista con riferimento alle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne costituiscono il prodotto o il profitto (art. 240 comma primo c.p.).
Una speciale declinazione della confisca (obbligatoria) è, inoltre, prevista in materia penal-tributaria dal citato art. 12 bis del D.lgs. 74 del 2000, che da un lato impone la confisca del prodotto e del profitto dei reati tributari, dall’altro ne estende l’operatività ai beni (diversi da prodotto e profitto) di identico valore ma conferma, in linea con la previsione penale sostanziale, il limite consistente nella inopponibilità della confisca al terzo estraneo al reato (“salvo che appartengano a persona estranea al reato”). Peraltro, la prospettiva non muta anche ove si consideri l’ipotesi di emissione di documento avente valore analogo alla fattura costituita dall’inserimento nel portale delle cessioni aventi ad oggetto falsi crediti di imposta. Quanto, poi, all’ipotesi che si riconducano i fatti all’ambito applicativo della fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p., vale quanto disposto dal successivo art. 322-ter c.p., che prevede l’obbligatoria confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, anche per equivalente, con analogo limite costituito dall’appartenenza del bene a terzi estranei al reato.
Non potrebbe esservi spazio per l’adozione del sequestro preventivo, né ai sensi del comma 1 né ai sensi del comma 2 dell’art. 321 c.p. ove dovesse ritenersi che il terzo, una volta dimostrata la propria buona fede, abbia acquistato “in via definitiva” (cfr. sul punto Cass. Sez. 2, sentenza n. 27895 del 23/06/2022 – rv 283635 relativo però al caso di appropriazione indebita di un veicolo oggetto di successiva alienazione a terzo di buona fede) un bene immune da tutti i vizi originari, non più intrinsecamente pericoloso (quale sarebbe ove si ritenesse prevalente la natura di moneta tributaria contraffatta, la cui detenzione o alienazione è vietata dalla legge penale). e che lo stesso possa poi utilizzarlo in compensazione. Tale conclusione sarebbe possibile ipotizzando, quale premessa, che la cessione del credito di imposta (anche se fraudolentemente creato) dia luogo ad una “novazione totale” del credito in essa dedotto, sicché il terzo di buona fede cessionario del credito acquisti in sostanza a titolo originario un bene (il credito) completamente diverso dall’originaria detrazione di imposta spettante al cedente, trasformando in lecita, in ragione della propria condizione soggettiva, la stessa natura intrinsecamente illecita del credito ceduto.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha compiutamente ricostruito tutti gli indici normativi contenuti nel decreto rilancio che ostano ad una interpretazione per la quale una volta che l’originario titolare del diritto alla detrazione abbia rinunciato a tale diritto, in capo al cessionario sorgerebbe un credito del tutto nuovo e diverso, emendato da ogni originario vizio (sinanche quello della contrarietà a norme imperative del comportamento fonte del fraudolento diritto alla detrazione poi ceduto).
In particolare, la Corte di Cassazione, (cfr. Cass. Sez. 3, sentenza n. 40865 del 21/09/2022 Cc. Rv 283701), ha chiaramente ritenuto che alla teoria dell’acquisto del credito di imposta a titolo originario in capo al cessionario osti, anzitutto, il chiaro tenore dell’art. 121 comma, del più volte citato Decreto Rilancio (D.lgs. n. 34 del 2020).
La norma, infatti, prevede (art. 121 citato, comma 3) che "I crediti d'imposta di cui al presente articolo sono utilizzati in compensazione ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, sulla base delle rate residue di detrazione non fruite. Il credito d'imposta è usufruito con la stessa ripartizione in quote annuali con la quale sarebbe stata utilizzata la detrazione".
Ove si fosse trattato, nelle intenzioni del legislatore, di un nuovo diritto di credito di imposta totalmente slegato dal diritto alla detrazione, non avrebbe avuto fondamento la previsione che lo stesso debba essere esercitato con le medesime modalità di esercizio proprie del diritto alla detrazione (rate residue e ripartizione in quote annuali).
D’altronde, come sopra detto, l’originario testo dell’art. 121 comma 1 lett. b) del Decreto Rilancio nel riferirsi al credito di imposta, lo faceva definendolo come “trasformazione” dell’originario diritto alla detrazione, sostantivo assolutamente deponente nel senso di una derivazione del credito di imposta ceduto dalla detrazione originariamente spettante
Analogamente, neppure possono ritenersi decisive in senso contrario le specifiche disposizioni dei successivi commi 4, 5 e 6 dell’art. 121 citato la cui portata precettiva si rivolge propriamente alla materia tributaria, prevedendo i poteri spettanti ai soggetti preposti al controllo con specifico rinvio al DPR 600 del 29 settembre 1973, l’ambito di responsabilità del cedente (comma 5) e l’eventuale responsabilità del cessionario dettando al contempo specifici presupposti per la responsabilità solidale del fornitore e del cessionario (comma 6) che ha applicato lo sconto e dei cessionari per il pagamento di quanto debba essere recuperato.
Parimenti, deve ritenersi che sia riferibile alla sola materia tributaria la previsione di cui al comma 6bis del medesimo art. 121 del decreto Rilancio, norma che mira a far salva la posizione del cessionari che, per il possesso di idonea documentazione (titolo abilitativo edilizio, notifica preliminare dell’avvio dei lavori, visure catastali, fatture di spesa, asseverazioni, delibere condominiali in caso di interventi su parti comuni documentazione tecnica per interventi di riqualificazione energetica, visto di conformità della documentazione, attestazione di regolarità firmata dal cedente, documentazione relativa ad interventi di riduzione del rischio sismico e contratti di appalto) siano fondatamente in una posizione di assoluta non partecipazione e che pertanto non possono essere ritenuti responsabili in via solidale, sempre nella competente sede tributaria. Ebbene anche questa disposizione si limita ad eccettuare tali soggetti dal concorso nella violazione (tributaria) che determina la responsabilità in solido del fornitore che ha applicato lo sconto e dei cessionari: non si tratterebbe, neppure in questo caso, di norma che può essere utilizzata quale argomento per ritenere che il credito del cessionario sorga in via autonoma e originaria e quindi possa operare quale fondamento di una disciplina che possa comportare l’inapplicabilità delle disposizioni dettate in materia di sequestro dal codice penale e di procedura penale.
Non sembra possa trarsi diversa conclusione neppure alla luce della previsione di cui all’art. 28 ter del D.L.n. 4 del 2022 convertito con modificazioni dalla L. 28 marzo 2022, n. 25 per il quale “1. L'utilizzo dei crediti d'imposta di cui agli articoli 121 e 122 del decreto-legge n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 77 del 2020, nel caso in cui tali crediti siano oggetto di sequestro disposto dall'autorità giudiziaria, può avvenire, una volta cessati gli effetti del provvedimento di sequestro, entro i termini di cui agli articoli 121, comma 3, e 122, comma 3, del medesimo decreto-legge n. 34 del 2020, aumentati di un periodo pari alla durata del sequestro medesimo, fermo restando il rispetto del limite annuale di utilizzo dei predetti crediti d'imposta previsto dalle richiamate disposizioni. Per la medesima durata, restano fermi gli ordinari poteri di controllo esercitabili dall'Amministrazione finanziaria nei confronti dei soggetti che hanno esercitato le opzioni di cui agli articoli 121 e 122 del medesimo decreto-legge n. 34 del 2020. 2. L'Agenzia delle entrate effettua il monitoraggio sull'utilizzo del credito d'imposta nei casi di cui al comma 1 e comunica i relativi dati al Ministero dell'economia e delle finanze ai fini di quanto previsto dall'articolo 17, comma 13, della legge 31 dicembre 2009, n. 196.”
Anche questa volta si tratta di norma che disciplina l’utilizzo dei crediti una volta che gli stessi siano stati dissequestrati, non anche di una previsione circa la non sequestrabilità dei medesimi.
Poste tali premesse, si pensi all’ipotesi in cui, una volta intervenuto il sequestro dei crediti generati da operazioni fraudolente, il cessionario, ottenuto lo svincolo dei crediti in ragione della propria estraneità e buona fede e dei limiti posti alla confisca, proceda ad una successiva cessione e/o all’utilizzo di crediti generati da fatture per operazioni inesistenti: l’interrogativo che occorre porsi è se il successivo utilizzo sia comunque lecito, se invece possa generare responsabilità per violazione dell’art. 10 quater del D.lgs. 74/2000 se utilizzato in compensazione.
Occorre inoltre riflettere sulla sorte dei crediti in sequestro una volta concluso il giudizio e disposta la confisca che, come si è detto, viene disciplinata in termini di confisca obbligatoria dal legislatore sia con riferimento al delitto di emissione di fatture o altri documenti aventi analogo valore che con riferimento al delitto di cui all’art. 316 ter c.p.: in entrambi i casi, come detto, l’operatività della confisca incontra un limite insuperabile ove la cosa da confiscare appartenga ad un soggetto terzo estraneo al reato. Nella declinazione giurisprudenziale, terzo estraneo al reato deve ritenersi colui che non partecipi in alcun modo alla commissione del reato o all'utilizzazione dei profitti derivati: in particolare, l'estraneità al reato non deriva in modo automatico dal fatto che il proprietario della cosa non abbia subìto condanna, dovendosi considerare effettivamente estraneo soltanto chi - indipendentemente dall'essere stato o meno sottoposto a procedimento penale - risulti di fatto non aver avuto alcun collegamento con l'azione criminosa.
Sotto altro profilo la giurisprudenza ha ritenuto che è persona estranea al reato il soggetto che non abbia ricavato vantaggi ed utilità dal reato e che sia in buona fede, non potendo conoscere - con l'uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta - l'utilizzo del bene per fini illeciti (Cass., Sez. 3, 16.11-1.12.2022, n. 45558; Cass., Sez. 3, 17.2.2017, n. 29586). In via di ulteriore considerazione, sempre la Corte di Cassazione ha ritenuto che in caso di confisca obbligatoria, il terzo che invochi la restituzione delle cose sequestrate qualificandosi come proprietario o titolare di altro diritto reale è tenuto a provare i fatti costitutivi della sua pretesa e, in particolare, oltre alla titolarità del diritto vantato, anche l'estraneità al reato e la buona fede, intesa come assenza di condizioni in grado di configurare a suo carico un qualsivoglia addebito di negligenza da cui sia derivata la possibilità dell'uso illecito del bene (Cass., Sez. 3, 17.1.2013, n. 9579 Rv 254749).
A fronte di tali premesse, dirimente diviene quindi individuare gli eventuali indici rivelatori della condizione soggettiva di buona o mala fede del terzo che sia entrato nella disponibilità del credito di imposta prodotto del reato, scongiurando il rischio di tutelare interessi economici di soggetti che non siano in realtà ad esso del tutto estranei: indizi in tale senso possono trarsi dalle tempistiche delle cessioni, dall’esame dei flussi finanziari sottostanti e dalla ricostruzioni di legami particolari tra i soggetti ovvero dall’entità dei corrispettivi pattuiti (particolarmente convenienti), dalla completezza della documentazione a supporto.
Deve però anche tenersi in debito conto quella giurisprudenza citata (Cass. pen. Sez. 3 Sent., 28/02/2013, n. 9579 -Rv. 254749) che fonda la buona fede del terzo anche sulla misura di un parametro di “diligenza” da questi tenuta: vero è che le modifiche introdotte dal legislatore all’originario testo dell’art. 121 del Decreto Rilancio hanno rafforzato gli oneri documentali posti a carico di chi intenda esercitare le opzioni di legge alternative alla detrazione diretta, prevedendo che l’originario titolare del diritto alla detrazione debba in tali ipotesi munirsi di visti di conformità e di asseverazioni sicché il cessionario che abbia ragionevolmente confidato nella genuinità di tali evidenze documentali avrebbe maggior agio a dimostrare la propria buona fede ed estraneità al reato commesso. Diverso discorso potrebbe, però, farsi con riferimento ai crediti movimentati sotto la vigenza dell’originaria formulazione della norma, quando ancora tali oneri documentali non erano previsti quali requisiti di legittimità della procedura di cessione.
Certamente, una volta conclusa la vicenda processuale, ove l’opzione interpretativa prescelta sia nel senso non solo della inefficacia della cessione del credito ma altresì della confisca opponibile al terzo, resta impregiudicata l’esperibilità da parte del cessionario che abbia subito danno di rimedi ripristinatori dell’integrità del proprio patrimonio ed è ovviamente legittimato ad esperire apposite azioni civili, anche mediante costituzione di parte nel processo penale (trattandosi di danneggiato da reato quanto alle ipotesi di cui all’art. 8 e/o 10 quater del D.lgs. 74 del 2000 ed anche con riferimento alla diversa ipotesi di cui all’art. 316 ter c.p. - cfr. Cass. Sez. 6, Sentenza n. 20847 del 21/05/2010 Rv. 247390).
Peraltro, solo una soluzione interpretativa (o normativa) che comportasse comunque un divieto di successivo utilizzo dei falsi crediti anche da parte dei terzi acquirenti di buona fede terrebbe indenne l’Erario dagli effetti negativi del successivo utilizzo in compensazione di crediti non fondati su operazioni reali: al contempo, tale soluzione negativa produrrebbe effetti di rilevante impatto sul patrimonio dei soggetti cessionari non concorrenti nel reato e comunque ignari, al momento dell’acquisto, della provenienza da delitto dei crediti acquistati.
7. Contabilizzazione dei crediti generati da operazioni fraudolente
Il tema offre all’interprete una serie di spunti di riflessione.
Si vuole qui fare cenno del problema della sorte contabile dei crediti provento di operazioni fraudolente ceduti a terzi di mala fede e della sorte altresì dei crediti ceduti in favore di terzi di buona fede volta che anche questi ultimi siano divenuti consapevole della relativa provenienza da delitto. Si tratta di questione diversa da quella relativa alla utilizzabilità in dichiarazione annuale ovvero per le compensazioni (posto che per tali casi l’utilizzo successivo alla conoscenza della provenienza da reato per come sopra detto in astratto potrebbe comportare profili di specifica responsabilità penale): occorre piuttosto verificare se il soggetto (ad esempio una società di capitali) che abbia acquisito questi crediti e che sia obbligato per legge a tenere una contabilità e che fosse ab origine consapevole della provenienza da reato ovvero ne sia venuto a conoscenza all’esito della adozione di provvedimenti giurisdizionali ovvero di natura amministrativa possa inserire tali crediti nella propria contabilità e se debba valutarli come componente dell’attivo, ovvero svalutarli o, infine portarli a “perdita”.
Sul punto deve richiamarsi la previsione di cui all’OIC 15: come noto, il d. lgs. 38 del 2015 prevede che L’Organismo Italiano di Contabilità, istituto nazionale per i principi contabili tra l’altro emani i principi contabili nazionali, ispirati alla migliore prassi operativa, per la redazione dei bilanci secondo le disposizioni del codice civile. L’OIC 15 è specificatamente destinato a disciplinare i principi che presiedono alla contabilizzazione dei crediti: in particolare, al punto 13 del paragrafo dedicato alle definizioni, descrive la nozione di svalutazione e quella di perdita come segue:
Nell’ipotesi che interessa, ove si opti per una interpretazione delle norme vigenti nel senso che le stesse escludano il successivo utilizzo dei crediti tributari generati da operazioni di frode, pur se acquistati in buona fede, il credito tributario originato da operazioni fraudolente del tipo descritto, ove se ne accerti la non recuperabilità, andrà, pertanto, in conformità al principio citato e, più in generale, nel rispetto dei principi normativi che presiedono la materia (art. art. 2423 c.c., per il quale “Il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell'esercizio.”) non già meramente svalutato, ma censito come credito non più recuperabile ed anzi inesistente con ogni conseguente contabilizzazione come perdita.
Va comunque valutata altresì la necessità o meno che sia intervenuto un accertamento definitivo circa la non recuperabilità: tale sarebbe una eventuale confisca disposta in via definitiva anche ove il credito sia collocato nel patrimonio del cessionario. Sino all’adozione di provvedimenti definitivi, occorrerà comunque fornire adeguata rappresentazione contabile delle conseguenze di un provvedimento che incida sulla utilizzabilità del credito di imposta acquisito.
Ne discende ogni opportuna valutazione circa le conseguenze di tale contabilizzazione, posto che da un lato l’entità delle perdite produce inevitabili riflessi sugli equilibri di bilancio, dall’altro occorre anche attentamente valutare il penale rilievo di contabilizzazioni non conformi all’effettiva esigibilità dei crediti di imposta provento di condotte artificiose (quantomeno sotto il profilo dell’eventuale sussistenza di ipotesi di condotte penalmente rilevanti ex artt. 2621 e 2622 c.c.)
8. Conclusioni
Gli strumenti penali potenzialmente applicabili alle ipotesi di illeciti correlati alla creazione fraudolenta di crediti di imposta, sono certamente numerosi e si è tentato di illustrarli nei loro tratti essenziali.
Risulta evidente che la precipua natura fiscale degli interessi lesi dalle condotte di frode (che in ultima analisi risultano tutte strumentali condotte di illecita compensazione dei crediti provento di reato con debiti di imposta realmente sussistenti) impone all’interprete una attenta ponderazione dei profili di specialità che, valutati in adesione al canone ermeneutico di cui all’art. 15 c.p., portano a ritenere concretamente applicabili le norme sanzionatorie penal-tributarie con riferimento alle condotte di artificiosa creazione dei crediti e di inserimento di tali falsi crediti nel portale delle cessioni, di poi delle disposizioni incriminatrici di cui agli artt. 640 e 640 bis c.p. avuto riguardo alla successiva fase delle monetizzazioni.
Altro snodo applicativo di non poco momento è quello relativo alla sorte dei crediti acquistati in buona fede da terzi cessionari, laddove ogni valutazione al riguardo deve essere compiuta non solo utilizzando gli strumenti giuridici previsti dal sistema ma anche considerando sia l’interesse dell’Erario a non essere gravato, quale ultimo destinatario dei crediti di imposta fraudolentemente generati, degli oneri conseguenti alle compensazioni dei crediti inesistenti con debiti reali, sia le ragioni patrimoniali (anche correlati alle informazioni di bilancio destinati ai soci e al pubblico) dei soggetti cessionari.
(Immagine: Charles Bloud,
di Elisabetta Morosini
Nel 1981, in occasione della inaugurazione, a Nizza, di una mostra del pittore Alberto Magnelli, Italo Calvino scrive un testo dal titolo “Essere pietra” che così esordisce: «Io sono una pietra. Lo ripeto: una pietra. So che non potete capirmi; dovrei spiegarvi queste quattro parole una per una e a gruppi di due e di tre e poi tutte insieme: cosa voglio dire quando dico io, e quando dico essere, e quando dico pietra, e cosa vuol dire essere pietra, e una, una pietra».
Dall’intuizione del grande scrittore, di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita, prende le mosse il saggio di Federico Luisetti “Essere pietra. Ecologia di un mondo minerale”, pubblicato nel settembre 2023 dalla casa editrice wetlands (rigorosamente in minuscolo).
L’autore propone una riflessione sulle pietre come “esseri-terra” e sulla connessione politica e giuridica con gli “esseri-persona”, nella prospettiva di una sfida che spinge ancora più in là il pensiero ambientalista fino a riconoscere una soggettività giuridica non solo agli altri esseri viventi (animali e piante), ma anche al mondo inanimato di cui le pietre sono simbolo.
«Calvino» scrive Luisetti nella prefazione al libro «ci aiuta a percepire la distinzione tra soggetto e persona [...]. Poiché le pietre non partecipano a una vitalità universale, la loro alterità dev’essere riconosciuta come una sfida all’egemonia della persona vivente, ovvero al cuore del pensiero occidentale».
Pensiero che si è formato sul concetto, elaborato dal diritto romano, della separazione tra persona, come soggetto di diritto, e cosa, come oggetto di diritto: la persona umana è l’unica attrice sulla scena, tutto ciò che è classificato “cosa” esiste solo in funzione della persona che se ne appropria, la fa sua, la assoggetta al proprio potere per farne ciò che vuole.
Una simile concezione - che è alla base del sistema filosofico, politico, giuridico, economico occidentale incentrato sul diritto allo sfruttamento -, è estranea alle culture non occidentali, fondate, invece, sulla simbiosi tra esseri umani e “esseri-terra”.
Le popolazioni indigene del Sud America sono state protagoniste delle più significative lotte per la tutela della natura e dell’ambiente, animate da un profondo sentimento di connessione - non di opposizione o separazione - rispetto alle “cose” circostanti.
Il popolo indigeno dei Kichwa de Sarayaku ha promosso (e vinto) una causa intentata con lo Stato dell’Ecuador davanti alla Corte interamericana dei diritti umani, a tutela della “Foresta vivente”, minacciata dalla arbitraria invasione compiuta dalle multinazionali straniere del petrolio.
Sulla scia di queste lotte nel 2008 la Repubblica dell’Equador si è data una Costituzione e ha assicurato alle risorse naturali un livello di protezione molto più avanzato rispetto all’Europa e agli altri paesi del mondo che si considerano all’avanguardia. La Costituzione dell’Ecuador riconosce la “Natura”, chiamata Pachamama, come soggetto di diritti. I diritti della natura si trovano sanciti negli articoli da 71 a 74: il diritto al rispetto integrale della esistenza della Natura e al mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli vitali, delle sue strutture, delle sue funzioni e dei suoi processi evolutivi; il diritto a interventi di risanamento.
Il benessere della Natura è messo in correlazione con il diritto per le persone, i popoli, le comunità di godere dell’ambiente e delle ricchezze naturali che rendono possibile una “sumak kawsay" ovvero una “coesistenza armoniosa”.
E così, dall’altra parte del mondo, è stato il popolo Maori, autoctono del fiume Whanganui, che nel 2017 è riuscito ad ottenere, da parte del Parlamento della Nuova Zelanda, il riconoscimento della titolarità di diritti in favore del proprio fiume sacro.
Quel fiume vede i propri diritti suscettibili di tutela dinanzi a un Tribunale: «Ko au te awa, ko te awa ko au», dicono i Maori, «Io sono il fiume e il fiume è me».
Negli Stati Uniti, il primo a teorizzare la capacità degli alberi a stare in giudizio è stato Christopher Stone, che nel 1973 pubblicò un articolo (ora divenuto libro) dal titolo "Should trees have standing". La tesi del professor Stone fu utilizzata nella causa promossa dal Sierra Club (la più antica e importante organizzazione ambientalista degli Stati Uniti, fondata nel 1892 dal naturalista John Muir) per bloccare il progetto della Walt Disney che intendeva costruire un enorme complesso sciistico nei territori selvaggi delle montagne della Sierra Nevada in California: la Mineral King Valley.
Quella ardita teoria giuridica incontrò il favore di un giudice della Corte Suprema americana, William O. Douglas, autore, nel 1965, della Carta dei diritti della natura selvaggia ("A Wilderness Bill of Rights"), ma non servì a vincere la causa, perché la maggioranza dei giudici della Corte votò contro; nonostante la sconfitta, si creò un tale movimento di opinione a sostegno della lotta del Sierra Club che la Walt Disney fu costretta a rinunciare alla stazione sciistica. Oggi la Mineral King Valley continua ad essere un paradiso naturale, inserito nel Sequoia National Park.
Ma ancora non basta.
Non basta riconoscere diritti agli animali, alle piante, agli esseri viventi diversi dagli umani.
Occorre, secondo Luisetti, un’idea più radicale: occorre ribaltare il pensiero antropocentrico, frutto velenoso della cultura della sopraffazione e dello sfruttamento, sino a riconoscere una soggettività anche alle pietre e a tutti gli esseri-terra.
Del resto alcune pietre hanno conquistato da sole il diritto ad imporsi come “soggetti” attraverso un atto rivoluzionario: il movimento.
Sono i massi erratici «frammenti di un tempo profondo, corpi geologici posti al crocevia di regimi temporali incompatibili». E, in questa parte, il saggio di Luisetti assume accenti poetici.
Aill na Mìrrean un masso erratico alto sei metri che in Irlanda ha dato vita a un luogo di culto druidico.
Pierre des Marmettes un masso di 1.800 metri cubi che domina la valle del Rodano nelle Alpi svizzere, un erratico del tutto fuori luogo, un intruso dal punto di vista spaziale, temporale, ecologico, estetico.
Il masso erratico di Amburgo, scoperto nell’autunno 1999 nel letto del fiume Elba.
Quest’ultimo è un masso erratico di 217 tonnellate, staccatosi 400.000 anni fa dalla Svezia meridionale e trasportato dai ghiacciai fino al sito attuale; si impone allo sguardo e al paesaggio con la sua mole enorme, sproporzionata, del tutto fuori posto rispetto al contesto. Considerato “il più antico immigrato di Amburgo”, è divenuto simbolo delle lotte a favore dei diritti degli immigrati. In questo modo ha “affermato la propria soggettività”, ha ottenuto il riconoscimento della propria identità, una identità ibrida «fatta di erranza e stabilità, alterità e familiarità».
Chissà se questo serve a capire il punto in cui ci troviamo, per metterci «una pietra sopra», come fa Calvino con i suoi Discorsi di letteratura e società raccolti da Einaudi nel 1980: «L’ambizione giovanile da cui ho preso le mosse è stata quella del progetto di costruzione d’una nuova letteratura che a sua volta servisse alla costruzione d’una nuova società. […] il mondo che ho oggi sotto gli occhi non potrebbe essere più opposto all’immagine che quelle buone intenzioni costruttive proiettavano sul futuro. La società si manifesta come collasso, come frana, come cancrena (o, nelle sue apparenze meno catastrofiche, come vita alla giornata); e la letteratura sopravvive dispersa nelle crepe e nelle sconnessure, come coscienza che nessun crollo sarà tanto definitivo da escludere altri crolli».
Appunto bibliografico:
Italo Calvino, Essere pietra (per Alberto Magnelli), in Magnelli. Les pierres: 1931-1935, catalogo della mostra, Galleria Sapone di Nizza, 1981; poi con il titolo Io sono una pietra, su «la Repubblica», 14 luglio 1981; ora in Romanzi e racconti, tomo III.
Italo Calvino, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi, 1980
Federico Luisetti, Essere pietra. Ecologia di un mondo minerale, wetlands, 2023
Ursula Biemann e Paulo Tavares, Forest Law – Foresta giuridica, Nottetempo, 2020
Eduardo Kohn, Come pensano le foreste, Nottetempo, 2021
Francis Hallé, Ci vuole un albero per salvare la città: Un manifesto per i politici e gli amministratori pubblici, Ponte alle Grazie, 2018
Christopher D. Stone, Should trees have standing. Law, Morality, and the Environment. Oxford University Press Inc., 2010
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Bruce Albert (direzione artistica di), Nous les arbres. Catalogo della mostra. Fondation Cartier pour l’art contemporain, 2019.
Bruce Albert (direzione artistica di), Siamo foresta, catalogo della mostra, Triennale di Milano in collaborazione con la Fondation Cartier pour l’art contemporain, 2023
Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal, Nicholas de Pencier, Anthropocene, catalogo della mostra, Fondazione Mast di Bologna, 2019
Le scelte eticamente sensibili. Limiti e obblighi della pubblica amministrazione tra diritti e interessi legittimi fondamentali.*
di Gianpiero Paolo Cirillo
Sommario: 1. Premessa - 2. Dai «diritti pubblici soggettivi» agli «interessi legittimi fondamentali» - 3. Libertà e diritti fondamentali - 4. La teorica di Jellinek - 5. Le conseguenze processuali delle teoriche dei diritti fondamentali - 6. Le scelte eticamente sensibili come espressione di diritti o libertà fondamentali - 7. La giurisprudenza amministrativa in materia di diritti fondamentali - 8. Poteri, limiti e responsabilità del personale sanitario - 9. La responsabilità della pubblica amministrazione nella materia sanitaria - 10. Interessi legittimi fondamentali a carattere economico - 11. Il fronte sovranazionale e internazionale - 12. Il diritto sanitario durante la pandemia e il PNRR.
1. Premessa
Il tema delle “scelte eticamente sensibili”, riguardato dall’ottica della pubblica amministrazione che comunque è chiamata ad avallarle o semplicemente consentirle, impone una più ampia riflessione per comprendere la natura della posizione giuridica riconosciuta al privato che ne rivendichi l’esercizio. Esso, dunque, riveste interesse e si presenta di sicura attualità non solo per la modernità e sensibilità del relativo contenuto, ma anche e ancor prima, per il suo impatto su categorie dogmatiche che animano la dottrina da epoca risalente. Ci si trova di fronte alla possibilità di verificare la portata sostanziale di categorie concettuali di nuova configurazione, e in particolare se vi siano reali contenuti nuovi o si tratti di meri neologismi destinati a rimanere relegati nella sfera dell’involucro definitorio. Tanto più che, come è stato insegnato (RESCIGNO), il diritto soggettivo e l’interesse legittimo sono delle categorie storiche utilizzate dai giuristi per indicare situazioni soggettive dai contenuti più diversi.
Da qui l’esigenza, prima di entrare nel merito dello stesso, di riferire del dibattito assai risalente sul tema, laddove sia capace di illuminare qualsivoglia considerazione attuale sulla materia. Si allude, in particolare, alla dizione “interessi legittimi fondamentali”, che, in quanto declinazione dei diritti fondamentali –quelli nel cui ambito si collocano le scelte eticamente sensibili - in relazione alla controparte pubblica, rappresentano il punto di approdo più evoluto dei precedenti “diritti pubblici soggettivi”.
Ringrazio pertanto gli organizzatori di questo importante convegno che mi offre l’opportunità di condividere queste brevi riflessioni che, partendo dall’origine storica del problema, approdano a contesti di assoluta modernità, oggetto di dibattito, religioso, sociale, culturale e politico, prima ancora che giuridico.
2. Dai «diritti pubblici soggettivi» agli «interessi legittimi fondamentali»
La posizione dominante della dottrina settecentesca (influenzata dal pensiero giusnaturalista) era che le libertà fossero dei diritti innati dell’individuo, che lo Stato non farebbe altro che riconoscere. L’affermazione della derivazione naturale quanto meno dei principi fondamentali dell’ordinamento, che immagina norme universali, di per sé chiare ed evidenti, che precederebbero quelle positive e alle quali queste ultime dovrebbero conformarsi, sta alla base della nascita degli Stati settecenteschi. Con il superamento del fondamento innatistico delle libertà, queste seguitarono tuttavia ad essere inquadrate tra i diritti, e l’endiadi «diritti civili e politici» dell’individuo fu anche accolta dai legislatori. Il passaggio dallo stato assoluto allo stato di diritto ha comportato, come tutti sanno, che la persona fisica da suddito diviene cittadino, che, in quanto tale, ha dei diritti, tra i quali in primo luogo quelli politici e le libertà civili. Per descriverli, i teorici dei diritti pubblici soggettivi utilizzarono il modulo privatistico diritto-dovere: da un lato posero un diritto, dall’altro un dovere di astensione del pubblico potere (GIANNINI).
Quando la pandettistica pubblicistica tedesca iniziò la revisione della dogmatica del diritto pubblico anch’essa accettò la costruzione delle libertà come diritti pubblici soggettivi, rispetto ai quali lo Stato aveva solo l’obbligo di astensione. Tale costruzione non resse al vaglio della dottrina successiva, che teneva conto del diritto positivo .
Dal punto di vista filosofico, il positivismo giuridico immagina che tutto il diritto sia di origine statale o comunque positiva. L’autorità politica ha facoltà normative indipendenti da ogni ordinamento di diversa natura, sia naturale sia religiosa. Per essa i diritti assoluti in tanto sono validi in quanto tali erga omnes, e non solo nei confronti dello Stato. Inoltre, il titolare del dovere era portatore di interessi propri il cui esercizio portava a limitare gli interessi del titolare del diritto assoluto. Tali interessi propri sono talmente tutelati dalla norma da conferire all’obbligato vere e proprie potestà. Sicchè il dovere di astensione appare più come limite alla potestà che come situazione soggettiva propria, tanto più che il bene della vita oggetto dell’interesse protetto come diritto di libertà non è facilmente individuabile, come invece negli altri diritti assoluti (GIANNINI). Di qui i tentativi di apportare correttivi alla costruzione proposta, tra i quali va ricordata la teoria dei «diritti riflessi», in base alla quale i diritti di libertà sarebbero da considerare dei diritti nascenti dalle limitazioni, assunti come obbligo delle potestà pubbliche.
La massima espressione del neopositivismo giuridico è ravvisata nell’opera di Kelsen e della sua scuola. Kelsen e la sua scuola abbandonarono la costruzione pandettistica e introdussero, a caratterizzare le libertà, l’elemento “garanzia”. L’analisi delle varie libertà mostra che esse o sono delle semplici facoltà che spaziano nel campo del meramente lecito, oppure dei diritti soggettivi non diversi dagli altri. La loro vera sostanza risiede nelle garanzie costituzionali che sovrintendono alla loro istituzione, per cui le norme del legislatore ordinario in contrasto con le norme di garanzia possono essere rimosse dal giudice investito del sindacato di costituzionalità di norme primarie. In questo modo la teorica delle libertà veniva completamente separata da quella dei diritti pubblici soggettivi e anzi da qualunque situazione giuridica di vantaggio attribuita dalla norma al privato. La norma costituzionale di garanzia, così come investe posizioni civilistiche del privato (la famiglia, i figli illegittimi), così può investire situazioni soggettive attive di vantaggio, quali diritti o interessi legittimi; viceversa può non investire situazioni soggettive anche molto importanti, come quella degli enti esponenziali di ordinamenti derivati, delle cosiddette società intermedie e simili (GIANNINI).
3. Libertà e diritti fondamentali
La dogmatica delle libertà nel loro variegato atteggiarsi e dei diritti fondamentali ha da sempre dato adito a dibattiti che alla fine non hanno consentito di trovare loro un soddisfacente assetto. Troppo spesso la si è confusa, da un lato, con la teoria generale delle situazioni soggettive, dall’altro, con le posizioni fondamentali del soggetto privato nell’ordinamento giuridico generale che ha una realtà storicizzabile e non già astratta (GIANNINI).
Dunque, come ha ritenuto l’autorevolissima dottrina sinora citata e da cui è tratto questo breve resoconto e che continua in questo e nel paragrafo successivo, la realtà è molto più complessa, in quanto le situazioni soggettive del privato possono presentarsi alla pubblica amministrazione così come sono configurate dal diritto privato e quindi l’amministrazione pubblica può essere parte del rapporto e agire secondo il diritto comune. Parimenti, si può porre come autorità e quindi amministrare situazioni soggettive, beni, rapporti giuridici: in questo caso la situazione del soggetto privato rimane ancora regolata dal diritto privato.
Esistono tuttavia situazioni di diritto soggettivo che sono regolate da norme di diritto pubblico: si pensi, ad esempio, ai diritti di stato giuridico o ai diritti patrimoniali dei titolari degli uffici pubblici. Così ancora i diritti a prestazioni amministrative, dove le norme possono configurare come interessi legittimi le situazioni soggettive del privato in ordine a prestazioni dell’amministrazione, ma possono anche configurarle come diritti soggettivi (si pensi all’assistenza sanitaria ed ospedaliera, alle prestazioni postali e telefoniche, ai trasporti pubblici e così via).
Altra categoria del medesimo gruppo è costituita dai diritti che derivano dalla posizione giuridica di civis: diritti politici in primo luogo (elettorato attivo ed elettorato passivo); quei diritti che si denominano civici, in quanto il cittadino tra i benefici ragione della sua appartenenza ad un determinato “gruppo” dei consociati legati ad un ambito territoriale, quale il Comune, o addirittura una sua frazione e così via (si pensi al diritto di uso dei beni collettivi, come strade, lido del mare, acque pubbliche, pascoli comunali, con riferimento ai quali è stata teorizzata la categoria del “bene comune”, che supera le tradizionali categorizzazioni giuridiche legate al solo assetto proprietario per valorizzare quello funzionale e solidaristico/partecipativo). Tutte queste situazioni soggettive di diritto sono attribuite da norme di diritto pubblico e non presentano alcuna omogeneità.
Va anche detto che in questa materia il concetto di “privato” ha un senso convenzionale, ossia comprensivo del cittadino persona fisica e, in certi casi, dello straniero e dell’apolide, della persona giuridica privata, dell’ente pubblico in quanto assoggettato allo Stato, e persino dello Stato in quanto assoggettato ad un ente pubblico.
4. La teorica di Jellinek
La teorizzazione dei diritti pubblici soggettivi fu dominata dalla grandiosa opera di Georg Jellinek, che, ancora nell’800 ebbe l’intuizione giuridica di individuare quattro status del cittadino: subjectionis, libertatis, civitatis e activae civitatis. La dottrina successiva non fece altro che aderire o respingere o tentare di correggere il sistema del grande studioso tedesco, senza considerare che la costruzione indicata fu più un’opera politica che giuridica e fu un tentativo di portare la realtà dello Stato moderno in un sistema di definiti rapporti giuridici entro i quali cittadini trovassero precisi ambiti del proprio agire.
Non è casuale che il punto debole di questa costruzione fosse costituito proprio dallo status libertatis,che non è affatto omogeneo con gli altri e che non si concreta in diritti soggettivi, se non in modi del tutto particolari.
Infatti, i diritti positivi possono configurare in modi diversi le libertà civili.
I modi più importanti di configurazione sono tre: la libertà come oggetto di norma meramente enunciativa di un principio, come interesse legittimo garantito costituzionalmente e come oggetto di un «diritto fondamentale» dell’individuo (GIANNINI).
Nel primo caso, la dichiarazione che riconosce una libertà, come tutte le norme che enunciano un principio, serve all’interpretazione e all’applicazione di altre norme e vale come direttiva nelle costituzioni flessibili o come precetto in quelle rigide per il legislatore. Nel secondo dei tre modi le libertà non sono diritti soggettivi, anche se norme costituzionali così le denominano. Basti pensare alla costituzione di Weimar piena di tanti diritti di libertà e di clausole generali, utilizzate anche dal regime nazista. Tuttavia, la formula più onesta si trova nell’articolo 28 dello statuto Albertino dove si recita: «la stampa è libera ma la legge ne determina gli abusi». Orbene tutte le libertà interessi legittimi sono riconducibili ad un sistema siffatto. Da un lato vi sono le manifestazioni fondamentali della personalità dell’individuo e dall’altro le potestà pubbliche che agiscono sollecitate da interessi pubblici.
La situazione soggettiva del privato è di interesse legittimo di fronte ad una potestà, tutelato giurisdizionalmente secondo gli istituti generali del sistema positivo. Tuttavia, esso è garantito costituzionalmente, e in questo differisce dagli interessi legittimi che potrebbero dirsi ordinari. Orbene a questi ben si addice la denominazione di interessi legittimi fondamentali.
La garanzia consiste nel fatto che la potestà pubblica disciplinata dalla norma giuridica primaria e consiste in una «riserva di legge» in ordine all’attribuzione della misura della potestà. In ogni caso trattasi di comuni rapporti potestà-interesse legittimo. In qualche costituzione la libertà può essere rafforzata ma nella nostra non esiste uno strumento giuridico specifico nel caso di una sua violazione. Va ricordato che lo statuto Albertino, che pure regolava le libertà civili, è rimasto in vigore per un intero secolo, mentre le leggi disciplinatrici sono più volte cambiate, raggiungendo punte di sostanziale illibertà nel periodo fascista.
La giurisprudenza ha cominciato a ritenere le leggi disciplinatrici illegali e ha favorito l’evolvere verso il terzo modo, in cui la libertà diviene oggetto di un diritto soggettivo assoluto, classificabile nei diritti della personalità. L’adozione di costituzioni rigide con il perfezionamento del sindacato di costituzionalità delle norme accrescono la tutela delle situazioni giuridiche soggettive del privato. Esse vengono oramai denominate «diritti fondamentali» dell’individuo e sono assoluti non solo nei confronti dei pubblici poteri ma di qualunque soggetto giuridico.
Nelle costituzioni moderne si trovano giustapposte delle enunciative del primo del secondo e del terzo modo. Ad esempio, buona parte dei cosiddetti «diritti sociali» danno luogo ad enunciative del primo e del secondo modo. Il secondo modo è quello correttamente usato quando si vogliano garantire istituti giuridici più complessi di una mera situazione soggettiva, si pensi alla famiglia alla proprietà a talune prestazioni di protezione sociale (GIANNINI).
I termini della relazione tra diritti fondamentali e potere amministrativo, all’indomani della seconda guerra mondiale, vanno letti all’interno del paradigma dello Stato sociale di diritto, ossia di un ordinamento che riconosce, accanto ai diritti di libertà classici, i diritti della persona e i diritti sociali, la cui piena attuazione deriva non solo da un atteggiamento negativo, ma anche da un approccio positivo, ossia da un comportamento in grado di soddisfare la pretesa avanzata dal singolo. Questo è l’effetto dello Stato pluriclasse, dove le classi sociali subalterne reclamano diritti e chiedono servizi alla P. A.
La relazione che si instaura è tra la posizione giuridica del cittadino e lo specchio del moltiplicarsi di interessi che l’amministrazione assume su di sé. Quindi non solo una relazione che vede potere e diritto escludersi a vicenda, dove c’è potere non c’è diritto e viceversa, ma al contrario posizione che vengono accumularsi nella misura in cui il potere amministrativo assume il senso pieno della funzione, quindi dove c’è potere c’è diritto (TARANTINO).
5. Le conseguenze processuali delle teoriche dei diritti fondamentali
Quando erano conosciuti e studiati soltanto i diritti di libertà classici, la relazione tra poteri amministrativi e diritto era descritta secondo le formule della degradazione del diritto e dell’indegradabilità dei diritti fondamentali. Il risvolto processuale era che tutte le volte in cui la posizione azionata fosse qualificabile in termini di diritto fondamentale vi era giurisdizione del giudice ordinario, il che comportava una negazione in radice della presenza di un potere amministrativo.
La pretesa dell’automatica prevalenza del diritto fondamentale sul potere amministrativo porterebbe il primo a sterilizzare automaticamente il secondo, anche quando quest’ultimo ha il compito di comporre una relazione tra diritti dello stesso rango; evenienza quest’ultima che risulta immanente all’interno di un sistema che non poggia su risorse economiche illimitate. Di qui la tendenza ad una scomposizione del diritto fondamentale in due distinte componenti: una difensiva e una pretensiva. Solo la prima è sottratta a qualsivoglia logica di bilanciamento rimesso alla discrezionalità dell’amministrazione (TARANTINO).
Per contro, l’assenza di una gerarchia tra i diritti fondamentali consente di superare l’impostazione secondo la quale i diritti in questione godono di una situazione di intangibilità da parte del potere amministrativo. La componente difensiva afferisce ad un nucleo essenziale del diritto sottratto alla disponibilità del legislatore come ribadito nella sentenza n. 146 / 1988 della Corte costituzionale.
Più di recente, il giudice costituzionale ha affermato anche che la concezione soggettiva del processo delinea «la giurisdizione amministrativa, nelle controversie tra amministrati e pubblico potere, [come] primariamente rivolta alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive e solo mediatamente al ripristino della legalità dell’azione amministrativa, legalità che pertanto può e deve essere processualmente perseguita entro e non oltre il perimetro dato dalle esigenze di tutela giurisdizionale dei cittadini» (Corte cost., sent. n. 271 del 2019). Alla luce di tale evoluzione è l’interesse alla mera legittimità dell’azione amministrativa diventato in certo qual modo un interesse occasionalmente protetto in sede di tutela dell’interesse legittimo, cioè protetto di riflesso in sede di tutela della situazione di interesse legittimo, come affermato dal presidente del Consiglio di Stato, Patroni Griffi, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021 (SCODITTI).
Rispetto all’epoca di elaborazione della tesi dell’indegradabilità, il quadro della giustizia amministrativa è dunque radicalmente mutato ed è ormai “pronto” a rendersi protagonista di interventi di tutela dei diritti fondamentali. Alla base delle pronunce della Cassazione che in particolare a far data dalla fine degli anni ottanta avevano negato in tali ambiti alcun margine di giurisdizione del giudice amministrativo, vi era la concezione oggettiva del processo amministrativo limitata all’esclusivo sindacato sull’atto, connotato anche dalla limitatezza dei mezzi probatori di accesso al fatto – tesi peraltro ancora di recente ribadita, ma non per questo necessariamente da condividere, da Cass., Sez. U., sent. n. 23436 del 2022.
Essa ha avuto il merito storico per lunghi decenni di dare una risposta a bisogni di tutela che non trovavano adeguata soddisfazione nel vecchio regime degli interessi occasionalmente protetti dalla giurisdizione amministrativa di legittimità. A fronte, tuttavia, della riconosciuta estensione della conoscenza al fatto posto a fondamento della scelta dell’autorità amministrativa, consentita dalle potenzialità probatorie presenti nella nuova configurazione del giudizio amministrativo, non può più negarsi una cognizione piena del rapporto, per cui il processo non costituisce più soltanto uno strumento di garanzia della legalità dell’azione amministrativa, ma ben potendo rappresentare una giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali (TARANTINO).
6. Le scelte eticamente sensibili come espressione di diritti o libertà fondamentali
Le considerazioni da ultimo riportate già anticipano le conclusioni cui si intende addivenire. Ossia, la nozione di interesse legittimo fondamentale altro non è che la declinazione terminologica dei diritti fondamentali con riferimento ai quali il giudice amministrativo è chiamato a valutare la forbice di scostamento tollerabile, in una logica di bilanciamento tra valori egualmente tutelati dalla Costituzione, rispetto al nucleo intangibile tutelato dalla stessa.
Le scelte “eticamente” sensibili, d’altro canto, rappresentano a loro volta soltanto l’esercizio di diritti sicuramente riconducibili a tale soglia di rilevanza, in quanto attengono comunque alla personalità dell’individuo, in termini di dignità, identità sessuale, diritto a divenire genitore e così via. Lo stesso avverbio “eticamente”, a connotarne la sensibilità, richiama infatti un concetto di valore che ove semplicemente correlato al sotteso contesto socio-culturale si presenta necessariamente fluttuante, e soprattutto tipicamente soggettivo. Esso risente, cioè, necessariamente, dell’angolo visuale dal quale viene riguardato, rendendo il dibattito inevitabilmente scivoloso verso una china morale, appunto, ovvero religiosa, che inevitabilmente rischia di condizionare la decisione dei giudici, ma non incide, o quanto meno non dovrebbe farlo, sulle categorie concettuali di riferimento.
La conflittualità ideologica ha influito sulle discussioni giuridiche.
A partire dal caso Englaro, la sentenza della Cassazione, n. 21748 del 2007, che, pur criticata in quanto “creativa” e manipolatrice, è considerata alla base della sopravvenuta legge n. 219 del 2017. Essa ha disciplinato a distanza di anni il tema della relazione di cura fra medico e paziente; nonché quello delle dichiarazioni anticipate di trattamento, ponendo al centro della disciplina la tutela della dignità, dell’autodeterminazione e del consenso che la sentenza aveva valorizzato. Questo rende di immediata percezione la “sensibilità” delle scelte del privato e, a valle delle stesse, la possibilità dell’ordinamento di assecondarle, ovvero quanto meno di non ostacolarle.
Il tema del diritto a fine vita, peraltro, che tipicamente si colloca nell’ambito di tali tematiche, può essere riguardato anche dall’angolazione diametralmente opposta, pure ampiamente dibattuta proprio in concomitanza della stesura delle presenti note (si pensi, ad esempio, al caso della neonata inglese Indy Gregory, che un ospedale italiano si era offerto di accogliere, il cui trasferimento è stato negato ai genitori che ne facevano richiesta dalla Corte del Regno unito chiamata ad occuparsene, che vi ha ravvisato un inutile accanimento terapeutico).
Proprio l’esemplificazione riportata (ma analoghe riflessioni potrebbero riguardare l’altrettanta controversa questione meglio conosciuta come “utero in affitto”, o maternità surrogata) fa emergere come la mancanza di scelte chiare, in un senso o nell’altro, da parte del legislatore, e la necessità di utilizzare il quadro normativo di riferimento, se del caso “strumentalizzando” – come pure è stato criticamente affermato in relazione a talune casistiche – il rinvio pregiudiziale al giudice delle legge, ricada, o meglio sia ricaduta, fino ad oggi sul giudice ordinario.
E, tuttavia, proprio la cornice sopra delineata della valutazione dei diritti fondamentali anche in relazione al contrapposto potere della p.a., e della nuova concezione del giudizio amministrativo e della tecnica del bilanciamento seguita dalla giurisprudenza costituzionale, sembrano aprire una nuova stagione di coinvolgimento del giudice amministrativo, appunto, nella tutela dei diritti fondamentali. Anche l’interesse legittimo, dunque, in quanto correlato ad una norma che attribuisce il potere alla pubblica amministrazione, è uno strumento di tutela dei diritti fondamentali e in tale logica diviene “interesse legittimo fondamentale”. Esso si pone come limite alle scelte dell’Amministrazione astrattamente ispirate a ragioni scientifiche.
Negli ultimi decenni, infatti, anche la scienza medica ha finito per travalicare l’ambito tradizionale della cura della malattia e della ricerca, invadendo spazi più propriamente “spirituali”, quali il diritto alla procreazione, alle modalità e al tempo del fine vita, come già detto, ovvero all’identità sessuale. Come è stato sostenuto dalla dottrina costituzionalistica, il corpo costituisce il substrato generatore della persona, anzi si identifica con la persona stessa e la identifica, perché è attraverso il corpo che diventa possibile entrare in relazione con altri soggetti ed essere sul situato nella società. Esso cioè non solo ci colloca nello spazio e nel tempo, ma soprattutto ci mette in relazione con i nuclei sociali nei quali viviamo (famiglia, scuola, società). È dunque stato necessario nel tempo ricostruire lo statuto giuridico del corpo umano, individuando e analizzando i diversi dispositivi giuridici apprestati dall’ordinamento a tutela degli interessi che variamente si intrecciano intorno alle vicende della vita umana. Come per i diritti della personalità nel diritto civile, il suddetto processo di “giuridificazione” è stato caratterizzato dal passaggio da una logica proprietaria, che vede il soggetto disporre del proprio corpo come di un bene materiale, ad un’altra, dinamica e relazionale permeata dalla libertà di autodeterminazione, in cui le scelte che riguardano il fisico, anche nella sua mera esteriorità, impattano necessariamente sullo sviluppo della personalità e sui diritti inviolabili che fanno capo alla stessa. Esemplare è stata pure l’evoluzione del rapporto tra l’individuo e i propri dati personali in materia di privacy.
7. La giurisprudenza amministrativa in materia di diritti fondamentali
Senza ancora attingere alla categoria degli interessi legittimi fondamentali, il giudice amministrativo è stato più volte chiamato ad esprimersi in relazione alla tutela del diritto alla salute, anche quale declinazione del diritto alla tutela ambientale in termini di diritto ad un ambiente salubre (nello stesso ambito si colloca il diritto al lavoro). Particolarmente significative al riguardo le numerose pronunce che in tempo di pandemia hanno visto proprio nel giudice amministrativo l’arbitro dei contrapposti valori in gioco, tra cui la libertà di movimento e la libertà di autodeterminazione, propugnandone una lettura in chiave solidaristica, mutuata cioè pur sempre dalla portata cogente dei principi rivenienti dall’art. 2 della Costituzione (NOCCELLI). Particolarmente significativa, al riguardo, è sicuramente la sentenza n. 7045 del 2021 del Consiglio di Stato, nella quale è stata affrontata, con dovizia di analisi storica anche del regime autorizzatorio alla circolazione del farmaco, la tematica dell’imposta obbligatorietà di vaccinazione al personale sanitario, chiamato comunque a garantire il ridetto “ambiente” salubre, anche attraverso la propria autotutela, ai pazienti fragili che allo stesso devono necessariamente accedere.
In materia di limiti e obblighi della P. A., il giudice amministrativo ha mostrato una particolare sensibilità nell’affrontare le varie sfaccettature dalle quali può essere riguardata la tutela del diritto alla salute, stabilendo, in via generale, che sono proprio le strutture sanitarie, e dunque l’amministrazione pubblica, «ad attivarsi per promuovere la conservazione ed il recupero, approntando le strutture i mezzi per attuare i programmi di prevenzione, cura, riabilitazione ed intervento a favore di cittadini». La giurisprudenza ha anche chiarito da tempo che «l’amministrazione sanitaria programma, regola, vigila, finanzia, mentre la scelta dell’operatore sanitario spetta di norma all’utente» (Tar Campania, sent. n. 5498/2013).
Sicuramente degna ancora oggi di nota una risalente sentenza avente ad oggetto il mancato aggiornamento del prontuario farmaceutico da parte dell’AIFA, che chiama in causa il tema della pretesa a ricevere prestazioni da altri soggetti pubblici o privati, oltre quelle rientranti nelle modalità procedurale sottesi al menzionato strumento. Nella pronuncia cui si riferisce è stata ritenuta necessaria l’adozione del chiesto provvedimento amministrativo in quanto individuato come l’unico in grado di soddisfare la specifica pretesa dedotta. È stato dunque ottenuto l’ordine giudiziale rivolto all’amministrazione di provvedere alla somministrazione gratuita del farmaco in attesa dell’aggiornamento del prontuario farmaceutico. Si è trattato di un importante esempio di tipo propulsivo per offrire una tutela effettiva che ha implicato la valutazione in concreto dell’efficacia del medicinale, in assenza di alcuna valida alternativa terapeutica. Le argomentazioni svolte sono molto vicine a quelle che, negli anni novanta, spinsero i tribunali ordinari a pronunciarsi a favore della cosiddetta terapia Di Bella (Tar Lombardia, sent. n. 791/2008). In proposito si è parlato anche di un «diritto alla speranza».
È stato affermato anche che l’amministrazione è responsabile per i danni alla salute arrecati ai soggetti che lavorino in un plesso scolastico in stato di cattiva manutenzione e per le patologie che derivino da emotrasfusioni, nonostante le azioni esecutive non possano toccare i beni strumentali di proprietà del servizio sanitario nazionale.
Un discorso a parte, per la peculiarità della tematica affrontata che ha assunto sfaccettature etiche progressivamente più accentuate, va fatto in relazione alla procreazione assistita. Sulla materia sono intervenute due importanti sentenze della Corte costituzionale a breve distanza l’una dall’altra. Con la prima, n. 162 del 2014, partendo dalle premesse per cui la scelta di una coppia di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, riconducibile agli artt. 2, 3, e 31 Cost. e può riguardare anche due persone sterili o infertili, che si determinino allo scopo a ricorrere, appunto, alla tecnica di procreazione medicalmente assistita (p.m.a.) di tipo eterologo, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, l. n. 40 del 2004, nella parte in cui stabilisce il divieto del ricorso alla stessa qualora sia stata diagnostica alla coppia una patologia genetica trasmissibile grave. La sentenza, cioè, ha il dichiarato scopo di consentire la “previa individuazione”, in funzione del successivo impianto nell’utero della donna, «di embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore comportante il pericolo di rilevanti anomalie o malformazioni (se non la morte precoce) del nascituro». Con la successiva pronuncia, n. 229 del 2015, che si inserisce nel solco della precedente, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, commi 3, lettera b), e 4, della medesima legge n. 40/2004, si è nella sostanza esclusa la configurabilità come reato della selezione di embrioni nella procreazione assistita, purché finalizzata soltanto a evitare di impiantarne nell’utero della donna di affetti da malattie genetiche ritenute gravi (ai sensi dell’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 194/78). È evidente il fil rouge che lega le due pronunce, alla luce della elementare considerazione per cui ciò che era già divenuto lecito per effetto della prima sentenza non poteva essere considerato illegale per il principio di non contraddizione.
Sulla scorta dei dettami discendenti da tali fondamentali sentenze, ed in particolare di quella del 2014, il giudice amministrativo ha quindi ritenuto discriminatorio un intervento normativo regionale nella parte in cui manteneva, per la sola fecondazione omologa, criteri e requisiti soggettivi più favorevoli rispetto a quella eterologa (T.A.R. Veneto, n. 5021 del 2015). La distinzione conseguente al mantenimento, per la sola omologa, del limite soggettivo di 50 anni, laddove per la eterologa era fissato quello di 43, è stata dunque, considerata in evidente contrasto sia con la normativa statale (che non pone alcuna analoga distinzione), sia con i principi generali di eguaglianza, così come ricordati dalla Corte costituzionale proprio in occasione dell’affermata analogia delle due tecniche procreative assistite. Ciò in quanto, avuto riguardo all’età della donna, la norma nazionale non dà indicazione precisa, ma fa riferimento all’età potenzialmente fertile, che quindi deve valere per entrambe le ipotesi.
Altrettanto irragionevole è stata ritenuta la distinzione posta da altro ente regionale riguardo ai costi richiesti per l’assistenza in caso di p.m.a. eterologa ed omologa, essendo stato previsto il pagamento dell’intero trattamento nel primo caso e del solo ticket nel secondo. Parimenti in una decisione del Consiglio di Stato (sent. n.1486/2015) è stata annullata la decisione dell’amministrazione di ammettere a carico del servizio sanitario nazionale la sola PMA omologa a scapito di quella eterologa, essendo illogico e non ragionevole, in patente contrasto con quanto ritenuto dalla Corte costituzionale nella sentenza più volte citata (n.162/2014). Le due situazioni, essendo sostanzialmente identiche, contribuiscono a superare le obiezioni relative al potenziale incremento di spesa in ragione della necessità di garantire la sostanza di un diritto fondamentale, che non può essere compresso richiamando non meglio precisate ragioni economiche.
Per riassumere il quadro generale fissato dal Consiglio di Stato è il seguente:
Va peraltro ricordato come la pronuncia è stata anticipata dai principi affermati dalla Corte europea diritti dell’uomo, sez. I, 1 aprile 2010, n. 57813, secondo cui il divieto di utilizzare le tecniche di procreazione assistita di carattere eterologa non è compatibile con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Gli Stati sono dunque liberi di prevedere il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, ma nel momento in cui ammettono la possibilità di utilizzare tale tecnica non devono discriminare tra le coppie a seconda del tipo di infertilità (TIGANO).
8. Poteri, limiti e responsabilità del personale sanitario
Anche le pronunce che hanno riguardato il personale sanitario toccano la tematica dei diritti fondamentali, dovendosi contemperare la libertà di esercizio della relativa professione, anche in relazione alle scelte “etiche”, appunto, di ciascuno, con gli obblighi derivanti dalla peculiarità della stessa, solidaristicamente orientata in forza del c.d. giuramento di Ippocrate. Agli esercenti professioni sanitarie, dunque, è espressamente riconosciuta in determinati ambiti dall’ordinamento la facoltà di avvalersi della cosiddetta obiezione di coscienza, ossia il diritto di rifiutare una certa prestazione ordinariamente dovuta, tutte le volte che essa entri in conflitto con i principi di carattere morale cui gli stessi ispirino le proprie condotte in ragione del proprio personale convincimento (A. PATRONI GRIFFI). Il perimetro entro il quale può trovare spazio espressivo ridetta libertà di coscienza ha dato adito a sua volta a molteplici controversie. I giudici sono andati ancora una volta alla ricerca del giusto punto di equilibrio tra tutela della libertà di coscienza da parte del sanitario, appunto, ed esigenza di non paralizzare l’erogazione del servizio richiesto, in quanto garantito dalla legge, collocando la sfera delle potenziali responsabilità al di là di tale ricercato punto di equilibrio ottimale. L’operatore sanitario sarà dunque perseguibile sul piano disciplinare – ferme restando le eventuali responsabilità penali, civili e amministrativo-contabili, in presenza dei rispettivi presupposti – laddove il proprio rifiuto di eseguire una prestazione, seppure rispondente a libere scelte “etiche”, si palesi indebito in quanto causativo di danni all’amministrazione o a terzi. L’esempio più diffuso è riconducibile alla materia dell’interruzione volontaria della gravidanza. La giurisprudenza ha al riguardo distinto il momento in cui venga effettuato l’intervento, ove si può opporre l’obiezione di coscienza, da quello successivo, laddove non è consentito. In ogni caso il sanitario deve intervenire ogniqualvolta vi sia un imminente pericolo di vita (TIGANO).
Per quanto riguarda il rapporto del medico con il tema del “fine vita” è sufficiente, in questa sede, richiamare le due sentenze fondamentali della Cassazione e del Consiglio di Stato sopra ricordate. Ci si riferisce alle sentenze della Cassazione, (I sez.,16/10/2007, n. 21478) e del Consiglio di Stato, (III sez., 2/9/2014 n. 4460), redatte da due magistrati dalle apprezzabili capacità di analisi giuridica e di contesto, Giusti e Noccelli.
Mentre sulla prima pronuncia vale quanto frettolosamente già osservato, sulla seconda si propone una sintesi dei passaggi fondamentali, anche perché essi sono più attinenti al tema e ci consentono di comprendere più efficacemente i termini reali di tutte le questioni trattate.
Essi sono: 1. Con riferimento alla giurisdizione, mentre il primo giudice (Tar) aveva ritenuto la propria giurisdizione in base all’articolo 33 del decreto legislativo n. 80/ 1998 (poiché si verteva in ipotesi di giurisdizione esclusiva), la sentenza ha affermato la competenza del giudice amministrativo proprio facendo leva sul concetto di diritto soggettivo costituzionalmente garantito, partendo proprio dalla sentenza della Cassazione, sezioni unite n. 27187 del 2007, laddove afferma il principio che anche in materia di diritti fondamentali, quali il diritto alla salute, compete ai giudici amministrativi in rapporto all’interesse generale pubblico all’ambiente salubre. In tal modo ha superato la tesi sostenuta dalla Regione secondo la quale si sarebbe al cospetto di servizi erogabili sulla base di rapporti convenzionali di diritto pubblico, di carattere concessorio, che era materia di giurisdizione esclusiva, ma di una domanda proposta da un privato tesa a far valere il suo preteso diritto di interruzione delle cure e sugli obblighi di renderla da parte del servizio pubblico. Nella sentenza viene riportato l’orientamento, da ritenersi superato, secondo cui per la Suprema Corte, trattandosi di diritto soggettivo non suscettibile di affievolimento per effetto della discrezionalità meramente tecnica, esclude la giurisdizione del giudice amministrativo. Si fa riferimento alla vicenda dei crocefissi presenti nelle aule scolastiche. Si ribadisce che la dottrina dei diritti incomprimibili è priva di un solido e convincente sostegno; 2. l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario. Siffatta qualificazione è convalidata dalla comunità scientifica internazionale, come sostiene anche la succitata sentenza della Cassazione; 3.il diritto di autodeterminazione terapeutica del paziente, comporta che, laddove decida l’interruzione del trattamento, non significa affermare il diritto a morire;4.il principio personalistico che anima la nostra Costituzione vieta ogni intrusione nella sfera personale che non sia voluta. La salute non è assenza di malattie ma è uno stato di completo benessere fisico e psichico, che va visto in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche negli aspetti interiori della vita così come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza; 5. l’ordinamento si muove nel quadro della cosiddetta alleanza terapeutica che tiene uniti il malato e il medico nella ricerca comune di ciò che è bene. Il rifiuto del paziente è sempre legittimo non esistendo un principio di ordine pubblico che impone il dovere di curarsi; 6. l’art. 32 della Costituzione impone trattamenti sanitari nei soli casi espressamente previsti dalla legge e solo nel caso in cui la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri; 7. il rapporto tra consenso informato e responsabilità del medico o del servizio sanitario nel suo complesso necessiterebbe di un intervento legislativo; 8. per la Corte costituzionale organizzazione e diritti sono aspetti speculari della stessa materia, l’una e gli altri implicandosi e condizionandosi reciprocamente. Non c’è organizzazione che direttamente o indirettamente non sia finalizzata a garantire diritti, così come non c’è diritto a prestazione che non condizioni l’organizzazione (sentenza n. 383 del 1998); 9. l’amministrazione sanitaria non può sottrarsi al suo obbligo di curare il malato e di accettarne il ricovero, adducendo una propria ed autoritativa visione della cura o della prestazione sanitaria; 10. il rapporto tra autodeterminazione del paziente e autonomia professionale del medico merita di essere risolto legislativamente. Tuttavia si può dire che <<motivi di coscienza possono essere avanzati solo dagli individui, mentre la coscienza delle istituzioni è costituita dalle leggi che la regolano>>.
9. La responsabilità della pubblica amministrazione nella materia sanitaria
Dalla pregevole sentenza diventa più agevole tracciare la netta linea di demarcazione tra libertà di rifiutare, per coerenza con i propri principi etici, una prestazione sanitaria e responsabilità derivante dall’omessa prestazione, anche se anche così non è affatto semplice. La giurisprudenza ha cercato di trovare un punto di equilibrio che deve tenere conto dei punti di approdo della scienza, del diritto e della coscienza del singolo.
In generale, sembra prevalere il principio secondo cui nessuna obiezione di coscienza può essere opposta al fine di giustificare il diniego rispetto ad una prestazione ordinaria legittimamente richiesta e come tale dovuta dall’Amministrazione sanitaria. L’elemento soggettivo della responsabilità risulta così individuato in un comportamento che viene considerato addirittura doloso nella misura in cui si sostanzia in un espresso diniego posto attraverso un provvedimento illegittimo. Non serve a scriminare l’illiceità della condotta alcun motivo di coscienza, giacché solo gli individui hanno una coscienza, mentre la coscienza delle istituzioni è costituito dalle leggi che le regolano, come si trova scritto nella sentenza testé riassunta. Ne scaturisce in sede risarcitoria la liquidazione del danno patrimoniale, consistente nella rifusione delle spese di cura, e di quello non patrimoniale per la lesione di diritti fondamentali.
I trattamenti sanitari sono oggetto di una disciplina normativa complessa in ragione delle singole disparate fattispecie ivi contemplate. Tuttavia, è obbligato il riferimento al diritto alla salute sancito dall’art. 32 della Costituzione, cui sono correlati altri valori costituzionali rientranti tra i principi fondamentali, segnatamente quelli di solidarietà e di uguaglianza (articoli 2 e 3 Cost.).
Poiché le prestazioni sono rese dal servizio nazionale la medesima disciplina deve essere coerente con i principi posti materia di pubblica amministrazione, anzitutto l’imparzialità e il buon andamento, declinati in funzione dei budget di spesa assegnati e con il principio del pareggio di bilancio (TIGANO).
I medesimi principi trovano conferma nelle fonti comunitarie: basti ricordare il diritto alla vita solennemente proclamato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) e dall’articolo 2 della Cedu, nonché il diritto all’integrità della persona, che, secondo la Corte di giustizia e parte del diritto dell’Unione Europea comprende, nell’ambito della biologia della medicina, il consenso libero e consapevole del donatore e del ricevente (TIGANO).
L’amministrazione sanitaria si trova spesso nella posizione di chi sia chiamato ad adottare decisioni scomode, talora complicate dalla concorrenza di questioni etiche la cui scivolosità è ben nota. Peraltro, se da un lato la funzione amministrativa è legata alla disciplina posta dal legislatore, dall’altro la fase esecutiva risulta spesso impegnativa a causa delle incertezze interpretative che discendono dal varo di normative compromissoria e incerte.
Ciò comporta: 1) l’ampliamento dei limiti della discrezionalità amministrativa che diventa non più ponderazione degli interessi, ma operazione interpretativa pura; 2) il rinvio del caso alla sede giurisdizionale circa la verifica dell’operato degli organi amministrativi, rischiando di incidere sul merito delle valutazioni discrezionali, tradizionalmente soggette al solo sindacato di legittimità (TIGANO, TARANTINO).
A ciò va aggiunto la perduta centralità delle fonti primarie, la inveterata inefficienza amministrativa scoordinata e non sempre in linea con i budget assegnati nei risvolti di natura etica superabile se la legge e le fonti normative in genere non attraversassero l’attuale fase di crisi (D’AMICO).
Oggi vanno sempre più affermandosi nuovi valori intesi perlopiù alla riscoperta del ruolo dei diritti fondamentali, rispetto ai quali la normativa di dettaglio cede continuamente il passo.
A tutto ciò l’amministrazione non è estranea e non lo è a maggior ragione tutte le volte in cui debba misurarsi su un terreno ove il potere discrezionale si trova in una condizione nella quale non sono sempre certi punti di riferimento.
La scienza, con i suoi progressi e le sue problematiche incertezze, non è di grande aiuto sotto questo profilo: le tecniche terapeutiche, infatti, non sempre costituiscono verità assolute, risultando anch’esse fallibili e contingenti. Sicché le scelte che ne derivano sono quelle convenzionalmente considerate corrette “rebus sic stantibus”, ossia secondo l’esperienza empirica fissata negli eventuali protocolli approvati in un certo torno di tempo (TIGANO, A. PATRONI GRIFFI).
10. Interessi legittimi fondamentali a carattere economico
La permanente tendenza del mercato ad incidere sul livello di tutela dei diritti fondamentali risulta del tutto evidente nella relazione tra i mercati finanziari il debito pubblico; relazione che pone la legislazione speciale sui diritti sociali. I fallimenti del mercato evidenziati dalle recenti crisi economiche ripropone nuovamente all’attenzione della politica il problema della soluzione delle tensioni sociali e dell’indebolimento che ne deriva sul piano dei diritti sociali. Questi in particolare si ritiene possano avere un contenuto conformato dal legislatore e possano essere bilanciati con altri diritti e interessi di parte. Tuttavia, l’art. 3 del trattato di Lisbona sancisce uno sviluppo sostenibile basato su una crescita economica equilibrata e su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva. Il mercato non più come fine ma come strumento (TARANTINO).
Un rilievo particolarmente importante da attribuire ad un orientamento della Corte costituzionale che fa il punto sui rapporti tra diritti sociali e bilancio. La questione è particolarmente delicata specie all’indomani della modifica dell’art. 81 della Costituzione da parte della legge costituzionale n. 1/2012 che ha introdotto il principio del pareggio di bilancio in Costituzione. Anche in questo ambito si sono avute molteplici pronunce di giudici della Consulta, nelle quali si giunge ad individuare un dovere posto in capo al legislatore di graduare l’allocazione delle risorse, distinguendo le spese necessarie per il soddisfacimento dei diritti da quelle per così dire “facoltative”. Anche a tale riguardo si è rivendicato un sindacato sulla coerenza intrinseca che deve essere rispettata da parte del legislatore nell’individuazione di quel nucleo di garanzie indefettibili che devono essere assicurate agli interessati. Secondo i giudici della Consulta, dunque, il principio di priorità nel soddisfacimento dei diritti incomprimibili incide sul bilancio, nel senso che la sostenibilità complessiva di quest’ultimo non può in alcun caso portare a far sì che il danaro pubblico venga erogato per spese facoltative, prima che vengano individuate le poste economiche necessarie per far fronte a quelle volte a garantire il soddisfacimento dei diritti fondamentali (V. Corte cost., sentt. n. 80/2010; n. 250/2013; n. 266/2013; n. 10/2016; n. 275/2016; n. 279/2016, ma anche LUCIANI).
11. Il fronte sovranazionale e internazionale
L’11 gennaio 2019, presso Palazzo della consulta, si è tenuto un importante incontro tra i vertici della Corte europea dei diritti dell’uomo, della Corte costituzionale, della Corte di Cassazione, del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e del Consiglio superiore della magistratura, al fine di favorire il dialogo tra tali corti. Era in discussione il protocollo n. 16 recante emendamento alla convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, redatto a Strasburgo il 2 ottobre 2013. I temi principali oggetto di discussione sono stati: le materie eticamente sensibili, la disciplina prevista dal protocollo, l’indipendenza dei giudici e, infine, la disciplina delle questioni sul ne bis in idem. Sono state sottolineate le divergenze che riguardano specialmente la regolazione delle scelte di fine vita, del matrimonio omosessuale o ancora del transgender, ovverosia tutte materie considerate eticamente sensibili in cui è più difficile raggiungere quel consenso europeo in grado di determinare l’eventuale restringimento del margine di apprezzamento degli Stati (Resoconto curato da Sarah Lattanzi).
I diritti fondamentali si impongono nell’ordinamento nazionale e in quello europeo secondo direttrici difformi. Nell’esperienza nazionale i diritti fondamentali si affermano attraverso il varo della Costituzione, dove si avverte la preoccupazione di sottrarre alla maggioranza politica alcune posizioni giuridiche del singolo per farlo diventare un bagaglio irrinunciabile del sistema di socialità che alla base del progetto costituzionale.
Nella dimensione europea la tutela dei diritti fondamentali certamente non si rinviene nei trattati fondativi della comunità economica europea, ma sicuramente nell’opera della corte di giustizia, che ha elaborato un principio giuridico specifico. Questo è stato un modo di reagire all’operato delle Corti costituzionali che dinnanzi al principio di primazia del diritto comunitario e della possibile lesione di diritti fondamentali hanno elaborato la teoria dei controlimiti, in virtù della quale le Corti costituzionali nazionali si sono riservate di non applicare il diritto comunitario nel caso in cui questo violasse i diritti fondamentali.
Le modifiche apportate nel tempo ai trattati dimostra che l’Atto unico europeo del 1986 si limitava ad indicare nel preambolo la promozione della democrazia basata sui diritti fondamentali, mentre solo con il trattato di Maastricht del 1992 viene introdotta la prima norma, successivamente modificata dal trattato di Amsterdam e dal trattato di Lisbona, ossia l’articolo 6 TUE, che afferma la centralità della tutela dei diritti fondamentali. Per avere un elenco di diritti fondamentali occorre attendere la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000. Per molti anni, dunque, in assenza di un documento scritto ove fossero individuati, i diritti fondamentali hanno trovato tutela nell’ordinamento eurounitario solo attraverso la giurisprudenza della Corte di giustizia. Ciò si spiega con il fatto che la comunità europea non è solo composta da Stati, ma anche dagli individui che l’abitano e che reclamano tutela.
Ciò comunque ha determinato una particolare triangolazione tra giudici, dal momento che la stessa materia diviene oggetto di pronunce di tre distinti organi giurisdizionali, ossia la Corte costituzionale, la Corte di giustizia e la Corte europea dei diritti dell’uomo secondo trame di norme profondamente distinte. Infatti, mentre il contrasto della norma nazionale con la norma del diritto dell’unione europea determina la diretta disapplicazione della prima, il contrasto della norma nazionale con quella contenuta nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che è priva di effetto diretto nell’ordinamento nazionale, determina una situazione di illegittimità costituzionale dalla norma nazionale in forza del dettato dell’articolo 117 della Costituzione (TARANTINO).
Il controllo da parte della Corte di giustizia del rispetto dei diritti fondamentali avviene in tre casi: nei confronti degli atti delle istituzioni europee; nei confronti degli atti dell’istituzione degli Stati membri attuativi di un atto comunitario; nei confronti delle giustificazioni offerte da uno Stato membro su di una misura nazionale che si sospetta incompatibile con il diritto dell’unione.
La cosa più importante che qui va posta consiste nel fatto (Corte giustizia 26 febbraio 2013, C-617/10) che il diritto dell’unione europea non disciplina i rapporti tra Cedu e ordinamenti nazionali, né orienta l’interpretazione che il giudice nazionale deve seguire in caso di conflitto tra norma nazionale e Cedu. Pertanto, il meccanismo dei collegamenti tra diritti contenuti nella carta dei diritti fondamentali l’unione europea, diritti contenuti nella convenzione europea dei diritti dell’uomo e diritti contenuti nelle tradizioni costituzionali degli Stati membri viene risolta dagli articoli 52 e 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Infatti, detta normativa stabilisce che laddove la presente carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato della portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione.
Afferma, inoltre, che, laddove la presente carta riconosca diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni. Inoltre, secondo l’art. 53, il livello di protezione offerta dalla carta non può essere inferiore a quello riconosciuto dalla Cedu o dalle costituzioni degli Stati membri.
Al contempo, la Corte di giustizia mantiene un ruolo di garante della tutela dei diritti fondamentali, evitando che una tutela differenziata dei diritti fondamentale da parte degli Stati membri ponga in crisi l’unità e la coerenza dell’ordinamento europeo. In questo senso, la tutela più incisiva concessa da uno Stato membro ad un diritto fondamentale può risultare contrastante rispetto al grado di tutela assicurato dal diritto dell’Unione e recessiva nella misura in cui pregiudica l’unità e il primato dell’effettività del diritto dell’unione. È utile ricordare che nell’ordinanza n. 24 del 26 gennaio 2017 della Corte costituzionale è stata rimessa alla Corte di giustizia la soluzione del contrasto tra primazia del diritto europeo e tutela di un diritto fondamentale consacrato nella Costituzione.
La risposta della Corte di giustizia contenuta nella sentenza 5 dicembre 2017, C-42/17, è stata nel senso di escludere la presenza di una tutela rafforzata all’interno dell’ordinamento nazionale in grado di infrangere la primazia del diritto dell’Unione europea. Ciò in quanto il principio di legalità dei reati e delle pene, nei suoi requisiti di prevedibilità, determinazione e irretroattività della legge penale, trova base nell’articolo 49 della CDFUE e si impone agli Stati europei in quanto attuano il diritto unionale e poi riflette le tradizioni comuni agli Stati membri e ha identica portata rispetto alla corrispondente diritto garantita dalla convenzione EDU. Pertanto, lo stesso diritto europeo potrà essere applicato con prevalenza su quello nazionale solo se in grado di rispettare quel livello di tutela del diritto fondamentale che trova unica corrispondenza in tutti gli ambiti sopraindicati.
Ma quello che è più importante qui notare è che la conseguenza dell’adozione della carta fondamentale del 2000 è quella relativa al riconoscimento di una pari dignità ai diritti sociali rispetto alle altre categorie di diritti fondamentali, ossia quelli che si caratterizzano per un’attuazione che non necessita di un ruolo attivo da parte dello Stato. Con ciò si pone il tema della loro efficacia, sia pure nell’ambito delle competenze del diritto dell’Unione, e delle ricadute in termini di obblighi positivi in capo agli Stati membri. Anche tale questione va affrontata in base all’articolo 52 della carta fondamentale, che distingue tra diritti e principi, assumendo chiaramente che alcune norme della stessa non fondino diritti immediatamente giustiziabili, se non a fini interpretativi o di parametri di legalità, ma necessitante in prima battuta di una attuazione da parte del legislatore e degli organi esecutivi (TARANTINO).
Questa precisazione sembra orientata a porre i diritti sociali nell’ambito dei principi al fine di fronteggiare il pericolo avversato da alcuni Stati di una giurisdizionalizzazione delle proprie politiche pubbliche in settori particolarmente sensibili per i bilanci pubblici (TARANTINO).
In definitiva anche la Carta europea dei diritti fondamentali distingue tra diritti e principi. Tuttavia, la Corte di giustizia ha sempre scelto un approccio casistico al problema.
12. Il diritto sanitario durante la pandemia e il PNRR
La guerra contro il Coronavirus non è soltanto una lotta tra la scienza contro il nuovo e invisibile virus, ma è anche una battaglia di civiltà giuridica, ossia la riaffermazione di un nuovo volto del diritto alla salute, quello della solidarietà. È stata anche l’occasione per la riscoperta del valore della persona, e della sua dignità, in quanto tale (NOCCELLI).
In termini più espliciti, è venuto in rilievo il problema dell’ambito e dei limiti di tutela dell’essere umano, ossia della concezione che l’uomo ha di sé stesso e della propria identità. In tale materia si ha una perenne contrapposizione dialettica tra la concezione utilitaristica dell’uomo-massa o uomo-mezzo, ossia dell’utilitarismo statuale collettivistica, dell’utilitarismo maggioritario, ossia della maggiore felicità dei più (di matrice anglosassone) a scapito dei pochi o dell’utilitarismo individualistico-egoistico della maggiore felicità propria. A fronte di tali concezioni, vi è l’opposto principio della indisponibilità dell’essere umano, che subordina la liceità degli interventi sul medesimo ad un duplice ordine di limiti coessenziali, ossia i limiti oggettivi salvaguardati dai principi della salvaguardia della vita, dell’integrità fisica, della salute, della dignità umana, dell’eguaglianza e pari dignità dei soggetti umani e i limiti soggettivi segnati dal principio del consenso del soggetto.
La nostra Costituzione si fonda sul primato della persona umana e funzionalizza le consistenti componenti solidaristico sociali e la tutela dei beni mezzo sopraindividuali (della famiglia, della comunità, dello Stato amministrazione, delle istituzioni democratiche) alla salvaguardia dei beni fini della conservazione, della dignità e dello sviluppo della persona umana. C’è bisogno di stabilire una volta per tutte a quale persona e a quale “antropologia” fare riferimento, stante il pluralismo ideologico culturale della nostra società che genera talora radicali divergenze. Va, infine, segnalato come sia necessario riflettere molto sulla portata scriminante del consenso, che vede contrapposte le posizioni personalistiche o garantistiche a quelle utilitaristico-individualistiche fino a quelle egoistico-libertarie a sfondo nichilistico, contrabbandato talora come personalistiche, ma eccentriche rispetto all’autentico personalismo (MANTOVANI).
Abbiamo già detto dell’importanza della sentenza del Consiglio di Stato n. 7045 del 2021, che, pur riferendosi al tema delle vaccinazioni obbligatorie, essa contiene ineludibili principi a valere a livello più generale. Ad essa si può associare il parere della Commissione speciale, affare n. 1614/2017, estensore Carlotti, che, rispondendo al quesito posto dalla Regione Veneto se fosse o meno legittima la preclusione alla frequenza dei corsi scolastici a coloro che rifiutavano i vaccini obbligatori, ha fatto uso di concetti destinati ad avere poi una rilevanza planetaria, quali l’immunità di gregge e l’assenza del rischio zero in ogni trattamento sanitario.
Ad essi può farsi riferimento per una chiusura circolare di queste brevi considerazioni.
La riserva di scienza, alla quale il decisore pubblico, sia a livello normativo che amministrativo, deve fare necessario riferimento (nello specifico, nell’adottare le misure sanitarie atte a fronteggiare l’emergenza epidemiologica), «lascia a questo, per l’inevitabile margine di incertezza che contraddistingue anche il sapere scientifico nella costruzione di verità acquisibili solo nel tempo, a costo di severi studi e di rigorose sperimentazioni e sottoposte al criterio di verificazione-falsificazione, un innegabile spazio di discrezionalità nel bilanciamento tra i valori in gioco, la libera autodeterminazione del singolo, da un lato, e la necessità di preservare la salute pubblica e con essa la salute dei soggetti più vulnerabili, dall’altro, una discrezionalità che deve essere senza dubbio usata in modo ragionevole e proporzionato e, in quanto tale, soggetta nel nostro ordinamento a livello normativo al sindacato di legittimità del giudice delle leggi e a livello amministrativo a quello del giudice amministrativo.»
*Relazione tenuta a Ravello il 27 e 28 ottobre 2023 nell’ambito del Primo convegno della Giustizia Amministrativa, organizzato dal Consiglio di Stato, dal titolo “Protezione, garanzie e tutele in una società fluida, globalizzata e multilivello. Principi, diritti e interessi fondamentali.” Sono in corso di pubblicazione gli atti relativi.
Elenco delle opere dei principali autori citati:
di Roberto Leonardi
Sommario: 1. Il fatto. – 2. Gli artt. 14 bis e 17 bis, l. n. 241/1990. - 3. Il silenzio assenso orizzontale e l’art. 146, d.lgs. n. 42/2004, nella sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 8610/2023. - 4. Brevi considerazioni conclusive.
1. Il fatto
Un privato, proprietario di un terreno insistente nel Piano del Parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, sottoposto a tutela paesaggistica, ai sensi dell’art. 142, c. 2, lett. f), del d.lgs. n. 42/2004, chiedeva il rilascio del permesso di costruire per l’edificazione di una residenza turistico-alberghiera, formulando a tal fine anche la domanda di autorizzazione paesaggistica[1]. Il Comune interessato indiceva una conferenza di servizi decisoria in forma semplificata e con modalità asincrona, al fine di acquisire tutti gli atti di assenso, compreso il parere della Soprintendenza competente, nonché il nulla osta dell’Ente Parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni. Quest’ultimo rilasciava il proprio nulla osta, mentre la Soprintendenza, dopo aver chiesto, in un primo momento, la trasmissione di integrazioni e di chiarimenti, esprimeva, successivamente, un parere negativo. Riattivata ad opera del Comune competente l’istruttoria procedimentale, la Soprintendenza confermava il proprio parere negativo. Da qui seguiva la determina del Comune, con la quale si statuiva che “l’intervento dal punto urbanistico è conforme al PRG e alle norme di attuazione attualmente vigenti e pertanto è assentibile”, mentre “il dissenso espresso non era superabile, senza apportare modifiche sostanziali alla decisione oggetto della conferenza così come rappresentato dal parere contrario della Soprintendenza”.
Tale decisione veniva impugnata dal soggetto privato interessato e il Tar Campania, Salerno, 4 novembre 2022, n. 2946, accoglieva il ricorso, annullando, pertanto, la determina comunale.
Il giudice di prime cure, innanzi tutto, rilevava la tardività del parere negativo della Soprintendenza, generando, in questo modo, il cd. silenzio assenso orizzontale nell’ambito della conferenza di servizi, ai sensi dell’art. 14 bis, l. n. 241/1990, implicando l’inefficacia del parere medesimo, ai sensi dell’art. 2, c. 8 bis, l. n. 241/1990[2]. Pertanto, si osserva che secondo l’art. 17 bis, cit., nell’ambito della conferenza di servizi, gli assensi delle Amministrazioni preposte alla tutela dei cd. interessi sensibili, tra cui la tutela beni culturali e paesaggistici, si intendono acquisiti decorsi 90 giorni dalla richiesta del parere. Allo stesso tempo, gli artt. 22 e 25, d.lgs. n. 42/2004, non si applicano cumulativamente, “la prima norma escludendo”, seguendo le parole del giudice campano e le previsioni di legge, “ espressamente che il procedimento ivi disciplinato (diffida del privato e ricorso avverso il silenzio inadempimento) possa essere applicato agli atti di assenso resi nelle conferenze di servizi”. Nel secondo caso, artt. 25 e 26, d.lgs. n. 42/2004, in tema di conferenza di servizi, i pareri delle Amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili si intendono acquisiti decorsi 90 giorni dalla richiesta, ai sensi dell’art. 17 bis, cit.. Applicando diversamente la norma, il silenzio della Soprintendenza nell’ambito della conferenza di servizi arrecherebbe un danno al privato e, allo stresso tempo, si andrebbe in contrasto con il dato letterale dell’art. 17 bis, cit., che non troverebbe mai applicazione nell’ambito di una conferenza di servizi in materia di beni culturali, dovendo, anche in questo, il privato impugnare il silenzio inadempimento dell’Amministrazione. In conclusione, “attesa l’inefficacia del parere reso tardivamente dalla Soprintendenza, in ragione dell’intervenuta formazione del silenzio assenso”, la determina di conclusione dei lavori del Comune è da reputarsi illegittima.
Il Ministero dei beni culturali propone appello avverso tale decisione e il Consiglio di Stato si pronuncia con la sentenza in esame. Il Ministero sostiene che il silenzio assenso orizzontale, disciplinato dall’art. 17 bis, cit., debba applicarsi esclusivamente nell’ambito dei rapporti tra Amministrazioni e non nell’ambito dell’autorizzazione paesaggistica, inteso dal Ministero come procedimento monostrutturato in cui prevale la volontà di una singola Amministrazione. Pertanto, nella fattispecie in esame, il parere della Soprintendenza non sarebbe tamquam non esset, dovendo il Comune tenerne conto nell’ambito della determinazione inerente al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
2. Gli artt. 14 bis e 17 bis, l. n. 241/1990
Prima di esaminare la sentenza del Consiglio di Stato, pare opportuno soffermarsi, se pur brevemente, suoi caratteri degli istituti oggetto di contrasto interpretavo, per poi esaminare la loro applicazione nello specifico caso dell’autorizzazione paesaggistica[3].
L’art. 14 bis, cit., dispone che la conferenza di servizi decisoria, art. 14, c. 2, l. n. 241/1990, si svolge in forma semplificata e in modalità asincrona, secondo le modalità previste dall’art. 47 del d.lgs. 7 marzo 2005 n. 82[4]. La conferenza semplificata è stata considerata in dottrina[5] un ossimoro o una contraddizione in termini, mancando l’esame contestuale degli interessi coinvolti, vero tratto caratterizzante della conferenza di servizi, oltre alla certezza della decisione finale, superando il dissenso, che ha contraddistinto la conferenza di servizi fin dalla l. 24 novembre 2000, n. 340, con la quale il principio dell’unanimità del consenso è stato sostituito con il principio maggioritario.
A conferma di quanto appena detto potremmo considerare quanto disposto dalla legge delega n. 124/2015 e dal successivo decreto delegato, per poter affermare che anche il legislatore non consideri la conferenza simultanea come la vera conferenza di servizi decisoria. Infatti, l’art. 2, c. 1, lett. a), della legge delega, tra i criteri direttivi, fa riferimento alla ridefinizione e riduzione dei casi in cui la convocazione della conferenza dei servizi è obbligatoria, anche in base alla complessità del procedimento. L’art. 14 bis, c. 2, cit., dispone che la conferenza simultanea è indetta dall’Amministrazione procedente entro cinque giorni lavorativi dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della domanda se il procedimento è ad iniziativa di parte. Al contempo, il previgente art. 14, c. 2, cit., prevedeva che la conferenza di servizi fosse sempre indetta qualora l’Amministrazione procedente dovesse acquisire atti di assenso da parte di altre Amministrazioni e non li avesse ottenuti nel termine di 30 giorni dalla richiesta. Pertanto, una volta ricevuti gli atti di assenso, la conferenza di servizi non era più necessaria.
Secondo il dettato attuale, la conferenza semplificata è obbligatoria, ma non è la vera conferenza di servizi, mentre quella simultanea, la vera conferenza di servizi, nel rispetto del criterio di riduzione della legge delega, è diventata residuale e, quindi, limitata ai casi in cui l’Amministrazione procedente debba superare il dissenso espresso da un’altra Amministrazione nel corso della conferenza semplificata, ovvero, qualora sia necessaria per la complessità del provvedimento da adottare.
Un primo profilo di esame, che in modo particolare rileva in questa sede, è il rapporto tra la conferenza di servizi semplificata e il silenzio assenso tra Amministrazioni e tra un’Amministrazione e un gestore di beni o servizi, art. 17 bis, cit..
La legge delega prevede, tra i criteri guida, il coordinamento delle norme inerenti ai due istituti, mentre la relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo ha sintetizzato il tema osservando che “la formulazione della disposizione, art. 14 bis, cit., che fa riferimento a più atti di assenso, chiarisce che ove sia necessario un solo atto di assenso, si applica l’art. 17 bis della stessa l. n. 241/1990”[6]. In realtà, il Cons. Stato, Comm. Spec., n. 1640/2016, nel parere reso in riferimento ad alcuni profili critici dell’art. 17 bis, cit., ha osservato che “la tesi secondo cui l’art. 17 bis trova applicazione nel caso in cui l’Amministrazione procedente debba acquisire l’assenso di una sola Amministrazione, mentre nel caso di assensi di più Amministrazioni opera la conferenza di servizi, rappresenta, in effetti, quella che fornisce il criterio più semplice per la risoluzione dell’apparente sovrapposizione normativa (…). In alternativa, per estendere l’ambito applicativo dell’art. 17 bis, cit., in modo che appaia, comunque, compatibile con il suo tenore letterale, si potrebbe sostenere che il silenzio assenso di cui all’art. 17 bis, cit., opera sempre, anche nel caso in cui siano previsti assensi di più Amministrazioni e, se si forma, previene la necessità di convocare la conferenza di servizi. Quest’ultima andrebbe convocata, quindi, nei casi in cui il silenzio assenso non si è formato a causa del dissenso espresso dalle Amministrazioni interpellate e avrebbe lo scopo di superare quel dissenso nell’ambito della conferenza appositamente convocata”.
Il Consiglio di Stato sembra, così, voler superare la conferenza semplificata, la quale, invece, viene confermata nel testo definitivo e applicata qualora gli atti di assenso siano più di uno, escludendo in questo caso l’applicazione dell’art. 17 bis, cit.. Infatti, l’art. 14, c. 2, cit., dispone che “la conferenza di servizi decisoria è sempre indetta dall’Amministrazione procedente quando la conclusione positiva del procedimento è subordinata all’acquisizione di più pareri, intese, concerti, nulla osta o altri atti di assenso comunque denominati, resi da diverse amministrazioni, inclusi i gestori di beni o servizi pubblici”.
In definitiva, come osservato in dottrina, seguendo un mero criterio quantitativo, gli istituti della conferenza di servizi semplificata e quello dell’art. 17 bis non verrebbero a sovrapporsi, seguendo una modulazione della procedura in relazione alle questioni sostanziali da affrontare: per gli affari più semplici, il silenzio assenso, ex art. 17 bis; per quelli leggermente più complessi, la conferenza semplificata; per quelli di una certa complessità, la conferenza simultanea[7].
Tuttavia, il criterio quantitativo non pare essere l’unico alla base di una netta distinzione tra i due istituti. Si pensi, ad esempio, al differente ambito oggettivo di applicazione. L’art. 17 bis, cit., si applica anche all’adozione di provvedimenti amministrativi e provvedimenti normativi, mentre la conferenza di servizi ai soli provvedimenti amministrativi. Inoltre, l’art. 14, c. 2, cit., tra gli assensi da acquisire, menziona i pareri e le intese, esclusi dall’art. 17 bis[8].
La conferenza di servizi e il silenzio assenso tra Amministrazioni troveranno spazio nell’acquisizione di pareri vincolanti per la loro natura decisoria, principio fondamentale che rileva per la sentenza in esame. Al contempo non si applica l’art. 17 bis ai pareri non vincolanti, per i quali, come del resto per le valutazioni tecniche, continuano ad applicarsi le procedure di cui agli artt. 16 e 17, l. n. 241/1990.
L’art. 17 bis, cit., opera, quindi, solo nella fase decisoria, nella fase in cui l’amministrazione procedente, completata l’istruttoria e nella quale operano anche gli artt. 16 e 17, cit., propone uno schema di provvedimento ad un’altra Amministrazione, anche preposta alla cura degli interessi sensibili, alla cui inerzia, nei termini di 30 o 90 giorni, segue il silenzio assenso. Invece, la conferenza simultanea, essendo obbligatoria per l’acquisizione di più atti di assenso e dovendo essere convocata nel termine di cinque giorni lavorativi dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal deposito dell’istanza di parte, deve effettuare un’istruttoria completa e in questa devono essere acquisiti anche i pareri meramente consultivi e non vincolanti, oltre alle valutazioni tecniche.
Un altro tratto distintivo della conferenza di servizi semplificata (art. 14 bis) e del silenzio assenso orizzontale (art. 17 bis) è dato dalla disciplina della qualificazione dell’assenso implicito e dalla modalità di superamento del dissenso. Nel primo caso, l’art. 14 bis, c. 3, introduce i requisiti necessari per far valere il dissenso e in assenza dei quali si ha un assenso implicito[9], mentre l’art. 17 bis non menziona qualità specifiche del dissenso, operando così in caso d’inerzia dell’Amministrazione. Inoltre, in riferimento al superamento del dissenso, l’art. 17 bis, c. 2, stando alla lettera della norma, ritiene superabile solo il dissenso tra Amministrazioni statali, nel quale caso, il Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, decide sulle eventuali modifiche da apportare allo schema di provvedimento presentato dall’amministrazione procedente.
Un ulteriore tratto distintivo dei due istituti è dato dal profilo soggettivo della conferenza di servizi simultanea e del silenzio assenso tra amministrazioni. Difatti, l’art. 14 fa riferimento a tutte le Amministrazioni pubbliche, compresi i gestori dei beni e dei servizi pubblici, mentre l’art. 17 bis, cit., individuerebbe, come amministrazioni procedenti, le sole Amministrazioni pubbliche, mentre le Amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi sarebbero i soggetti a cui chiedere gli atti di assenso comunque denominati.
Soffermandoci ancora sui caratteri essenziali dell’istituto introdotto dall’art. 17 bis, cit., possiamo dire che è un silenzio assenso endoprocedimentale, con effetti all’interno di un procedimento amministrativo, “come fatto equivalente alla valutazione, da parte delle autorità interpellate, circa la sussistenza di elementi contrari all’adozione e al contenuto del provvedimento prospettato dall’autorità decidente”[10].
Tale silenzio si differenzia, pertanto, da quello ‘provvedimentale’ operante per l’inerzia dell’Amministrazione nei procedimenti ad istanza di parte, nei quali, allo scadere del termine per la conclusione del procedimento, il privato ottiene l’effetto utile previsto dalla norma di riferimento, rispondendo in questo modo, tale istituto, alle istanze di liberalizzazione delle attività economiche private[11]. Questa conseguenza all’inerzia dell’Amministrazione, applicata al rapporto verticale amministrazione/privato, da cui dobbiamo distinguere, ai sensi dell’art. 17 bis, cit., il silenzio applicato al rapporto orizzontale tra amministrazioni, è disciplinata ancora oggi dall’art. 20, l. n. 241/1990, il quale, tra le sue specificità, contempla al c. 4 l’espressa esclusione del silenzio assenso nei procedimenti ad istanza di parte riguardanti i cd. interessi sensibili, tra cui la tutela dei beni culturali, ai quali, invece, come si è detto, l’art. 17 bis, c. 3, cit., applica il silenzio assenso tra Amministrazioni[12].
La differenza tra l’art. 17 bis e l’art. 20, c. 4, cit., permane, almeno formalmente, e da qui sono scaturiti nella giurisprudenza amministrativa i dubbi interpretativi sulla compatibilità dei due articoli in una visione di sistema[13].
Il silenzio endoprocedimentale e quello provvedimentale sollevano un altro profilo critico legato alla ratio stessa dei due istituti. Infatti, se in entrambi i casi si vogliono perseguire esigenze di semplificazione, con i rischi annessi, allo stesso tempo il silenzio provvedimentale deve garantire un equilibrio e un bilanciamento tra la tutela dell’interesse pubblico e quello del privato cui si lega un legittimo affidamento. In quello endoprocedimentale, invece, l’equilibrio da cercare è tra la tutela di diversi interessi pubblici, il principio di legalità, il principio delle competenze e quello della leale collaborazione tra Amministrazioni e non tanto l’istituto del silenzio in quanto tale, ma la sua generalizzazione tra Amministrazioni solleva qualche dubbio sulla realizzazione di tale equilibrio. Come del resto ha sollevato qualche dubbio, per rimanere nell’ambito della necessità di un coordinamento tra Amministrazioni, soprattutto nella tutela dei beni culturali, ma non solo, il rapporto tra il silenzio assenso tra Amministrazioni e la conferenza di servizi, di cui si è già detto, come strumento di semplificazione amministrativa da impiegare nei procedimenti a struttura complessa e nei procedimenti collegati. Non a caso, la delega per il riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi, ex art. 2, l. n. 124/2015, indica tra i princìpi e i criteri direttivi per il legislatore delegato “il coordinamento delle disposizioni in materia di conferenza di servizi con quelle dell’art. 17 bis”.
La rilevanza dell’art. 17 bis, cit., e i profili critici derivanti da importanti dubbi interpretativi del medesimo per problemi di coordinamento e di sovrapposizione fra gli interventi dell’Amministrazione, a causa della sua non piena sincronizzazione con gli altri strumenti già presenti, hanno prodotto la formulazione di un quesito da parte della Presidenza del Consiglio, Ufficio legislativo del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, a seguito del quale è stato reso il parere n. 1640/2016, della Commissione speciale del Consiglio di Stato, appositamente istituita[14], parere diventato centrale anche nelle argomentazioni della sentenza in esame.
La Commissione ha, innanzitutto, sottolineato la portata sistemica e il valore di principio del silenzio assenso tra Amministrazioni, paragonandolo per la sua portata di principio generale alle modifiche introdotte dalla l. n. 124/2015 all’art. 21 nonies, l. n. 241/1990, in tema di annullamento d’ufficio[15] e in particolare in riferimento al termine di 18 mesi entro il quale poter intervenire da parte dell’amministrazione in autotutela. Infatti, secondo la Commissione, come sono stati posti limiti temporali all’esercizio del potere pubblico allo scopo di dare certezza ai rapporti tra l’amministrazione e i cittadini, consolidando le situazioni giuridiche soggettive di questi ultimi, allo stesso tempo la generalizzazione del silenzio assenso tra amministrazioni rappresenterebbe un secondo principio generale da applicare ai rapporti tra Amministrazioni nei casi in cui il procedimento debba concludersi con una decisione pluristrutturata[16], nella quale, ex lege, il provvedimento finale dell’amministrazione procedente deve essere preceduto da un assenso vincolante di un’Altra amministrazione che assumerebbe, in tale procedimento amministrativo, il ruolo di codecisore.
Nel definire la portata generale di tale nuovo paradigma, la Commissione speciale ha enunciato tre fondamenti: uno costituzionale, uno di sistema e uno europeo.
Per il primo, il principale fondamento costituzionale dell’art. 17 bis, cit., è individuato nel principio del buon andamento, ex art. 97, c. 2, Cost.[17], letto in un’ottica moderna, volto a tutelare, attraverso una conclusione tempestiva dei procedimenti, “il primato dei diritti della persona, dell’impresa e dell’operatore economico rispetto a qualsiasi forma di dirigismo burocratico”[18] e a qualificare l’attività amministrativa come prestazione che deve soddisfare i diritti civili e sociali, ex art. 117, c. 2, lett. m), Cost.[19].
In riferimento al secondo, il silenzio assenso tra Amministrazioni attua il principio di trasparenza, a sua volta declinazione del principio della buona amministrazione[20], alla cui attuazione darebbe un importante contributo “l’introduzione di rimedi di semplificazione dissuasivi e stigmatizzanti il silenzio”[21].
L’ulteriore fondamento è, secondo la Commissione speciale, da rinvenirsi nel diritto europeo, in un principio desumibile dalla cd. direttiva Bolkestein (2006/123/CE, definita dalla stessa Commissione microcosmo per sottolinearne la specificità dell’oggetto), la quale, allo scopo di prevenire gli effetti negativi dell’incertezza sul mercato, ha limitato i casi in cui un’attività possa essere sottoposta ad autorizzazione e ha introdotto il principio della tacita autorizzazione, sostenendo “come anche in ambito europeo sia sempre più avvertita l’esigenza di introdurre rimedi semplificanti per neutralizzare gli effetti negativi dell’inerzia dell’amministrazione”. In realtà, se la direttiva Bolkestein rappresenta appunto un microcosmo, la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, come del resto quella della Corte costituzionale, ha tradizionalmente espresso un orientamento contrario nei confronti di una tipizzazione del silenzio assenso in luogo del provvedimento espresso.
L’art. 17 bis, cit., come si diceva, dispone che l’assenso deve intendersi acquisito qualora l’Amministrazione codecidente sia rimasta inerte per 30 giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento, corredato della relativa documentazione, da parte dell’amministrazione procedente. In tal modo, s’inserisce un termine unico, per così dire ordinario, che va a determinare e a delimitare i tempi dell’azione amministrativa, prevalendo su termini diversi disposti dalla normativa vigente, a eccezione di quanto disposto dal c. 3 del medesimo articolo, che introduce esso stesso un termine diverso, di 90 giorni, per gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili. Il termine di 30 giorni è suscettibile di un’unica interruzione, qualora, nel medesimo termine, vengano manifestate esigenze istruttorie o motivate richieste di modifica, provando in questo modo, a mio parere, che l’istruttoria procedimentale non possa essere considerata completa e conclusa solo a seguito della decisione presa dall’amministrazione procedente, necessitando, di contro, che l’istruttoria debba essere considerata completa e conclusa anche da parte dell’amministrazione a cui sia stato richiesto l’assenso comunque denominato.
Qualora, pertanto, non lo fosse, l’assenso, il concerto o il nulla osta dovranno essere comunicati nei 30 giorni successivi alla ricezione degli elementi istruttori o dello schema di provvedimento. Decorso tale ulteriore termine, entra in gioco il nuovo meccanismo di semplificazione: l’amministrazione codecidente non potrà più esprimere il proprio dissenso e così l’inerzia viene “sanzionata”, come espressamente e significativamente scritto dalla Commissione speciale nel parere citato, e l’equipollenza del silenzio con il provvedimento espresso favorevole diventa il rimedio nei confronti della natura patologica dell’inerzia dell’amministrazione.
Sempre in riferimento al termine, per i procedimenti relativi alla tutela degli interessi sensibili, come si diceva, l’art. 17 bis, c. 3, fissa un termine più di lungo, di 90 giorni, per la formazione del silenzio, pur facendo salvo, contestualmente, un termine ancora diverso, previsto per le discipline di settore.
L’utilizzo dell’aggettivo diverso, nella sua genericità e in assenza di ulteriori specificazioni, lascia intendere che il termine per la formazione del silenzio possa essere più lungo, ma anche più breve di 90 giorni, come è il caso del termine di 45 giorni, previsto dall’art. 146, d.lgs. n. 42/2004[22], riducendo drasticamente, in questo caso, la differente tutela prevista dall’art. 17 bis, cit., tra interessi ordinari e interessi sensibili[23].
Per quanto riguarda l’ambito di applicazione soggettivo, l’art. 17 bis, cit., si applica a tutte le pubbliche amministrazioni, regioni ed enti locali compresi, come ribadito nel parere n. 1640/2016, cit..
Difatti, la disciplina del silenzio assenso è da ricondurre alla potestà legislativa esclusiva dello Stato attinente ai livelli essenziali delle prestazioni, ai sensi dell’art. 117, c. 2, lett. m), Cost.[24]. Inoltre, in riferimento a questi ultimi, l’art. 29, c. 2 ter, l. n. 241/1990, nel ricondurre anche le disposizioni della legge sul procedimento sul silenzio assenso ai livelli essenziali delle prestazioni, non distingue il silenzio endoprocedimentale e quello provvedimentale, anche perché, pur nella diversità strutturale dell’art. 17 bis e dell’art. 20, cit., in entrambi i casi l’obiettivo, almeno negli intenti, è quello della semplificazione e dell’accelerazione dell’azione amministrativa.
Sempre nell’ambito soggettivo di applicazione, devono essere considerate le Regioni a Statuto speciale, le Province autonome di Trento e Bolzano[25], le Autorità indipendenti, in virtù della natura amministrativa loro riconosciuta[26], nonché gli organi politici, sia nella qualità di organo procedente, sia in quella di organo che deve esprimere un assenso comunque denominato. In questo caso, si potrebbe porre un problema in ordine alla modalità di composizione del disaccordo, di cui all’art. 17 bis, c. 2, in caso d’inerzia dell’organo politico, che si aggiunge alle perplessità anche nei confronti della stessa scelta di affidare a un organo politico, come avviene già per la conferenza di servizi, la composizione amministrativa definitiva degli interessi da tutelare in caso di dissenso di un’amministrazione: scelta ancor più critica se si tratta d’interessi sensibili per l’alto profilo tecnico sotteso, in violazione del principio della separazione dell’indirizzo politico dall’attività di gestione amministrativa.
Quanto ai gestori di beni o servizi pubblici, ultimando con l’ambito di applicazione soggettivo dell’art. 17 bis, il richiamo sembrerebbe indicare l’applicazione del silenzio assenso ai casi in cui essi siano chiamati a rendere un atto di assenso comunque denominato, e non a quelli in cui gli stessi quali amministrazioni procedenti che necessitino di un assenso per concludere un proprio procedimento. Sul punto, il parere n. 1640/2016, cit., della Commissione speciale ha seguito un orientamento estensivo, equiparando i gestori alle amministrazioni, negli ambiti e nei limiti in cui la loro attività sia procedimentalizzata[27].
Passando all’ambito di applicazione oggettivo, l’art. 17 bis, si applica espressamente ai procedimenti diretti all’adozione di provvedimenti non solo amministrativi, ma anche quelli normativi di competenza delle amministrazioni. In questo ambito, tuttavia, la questione più significativa e critica attiene all’applicabilità o meno dell’istituto anche nei casi in cui sia prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati da parte di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o della salute dei cittadini[28].
In riferimento a questi interessi, l’art. 17 bis, c. 3, cit., introduce, come si diceva, una disciplina diversa rispetto a quella prevista dall’art. 20, c. 4, cit., il quale continua a regolare, pur dopo l’introduzione dell’art. 17 bis, il silenzio assenso dell’Amministrazione procedente a seguito di un’istanza di parte, il cui c. 4, esclude la generalizzazione del silenzio assenso, come disposto dall’art. 20, c. 1, nei procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggio, l’ambiente, la tutela dal rischio idrogeologico, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità[29].
L’estensione del silenzio assenso endoprocedimentale agli interessi sensibili solleva una serie di profili critici cui la Commissione speciale, con il parere n. 1640/2016, ha cercato di dare una risposta, trovando un’adesione completa dalla sentenza in esame.
Il riferimento è, innanzi tutto, alla necessità di coordinamento tra l’art. 17 bis e gli artt. 16 e 17, cit., nonché al rapporto tra il silenzio assenso tra Amministrazioni e il silenzio che si produce nell’ambito della conferenza di servizi. Non meno di rilievo è la necessità di coordinamento, come si diceva, tra l’art. 17 bis, l’art. 20, c. 4, cit., e l’art. 146, d.lgs. n. 42/2004 in tema di beni culturali, oltre alle implicazioni dell’applicazione dell’art. 17 bis al medesimo decreto legislativo. Il tutto inserito, come già si è detto, in un orientamento generale della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia UE contrario all’applicazione all’inerzia dell’amministrazione del rimedio preventivo e generalizzato del silenzio assenso quando gli interessi coinvolti siano di rango primario e tra questi figurano di certo gli interessi ambientali.
3. Il silenzio assenso orizzontale e l’art. 146, d.lgs. n. 42/2004 nella sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 8610/2023
In un primo quadro legislativo così delineato, il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, è chiamato a pronunciarsi sull’applicabilità del cd. silenzio assenso orizzontale agli atti di tutela dei cd. interessi sensibili, nello specifico al parere paesaggistico reso tardivamente nell’ambito di una conferenza di servizi, ai sensi dell’art. 14 bis, cit.. Tale questione, oggetto di contrasto interpretativo e di ampio dibattito dottrinale, è strettamente correlata, come già si è detto, con l’applicabilità o meno dell’art. 17 bis, cit., al procedimento di autorizzazione paesaggistica[30].
Il giudice d’appello ricostruisce il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.
Prima della riforma introdotta dalla l n. 124/2015[31], l’art. 146, d.lgs. n. 42/2004, prevedeva che l’Amministrazione competente, il Comune a seguito della delega della Regione, doveva provvedere sulla domanda del privato nel termine di 60 giorni, dopo aver acquisito il parere della Soprintendenza da rendere nel termine di 45 giorni dalla ricezione degli atti. Decorso inutilmente tale termine, il Comune doveva provvedere sulla domanda anche senza l’acquisizione del parere della Soprintendenza, la quale poteva comunque intervenire tardivamente fino alla conclusione formale del procedimento di autorizzazione paesaggistica. In tale fattispecie, il silenzio della Soprintendenza era da configurare come silenzio devolutivo e, pertanto, l’autorizzazione paesaggistica veniva imputata al Comune che l’aveva rilasciata.
La l. n. 124/2015 ha mutato radicalmente questa impostazione tradizionale, ripensando e modificando profondamente l’attenuazione dell’applicazione dei procedimenti di semplificazione qualora siano coinvolti interessi cd. sensibili[32]. Pertanto, proponendo una trasformazione del ruolo della semplificazione, da valore strumentale a bene o valore di natura finale e, allo stesso tempo, attenuando la primarietà degli interessi cd. sensibili in favore di un loro bilanciamento con altri valori costituzionalmente rilevanti, la cd. legge Madia ha modificato l’istituto della conferenza di servizi, artt. 14 ss., e ha introdotto il cd. silenzio assenso orizzontale tra pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’art. 17 bis, di cui si è già detto.
La giurisprudenza, anche dopo la Riforma Madia, ha, in diversi casi, ancora utilizzato il modello del silenzio devolutivo[33]. Secondo questo modello interpretativo, in caso di inerzia della Soprintendenza, il parere tardivo sarebbe obbligatorio, ma non vincolante, obbligando, pertanto, l’Amministrazione procedente ad una sua valutazione anche in riferimento ai profili paesaggistici[34]. Questo in applicazione dell’art. 146, c. 9, d.lgs. n. 42/2004, non abrogato dall’art. 17 bis, cit., ai sensi del quale “decorsi inutilmente sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del Soprintendente, senza che questi abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione”. In definitiva, secondo questo primo orientamento giurisprudenziale[35], l’autorizzazione paesaggistica costituirebbe un provvedimento mono-strutturato, nel quale il parere della Soprintendenza verrebbe ad inserirsi, condividendo con l’Amministrazione procedente la fase istruttoria e non quella decisoria. Se si accetta tale orientamento, non può trovare applicazione in questo modello l’art. 17 bis, cit., che ha introdotto una forma di co-decisione attraverso il silenzio, imponendo all’Amministrazione procedente di condurre un’istruttoria completa al fine di predisporre uno schema di provvedimento da sottoporre, nel caso di specie, alla Soprintendenza come Amministrazione co-decidente. Si tratta, dunque, di un atto a contenuto decisorio e di un giudizio di merito tecnico-discrezionale. Il parere di compatibilità paesaggistica rientra tra i pareri a contenuto tecnico, in ragione della specificità della materia su cui deve esprimersi ed è qualificato dallo stesso legislatore obbligatorio non vincolante[36].
A questo primo orientamento se ne è opposto un altro, secondo il quale il silenzio assenso orizzontale, di cui all’art. 17 bis, cit., si applicherebbe anche al parere reso dalla Soprintendenza. Condivide tale orientamento la sentenza in esame, considerandolo “maggiormente conforme al quadro normativo di riferimento”[37].
Sul piano sistematico, i pareri vincolanti contribuirebbero alla formazione di un provvedimento finale pluristrutturato[38], considerando il parere della Soprintendenza “espressione di una cogestione attiva del vincolo paesaggistico”[39], modello considerato dalla sentenza in esame maggiormente conforme al dettato costituzionale. Infatti, la dequotazione di tale parere a mero parere consultivo indebolirebbe il delicato equilibrio sotteso all’art. 146, d.gs. n. 42/2004, rispetto al riparto delle funzioni legislative di cui all’art. 117 Cost.. Sarebbe, invece, maggiormente in linea con un quadro costituzionalmente vincolato riconoscere al parere della Soprintendenza un carattere co-decisorio, come si desume anche dalla riforma dell’art. 146, operata dal d.l. n. 70/2011, conv. in l. n. 106/2011 con la quale si è stabilito che la Regione, o il Comune delegato, devono trasmettere alla Soprintendenza una proposta motiva, dopo un’adeguata istruttoria.
In definitiva, a tali pareri vincolanti, necessari per definire il contenuto della decisione finale in qualità di atti co-decisori (cd. decisione pluristrutturata), si applicherebbe l’art. 17 bis, cit., partendo anche da una sua esegesi letterale inequivocabile, come affermato dal citato parere del Consiglio di Stato, n. 1640/2016, il quale ha affermato che “la formulazione testuale del comma 3 dell’art. 17 bis, l. n. 241 del 1990, consente di accogliere la tesi favorevole all’applicabilità del meccanismo di semplificazione anche ai procedimenti di competenza di Amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili, ivi compresi i beni culturali e la salute dei cittadini. Sul punto la formulazione letterale del c. 3 è chiara e non lascia spazio a dubbi interpretativi: le Amministrazioni preposte alla tutela degli interessi sensibili beneficiano di un termine diverso (quello previsto dalla normativa di settore o, in mancanza, del termine di novanta giorni), scaduto il quale sono, tuttavia, sottoposte alla regola generale del silenzio assenso”[40].
Ed è proprio sulla base di indici ermeneutici in favore della tesi della natura co-decisoria del parere della Soprintendenza che il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, argomenta la condivisione di tale orientamento.
Oltre alle disposizioni già esaminate dell’art. 14 bis e dell’art. 17 bis, cit., anche la ratio e il dato letterale del novellato art. 2, c. 8 bis, l. n. 241/1990, pare sostenere questa tesi[41]. Infatti, si afferma che “le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14 bis, c. 2, lett. c), 17 bis, c. 1 e 3, 20, c. 1, ovvero successivamente all’ultima riunione di cui all’art. 14 ter, c. 7, nonché i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti, di cui all’art. 19, c. 3 e 6 bis, primo periodo, adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall’articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni”.
Afferma il Consiglio di Stato che “la lettera di tale disposizione, riferendosi espressamente alle fattispecie del silenzio maturato nel corso di una conferenza di servizi, ex art. 14 bis e nell’ambito dell’istituto di cui all’art. 17 bis, è inequivocabile nell’affermare il principio (che non ammette eccezioni) secondo cui le determinazioni tardive sono irrilevanti in quanto prive di effetti nei confronti dell’autorità competente, e non soltanto privi di carattere vincolante. Da ciò discende che non c’è più spazio, alla luce del novum normativo in disamina, per tentare la strada della sopravvivenza del c.d. silenzio-devolutivo, stante la formulazione volutamente onnicomprensiva della nuova norma. Come già ricordato, il testo della legge, specie quando formulata, come nel caso in esame, mediante la c.d. tecnica per fattispecie analitica, fornisce la misura della discrezionalità giudiziaria e costituisce un limite insuperabile rispetto a opzioni interpretative che ne disattendano ogni possibile risultato riconducibile al suo potenziale campo semantico (così come delimitato dalla disposizione), per giungere ad esiti con esso radicalmente incompatibili”.
Così come simili previsioni si ricavano anche dal d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31 (Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata), che, all’art. 11 (Semplificazioni procedimentali), c. 9, il quale prevede espressamente che “in caso di mancata espressione del parere vincolante del Soprintendente nei tempi previsti dal c. 5, si forma il silenzio assenso ai sensi dell’art. 17 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni e l’amministrazione procedente provvede al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica”.
Tale disposizione è chiarissima nel qualificare il parere (semplificato) della Soprintendenza come atto co-decisorio ai sensi dell’art. 17 bis, cit., come ulteriormente ribadito dal Ministero dei Beni culturali con le circolari 10 novembre 2015, prot. n. 27158 e 20 luglio 2016, prot. N. 21892.
Fondamentale, secondo la sentenza in esame, nell’affermare la conformità a Costituzione dell’applicazione del silenzio assenso orizzontale al procedimento di autorizzazione paesaggistica, è la decisione della Corte cost., 22 luglio 2021, n. 160.
Questa sentenza, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, c. 6, della legge della Regione Siciliana 6 maggio 2019, n. 5 (Individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata), che aveva introdotto il silenzio-assenso c.d. verticale (ovvero nel rapporto con il privato) sulla domanda di autorizzazione paesaggistica, formula delle argomentazioni a sostegno della compatibilità costituzionale dell’applicazione del silenzio assenso orizzontale agli interessi culturali paesaggistici.
Afferma, infatti, la Corte che il silenzio assenso previsto dalla norma regionale citata assume una valenza del tutto diversa rispetto a quanto disciplinato all’art. 11, c. 9, del d.P.R. n. 31 del 2017 (ovvero allo schema del silenzio assenso c.d. orizzontale). Non si tratta, infatti, sempre secondo la Corte, “di silenzio assenso endoprocedimentale, destinato a essere seguito da un provvedimento conclusivo espresso dell’Amministrazione procedente, ma di un silenzio assenso provvedimentale, destinato a sostituire l’autorizzazione paesaggistica richiesta, secondo quanto previsto dall’art. 20, cit., (…); l’assenso del soprintendente sulla proposta di assenso ricevuta dall’Amministrazione procedente si forma per silentium, ma ciò non esonera quest’ultima dalla necessità di concludere il procedimento con una decisione espressa, come si desume, del resto, dall’ultima parte del citato c. 9 dell’art. 11 del d.P.R. n. 31/2017, secondo cui l’Amministrazione procedente, una volta formatosi il silenzio assenso sul parere del soprintendente, «provvede al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica». Ciò, in linea con il divieto stabilito all’art. 20, c. 4, cit., che esclude l’applicazione del silenzio assenso nei rapporti verticali tra privati e pubbliche amministrazioni preposte alla tutela dei cd. interessi sensibili, tra cui, per quanto qui rileva, quelli relativi agli atti e ai procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico”.
Proprio muovendo dalla distinzione con il silenzio assenso orizzontale, la decisione della Corte censura la disposizione regionale sottoposta al suo esame, la quale, introducendo una surrettizia forma di silenzio assenso verticale, contrasta con il principio generale stabilito all’art. 20, c. 4, cit., che vieta la formazione per silentium del provvedimento conclusivo nei procedimenti ad oggetto la tutela di interessi sensibili.
4. Brevi considerazioni conclusive
L’orientamento che esclude l’applicazione del silenzio assenso verticale al parere da rendere, da parte della Soprintendenza, nell’ambito del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, contraddice anche la ratiodell’art. 17 bis, cit., intesa come funzionale a evitare che, ove il procedimento debba concludersi con l’adozione di una decisione pluristrutturata, la condotta inerte dell’Amministrazione interpellata possa produrre un blocco del procedimento, impedendo, così, l’adozione del provvedimento finale.
In tale quadro, l’istituto in esame si inserisce in un’evoluzione normativa che ha nel tempo reso più fluida l’azione amministrativa, tentando di neutralizzare gli effetti negativi dell’inerzia dell’Amministrazione, in un primo momento nei rapporti con i privati e, in seguito, anche nei rapporti tra Amministrazioni.
Il nuovo strumento di semplificazione conferma, pertanto, la natura per così dire patologica che caratterizza il silenzio dell’Amministrazione, soprattutto nell’ambito di un rapporto orizzontale con un’altra Amministrazione co-decidente.
L’istituto del silenzio-assenso orizzontale è la prova della contrarietà del legislatore nei confronti dell’inerzia amministrativa, inerzia che viene stigmatizzata al punto tale da ricollegare al silenzio dell’Amministrazione interpellata la più grave delle “sanzioni” o il più efficace dei “rimedi”, ossia l’equiparazione del silenzio all’assenso con conseguente perdita del potere di dissentire e di impedire la conclusione del procedimento.
Queste esigenze non sono circoscrivibili alla specifica natura del procedimento di volta in volta preso in esame, imponendosi in via generalizzata, pur le eccezioni previste dall’art. 17 bis, c. 4, l. n. 241/1990) per ogni forma di esercizio del pubblico potere, amministrativo o normativo, qualora il provvedimento finale presupponga una fase di co-decisione di competenza di un’altra Amministrazione.
A tal proposito, sono rilevanti le argomentazioni del citato parere del Consiglio di Stato nel quale si afferma che “il Consiglio di Stato ritiene si possa parlare di un ‘nuovo paradigma’: in tutti i casi in cui il procedimento amministrativo è destinato a concludersi con una decisione pluristrutturata nel senso che la decisione finale da parte dell’Amministrazione procedente richiede per legge l’assenso vincolante di un’altra Amministrazione, il silenzio dell’Amministrazione interpellata, che rimanga inerte non esternando alcuna volontà, non ha più l’effetto di precludere l’adozione del provvedimento finale ma è, al contrario, equiparato ope legis ad un atto di assenso e consente all’Amministrazione procedente l’adozione del provvedimento conclusivo. Il silenzio assenso orizzontale, previsto dall’art. 17 bis, opera, nei rapporti tra Amministrazioni co-decidenti, quale che sia la natura del provvedimento finale che conclude il procedimento, non potendosi sotto tale profilo accogliere la tesi che, prospettando un parallelismo con l’ambito applicativo dell’art. 20 concernente il silenzio assenso nei rapporti tra privati, circoscrive l’operatività del nuovo istituto agli atti che appartengono alla categoria dell’autorizzazione, ovvero che rimuovono un limite all’esercizio di un preesistente diritto. La nuova disposizione, al contrario, si applica a ogni procedimento (anche eventualmente a impulso d’ufficio) che preveda al suo interno una fase co-decisoria necessaria di competenza di altra amministrazione, senza che rilevi la natura del provvedimento finale nei rapporti verticali con il privato destinatario degli effetti dello stesso”.
Le medesime conclusioni si impongono in riferimento all’art. 14 bis, cit., così come modificato con il d.lgs. 30 giugno 2016, n. 127 (Norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi, in attuazione dell’articolo 2 della legge 7 agosto 2015, n. 124), che presenta un analogo meccanismo semplificatorio.
In definitiva, il quadro normativo è chiaro e lo è anche la ratio sottesa agli artt. 14 bis e 17 bis, anche in riferimento alle autorizzazioni paesaggistiche, come ben argomentato dal parere del Consiglio di Stato, comm. spec., n. 1640/2016, cit., al quale la sentenza in esame aderisce. Tuttavia, provando ad andare oltre il quadro sistematico normativo e la sua inequivocabile interpretazione letterale e preso atto di un orientamento giurisprudenziale maggioritario nell’applicazione di tale quadro normativo anche alla tutela degli interessi cd. sensibili, si potrebbe concludere sostenendo che, se il silenzio assenso orizzontale è la “cura” e l’inerzia della Pubblica Amministrazione e il dirigismo burocratico sono la “malattia” del sistema, bisognerebbe approfondire se, in materia di tutela del patrimonio culturale-paesaggistico, la cura individuata in sede politica-legislativa non sia peggiore della malattia[42].
[1] Per un inquadramento generale della materia, si rinvia al Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, 2019, 1161 ss.; P. Marzaro, La “cura” ovvero “l’Amministrazione del paesaggio”: livelli, poteri e rapporti tra Enti nella riforma del 2008 del Codice Urbani (dalla concorrenza dei poteri alla paralisi dei poteri?), in Riv. Giur. Urb., 2008, 4, 416 ss.; G. Mastronardo, Valore del paesaggio, in A. Angiuli, V. Caputi Jambrenghi (a cura di), Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, 2005, 344 ss..
[2] Si rinvia a Cons. Stato, Sez. V, 21 gennaio 2022, n. 255, in www.giustizia-amministrativa.it.
[3] Sul tema, v. S. Caggegi, Funzione del parere di compatibilità paesaggistica e sindacabilità degli atti finalizzati alla tutela ambientale. Nota a Consiglio di Stato, sez. IV, 21 marzo 2023, n. 2836, in www.giustiziainsieme.it; G. Delle Cave, «In interpretatione non fit claritas»: sulla duplice (anzi triplice) esegesi pretoria in materia di silenzio assenso ex art. 17 bis l. n. 241/1990 e parere paesaggistico soprintendizio, ivi; Id., Autorizzazione paesaggistica e silenzio assenso tra P.A.: un connubio (im)possibile? competenze procedimentali e portata applicativa dell’art. 17 bis l. n. 241/1990; ivi; S. Speranza, Silenzio assenso tra P.A. e autorizzazione paesaggistica. Le prospettive del Consiglio di Stato (nota a Consiglio di Stato, Sezione Sesta, n. 4098 del 24 maggio 2022); ivi; F. D’Angelo, Note in tema di «concerto», «parere vincolante» e «cogestione» di funzioni amministrative, ivi.
[4] Ai sensi dell’art. 47, d.lgs. n. 85/2005, Trasmissione dei documenti tra le pubbliche amministrazioni.
[5] In questi termini, L. De Lucia, La conferenza di servizi nel d.lgs. 30 giugno 2016 n. 127, cin Riv. Giur. Urb., 201621. Contra, S. Battini, La trasformazione della conferenza di servizi e il sogno di Chuange-Tzu, in S. Battini (a cura di), La nuova conferenza di servizi, Roma, 2016, rileva che “la conferenza semplificata risponde allo scopo di distinguere, secondo il principio di adeguatezza, tipi di conferenze diversi per categorie di decisioni differenti. Per le decisioni più semplici, la conferenza con riunione può rappresentare perfino una soluzione di complicazione, mentre può risultare utile come strumento che della conferenza di servizi tradizionale presenta alcuni tratti, come le istruttorie parallele e il dialogo telematico, ma non la riunione contestuale”.
[6] Il criterio strettamente quantitativo è stato sostenuto da P. Marzaro, Il coordinamento orizzontale tra amministrazioni, in Riv. Giur. Urb.., 2016, 25. Contra, L. De Lucia, La conferenza di servizi nel d.lgs. 30 giugno 2016, n. 127, cit., 21, il quale considera tale distinzione fondarsi “su un labilissimo dato testuale”. Si veda, altresì, il parere del Cons. Stato, Comm. Spec., n. 890/2016, con il quale s’invita il governo a chiarire il rapporto tra la conferenza di servizi e l’art. 17 bis, cit., “il quale risulta a propria volta finalizzato ad acquisire secondo una particolare modalità ulteriormente semplificata per silentium i medesimi atti di assenso”.
[7] In questi termini, L. De Lucia, La conferenza di servizi, cit., 22. Cfr., altresì, P. Marzaro, Silenzio assenso tra amministrazioni, in www.federalismi.it, 28, in cui si afferma che “il coordinamento orizzontale tra amministrazioni si muoverà, dunque, lungo una linea che va dalla decisione pluristrutturata più semplice a quella più complessa; dall’art. 17 bis, quando il provvedimento richiede l’acquisizione di un solo atto di consenso, e dunque vi sia una sola amministrazione co-decidente, all’art. 14, quando sia coinvolta una pluralità di amministrazioni, accanto a quella procedente”. S. Battini, La trasformazione della conferenza di servizi, cit., 21, osserva che “la disciplina della conferenza semplificata assorbe e persino sopravanza quella del silenzio assenso fra amministrazioni, introdotto dall’art. 3 della stessa l. n. 124/2015: i due istituti sono sovrapponibili e si coordinano nel senso che l’uno si applica in casi di decisione pluristrutturata con due amministrazioni, l’altro nei casi di decisioni pluristrutturate complesse, che coinvolgono un numero più elevato di amministrazioni”.
[8] Sulla necessità di considerare anche le intese tra gli atti di assenso comunque denominati e acquisibili sia con la conferenza di servizi, sia con il silenzio assenso, v. F. Scalia, Prospettive e profili problematici della nuova conferenza di servizi, cit., 634, il quale osserva che “non si vedono difficoltà nel comprendere anche le intese tra gli assensi comunque denominati acquisibili con entrambi gli strumenti. Se il silenzio amministrativo è, al pari della conferenza di servizi, uno strumento di coordinamento orizzontale tra amministrazioni codecidenti, esso deve poter operare anche nei rapporti tra Stato e regione e anche quando la norma imponga l’acquisizione dell’intesa di quest’ultima. Ciò salvo che la norma stessa preveda l’unanimità dei consensi (è il caso, ad esempio, dell’accordo di programma disciplinato dall’art. 34 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), ipotesi in cui l’intesa non è acquisibile tacitamente neanche in sede di conferenza di servizi”.
Contra, L. De Lucia, La conferenza di servizi, cit., 21, il quale rileva che per evidenti ragioni costituzionali, l’art. 17 bis non menzioni le intese. Ancora, F. Scalia, Prospettive e profili problematici della nuova conferenza di servizi, Riv. Giur. Edil., 2016, 6, II, 634, rileva che “non paiono condivisibili i rilievi di una possibile illegittimità costituzionale della norma per la sua applicabilità anche a materie di competenza regionale. Invero, a tacer del fatto che tale profilo non è stato colto dalle stesse Regioni, che non hanno impugnato la norma dinanzi alla Corte costituzionale, la legittimità dell’estensione del suo ambito di applicazione alle Regioni ed enti locali è garantita dall’art. 117, c. 2, lett. m), Cost., che attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni. L’art. 29, c. 2 ter, della l. n. 241/1990 riferisce ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, c. 2, lett. m) Cost. le disposizioni della legge concernenti la dichiarazione di inizio attività e il silenzio assenso. Il generico richiamo al silenzio assenso non è da ritenersi riferito al solo istituto operante su istanza del privato e disciplinato dall’art. 20 della legge, quanto anche al nuovo istituto operante tra amministrazioni, e ciò sia per il dato letterale (la norma non distingue le due ipotesi oggi disciplinate, sia per il profilo logico-sistematico, essendo entrambi gli istituti informati ai medesimi obiettivi di semplificazione ed accelerazione”.
Di avviso diverso, E. Scotti, Il silenzio assenso tra amministrazioni, in Alb. Romano, a cura di, L’azione amministrativa, Torino, 2017, 570, la quale rileva “nell’estensione dell’applicazione del nuovo istituto alle amministrazioni regionali e locali un profilo di illegittimità costituzionale, in quanto si determinerebbe così una disciplina generale delle decisioni complesse che supera lo stesso autolimite posto dall’art. 29, c. 1, all’ambito della disciplina della l. n. 241/1990 e che vorrebbe applicarsi universalmente, a prescindere dall’amministrazione coinvolta e a prescindere dalla materia (e dunque, dalla competenza legislativa, statale o regionale coinvolta)”. P. Marzaro, Silenzio assenso tra amministrazioni, cit., 13, individua il fondamento costituzionale dell’art. 17 bis non tanto nell’art. 117, c. 2, lett. m) Cost., tramite l’art. 29, c. 2 ter, ma piuttosto “direttamente nella giurisprudenza costituzionale in materia di semplificazione, da cui si possono trarre innumerevoli segni circa l’applicabilità dei regimi di semplificazione alla generalità delle amministrazioni pubbliche in quanto attinenti ai livelli essenziali delle prestazioni di cui alla lett. m) dell’art. 117, c. 2, Cost.”.
[9] Ai sensi dell’art. 14 bis, c. 3, cit., “entro il termine di cui al c. 2, lett. c), le amministrazioni coinvolte rendono le proprie determinazioni, relative alla decisione oggetto della conferenza. Tali determinazioni, congruamente motivate, sono formulate in termini di assenso o dissenso e indicano, ove possibile, le modifiche eventualmente necessarie ai fini dell’assenso. Le prescrizioni o condizioni eventualmente indicate ai fini dell’assenso o del superamento del dissenso sono espresse in modo chiaro e analitico e specificano se sono relative a un vincolo derivante da una disposizione normativa o da un atto amministrativo generale ovvero discrezionalmente apposte per la migliore tutela dell’interesse pubblico”.
Cfr. TAR Sardegna, Sez. II, 22 gennaio 2019, n. 38, in Foro amm., 2019, 1, 186, in cui si afferma che “l’espressione — attraverso la relazione dell’’autorità (regionale o, in subdelega, comunale) chiamata ex art. 146, c. 5, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 alla cogestione della tutela paesaggistica delle aree soggetta a tutela — di un motivato parere negativo, in ordine alla possibilità del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, implica l’impossibilità di qualificare come silenzio assenso la mancata partecipazione del Ministero alla conferenza di servizi convocata per definire la domanda autorizzatoria”.
[10] In questi termini, v. G. Sciullo, Legge Madia e amministrazione del patrimonio culturale: una prima lettura, in Aedon, 2015, 3, che richiama G. Falcon, Lezioni di diritto amministrativo, Padova, 2013, 112.
[11] Sul punto, F. Merusi, Metamorfosi dell’intervento pubblico nell’economia. Dall’autorizzazione alla riserva di provvedimento inibitorio, in Dir. amm., 2015, 579 ss., afferma che “il silenzio assenso s’ispira a una logica di semplificazione della macchina amministrativa, ma la sua applicazione, secondo gli intenti del legislatore, serve a muover l’economia”.
[12] Sul tema, si è espresso subito, in modo critico, sull’art. 17 bis, cit., F. de Leonardis, Il silenzio assenso in materia ambientale, in www.federalismi.it, 2015, sostenendo che sarebbe in atto “una vera e propria fuga in avanti in quella che si potrebbe definire la guerra di logoramento degli interessi sensibili che vengono sempre parificati a quelli ordinari”.
Contra, G. Vesperini, Le norme generali sulla semplificazione, in La riforma della pubblica amministrazione, in Gior. dir. amm., 2015, 5, 629 ss., definisce la semplificazione come uno dei princìpi chiave della Riforma Madia e ‘la riduzione del regime speciale riservato ai cd. interessi sensibili’ momento fondamentale attraverso il quale si realizza tale principio.
Sulle difficoltà di contemperamento tra la disciplina del silenzio assenso previsto dall’art. 17 bis e quello previsto dall’art. 20, l. n. 241/1990, si vedano anche le osservazioni di F. de Leonardis, Il silenzio-assenso in materia ambientale, cit., 4 ss.; P. Marzaro, Certezze e incertezze, in www.giustamm.it, 7 ss. e F. Scalia, Il silenzio assenso, cit., 15.
Il problema delle incongruenze nell’individuazione degli interessi sottoposti a una disciplina differenziata, rispettivamente, nell’art. 17 bis e nell’art. 20 cit. è evidenziato da M.A. Sandulli, Gli effetti diretti, della l. 7 agosto 2015, n. 124 sulle attività economiche, in www.federalismi.it, 2015, 5.
Allo stesso tempo, F. Scalia, Il silenzio assenso, cit., osserva che “la norma non introduce nulla di nuovo quanto al profilo dell’intensità della tutela degli interessi sensibili e anzi, letta insieme alla norma di delega legislativa in materia di silenzio assenso, contenuta nella stessa l. n. 124/2015, art. 5, può rappresentare l’occasione per ricondurre in ambito di coerenza costituzionale la normativa già vigente in tema di silenzio in materia ambientale”. L’art. 5, l. n. 124/2015, ha delegato il Governo ad adottare, entro dodici mesi “uno o più decreti legislativi per la precisa individuazione dei procedimenti oggetto di segnalazione certificata di inizio attività o di silenzio assenso, ai sensi degli artt. 19 e 20 della l. n. 241/1990”. L’A., inoltre, sottolinea che “l’esame della disciplina della conferenza di servizi consente di affermare che almeno dal 2010 il meccanismo del silenzio assenso opera nel nostro ordinamento come strumento di acquisizione di atti di assenso anche nelle materie sensibili. Il d.l. n. 78/2010, conv. in l. n. 122/2010, è intervenuto sugli artt. 14 ter e 14 quater della l. n. 241/1990, recanti rispettivamente la disciplina dei lavori della conferenza di servizi e gli effetti dei dissensi espressi in seno alla stessa. All’esito di tale intervento l’art. 14 ter prevede che ‘si considera acquisito l’assenso dell’amministrazione, ivi comprese quelle preposte alla tutela della salute e della pubblica incolumità, alla tutela paesaggistico-territoriale e alla tutela ambientale, esclusi i provvedimenti in materia di VIA, VAS e AIA, il cui rappresentante, all’esito dei lavori della conferenza, non abbia espresso definitivamente la volontà dell’amministrazione rappresentata’. Tale innovazione, quindi, estende l’ipotesi di silenzio assenso, prevista dal testo originario del c. 7, alle amministrazioni portatrici di interessi sensibili, le quali potranno esprime il loro dissenso solo in conferenza, pena altrimenti il considerarsi acquisito il relativo atto di assenso”.
Un rimedio analogo è previsto anche da altre norme di settore. Ad esempio nei procedimenti affidati allo Sportello unico attività produttive si prescinde dall’applicazione del silenzio assenso disponendo che “in caso di mancato ricorso per le altre amministrazioni per pronunciarsi sulle questioni di loro competenza, l’amministrazione procedente conclude in ogni caso il procedimento prescindendo dal loro avviso; in tal caso, salvo il caso di omessa richiesta dell’avviso, il responsabile del procedimento non può essere chiamato a rispondere degli eventuali danni derivanti dalla mancata emissione degli avvisi medesimi”. Art. 38, c. 3, lett. h), d.l. n. 112/2008 conv. in l. n. 133/2008, art. 1, c. 1, a cui fa riferimento l’art. 7, c. 3, d.p.r. n. 160/2010.
[13] M. Bombardelli, Il silenzio assenso tra amministrazioni, in Urb. e app., 2016, 765, rileva che “le disposizioni sul silenzio assenso tra amministrazioni non vanno direttamente a modificare la disciplina d’istituti già esistenti. Tuttavia, esse alimentano l’instabilità del quadro normativo perché calano in un contesto già fortemente strutturato - quello appunto degli strumenti di semplificazione di cui al Capo IV, l. n. 241/1990 - delle opzioni interpretative non pienamente coerenti, che creano incertezza per le amministrazioni chiamate ad applicarle e per alcuni aspetti introducono anche dei vincoli contrastanti con la disciplina di altri strumenti di semplificazione”.
Il problema della collocazione dell’art. 17 bis, cit., in un sistema normativo complesso è stato affrontato da P. Marzaro, Coordinamento tra Amministrazioni, cit., 6 ss., con riferimento alle difficoltà di coordinamento tra le previsioni in materia di silenzio assenso di cui all’art. 17 bis, cit., e le regole settoriali come quelle previste nel Testo Unico dell’edilizia, nella disciplina dello Sportello unico per le attività produttive o nel rilascio dell’autorizzazione paesaggistica di cui art. 146, d.lgs. n. 42/2004.
[14] C. Vitale, Il silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni: il parere del Consiglio di Stato, in Gior. dir. amm., 2017, 1, 95.
[15] Sul tema, v. M.A. Sandulli, Gli effetti della 7 agosto 2015, n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio assenso e autotutela, cit..
[16] Cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 7 giugno 2019, n. 3099, in www.giustizia-amministrativa.it, in cui si afferma che “a seguito dell’introduzione della disciplina contenuta nell’art. 17 bis, cit. , viene in rilievo un’ipotesi di silenzio assenso orizzontale tra amministrazioni, connesso al decorso dello speciale termine di novanta giorni, da ritenersi applicabile alla fattispecie in quanto riferita (anche) alle autorizzazioni paesaggistiche - procedimento caratterizzato da una fase decisoria pluristrutturata, subordinata ad acquisire un parere vincolante”.
[17] Il buon andamento è un principio costituzionale “cardine della vita amministrativa e quindi condizione dello svolgimento ordinato della vita sociale” (Corte. cost. 9 dicembre 1968, n. 123, in www.giurcost.org), consacrato dall’art. 97, c. 2, Cost., che “coincide con l’esigenza dell’ottimale funzionamento della pubblica amministrazione, tanto sul piano dell’organizzazione quanto su quello della sua attività” (V. Cerulli Irelli, Lineamenti di diritto amministrativo, Torino, 2023, 163). Il buon andamento si traduce nell’esigenza di un’amministrazione che sia efficace, efficiente ed economica, criteri enunciati dall’art. 1, l. n. 241/1990, e che costituiscono parametri giuridici dell’attività e dell’organizzazione amministrativa (E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, 2023, 56 s.; G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2020, 158; M.R. Spasiano, I princìpi di pubblicità, trasparenza e imparzialità, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2019, 117 ss.). L’efficacia esprime il rapporto tra obiettivi programmati e obiettivi/risultati raggiunti; l’efficienza indica il rapporto tra risultati/obiettivi raggiunti e risorse impiegate per raggiungerli; infine, l’economicità implica l’ottimale impiego di risorse (di persone e mezzi) da acquisire per il perseguimento dell’interesse pubblico.
Per una disamina sul tema, cfr. A. Andreani, Il principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione, Padova, 1979; A. Police, Principi generali dell’azione amministrativa, in M.R. Spasiano, D. Corletto, M. Gola, D.U. Galetta, A. Police, C. Cacciavillani (a cura di), La pubblica amministrazione e il suo diritto, Milano, 2012, 73 ss.; R. Caridà, Princìpi costituzionali e pubblica amministrazione, 2014, in www.giurcost.org; M.R. Spasiano, Il principio di buon andamento, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2023, 47.
[18] Ad una prima lettura dell’art. 17 bis, cit., si è percepito che il nuovo silenzio assenso fosse un istituto per superare il costante veto delle Sovrintendenze.
Sul tema annoso, cfr. P. Marzaro, Autorizzazioni paesaggistiche: sta per tramontare il veto della sovrintendenza, in Edilizia e territorio, 2009, 10 ss.; Id., L’amministrazione del paesaggio. Profili critici ricostruttivi di un sistema complesso, Torino, 2009, passim.
[19] Sul punto, v. Corte cost. 9 maggio 2014, n. 121, in Giur. cost., 2014, 2118.
[20] Sul diritto alla buona amministrazione e le sue declinazioni, v. C. Celone, Il diritto alla buona amministrazione tra ordinamento europeo e italiano, in Il diritto dell’economia, 2016, 3, 669 ss., e dottrina e giurisprudenza ivi citata; A. Police, Princìpi e azione amministrativa, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2022, 214; F. Manganaro, Trasparenza e obblighi di pubblicazione, in Nuove Autonomie, 2014, 3, 561; F. Merloni, La trasparenza come strumento di lotta alla corruzione tra legge n. 190 del 2012 e d.lgs. n. 33 del 2013, in B. Ponti (a cura di), La trasparenza amministrativa dopo il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, Rimini, 2013, 17-18; M. Immordino, Strumenti di contrasto alla corruzione nella pubblica amministrazione tra ordinamento italiano e brasiliano. Relazione introduttiva, in Nuove Autonomie, 2014, 3, 395 ss.; A. Contieri, Trasparenza e accesso civico, ivi, 569, 576; A. Zito, Il ‘diritto ad una buona amministrazione’ nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e nell’ordinamento interno, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2002, 431.
Cfr., inoltre, M.R. Spasiano, Riflessioni in tema di trasparenza anche alla luce del diritto di accesso civico, in Nuove Autonomie, 2015, 1, 65 ss., il quale osserva come la trasparenza amministrativa imponga scelte precise a livello organizzativo e funzionale, ma ancora prima a carattere culturale, che presuppongono, tra l’altro, la loro comprensibilità, la predisposizione di forme di partecipazione a monte delle stesse, la chiarezza, la qualità e la semplicità dell’informazione, la certezza dei tempi, l’effettivo esercizio delle funzioni amministrative con l’abbandono delle diverse forme di silenzio (73-74). La valorizzazione del modello partecipativo differenzia, tra l’altro, secondo l’A., l’accezione di trasparenza che emerge dall’art. 1 del d.lgs. n. 33/2013, prima citato, da quella che si ricava dall’art. 11 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), poiché la norma europea prospetta un principio fondato più sulla partecipazione che sull’accessibilità, in quanto imperniato sul dialogo e sulla consultazione preventiva, da parte degli organi dell’Unione, delle associazioni rappresentative e della società civile (64). L’esigenza di sviluppare la dimensione partecipativa della trasparenza viene tuttavia avvertita anche dal legislatore italiano, che, nel 2016, con la modifica all’art. 1, c. 1, del predetto decreto, ha voluto precisare come la trasparenza serva anche a promuovere la partecipazione dei soggetti interessati all’attività amministrativa.
Il principio di imparzialità è uno dei princìpi che presiedono l’attività amministrativa, art. 1, cit.. Il principio in parola trova fondamento costituzionale nell’art. 97, c. 2, Cost. ed è richiamato dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali UE e consiste nel divieto, rivolto alle amministrazioni di operare discriminazioni e favoritismi durante l’esercizio della loro attività. Il principio d’imparzialità è, pertanto, posto a garanzia della parità di trattamento e dell’eguaglianza dei cittadini di fronte all’amministrazione, in ossequio al generale principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost..
Per un approfondimento, per tutti si rinvia a M.R. Spasiano, Princìpi generali dell’attività amministrativa, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, cit., 117 ss., e dottrina e giurisprudenza ivi indicata.
[21] M.A. Sandulli, Conclusioni di un dibattito sul principio della certezza delle regole, in F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Napoli, 2018, 305, osserva che “l’incertezza del diritto amministrativo e, a maggior ragione, nel diritto processuale amministrativo, è sempre molto grave perché lede il diritto alla buona amministrazione”.
[22] L’art. 146, d.lgs. n. 146/2004 dispone che sull’istanza di autorizzazione paesaggistica è competente la regione, dopo aver acquisito, su una proposta di provvedimento, il parere vincolante del soprintendente ai sensi del c. 5. Quest’ultimo deve pronunciarsi sulla compatibilità paesaggistica dell’intervento progettato entro 45 giorni, c. 8. Il c. 9 dell’art. 146, così come modificato dall’art. 25, d.l. n. 133/2014, cd. Sblocca Italia, dispone che “in ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente, l’amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione”. Non si tratta di ipotesi di silenzio assenso, ma di silenzio devolutivo, in quanto la norma riconduce al decorso del termine, non il formarsi di un assenso tacito, ma l’onere per l’amministrazione procedente di provvedere pur senza il parere vincolante che il soprintendente non ha reso nei termini. Si pone così un problema di compatibilità tra questa disposizione, l’art. 16 e l’art. 17 bis, cit. Quello previsto dall’art. 146 è da considerarsi un parere vincolante e come tale escluso dall’applicazione dell’art. 16 e da ricomprendere, invece, tra gli assensi comunque denominati di cui all’art. 17 bis, cit..
Sul tema, V. Parisio, L’attività consultiva, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, cit., 708, osserva che “ricomprendere i pareri vincolanti nella sfera di operatività dell’art. 16 condurrebbe ad un’insanabile contraddizione logica, in quanto un parere definito dalla legge come vincolante finirebbe di fatto con perdere tale sua qualificazione se si riconoscesse all’amministrazione attiva la possibilità di prescinderne”. Inoltre, v. M.S. Giannini, Diritti amministrativo, II, Milano, 1988, 565, in cui si afferma che “i pareri vincolanti non sono pareri, ma atti di decisione”.
Critico sull’applicazione del silenzio assenso in materia di beni culturali, P. Carpentieri, Beni culturali. Semplificazione e tutela del patrimonio culturale, in Libro dell’anno del diritto, Roma, 2012, il quale afferma che “il silenzio assenso postula la dispensabilità del controllo e la disponibilità dei beni interessi coinvolti, mentre la tutela è lo spazio dell’indispensabilità e della indisponibilità. La Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che per il profilo paesaggistico opera il principio fondamentale risultante da una serie di norme in materia ambientale, della necessità della pronuncia esplicita, mentre il silenzio dell’amministrazione preposta al vincolo ambientale non può avere valore di assenso”.
[23] Sul d.lgs. n. 42/2004, cd. Codice dei beni culturali e del paesaggio, con particolare riferimento all’art. 146, v. M.R. Spasiano, Commento all’art. 146, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2019, 1321, il quale condivisibilmente osserva che “l’ambito di applicazione e i notevoli benefici in termini di celerità e semplificazione della procedura sono senza dubbio da salutare positivamente, nella misura in cui rappresentano l’esito di un corretto bilanciamento tra i diversi interessi pubblici e privati coinvolti, in una prospettiva di razionalizzazione della disciplina paesaggistica, lontana da approcci assolutizzanti”.
Cfr., inoltre, sulla semplificazione in tema di patrimonio culturale, M. Sinisi, L’autorizzazione paesaggistica tra liberalizzazione e semplificazione (D.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31): la ‘questione aperta’ del rapporto tra semplificazione amministrativa e tutela del paesaggio, in Riv. giur. edil., 2017, 4, 235 ss.; S. Amorosino, Il nuovo regolamento di liberalizzazione e di semplificazione delle autorizzazioni paesaggistiche (d.P.R. n. 31 del 2017), in Riv. giur. urb., 2017, 174 ss.; P. Marzaro, Autorizzazione paesaggistica semplificata e procedimenti connessi, ivi, 2017, 220 ss.; G. Mari, La rilevanza della disciplina del silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche nei procedimenti relativi a titoli abilitativi edilizi: il ruolo dello sportello unico dell’edilizia: considerazioni a margine di una recente Circolare del MIBACT, in Riv. giur. edil. 2016, 61 ss.; E. Zampetti, La disciplina dell’autorizzazione paesaggistica tra esigenze di semplificazione e garanzie costituzionali, in Nuove autonomie, 2014, 316.
In giurisprudenza, sull’applicazione del silenzio assenso all’art. 146, d.lgs. n. 42/2004, v. TAR Sardegna, Sez. II, 8 giugno 2017, n. 394, in Rivi. giur. edil., 2017, 3, 759, nota di A. Del Prete, Il silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni: profili critici e problematici, ivi, 2018, 3, I, 705.
Il TAR Sardegna afferma che “dal momento che il nuovo silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche di cui all’art. 17 bis, l. n. 241/1990, si applica anche ai casi in cui è prevista l’acquisizione di assensi concreti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di amministrazioni pubbliche il pare vincolante riservato alla soprintendenza dal c. 5 dell’art. 146, d.lgs. n. 42 del 2004, s’intende formato per silentium, decorso il termine di 90 giorni dalla ricezione della relazione tecnica istruttoria predisposta dalla regione contenente una proposta di provvedimento”.
In termini simili, cfr. TAR Abruzzo, 10 maggio 2018, n. 153, in www.giustizia-amministrativa.it.
[24] Sul punto, v. Corte cost., 27 giugno 2012, n. 164, in Giur. cost., 2012, 2233, in cui si afferma che “l’art. 117, c. 2, lett. m), Cost., permette una restrizione dell’autonomia legislativa delle Regioni, giustificata dallo scopo di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti civili e sociali tutelati dalla stessa Costituzione (…). Inoltre, l’attività amministrativa può assurgere alla qualifica di ‘prestazione’ della quale lo Stato è competente a fissare un livello essenziale a fronte di uno specifico diritto di individui, imprese, operatori economici e, in genere, soggetti privati”.
[25] Sul punto, v. Corte cost. 20 luglio 2012, n. 203, in Giur. cost., 2012, 2966; Id., 24 luglio 2012, n. 207, ivi, 2012, 3017.
[26] La Commissione speciale citata osserva “il termine di 30 giorni per rendere o ricevere l’assenso da parte delle autorità amministrative indipendenti ed il silenzio assenso non trovano applicazione esclusivamente quando una norma speciale preveda un diverso meccanismo di coordinamento o una disciplina incompatibile con il silenzio significativo, in base al principio di specialità”. Il riferimento è, ad esempio, all’art. 5, c. 5 bis, d.lgs. n. 58/1998, che esclude l’applicazione del silenzio assenso nei rapporti tra la Banca d’Italia e la Consob.
[27] La Commissione speciale del Consiglio di Stato si è spinta oltre includendo nell’ambito soggettivo di applicazione dell’art. 17 bis, cit., anche le società in house quando siano titolari di procedimenti amministrativi, data “l’assenza di un rapporto di alterità soggettiva con l’ente pubblico di riferimento”.
[28] V. Parisio, Interessi ‘forti’ e interessi ‘deboli’: la natura degli interessi come limite alla semplificazione del procedimento amministrativo nella legge 7 agosto 1990 n. 241, in Dir. e proc. amm., 2014, 4, 839. Di semplificazioni ‘prudenti’ parla M. Renna, Le semplificazioni amministrative (nel decreto legislativo n. 152 del 2006), in Riv. giur. amb., 2009, 5, 649.
[29] M.A. Sandulli, Gli effetti della 7 agosto 2015 l. n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio assenso e autotutela, cit., afferma che “nonostante la carenza fosse stata espressamente rimarcata in sede di audizione, la medesima deroga temporale non è prevista per gli assensi delle amministrazioni preposte alla difesa e alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza. Dal momento che si tratta d’interessi sicuramente non meno rilevanti di quelli considerati dal c. 3, è da ritenere che l’omissione non sia voluta ed è auspicabile che la disposizione sia sollecitamente integrata”.
[30] A sostegno della conclusione per cui le disposizioni di cui agli artt. 14 bis e 17 bis sono animate da un’analoga ragione giustificatrice, merita di essere richiamata la decisione della Corte cost. n. 246/2018 nella quale è stato chiarito che l’art. 17 bis, sebbene collocato al di fuori degli articoli espressamente dedicati alla conferenza di servizi (artt. 14-14-quinquies), trova applicazione anche nel caso in cui occorra convocare la conferenza di servizi in quanto «il silenzio assenso di cui all’art. 17 bis opera sempre (anche nel caso in cui siano previsti assensi di più amministrazioni) e, se si forma, previene la necessità di convocare la conferenza di servizi.
[31] Per un inquadramento generale del tema, cfr. R. Leonardi, La tutela dell’interesse ambientale tra procedimenti, dissensi e silenzi, Torino, 2020; M.A. Sandulli, Gli effetti diretti della l. 7 agosto 2015 n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a. silenzio assenso e autotutela, in federalismi.it, 2015, 17 ss.; P. Marzaro, Silenzio assenso tra Amministrazioni: dimensioni e contenuti di una nuova figura di coordinamento orizzontale all'interno della nuova amministrazione disegnato dal Consiglio di Stato, in federalismi.it, 2016; Id., Il coordinamento orizzontale tra amministrazioni: l'art. 17 bis della l. n. 241 del 1990 dopo l'intervento del Consiglio di Stato. Rilevanza dell'istituto nella gestione dell'interesse paesaggistico e rapporti con la conferenza di servizi, in Riv. giur. urb., 2016, 2, 10 ss.; G. Mari, Autorizzazioni preliminari e titoli abilitativi edilizi: il ruolo dello sportello unico dell'edilizi, la conferenza di servizi e il silenzio assenso id cui agli artt. 17-bis e 20 l. n. 241/1990, in Aa.Vv., Semplificazione e trasparenza amministrativa: esperienze italiane ed europee a confronto, atti dei convegni Strategie di contrasto alla corruzione: l. 06/11/2012 n. 190 e s.m.i. e Titoli abilitativi edilizi, Sblocca Italia e Decreti del Fare, Napoli, 2016, 39 ss.; A. Police, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, Milano, cit.
[32] Si veda per questo profilo, Consiglio di Stato, Sez. VI, 23 settembre 2022, n. 8167 – secondo cui “Negli ordinamenti democratici e pluralisti si richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. Così come per i “diritti” (sentenza della Corte cost. n. 85 del 2013), anche per gli “interessi” di rango costituzionale (vieppiù quando assegnati alla cura di corpi amministrativi diversi) va ribadito che a nessuno di essi la Costituzione garantisce una prevalenza assoluta sugli altri. La loro tutela deve essere “sistemica” e perseguita in un rapporto di integrazione reciproca. La primarietà di valori come la tutela del patrimonio culturale o dell’ambiente implica che gli stessi non possano essere interamente sacrificati al cospetto di altri interessi (ancorché costituzionalmente tutelati) e che di essi si tenga necessariamente conto nei complessi processi decisionali pubblici, ma non ne legittima una concezione “totalizzante” come fossero posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, necessariamente mobile e dinamico, deve essere ricercato - dal legislatore nella statuizione delle norme, dall’Amministrazione in sede procedimentale, e dal giudice in sede di controllo - secondo principi di proporzionalità e di ragionevolezza”.
[33] Consiglio di Stato, Sez. I, 28 giugno 2021, n. 1114, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui qualora “sia trascorso inutilmente il termine, l'organo statale non è privato del potere di esprimersi, ma il parere in tal modo dato perde il proprio carattere di vincolatività. In ordine all’efficacia eventualmente da riconoscere a un parere negativo da parte della Soprintendenza, reso successivamente al decorso del termine di quarantacinque giorni, si possono infatti dare tre possibili esiti: a) la consumazione del potere per l'organo statale di rendere un qualunque parere (di carattere vincolante o meno)…; b) la permanenza in capo alla Soprintendenza del potere di emanare un parere di carattere comunque vincolante (dovendosi in particolare riconoscere carattere meramente ordinatorio al richiamato termine); c) la possibilità per l'organo statale di rendere comunque un parere in ordine alla compatibilità paesaggistica dell'intervento, privo di effetti vincolanti ma autonomamente valutabile dall'amministrazione titolare dell'adozione dell'atto autorizzatorio finale” (nello stesso senso Id., parere 25 gennaio 2021, n. 103”
[34] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 27 luglio 2020, n. 4765; Id., 29 marzo 2021, n. 2640; Id., 7 aprile 2022, n. 2584, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[35] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29 marzo 2021, n. 2640, cit..
[36] A. Berlucchi, Il parere tardivo espresso dalla soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici ex art. 146 d.lgs. n. 42/2004: spunti di riflessione, in Riv. giur. ed., 2017, 1, 130 ss.
[37] La soluzione preferita dal Collegio trova conferma anche in ulteriori precedenti del Consiglio di Stato: Cons. Stato, Sez. V, 14 gennaio 2022, n. 255; Id., Sez. IV, 14 luglio 2020, n. 4559; Id., Sez. VI, 1° ottobre 2019, n. 6556, tutte in www.giusitizia-amministrativa.it.
[38] A sostegno di questa conclusione, il Collegio ricorda che una consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato che aveva già in passato chiarito la natura co-decisoria del parere vincolante. V. Cons. Stato, Sez. VI, 21 novembre 2016, n. 4843; 15 maggio 2017, n. 2262, 17 marzo 2020, n. 1903; 16 giugno 2020, n. 3885; 5 ottobre 2020, n. 5831; 18 marzo 2021, n. 2358; 27 maggio 2021, n. 4096; Sez. IV, 19 aprile 2021, n. 3145, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[39] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19 aprile 2021, n. 3145; Id., sez. VI, 21 novembre 2016, n. 4843; Id., 18 marzo 2021, n. 2358; Id., 19 marzo 2021 n. 2390, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[40] Si legge nella sentenza in esame che “il testo della legge, specie quando formulata, come nel caso in esame, mediante la c.d. tecnica per fattispecie analitica, fornisce la misura della discrezionalità giudiziaria; esso, come è stato autorevolmente osservato, rappresenta il punto fermo da cui occorre muovere nell’attività interpretativa e a cui, (all’esito del combinato ricorso a tutti gli altri canoni di interpretazione) è necessario ritornare. Ne consegue che il testo della legge costituisce, almeno nei casi come quello in esame, un limite insuperabile rispetto ad opzioni interpretative che ne disattendano ogni possibile risultato riconducibile al suo potenziale campo semantico (così come delimitato dalla disposizione), per giungere ad esiti con esso radicalmente incompatibili. Tali considerazioni trovano pedissequo riscontro nella giurisprudenza delle Corti superiori interne e internazionali.
Nella medesima direzione è, in primo luogo, orientata la giurisprudenza costituzionale che ha individuato nell’univoco tenore letterale della norma un limite all’interpretazione costituzionalmente conforme (Cort. cost 26 febbraio 2020, n. 32). A non dissimili conclusioni giunge anche la Corte di giustizia dell’Unione Europea, la quale ha ricordato in proposito che, nell’applicare il diritto nazionale (in particolare le disposizioni di una normativa appositamente adottata al fine di attuare quanto prescritto da una direttiva) il giudice nazionale deve interpretare tale diritto per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva. Tuttavia l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività, e non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale (Corte di giustizia, Grande Sezione, 15 aprile 2008,C-268/06,v. sentenze 8 ottobre 1987, causa 80/86, Kolpinghuis Nijmegen, Racc. pag. 3969, punto 13, nonché Adeneler e a., cit., punto 110; v. anche, per analogia, sentenza 16 giugno 2005, causa C-105/03, Pupino, Racc. pag. I-5285, punti 44 e 47). Analoghe e, sotto certi profili ancora più stringenti considerazioni (in quanto relative anche alla interpretazione delle c.d. clausole generali), si rivengono nella più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, nella quale si legge che “anche quando non si trova al cospetto di un enunciato normativo concepito come regola a fattispecie, ma è investito del compito di concretizzare la portata di una clausola generale… il giudice non detta né introduce una nuova previsione normativa. La valutazione in sede interpretativa non può spingersi sino alla elaborazione di una norma nuova con l'assunzione di un ruolo sostitutivo del legislatore. La giurisprudenza non è fonte del diritto. Il giudice comune, nel ruolo – costituzionalmente diverso da quello del legislatore – di organo chiamato non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo bisognoso di definizione dai testi normativi e dal sistema. Una pluralità di ragioni giustifica l'indicato approccio metodologico. Il rispetto del pluralismo e dell'equilibrio tra i poteri, profilo centrale della democrazia, perché la ricerca dell'effettività deve seguire precise strade compatibili con il principio di leale collaborazione e con il dialogo istituzionale che la Corte costituzionale ha avviato con il legislatore…. Non c'è spazio, in altri termini, né per una penetrazione diretta - attraverso la ricerca di un bilanciamento diverso da quello già operato dal Giudice delle leggi - di quell'ambito di discrezionalità legislativa che la Corte costituzionale ha inteso far salvo, né per una messa in discussione del punto di equilibrio da essa indicato. La riserva espressa della competenza del legislatore si riferisce, evidentemente, al piano della normazione primaria, al livello cioè delle fonti del diritto: come tale, essa non estromette il giudice comune, nel ruolo - costituzionalmente diverso da quello affidato al legislatore - di organo chiamato, non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo bisognoso di definizione dai testi normativi e dal sistema” (cfr. Corte di Cassazione, Sezioni unite civili del 30 dicembre 2022, n. 38162)”.
[41] Il comma 8 bis dell’art. 2 della l. n. 241/1990, introdotto dal d. l. n. 76/2020 (c.d. Decreto Semplificazioni), sancisce, in estrema sintesi, l’inefficacia del provvedimento emanato oltre i termini procedimentali in tutti i casi in cui operi il regime del silenzio assenso, nonché nelle ipotesi di SCIA.
Sul tema, v. M. Calabrò, Il silenzio assenso nella disciplina del permesso di costruire. L’inefficacia della decisione tardiva nel d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni), in giustiziainsieme.it, 2020. Anche sulla base di questa disposizione, si è giunti a considerare irrilevante, in quanto privo di effetti nei confronti dell’autorità competente, il parere tardivo della Soprintendenza.
[42] Per riflessioni critiche sul crescente impiego dell’istituto del silenzio assenso, v. M. A. Sandulli, Silenzio assenso e termine per provvedere. Esiste ancora l’inesauribilità del potere amministrativo?, in Il processo, 1/2022, 11 ss. e ivi ulteriori riferimenti.
Sulle criticità in merito all’applicazione dell’art. 17 bis alle materie sensibili, si veda, in particolare, G. Corso, La riorganizzazione della P.A. nella legge Madia: a survay, in www.federalismi.it, 2015; F. Scalia, Il silenzio assenso nelle c.d. materie sensibili alla luce della riforma Madia, in Urb. e app., 2016, 1, 11 ss.; E. Scotti, Silenzio assenso tra amministrazioni, in A. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, 2016, Torino, 566 ss.; F. Martines, La “non decisione” sugli interessi pubblici sensibili: il silenzio assenso fra amministrazioni pubbliche introdotto dall'art. 17 bis della l. 241/1990, in Dir. amm., 2018, 3, 747 ss.; F. de Leonardis che (nel citato scritto Il silenzio assenso in materia ambientale: considerazioni critiche sull'art. 17 bis introdotto dalla cd. riforma Madia) osserva come «appare chiaro che norma costituisce una vera e propria fuga in avanti in quella che si potrebbe definire la guerra di logoramento degli interessi sensibili che vengono sempre più parificati a quelli ordinari»; M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere: le perduranti incertezze di una (apparente) semplificazione, in www.federalismi.it, 2020, 10.
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