ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
“Unpacking the courts”: prevenzione e reazione agli attacchi all’indipendenza dei giudici. Brevi riflessioni a partire dal Convegno “Giudice e stato di diritto”
di Simone Pitto
Sommario: 1. Introduzione – 2. Indipendenza dei giudici e stato di diritto – 3. Bersagli e custodi - 4. Rule of law, CEDU e Consiglio d’Europa – 5. L’indipendenza dei giudici come valore fondante dell’Unione europea - 6. La Consulta e l’espansione del principio dell’indipendenza del giudice - 7. Alcune osservazioni di chiusura
1. Introduzione
Il presente scritto muove dalle riflessioni su indipendenza e imparzialità delle corti svolte dai relatori del Convegno “Giudice e stato di diritto”, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura il 20.10.2023 presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, alla presenza del Presidente della Repubblica, i cui atti sono stati recentemente raccolti nel volume “Il giudice e lo stato di diritto. Indipendenza della magistratura e interpretazione della legge nel dialogo tra le Corti”, Milano Giuffré, 2024[1].
I lavori del convegno si sono focalizzati su un tema di particolare attualità: il significato odierno dell'indipendenza delle corti a livello nazionale ed europeo e il suo valore per lo stato di diritto[2].
In una società libera e democratica, l’indipendenza della magistratura rappresenta per i cittadini la prima garanzia di una decisione giudiziaria fondata esclusivamente sulla legge[3] e dell’uguaglianza effettiva di tutti d’innanzi alla stessa[4]. Autonomia e l’indipendenza della magistratura, inoltre, costituiscono un baluardo a protezione del principio della separazione dei poteri. Sono infatti naturalmente orientate ad evitare che le decisioni del giudice risultino condizionate da interessi politici, personali o logiche di carattere maggioritario estranee a quelle del solo diritto[5].
Tali garanzie rappresentano l’eredità del costituzionalismo liberaldemocratico inteso come processo di progressiva limitazione del potere[6] e di affermazione di un nucleo di diritti inviolabili dell’individuo[7], i quali trovano nella giurisdizione la sede privilegiata per la loro protezione di fronte ad eventuali limitazioni e lesioni, anche da parte dei pubblici poteri[8].
In questo quadro, uno degli elementi di più attuale interesse rispetto ai temi del convegno riguarda le minacce all’indipendenza delle corti e le relative misure di reazione. Le recenti vicende di regressione democratica che hanno caratterizzato alcune esperienze di democrazie c.d. illiberali nel cuore dell’Europa ed il conseguente tentativo di “impacchettare le corti” nazionali e costituzionali[9], hanno contribuito a riportare la tematica al centro delle preoccupazioni delle istituzioni unionali e della giurisprudenza delle corti europee[10]. Vicende centrali anche negli interventi del convegno dei Lincei svolti dalla Presidente emerita della Corte costituzionale Marta Cartabia, dalla Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo Siofra O’Leary, dal Presidente della Corte di giustizia dell’Unione europea Koen Lenaerts, dalla Presidente uscente della Consulta Silvana Sciarra e dal Presidente della Scuola Superiore della Magistratura Giorgio Lattanzi[11].
2. Indipendenza dei giudici e stato di diritto
Il concetto di stato di diritto ha subito un’evoluzione dall’originaria visione ottocentesca di mera soggezione dello Stato al diritto da esso emanato, come osservato da Natalino Irti nell’intervento di apertura del convegno[12]. Dall’indicare un modello, inedito per l’epoca, di Stato contrapposto a quello assolutistico e fondato sulla soggezione dei poteri pubblici alla legge e la separazione di quegli stessi poteri, lo stato di diritto si è così via arricchito di significati ulteriori. Tra questi, il controllo giurisdizionale garantito da giudici indipendenti a garanzia delle libertà individuali[13], attuato anche nei confronti dei poteri pubblici ma anche la prevedibilità del diritto[14].
Si può osservare che l’indipendenza dei giudici risulta centrale in tutte le principali (e non sempre pienamente sovrapponibili) declinazioni esistenti in altri contesti giuridici del lemma concettuale dello stato di diritto, quali i concetti di rechtsstaat[15], état de droit[16], estado de derecho e rule of law[17].
L’indipendenza della magistratura, d’altra parte, assume un valore peculiare all’interno dello stato di diritto. Per usare le parole di Giuliano Amato, tale valore si coglie considerando che «il cuore vero del costituzionalismo» risiede proprio in «quella dialettica iurisdictio/gubernaculum, in cui prese corpo il limite al potere e quindi la stessa rule of law»[18].
Lo stato di diritto, rimasto a lungo oggetto di interesse solo per gli studiosi, come osserva la Presidente emerita Marta Cartabia, è tornato in tempi più vicini a noi fortemente al centro della vita pubblica, sia a livello nazionale, sia europeo e internazionale. Lo dimostrano i numerosi interventi e moniti preoccupati di istituzioni come la Commissione europea ma anche il Consiglio d’Europa e la Commissione di Venezia, promotori di diverse raccomandazioni a vari Stati proprio sul rispetto dello stato di diritto.
Desta particolare interesse, inoltre, il discorso del Segretario Generale delle Nazioni Unite citato dall’ex Presidente della Consulta[19], secondo il quale saremmo di fronte ad un declino dei valori fondanti della rule of law a livello globale. Valori da molti considerati come acquisiti, tanto sono scolpiti nelle fondamenta della tradizione giuridica liberaldemocratica, ma che risultano minacciati, da più fronti, anche in ordinamenti che si ispirano dichiaratamente al principio democratico.
Lo stato di diritto risulta sotto attacco da parte di regimi restii ad accettare la limitazione delle proprie prerogative da parte del giudiziario e intenzionati a sovvertire i meccanismi legali che garantiscono ai giudici di svolgere le proprie funzioni. È accaduto in Polonia, fra l’altro, con la “cattura” della Corte costituzionale da parte della compagine governativa guidata dal partito Diritto e Giustizia (PiS) e le modifiche alle norme dell’ordinamento giudiziario tese a realizzare pensionamenti anticipati di magistrati sgraditi. Ma anche in Ungheria, con le modifiche sull’accesso in magistratura, le promozioni e i trasferimenti tesi a penalizzare e isolare la magistratura indipendente[20]. O ancora in Israele, dove la proposta di una discussa riforma della giustizia – da molti considerata lesiva delle prerogative della magistratura – aveva dato avvio ad un’ondata di proteste prima dei drammatici recenti eventi dell’ottobre 2023 e della successiva escalation militare[21]. Tra gli altri esempi che residuano, si può citare anche il recente e forse meno esplorato caso della Romania[22].
Le minacce non sono del tutto inedite ma l’elemento che le rende particolarmente insidiose si apprezza con particolare riguardo all’utilizzo dei nuovi e potenti mezzi dell’era della comunicazione digitale che, alimentando fake news e disinformazione, contribuiscono all’inasprimento del clima. A ciò si aggiunge che, in molti casi, bersagli di tali “attacchi digitali” sono stati direttamente i magistrati. Ciò è avvenuto ancora in Polonia con il tentativo di raccogliere dati sull’appartenenza ad associazioni, fondazioni e gruppi d’opinione finalizzati alla creazione di un bollettino pubblico (Biuletyn Informacji Publicznej), in seguito dichiarato contrario al GDPR e al diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all’art. 7 della Carta di Nizza in una recente decisione della Corte di Lussemburgo[23].
3. Bersagli e custodi
L’emersione di modelli democratici illiberali si accompagna quindi a crescenti tensioni nei rapporti istituzionali e ad attacchi che hanno come obiettivo privilegiato i giudici e la loro indipendenza. Si tratta di fenomeni non solo circoscritti all’area europea e piuttosto eterogenei quanto alle modalità e alla gravità. Nella bipartizione proposta dalla Presidente emerita Marta Cartabia si distinguono in primo luogo i tentativi di “court-packing” perpetrati attraverso un indebolimento dei giudici e delle garanzie della loro indipendenza[24]. Vari sono gli esempi di questo genere: si possono citare gli interventi sulle nomine per allargare l’influenza delle componenti politiche maggioritarie, l’anticipazione dell’uscita dei magistrati sgraditi attuata tramite misure di pensionamento o retrocessioni di carriera o ancora l’intervento sulle disposizioni che regolano il funzionamento interno delle corti e le maggioranze necessarie alle deliberazioni[25].
Una seconda categoria di attentati all’indipendenza del giudiziario individuata verte più direttamente sui poteri e le funzioni dei giudici e trova il proprio bersaglio privilegiato nel controllo di legittimità costituzionale. Vi rientrano i tentativi di limitare il vaglio delle corti costituzionali a determinati atti ovvero a specifici vizi, ovvero di intervenire sulle norme che regolano il funzionamento dei tribunali costituzionali[26]; ma anche, più in generale, le misure volte a sterilizzare le potenzialità dello strumentario a disposizione dei giudici di legittimità costituzionale. Ne è un esempio il tentativo di limitare il vaglio di ragionevolezza sulle leggi attuato recentemente in Israele[27].
Se è vero che l’indipendenza delle corti rappresenta uno degli elementi fondamentali dello stato di diritto, o rectius dello stato costituzionale europeo di diritto, sotto altra prospettiva, va considerato che i giudici possono assumere anche un ruolo da custodi del sistema[28].
In primo luogo, le componenti fondanti dello stato di diritto, tra cui le garanzie di indipendenza del giudiziario, la separazione dei poteri e la tutela giurisdizionale di diritti ed interessi legittimi risultano di norma tutelate nei testi delle costituzioni nazionali. Tali disposizioni, dunque, possono essere invocate nell’ambito dei meccanismi di controllo di legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge limitativi dell’indipendenza della magistratura[29].
Ma gli strumenti a disposizione delle corti, almeno nel contesto europeo, non si limitano ai meccanismi di controllo giurisdizionale e costituzionale propri del solo contesto nazionale. I giudici europei, infatti, possono contare sul rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea a presidio dei valori fondanti dello stato di diritto tutelato dall’art. 2 del TUE[30]. Proprio con riguardo alle vicende polacche e ungheresi, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha dimostrato il proprio ruolo di interlocutore privilegiato per autorità giurisdizionali nazionali in sofferenza siccome minacciate nelle proprie prerogative di indipendenza. La giurisprudenza evolutiva della CGUE, inoltre, ha progressivamente affinato gli strumenti di enforcement dei valori fondamentali dell’Unione[31].
Alla Corte di Lussemburgo si affianca ancora il Consiglio d’Europea e, soprattutto, la Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale ha ricondotto le lesioni all’indipendenza della magistratura e della rule of law alle garanzie procedurali di cui all’art. 6 CEDU. Accanto a questi meccanismi di tutela, dei quali si dirà di più nelle pagine seguenti, si accostano naturalmente gli strumenti giurisdizionali di cui dispongono i giudici come individui, grazie ai quali possono reagire agli eventuali attacchi diretti e lesivi delle proprie libertà costituzionali.
4. Rule of law, CEDU e Consiglio d’Europa
L'intervento della Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo Siofra O'Leary ha fornito una panoramica completa della presenza dello stato di diritto nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e nel sistema della CEDU. Il rispetto della rule of law, innanzitutto, rappresenta uno dei principi costitutivi l’appartenenza degli Stati al Consiglio d’Europa, come testimoniato dall’art. 3 dello Statuto di tale organo[32]. Gli stessi principi animano del resto in larga parte le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e, in particolare, il suo art. 6[33].
Nella relazione della Presidente O’Leary risulta di particolare interesse la riflessione sui problematici contorni definitori della poliedrica nozione di rule of law, punto di convergenza di visioni del diritto anche piuttosto distanti tra i diversi Stati aderenti al Consiglio d’Europa[34]. Proprio in virtù di queste criticità definitorie assume maggior importanza il lavoro svolto dalla Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto, comunemente nota come Commissione di Venezia. La “checklist” sulla rule of law elaborata dalla Commissione[35], infatti, rappresenta un riferimento giuridico e culturale primario per enucleare le componenti minime del principio valevoli per gli Stati parte del Consiglio d’Europa. Ad avviso della Commissione di Venezia, in sintesi, sono cinque gli elementi fondamentali della rule of law: (i) legalità, (ii) certezza del diritto, (iii) prevenzione dell'abuso o dell'uso improprio dei poteri; (iv) uguaglianza davanti alla legge e non discriminazione e, infine, (iv) l’accesso alla giustizia. Per ogni componente sono altresì indicate alcune sottocomponenti. Tra queste, la prima sottocomponente del principio dell’accesso alla giustizia è proprio l’indipendenza della magistratura, a sua volta vagliata tramite la verifica dell’indipendenza dell’ordine giudiziario nel suo complesso, nonché dei singoli giudici. Tra le altre sottocomponenti relative all’accesso alla giustizia vi sono, ancora, il controllo di costituzionalità delle leggi ed il giusto processo (fair trial). La garanzia di quest’ultimo tramite la sottoposizione di reclami e ricorsi ad un «tribunale indipendente e imparziale» è del resto espressamente sancita anche dall’art. 6 CEDU.
Proprio sulle garanzie del giusto processo si sono incentrate alcune delle principali pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo dedicate allo stato di diritto nel sistema della CEDU e all’indipendenza della magistratura. A partire dal caso Golder v. Regno Unito del 1975[36], richiamato dalla Presidente O’Leary[37], la Corte rigetta una lettura del principio della rule of law come formula meramente retorica, ammettendo invece la sua rilevanza quale ausilio ermeneutico nell’interpretazione della Convenzione.
Ma la Corte europea dei diritti dell’uomo non si esime dall’entrare direttamente nell’arena della garanzia dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice quando questa risulta minacciata, come dimostrano alcuni recenti casi. Su tutti, i numerosi giudizi che coinvolgono il reclutamento dei giudici e altre disposizioni dell’ordinamento giudiziario in Polonia[38].
Nella recentissima decisione Wałęsa c. Polonia del 23 novembre 2023[39], la Corte di Strasburgo ha nuovamente condannato la Polonia per la violazione di diverse disposizioni della CEDU, tra cui proprio l’art. 6. La decisione origina da una denuncia per diffamazione proposta dall’ex Presidente polacco Lech Wałęsa, premio Nobel per la pace e leader di Solidarność, accusato di aver collaborato con i servizi di sicurezza[40]. La Corte europea ha negato la natura di giudice indipendente e imparziale della Camera di Controllo Straordinario e degli Affari Pubblici istituita presso Corte Suprema polacca che aveva esaminato l'appello straordinario proposto nel caso Wałęsa avverso la decisione di condanna di primo grado. La Camera polacca è stata ritenuta priva delle garanzie di imparzialità dell’art. 6 CEDU, tra l’altro, in ragione della sua composizione, del ruolo del procuratore generale (che nel sistema polacco è anche ministro della giustizia) e in relazione al principio di certezza del diritto[41]. Significativamente, anche tenuto conto della presenza di oltre 400 giudizi pendenti nei confronti della Polonia in argomento, il caso Wałęsa è stato considerato dalla Corte alla stregua di una sentenza pilota[42]. Si riconoscono infatti violazioni sistemiche dal punto di vista delle garanzie della rule of law che si traducono in ripetute violazioni dell’art. 6 CEDU, con un chiaro messaggio alle autorità polacche ed un complesso di indicazioni relative alle aree in cui sono necessari interventi per ripristinare lo stato di diritto[43].
In altri casi, quali Baka c. Ungheria, ulteriori disposizioni della CEDU, come gli articoli 8 (diritto alla vita privata e familiare) e 10 (libertà di espressione), sono state utilizzati come presidi a tutela di turbative dell’indipendenza dei giudici[44]. La Corte ha messo in relazione tali disposizioni con interferenze da parte di poteri politici passibili di incidere sull’autonomia dei giudici. Come osservato dalla Presidente O’Leary, la Corte fornisce così una risposta perentoria di fronte al possibile effetto paralizzante offerto dai tentativi di sanzionare i giudici per la partecipazione al dibattito pubblico.
In nuce, se è vero che la Convenzione e la Corte non prescrivono un solo modello uniforme e generale per i sistemi giudiziari nazionali, la centralità dei principi della rule of law nell’impianto della CEDU richiede in ogni caso l’adozione di garanzie concrete per proteggere l'indipendenza giudiziaria e la separazione dei poteri, la cui mancanza può comportare la violazione delle disposizioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
5. L’indipendenza dei giudici come valore fondante dell’Unione europea
La giurisprudenza delle Corti di Strasburgo e Lussemburgo sullo stato di diritto e l’indipendenza delle Corti pare presentare derive in parte sovrapponibili, come evidenziato dal Presidente della Corte di Giustizia Koen Lenaerts nella propria relazione[45]. L'indipendenza del potere giudiziario, sancita nella maggioranza delle costituzioni degli Stati membri dell’Unione europea, costituisce un elemento di precipua importanza anche per i rapporti e la fiducia tra gli Stati membri. Si deve infatti considerare la forte integrazione raggiunta tra i sistemi giudiziari dei diversi sistemi europei, favorita dai regolamenti che ormai da decenni garantiscono il mutuo riconoscimento delle decisioni ed altre forme di cooperazione giudiziaria alla base, ad esempio, del mandato d’arresto europeo[46]. Tali istituti si reggono sulla fiducia riposta da ciascuno Stato membro sul rispetto delle garanzie minime di imparzialità, indipendenza delle corti e tutela dei principi del giusto processo facenti parte delle tradizioni costituzionali comuni da parte degli altri Stati.
Si colloca proprio in questo contesto la decisione dei giudici portoghesi citata dal Presidente Lenaerts, considerata un “momento costituzionale” di fondamentale importanza nell'applicazione del principio di indipendenza giudiziaria[47]. Il Presidente Lenaerts richiama un dibattito attualissimo nel diritto costituzionale europeo che vede proprio nella partita giocata sulla rule of law e la condizionalità al bilancio dell’UE una nuova possibile fase costituzionale per l’Unione[48].
La Corte ha in particolare ricondotto l'articolo 19 del Trattato sull'Unione Europea – e segnatamente il riferimento all’obbligo degli Stati di stabilire i rimedi necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto unionale – ai valori dell'Unione sanciti dall'articolo 2 del trattato e, in particolare, alla garanzia dello stato di diritto[49]. Nell’ottica della CGUE, in altre parole, l'indipendenza giudiziaria è vista anche come una forma di protezione dei valori fondanti dell’Unione.
Un altro ambito ove è stata evidenziata la centralità dell’indipendenza delle corti nazionali nella giurisprudenza della Corte di Lussemburgo è quello della cooperazione in materia penale. Le fattispecie più ricorrenti riguardano il mandato d’arresto europeo (MAE). Va richiamata, a questo riguardo, la giurisprudenza sulle c.d. circostanze eccezionali: elementi insuperabili che minano quella fiducia presunta tra autorità giurisdizionali degli Stati membri impedendo di dar seguito ad un MAE in ragione di gravi carenze degli organi giudiziari nazionali[50]. I tribunali di alcuni Stati membri hanno così ritenuto opportuno inoltrare rinvii pregiudiziali ex art. 267 TFUE alla Corte di giustizia per evitare di diventare complici involontari nella violazione dei principi di indipendenza del giudiziario alla base della rule of law in caso di cooperazione giudiziaria con autorità giurisdizionali polacche.
Ancora, nel caso LM[51], una corte irlandese aveva proposto un rinvio pregiudiziale dubitando di poter dare esecuzione ad un MAE richiesto da autorità polacche in presenza di timori circa la violazione dello stato di diritto e dell’indipendenza dei giudici nel paese[52]. In quell’occasione, la Corte di Giustizia ha ribadito l’obbligo di tutte le autorità giudiziarie degli Stati membri di garantire il rispetto dei valori comuni europei e ricondotto in capo alle corti nazionali il dovere di valutare in concreto la presenza di violazioni dello stato di diritto[53]. Secondo la Corte, più nel dettaglio, l’autorità giurisdizionale nazionale dovrà valutare “l’esistenza di un rischio reale di violazione del diritto fondamentale a un equo processo, connesso a una mancanza di indipendenza dei giudici di detto Stato membro, a causa di carenze sistemiche o generalizzate in quest’ultimo Stato”[54].
La lezione della giurisprudenza della Corte di giustizia, sotto altro profilo, si coglie non solo rispetto all’affermazione di garanzie a presidio dei valori fondanti dell’Unione in materia di rule of law e indipendenza del giudiziario ma anche laddove la Corte mette in guardia di fronte al rischio di una loro successiva alterazione o diminutio. La dottrina della c.d. “non regressione” ha così fatto frequentemente ingresso nelle decisioni dei giudici di Lussemburgo, i quali hanno ricordato la necessità degli Stati membri di non compiere passi indietro negli impegni assunti in relazione all’amministrazione della giustizia, pena il rischio di apertura di procedure di infrazione[55].
6. La Consulta e l’espansione del principio dell’indipendenza del giudice
Le Corti europee possono dunque giocare un ruolo di rilievo nel vigilare sul rispetto dei principi dello Stato di diritto in materia di indipendenza del giudiziario. Ma tali principi, come si è detto, non possono che trovare nella rigidità costituzionale e nel controllo di costituzionalità delle leggi da parte dei giudici costituzionali le primarie e più immediate difese. L’intervento della Presidente Sciarra[56], in tale prospettiva, ha così evidenziato il ruolo svolto della Corte costituzionale italiana nell'interpretazione dei valori costituzionali rilevanti per lo stato di diritto e nella loro armonizzazione con la normativa europea e le letture ermeneutiche offerte da autorità sovranazionali, nel segno di quel dialogo tra corti ormai consolidato da tempo[57].
Nel suo discorso, la Presidente uscente della Consulta ha sottolineato la centralità della presenza di indicatori trasparenti e non estemporanei per individuare il livello di aderenza allo stato di diritto. Vi rientrano, oltre alla checklist sopra richiamata, la relazione sullo stato di diritto della Commissione Europea ed il rapporto del segretario generale del Consiglio d'Europa. Questi indicatori, uniti agli approdi ermeneutici delle Corti europee, costituiscono preziosi ausili per i giudici nazionali al fine di compiere quella valutazione sul rispetto della rule of law anche ai fini della cooperazione giudiziaria eurounitaria.
L’indipendenza dell’autorità giudiziaria viene così a costituire un prerequisito per qualsiasi giudice che intenda intervenire nel sistema multilivello di protezione dei diritti ovvero beneficiare dei meccanismi di cooperazione giudiziaria e dialogo tra corti a livello europeo[58].
Tali principi possono estendersi anche al sistema di cooperazione tra consigli giudiziari e, in particolare, al CCEJ (Consultative Council of European Judges), organo consultivo del Consiglio d’Europa e all’ENCJ (European Networks of Councils for the Judiciary)[59]. Quest’ultimo, peraltro, ha mostrato l’intenzione di applicare detti principi alla lettera, escludendo il Consiglio Nazionale della magistratura polacco dalla Rete europea dei consigli di giustizia in ragione del venir meno delle fondamentali garanzie di indipendenza del giudiziario[60].
Meccanismi di questo tipo – osserva la Presidente Sciarra – concorrono a creare una sinergia tra corti e consigli giudiziari che consente un controllo “tra pari” per garantire il rispetto dell’indipendenza dei giudici, considerata un prerequisito per ogni corte nazionale che intenda dialogare con le Corti europee[61].
In tale contesto, anche la Corte costituzionale italiana si è fatta partecipe di questi sforzi sinergici a presidio dell’indipendenza dei giudici. La Corte ha riconosciuto la centralità dell’indipendenza nel sistema costituzionale a partire da sé stessa: la Consulta ha infatti affermando che, alla luce delle attribuzioni della Corte come “altissimo organo di garanzia dell'ordinamento repubblicano”[62], devono essere “assicurate sotto ogni aspetto - anche nelle forme esteriori - la più rigorosa imparzialità e l'effettiva parità rispetto agli altri organi immediatamente partecipi della sovranità”[63]. Nella medesima decisione, la Corte ha aggiunto che “[u]na tale esigenza, per l'appunto, è testualmente affermata nell'art. 137 della Costituzione, laddove, nel primo comma riserva alla legge costituzionale di stabilire - tra l'altro – “le garanzie di indipendenza dei giudici”. La Consulta ricorda in questa pronuncia anche la lungimiranza della scelta dei Costituenti di sottoporre le guarentigie dell’indipendenza della Corte costituzionale alla protezione ulteriore offerta dal procedimento aggravato previsto per la legge costituzionale. L’importanza di tale primaria garanzia si apprezza muovendo lo sguardo oltre confine e pensando all’“impacchettamento” della Corte costituzionale polacca da parte della maggioranza guidata dal PiS, avvenuta – diversamente dal caso ungherese – a costituzione invariata[64].
Sotto altro profilo, la Consulta si è fatta promotrice dell’espansione del principio dell’autonomia e dell’indipendenza del giudiziario e dell’armonizzazione tra le disposizioni della CEDU, l’interpretazione della Corte di Strasburgo e le norme costituzionali interne[65]. Ha così supportato una lettura dell’indipendenza funzionale del giudice e della sua soggezione soltanto alla legge in combinato disposto con le previsioni dell’art. 47 della Carta di Nizza e dell’art. 6 CEDU[66].
Altro contesto nel quale l’indipendenza del giudice è frequentemente comparsa nella giurisprudenza del giudice costituzionale italiano è quello delle norme sull’ordinamento giudiziario, rispetto alle quali la Corte ha chiarito la portata del principio della soggezione del giudice soltanto alla legge. Nella sentenza 50/1970 richiamata dalla Presidente Sciarra, la Corte esclude la violazione del principio per il caso in cui la pronuncia del giudice si fondi non direttamente su una disposizione di legge bensì su un'altra decisione[67]. Nella sentenza n. 263/1991, ancora, l’art. 101 Cost. è utilizzato per ribadire l’indipendenza del giudice all’interno dello stesso ordinamento giudiziario, arricchendo e specificando il principio della distinzione tra magistrati solamente in base alle funzioni ricoperte di cui all’art. 107 Cost.
Va anche ricordata la giurisprudenza sull’accesso in magistratura, ove la Consulta riconduce l’accesso tramite concorso di cui all’art. 106 proprio alle garanzie dello stato di diritto e, in particolare, alla separazione tra funzione giurisdizionale e altri poteri dello Stato[68].
La Corte italiana ha in effetti coperto quasi l’intero ventaglio delle fattispecie di possibile rilevanza del principio dell’indipendenza del giudice descritte nei precedenti paragrafi con riguardo alla giurisprudenza delle Corti europee. Lo si apprezza con ulteriore riguardo alla fissazione del punto di equilibrio tra diritti fondamentali, prerogative e doveri dei magistrati. In relazione alla partecipazione a partiti politici, così, la Corte ha affermato la necessità di equilibrio e misura nella garanzia della libertà di manifestare le proprie idee, limitando le forme di partecipazione sistematica e continuativa ma comunque garantendo a tutti i magistrati il diritto alla libera espressione[69].
Parimenti presente nella giurisprudenza del giudice delle leggi è il nesso tra funzione giurisdizionale indipendente e stato di diritto, espresso tra l’altro nella sentenza n. 127/2022. In tale occasione, la Corte ha affermato che “prescrizioni restrittive degradanti per la persona, per quanto previste dalla legge e necessarie a perseguire il «fine costituzionalmente tracciato» che le giustifica (sentenza n. 219 del 2008), non possono sfuggire alla riserva di giurisdizione, perché esse, separando l'individuo o un gruppo circoscritto di individui dal resto della collettività, e riservando loro un trattamento deteriore, portano con sé un elevato tasso di potenziale arbitrarietà, al quale lo Stato di diritto oppone il filtro di controllo del giudice, quale organo chiamato alla obiettiva applicazione della legge in condizioni di indipendenza e imparzialità”.
Il quadro giurisprudenziale così tratteggiato delinea, quindi, una nozione ampia di indipendenza del giudice scolpita dalla Consulta tra le righe degli artt. 101 e ss. della Costituzione e prova della piena aderenza dell’ordinamento costituzionale ai principi dello Stato di diritto[70].
7. Alcune osservazioni di chiusura
Nel contesto giuridico contemporaneo, le corti hanno assunto un ruolo crescente, specialmente in questioni come i nuovi diritti, la bioetica e le sfide della tecnologia[71]. Tale ruolo è reso anche più difficile dall’accresciuta complessità dell’attività ermeneutica giudiziale, favorita dalla pluralità di fonti di riferimento, dall’integrazione sovranazionale e dalla tendenza alla specializzazione delle discipline giuridiche emergenti[72]. Il processo di integrazione delle corti nell’ambito nel sistema unionale ha incrementato inoltre i casi in cui il giudice può discostarsi dalla legge nazionale, consentendo la disapplicazione del diritto interno contrario a quello unionale.
L’attuale ruolo del giudice accresce però la sua esposizione ed il rischio di conflittualità, sia più “fisiologiche”, per l’adeguamento della dialettica tra poteri negli ordinamenti costituzionali, sia più propriamente patologiche. Riguardo a queste ultime, non pare casuale che i primi “mattoni” dell’edificio democratico che i regimi illiberali tentano di smantellare siano proprio i presidi dell’indipendenza dei giudici, al fine di arginare i possibili ostacoli al disegno di ridefinizione della vita pubblica da questi propugnato. Si coglie così l’importanza, in ottica di prevenzione, della presenza nei testi costituzionali di riserve di legge non troppo ampie ovvero di rinforzate, come quella prevista dalla nostra Costituzione per la Corte costituzionale a salvaguardia delle guarentigie di indipendenza dei giudici.
Sotto altro profilo, le corti – e in particolare quelle costituzionali – si pongono come custodi della garanzia dello stato di diritto e rappresentano i primi soggetti in grado di reagire di fronte alle sue violazioni.
Non sono però le sole: gli altri “anticorpi” forniti dal diritto dell’Unione consentono di rispondere a possibili regressioni democratiche e lesioni dei principi dello stato di diritto con strumenti sempre più sofisticati[73]. La giurisprudenza sviluppata dalle corti europee sul punto e richiamata a più voci durante il convegno e nei relativi atti, oltre a rappresentare un prezioso supporto per i casi più gravi, consente di diffondere una visione integrata dei valori comuni in tema di rule of law, attraverso la quale andranno lette ed interpretate le disposizioni nazionali.
L’indipendenza del giudice, onnipresente nelle diverse declinazioni che assume lo stato di diritto, rappresenta la primaria garanzia di un giudizio imparziale e dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge, come sottolineato, fra l’altro, nell’intervento del Presidente Lattanzi[74]. Le limitazioni all’indipendenza del giudiziario, pertanto, costituiscono oggetto di interesse non solo con riguardo al principio della separazione dei poteri ma anche, più direttamente, per la vita di tutti i consociati.
Nell’ottica della prevenzione di possibili lesioni all’indipendenza del giudice, come sottolineato dalla Presidente Cartabia, assume così particolare rilievo la diffusione della cultura della difesa dei valori dello stato di diritto anche presso la società civile ed il suo mantenimento, in uno sforzo che deve costituire un impegno costante[75].
1 G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO (a cura di), Il giudice e lo stato di diritto. Indipendenza della magistratura e interpretazione della legge nel dialogo tra le Corti, Milano, 2024, reperibile in open access nel sito web della Scuola Superiore della Magistratura.
[2] I lavori integrali del Convegno sono parimenti disponibili sul canale YouTube della Scuola Superiore della Magistratura.
[3] In ottemperanza al principio di legalità e alla soggezione del giudice soltanto alla legge di cui al nostro art. 101 Cost.
[4] Così ponendosi in relazione anche col principio di legalità. In argomento si vedano le sempre attuali considerazioni di A. PIZZORUSSO, Principio democratico e principio di legalità, in Questione giustizia, 2, 2003.
[5] Sul punto si vedano le considerazioni finali di G. CASCINI, Quello che serve davvero per la giustizia, in Giustizia Insieme, 18 novembre 2023.
[6] Già l’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, peraltro, affermava che “ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione”. In argomento, G. ROLLA, L'organizzazione costituzionale dello Stato, Milano, 2007.
[7] Cfr. J. HABERMAS, Between Facts and Norms: Contributions to a Discourse Theory of Law and Democracy, Londra, 1992. Si veda anche L. PEGORARO, A. RINELLA, Sistemi costituzionali, Torino, 2020.
[8] S. Holmes, Constitutions and constitutionalism, in M. ROSENFELD, A. SAJO, The Oxford Handbook of comparative constitutional law, Oxford, 2012, 189 ss.
[9] L’espressione “packing” riferita alle corti è diffusa nella letteratura scientifica anglosassone. Cfr. ex multis, M.K. LEVY, Packing and unpacking state courts, in Wm. & Mary L. Rev., 61, 2019, pp. 1121 ss.
[10] L. PECH, K.L. SCHEPPELE, Illiberalism Within: Rule of Law Backsliding in the EU, in Cambridge Yearbook of European Legal Studies, 2017
[11] Gli interventi dei presidenti delle Corti sono stati preceduti da relazioni introduttive svolte da Raffaele Sabato, Marisaria Maugeri e Gianluca Grasso, mentre i lavori sono stati aperti dal Presidente dell’Accademia dei Lincei Roberto Antonelli.
[12] Cfr. N. IRTI, Le ragioni del tema, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO (a cura di), cit., 7 ss. Si veda anche in argomento L. FERRAJOLI, Sul futuro dello stato di diritto e dei diritti fondamentali, in Jura Gentium, 2005.
[13] C. FUSARO, A. BARBERA, Corso di diritto pubblico, Bologna, 2018, 37 ss.
[14] Sul quale Natalino Irti si è diffusamente soffermato durante la propria relazione, richiamando il noto aneddoto del Mugnaio di Sans Souci. N. IRTI, cit., 7.
[15] Cfr. E. BERTOLINI, Indipendenza e autonomia della magistratura senza un organo di autogoverno: il modello tedesco, in DPCE Online, 4, 2020, 4995 ss.
[16] Si vedano J. CHEVALLIER, L’etat de droit, Paris, 1994, M.J. REDOR, De l’etat legal a l’etat de droit : l’evolution des conceptions de la doctrine publiciste francaise, 1879-1914, Paris, 1992.
[17] Nell’impossibilità di entrare nel merito delle complesse sfaccettature delle diverse versioni del principio in questa sede, si rinvia, ex multis, a R. TARCHI, L’approdo europeo del Rule of Law. Riflessioni introduttive e di sintesi, in R. TARCHI, A. GATTI (a cura di), Il rule of law in Europa, Genova, 2023, R. BIN, Rule of Law e ideologie, in G. PINO, V. VILLA (a cura di), Rule of Law. L’ideale della legalità, Bologna, 2016, 38 ss. Come osservato da G. AMATO, peraltro, è importante notare nell’espressione anglosassone la centralità della legge come prius rispetto alla costruzione statale. Inverso è invece l’ordine logico della dottrina tedesca e francese, recepito anche dalla dottrina italiana, che vede lo stato autolimitare sé stesso attraverso la legge.
[18] G. AMATO, Passato, presente e futuro del costituzionalismo, in Nomos, 2, 2018.
[19] M. CARTABIA, I giudici e lo stato di diritto, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO (a cura di), cit., 14.
[20] J. SAWICKI, Democrazie illiberali? L’Europa centro-orientale tra continuità apparente della forma di governo e mutazione possibile della forma di Stato, Milano, 2018; M.A. ORLANDI, La “democrazia illiberale”. Ungheria e Polonia a confronto, in Dir. pubbl. comp. eur., 2019, 167.
[21] Cfr. L. PIERDOMINICI, La riforma della giustizia israeliana: cronache dall’ultima frontiera costituzionale, in Giustizia Insieme, 31.3.2023.
[22] Cfr. G. VOSA, Sulla problematica tutela dello Stato di diritto nell’Unione europea: spunti di diritto costituzionale e comparato a partire dal “caso Romania”, in DPCE Online, 4, 2022, 1886 ss.
[23] Cfr. Corte di Giustizia Europea (Grande Sezione), sentenza del 5 giugno 2023, C-204-21 Commissione europea contro Repubblica di Polonia, sulla quale, si consenta il rinvio (per meri richiami) a S. PITTO, Judicial Independence Under Siege in Poland. The Last Landmark Ruling by the ECJ: repetita iuvant?, in DPCE Online, 3, 2023, 3015 ss.
[24] Cfr. M. CARTABIA, I giudici e lo stato di diritto, cit., 17 ss.
[25] Il caso polacco è ancora paradigmatico al riguardo perché sono state attuate tutte queste misure, anche in assenza di una revisione costituzionale stante l’insufficienza delle maggioranze necessarie da parte della compagine governativa guidata dal PiS. Ma anche in Ungheria e Romani si riscontrano interventi tentati o effettuati in termini analoghi.
[26] Si può citare ancora il caso polacco con la querelle che ha condotto ad una prolungata inattività della Corte costituzionale polacca proprio in ragione delle modifiche alle maggioranze per le deliberazioni. Cfr. Č. PIŠTAN, Giustizia costituzionale e potere giudiziario. Il ruolo delle corti costituzionali nei processi di democratizzazione ed europeizzazione, in A. DI GREGORIO (a cura di), I sistemi costituzionali dei paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica (Trattato di diritto pubblico comparato, fondato e diretto da G.F. Ferrari), Walters Kluwer, Milano, 2019, 357 ss. e J. SAWICKI, La conquista della Corte costituzionale ad opera della maggioranza che non si riconosce nella Costituzione, in Nomos, 3, 2016.
[27] L. PIERDOMINICI, cit., passim.
[28] Il dato emerge in particolare dal passaggio della relazione della Presidente Marta Cartabia in cui si afferma che i giudici si trovano al crocevia tra un ruolo da bersagli e da presidi dello stato di diritto. Cfr. M. CARTABIA, I giudici e lo stato di diritto, cit., 17 ss.
[29] Nei sistemi di controllo di tipo diffuso, la verifica verrà operato direttamente dal giudice mentre, nei sistemi accentrati, mediante rinvio ai tribunali costituzionali o ricorso diretto. Sul punto si vedano inoltre infra le considerazioni del par. 7.
[30] A questo si aggiunge anche il rimedio politico (rivelatosi più problematico alla prova dei fatti) dell’art. 7 TUE e, a seguito dei recenti sviluppi nella giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, anche l’ulteriore garanzia offerta dal regolamento n. 2092/2020 UE sulla condizionalità al bilancio dell’UE.
[31] E. CUKANI, Condizionalità europea e giustizia illiberale: from outside to inside?, Napoli, 2021, 131 ss.
[32] Verbatim dall’art. 3 dello Statuto: «Ogni Membro del Consiglio d’Europa riconosce il principio della preminenza del Diritto e il principio secondo il quale ogni persona soggetta alla sua giurisdizione deve godere dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Esso si obbliga a collaborare sinceramente e operosamente al perseguimento dello scopo definito nel capo I». Cfr. https://rm.coe.int/1680306052. Vale la pena rilevare che, mentre nella versione ufficiale italiana la sezione dello Statuto che contiene l’art. 3 è denominata “Composizione” nella versione inglese questa è indicata come “Membership”, o appartenenza, così manifestando forse anche più efficacemente il collegamento tra il rispetto della rule of law e l’adesione dello Stato al Consiglio d’Europa e ai suoi valori.
[33] La Presidente O’Leary ha ricordato altresì come lo spazio di applicazione della CEDU copra attualmente 46 Stati e circa 700 milioni di persone. S. O’LEARY, L’indipendenza del giudice alla luce della giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO, cit., 29.
[34] A un concetto già ampio e sfaccettato in una singola tradizione giuridica, peraltro, si sommano le accennate peculiarità presenti nelle altre declinazioni del principio frutto di patrimoni giuridici differenti e condensati nelle definizioni di rule of law, rechtsstaat, estado de derecho e état de droit.
[35] La checklist è reperibile sul sito web del Consiglio d’Europa.
[36] Corte europea dei diritti dell’uomo, Golder v. United kingdom, application n. 4451/70, 21 febbraio 1975.
[37] S. O’LEARY, cit., 32.
[38] Tra le altre Grzęda v. Poland, application n. 43572/2018 del 15 maggio 2021 e Xero Flor w Polsce sp. Z o.o. v. Poland del maggio 2021. In argomento, A. WOJCIK, Defiance of EU Law by the Polish Constitutional Tribunal, in IACL-AIDC Blog, 28 novembre 2023.
[39] Wałęsa v. Poland, application n. 50849/21, decisione del 23/11/2023.
[40] Più nel dettaglio, Walesa aveva vinto una causa per diffamazione contro Wyszkowski, ex collega e membro dell'opposizione anticomunista, per le accuse, mosse da quest'ultimo, di aver collaborato con i servizi comunisti negli anni Settanta. Wyszkowski si è in seguito scusato pubblicamente per le accuse, rivelatesi interamente infondate. Nel gennaio 2020, però, il Procuratore generale polacco ha presentato, molti anni dopo la data in cui la sentenza era divenuta esecutiva, un "appello straordinario" per conto di Wyszkowski presso la Camera di revisione straordinaria e affari pubblici della Corte Suprema, tramite la procedura introdotta con la legge del 2017 sulla Corte Suprema del PiS. Tale iniziativa aveva condotto nel 2021 al ribaltamento della prima sentenza favorevole a Walesa.
[41] Anch’esso facente parte delle componenti della rule of law come ricordato nella checklist della Commissione di Venezia. Sul punto la Corte ha in particolare censurato il potere illimitato attribuito al Procuratore generale per la contestazione delle pronunce dell’organo ed il difetto di chiarezza della normativa processuale.
[42] Cfr. G. REPETTO, L’effetto di vincolo delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nel diritto interno: dalla riserva di bilanciamento al ‘doppio binario’, in Dir. pubbl., 2014, 1092 ss.
[43] Alle quali si richiede di adottare misure generali per la garanzia dell’imparzialità e l’indipendenza delle corti. Di recente, a seguito del risultato delle ultime elezioni, il governo polacco guidato da Donald Tusk ha peraltro stabilito un dialogo preliminare con le istituzioni dell’Unione europea per avviare riforme volte a ripristinare, anche nel settore della giustizia, lo stato di diritto. Le indicazioni della Corte EDU, in questa prospettiva, possono fornire un prezioso ausilio per supportare tale processo di riforma.
[44] Baka. V. Ungheria, application n. 20261/12, Grande Chambre, 23/06/2016.
[45] Cfr. K. LENAERTS, La giurisprudenza della Cgue sull’indipendenza della magistratura, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO, cit., 61 ss.
[46] In argomento cfr. S.M. CARBONE, et al., Cooperazione giudiziaria civile e penale nel diritto dell’Unione europea, Torino, 2008.
[47] Corte di giustizia, 5 novembre 2019, Commissione v. Polonia, causa C-192/18, ECLI:EU:C:2019:924. La pronuncia originava infatti da un rinvio pregiudiziale della Corte amministrativa suprema del Portogallo.
[48] In argomento si vedano le riflessioni sul costituzionalismo trasformativo di A. VON BOGDANDY, L.D. SPIEKER, Transformative Constitutionalism in Luxembourg: How the Court Can Support Democratic Transitions, in Columbia Journal of European Law e A. VON BOGDANDY et al., Un possibile «momento costituzionale» per lo Stato di diritto europeo. L’importanza delle linee rosse, in Forum Quaderni Costituzionali, 12 luglio 2018, 865 ss. esposte dall’autore, da ultimo, durante la sessione plenaria del Convegno ICON-S svoltosi all’Università Bocconi nell’ottobre del 2023.
[49] In argomento, E. CIMADOR, La Corte di giustizia conferma il potenziale della procedura d’infrazione ai fini di tutela della rule of law. Brevi riflessioni a margine della sentenza Commissione v. Polonia (organizzazione tribunali ordinari), in Eurojus, 1, 2020.
[50] Cfr. tra le altre Corte di giustizia, 19 settembre 2018, RO, causa C-327/18, PPU, ECLI:EU:C:2018:733. In argomento si veda anche G. MICHELINI, Stato di diritto ed integrazione processuale europea. La Corte di giustizia ed il caso Polonia, in Questione Giustizia, 27/07/2018.
[51] Corte di Giustizia, causa C-216/18 PPU, sentenza (Grande sezione) 25 luglio 2018.
[52] Verso la Polonia, infatti, era stata attivata la procedura di cui all’art. 7 c. 1 TUE e ciò poneva la Corte irlandese di fronte al dubbio di esporre l’imputato a violazioni ai principi del giusto processo in caso di trasferimento in carico alle autorità polacche. Cfr. amplius C. PINELLI, Violazioni sistemiche dei diritti fondamentali e crisi di fiducia tra Stati membri in un rinvio pregiudiziale della High Court d’Irlanda, in Quad. cost., 2, 2018, 510 ss.
[53] Per fare ciò, precisa la Corte, il giudice deve prendere in considerazione l’esistenza di eventuali violazioni sistemiche e accertarsi che dall’esecuzione della condanna dell’imputato nello Stato richiedente non derivi una violazione dei principi dello stato di diritto.
[54] V. par. 89 sent. Corte di Giustizia, caso LM, C- 216/18.
[55] Si veda in particolare il caso Repubblika v Il-Prim Ministru, 20 aprile 2021, C-896/19. In argomento, cfr. J. SAWICKI, La collisione insanabile tra diritto europeo primario e diritto costituzionale interno come prodotto della manomissione ermeneutica di quest’ultimo, in DPCE Online, 4, 2021 e M. LELOUP, D.V. KOCHENOV, A. DIMITROVS, Non-Regression: Opening the Door to Solving the ‘Copenhagen-Dilemma’? All the Eyes on Case C-896/19 Repubblika v Il Prim-Ministru, in Reconnect Working Paper, No. 15, 2021.
[56] Cfr., nel volume inclusivo degli atti del Convegno, S. SCIARRA, L’indipendenza del giudice alla luce della giurisprudenza della corte costituzionale, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO, cit., 85 ss.
[57] Sul punto E. CECCHERINI, L’integrazione fra ordinamenti e il ruolo del giudice, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2, 2013, 467 ss.
[58] In argomento, S. SCIARRA, Identità nazionale e corti costituzionali. il valore comune dell’indipendenza, in AA.VV., Identità nazionale degli stati membri, primato del diritto dell’unione europea, stato di diritto e indipendenza dei giudici nazionali, 6 ss.
[59] Sulla cooperazione tra consigli giudiziari in Europa si rinvia a D. KOSAŘ, Beyond Judicial Councils: Forms, Rationales and Impact of Judicial Self-Governance in Europe, in German Law Journal, 19.7, 2018, 1567-1612 e O.P. CASTILLO ORTIZ, Councils of the judiciary and judges’ perceptions of respect to their independence in Europe, in Hague Journal on the Rule of Law, 9, 2017, 315-336.
[60] Cfr. Deliberazione dell’Assemblea Generale dell’ENCJ del 17 settembre 2018.
[61] Cfr. S. SCIARRA, L’indipendenza del giudice, cit., 86-87.
[62] La citazione è da farsi risalire alle parole di Vezio Crisafulli.
[63] Corte cost. sent. n. 15/1969, estensore Vezio Crisafulli. Si riporta di seguito il passaggio per esteso: “Ed è chiaro che compiti siffatti postulano che l'organo cui sono affidati sia collocato in posizione di piena ed assoluta indipendenza rispetto ad ogni altro, in modo che ne risultino assicurate sotto ogni aspetto - anche nelle forme esteriori - la più rigorosa imparzialità e l'effettiva parità rispetto agli altri organi immediatamente partecipi della sovranità. Postulano, in altri termini, un adeguato sistema di guarentigie, attinenti sia al collegio nel suo insieme, sia ai singoli suoi componenti, tra queste ultime rientrando le particolari incompatibilità sancite nei loro confronti durante la carica, che sono indubbiamente ordinate al medesimo principio”.
[64] Il PiS non disponeva di maggioranze sufficienti per modificare la Costituzione ma ha potuto nondimeno svuotare di significato il principio della separazione dei poteri (affermato dalla Carta polacca) semplicemente intervenendo sulle norme primarie che regolano il funzionamento della Corte e le garanzie dell’imparzialità dei suoi giudici, anche grazie a riserve di legge rivelatesi forse troppo ampie.
[65] Cfr. sentenza Corte cost. n. 215/2016, secondo cui “È costante, nella giurisprudenza di questa Corte, l'affermazione in forza della quale indipendenza e imparzialità devono ritenersi connotazioni imprescindibili dell'azione giurisdizionale, sia essa esercitata dalla magistratura ordinaria, dagli organi di giurisdizione speciale costituzionalizzati (ex art. 103 Cost.: Consiglio di Stato, Corte dei conti, Tribunali militari), dai giudici speciali pre-costituzionali ritenuti compatibili con la carta costituzionale (artt. 108 Cost. e VI delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione), dalle sezioni specializzate della giurisdizione ordinaria, composte anche da giudici non togati ex art. 102, secondo comma, Cost. (ex plurimis la sentenza n. 193 del 2014, già citata, che aveva ad oggetto lo stesso organo di giurisdizione speciale oggetto della attuale disamina; ancora, le sentenze n. 353 del 2002, sulla composizione del Tribunale regionale delle acque pubbliche e n. 262 del 2003, sulla composizione della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura)”.
[66] Cfr. ex multis, Corte cost. n. 223/2012.
[67] Il tema si è recentemente riproposto in termini simili con la sentenza n. 137/2023.
[68] Nella sentenza 41/2021, in particolare, la Corte afferma che “La regola generale del pubblico concorso è stata individuata come quella più idonea a concorrere ad assicurare la separazione del potere giurisdizionale dagli altri poteri dello Stato e la sua stessa indipendenza, a presidio dell'ordinamento giurisdizionale, posto dalla Costituzione, nel Titolo IV della sua Parte II, quale elemento fondante dell'ordinamento della Repubblica”. Cfr. S. SCIARRA, Il giudice, cit., 96.
[69] Cfr., tra le altre, Corte cost. sent. n. 224/2009.
[70] Malgrado la Costituzione italiana non utilizzi espressamente la formula “stato di diritto”, essa è del resto presente diffusamente nella giurisprudenza della Consulta ma anche nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente come osserva R. BIN, cit., passim.
[71] Rispetto alle quali in molti casi i tempi della legislazione, si rivelano spesso molto più lenti rispetto alle esigenze impellenti della società e degli operatori giuridici.
[72] Le nuove complessità dell’interpretazione giudiziale sono state menzionate in diversi interventi, tra cui quello di Natalino Irti.
[73] La tensione tra Polonia, Ungheria e Unione Europea ha stimolato un miglioramento nelle garanzie della rule of law europea, come dimostrato dall’entrata in vigore del meccanismo della condizionalità di cui al regolamento 2020/2092. In argomento, cfr. E. CUKANI, cit., passim e A. VON BOGDANDY, cit., passim.
[74] Cfr. G. LATTANZI, Saluti introduttivi, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO (a cura di), cit., 1 ss.
[75] Cfr. M. CARTABIA, The rule of law and the role of courts, in Italian Journal of Public Law, 1, 2018, 2.
Immagine fonte: Rijks Museum, Amsterdam.
Parecchio tempo fa Paolo Murialdi ha scritto un bel libro per l’editore Laterza che si intitolava: “Come si legge un giornale”, in cui oltre a fornire una dettagliata spiegazione di cosa sia un quotidiano dalla prima all’ultima pagina, egli indicava pure una serie di regole da seguire per una corretta e ragionevole lettura di esso. Lo scopo era quello di diffondere la lettura del quotidiano nelle scuole sulla scia e in continuità con l’impegno di altri intellettuali orientati in tal senso. Per tutti Roberto Berardi, (“Insegnare a leggere il giornale” nel volume Didattica della Storia, Giappichelli, Torino) il quale riconosceva nel giornale un potente strumento di conoscenze dell’oggi, ma anche un documento insostituibile per lo storico di domani che in esso cercherà le testimonianze dei fatti e dei costumi che si appresta a ricostruire. I testi di cui sopra sono comparsi negli anni ’70 del secolo scorso, eppure mantengono una significativa attualità specie se si tiene conto della crisi dei giornali in carta stampata e della proliferazione di giornali online non sempre di buona qualità. Quelli che si appassionano alla lettura in genere sono spinti dalla curiosità, dalla coscienza critica, dal bisogno di confrontare opinioni, commenti, chiavi di lettura, posizioni ideali, filosofie di pensiero. Un giornale si legge e si consuma in un giorno, in poche ore. Può essere questo un argomento per convincere le persone a distogliere un po' lo sguardo dal cellulare? A quanto risulta dalle statistiche i lettori di giornali diminuiscono e molte edicole chiudono anche nei luoghi storici delle grandi città dove si era abituati a comprarli e, nel passato, a leggere titoloni in bella vista sulle loro pareti esterne. Se si passa dai giornali ai libri sicuramente il discorso è più complesso. C’è chi fin da giovane ha capito che la lettura, nelle sue varie forme, oltre che un impegno è un piacere, un divertimento, un’avventura. Sei tu che scegli, non c’è qualcuno sopra di te che ti assegna un compito. In libreria, tra le varie sezioni, ti muovi come fossi in viaggio: devi prendere una direzione, qualche volta guidato dall’umore del momento, più spesso da una serie di esperienze, di stati d’animo, di bisogni, comunque e sempre dalla curiosità. Ma chi può leggere e che cosa? A mio avviso tutti possono leggere di tutto, tranne le idiozie. Nella prefazione ad un testo di Kant, l’autore si chiedeva: "può leggere Kant chi è ancora inesperto di problemi di filosofia? Crediamo di sì. Può smettere di leggere Kant chi è ormai molto esperto di filosofia? Crediamo di no”. Già Schopenhauer diceva che la lettura di Kant è come l’operazione della cataratta: dà la vista a chi non ci vede. D’altra parte, questa convinzione suffragata da così illustri pareri è avvalorata anche dal fatto che non c’è lettura più ardua di quella dei libri sacri e non per questo ogni volta che una persona apre la Bibbia deve avere accanto a sé un maestro che ne fa una dotta esegesi. Certo, ben venga l’esegesi, ma è anche avvincente misurarsi col testo, ricavarne suggestioni, provare a intenderne il contenuto senza mediazione. Non nego, con questo, la difficoltà oggettiva di districarsi, oggi, in una produzione vastissima dove spesso nei vari generi predomina la moda, il conformismo, la falsa novità, la babele delle lingue. Non sempre è chiaro il rapporto funzione-produzione-circolazione perciò bisogna mantenersi vigili, non seguire l’onda, quell’effetto alone che di solito nasconde la fregatura. Molti titoli mi hanno disturbata, incuriosita o intrigata negli ultimi anni specialmente nella saggistica e nella letteratura. Di tutti vorrei raccontare una briciola, ovvero l’impatto che ebbe e continua ad avere su di me un piccolo grande libro di Gustavo Zagrebelsky, noto professore di diritto costituzionale e presidente della Corte Costituzionale nel 2004. Si tratta di: Il “Crucifige!” e la democrazia, Einaudi Contemporanea. Il contenuto è di una attualità sconcertante, direi che esso è frutto di una visione profetica della società in cui adesso viviamo. Attraverso l’analisi del processo a Gesù, l’autore esemplifica le varie, possibili forme della democrazia. È affascinante la descrizione di quel mondo in cui si muoveva Gesù Cristo, quel mondo dove i poteri erano chiari e gli strumenti dell’affermazione erano deboli. Il Sinedrio e Caifa sono espressioni di una democrazia “dogmatica” tutta risolta nella legge, nell’inoppugnabilità dei principi che vengono opportunisticamente riproposti come litanie: “Il dogmatico può accettare la democrazia solo se e fino a quando serve come forza, una forza indirizzata ad imporre la verità. Lo scettico a sua volta poiché non crede in nulla, può tanto accettarla che ripudiarla”. Pilato è il campione della “democrazia scettica”; a lui che, come narra Matteo, si rimette alla folla per la scelta tra Gesù e Barabba, importa solo il potere, il suo e quello di Roma. “Blandire la folla, allora, può essere in certe circostanze, non un cedimento ma un accorgimento prudente di quanti hanno a cuore prima di tutto la salvezza del governo…La vicenda di Gesù dimostra come possa esserci un’alleanza, apparentemente impossibile tra l’assolutismo del dogma e il nichilismo della scepsi, e come questa alleanza possa assumere esteriormente un aspetto democratico”. C’è dunque la folla, il popolo che urla “crucifige”: è la massa manovrata, è la parte per il tutto; essa ha un valore rappresentativo. L’autore si riferisce senza mezzi termini a ciò che avviene anche oggi (mentre scrivo queste modeste riflessioni), in modi solo apparentemente diversi, quando si ricorre alla piazza, quando si fanno i sondaggi come campioni rappresentativi, quando la parte sta per il tutto. Dalla democrazia dogmatica, alla democrazia scettica, alla democrazia dispotica (la chiamano adesso democratura): quante parvenze di democrazia! Oggi è possibile una democrazia critica? Qui è la pars construens di questo lessico civile, il luogo in cui l’autore analizza la possibilità di una democrazia in cui il popolo non diviene dispotico, non ha poteri illimitati, non è divinizzato, ma riesce a vivere nel rispetto delle singole individualità, nella “reciproca mitezza”. Un libro così me lo porterei sulla famosa isola deserta e anche lassù…davanti agli occhi di Dio. Perché spesso mi chiedo come fossi bambina: ma lassù si potrà leggere? Tutti quelli che amo li rivedrò secondo la fede e secondo la kantiana ragionevole speranza, ma i libri? Se non li avessi…me ne morrei di nostalgia!
(In foto la biblioteca privata del professor Richard Macksey, Baltimora, fonte New York Times)
La responsabilità dell’hosting provider nella vendita on line di biglietti sui mercati secondari (nota a Sentenza Consiglio di Stato, Sez. VI, 05/12/2023, n. 10510).
di Francesco Di Iorio
Sommario: 1. Premessa. 2. I fatti per cui è causa. 3. (Segue) Il giudizio di primo grado. 4. Il giudizio di appello. La sentenza n. 10510/2023 del Consiglio di Stato. 5. La differenza tra hosting provider “passivo” e hosting provider “attivo” delineata dal Consiglio di Stato e il regime di responsabilità degli “Internet Service Providers”. 6. (Segue) Vendita telematica dei titoli di accesso ad attività di spettacolo nei mercati secondari: ratio del divieto (introdotto dal d. lgs. 232/2016) e responsabilità dell’hosting provider. 7. (Segue) La questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, c. 545 l. 232/2016. 8. Profili sanzionatori a carico dell’hosting provider: presupposti per la determinazione della sanzione e principio di proporzionalità. 9. Conclusioni.
1. Premessa
La pronuncia in commento risulta particolarmente interessante perché ripercorre in maniera puntuale gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa dei c.d. “Internet Service Providers”, delineando altresì le condotte astrattamente contra legem e idonee a violare (tra gli altri) il divieto di vendita sancito dall’art. 1, c. 545 della l. 11 dicembre 2016, n. 232.
La sentenza, inoltre, approfondisce e individua la ratio sottesa all’introduzione del divieto di vendita di biglietti sui mercati secondari e conferma la conformità al dettame costituzionale di tale divieto nonché la ragionevolezza dell’apparato sanzionatorio introdotto in materia dal legislatore.
Ulteriori profili di interesse sono infine rinvenibili nell’ultima parte della pronuncia, dove il Giudice Amministrativo perimetra e individua gli elementi che l’amministrazione deve valutare ai fini della determinazione della sanzione di cui all’art. 1, c. 545 della l. 232/2016.
2. I fatti per cui è causa.
A seguito della ricezione di esposti da parte di associazioni di categoria, di soggetti operanti nel settore dell’organizzazione di eventi musicali e di società di vendita nel mercato primario di titoli ad eventi musicali, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni avvia un’attività di controllo sul sito dell’operatore segnalato.
In esito all’espletamento di tale attività, l’Autorità accerta che, nel periodo marzo – maggio 2009, tramite il sito dell’operatore sono stati venduti biglietti relativi a trentasette eventi (concerti e spettacoli) a prezzi maggiorati rispetto ai prezzi nominali presenti sui siti di vendita primari autorizzati.
Sulla base di tale presupposto, l’Autorità contesta all’operatore di non essersi limitato “…a consentire la connessione dei potenziali venditori e acquirenti tramite modalità puramente tecniche, passive ed automatiche…”, ma di aver (attivamente) agevolato la vendita dei biglietti a prezzo maggiorato, fornendo una “…complessa attività di assistenza ai potenziali venditori e acquirenti .. attraverso una “massiccia operazione di promozione” effettuata tramite una strategia “multi-piattaforma”…”; attività di assistenza questa interessante “…tutte le varie fasi della compravendita fino alla relativa esecuzione, compresa la riscossione del pagamento…”.
Il tutto, per fini lucrativi e allo specifico scopo di “…trattenere le somme ad essa dovute a titoli di commissione .. oltre al rimborso delle spese di spedizione…”.
Per tali motivi, l’Autorità – ritenendo integrata da parte dell’operatore una violazione dell’art. 1, c. 545 della l. 232/2016[1] - adotta nei confronti di quest’ultimo una sanzione pecuniaria di € 3.700.000,00.
3. (Segue) Il giudizio di primo grado.
L’operatore impugna la sanzione innanzi al Tar Lazio, Roma, chiedendone il relativo annullamento.
A sostegno della richiesta di annullamento formulata, l’operatore denuncia l’illegittimità del provvedimento (anche) nella parte in cui ha qualificato in termini di “vendita” l’attività svolta dallo stesso per il tramite del proprio sito, non avvedendosi invece che tale attività avrebbe “…ad oggetto esclusivamente l’intermediazione tra le parti della compravendita, anche tramite la fornitura di servizi di supporto “logistico”, senza tuttavia alcun potere decisionale sugli elementi che determinano la eventuale illiceità della transazione…”; nonché nella parte in cui ha omesso di rilevare che l’attività dell’operatore “…consisterebbe nella gestione di una “bacheca virtuale” e dovrebbe .. essere qualificata in termini di hosting provider “neutrale” o “passivo” ai sensi della direttiva e-commerce, con applicazione del regime di esenzione della responsabilità previsto da quest’ultima e dalla normativa nazionale di recepimento…”.
Con il medesimo ricorso, il ricorrente denuncia altresì:
- il contrasto tra l’art. 1, c. 545 della l. 232/2016 (in attuazione del quale è stata comminata la sanzione da parte dell’Autorità) e gli artt. 41 e 117, c. 1 della Costituzione;
- l’abnormità della sanzione, avendo a suo dire l’Autorità erroneamente ritenuto integrate una “…pluralità di azioni ripetute nel tempo (dal ricorrente) in relazione ai diversi eventi…” e (conseguentemente) applicato, in sede di determinazione della sanzione, il c.d. regime del “…cumulo materiale delle violazioni…”. A dire dell’operatore, la condotta contestata sarebbe connotata da “violazioni” “…commesse in tempi ravvicinati…” e “… riconducibili ad una programmazione unitaria…”, talché le stesse dovrebbero “…considerarsi unitariamente…” (con conseguente, doverosa, applicazione - ai fini de computo della sanzione - del “…più mite regime del cumulo giuridico…”).
Con la sentenza n. 3955/2021, il Tar Lazio, Roma rigetta il ricorso proposto dall’operatore.
Nella pronuncia il Giudice di primo grado sottolinea innanzitutto che l’art. 1, c. 545 della l. 232/2016 vieta l’attività di rivendita di titoli di accesso ad attività di spettacolo da parte di soggetti distinti dai titolari dei sistemi di emissione[2] al fine di contrastare l'elusione e l'evasione fiscale, nonché di assicurare la tutela dei consumatori e garantire l'ordine pubblico.
La condotta vietata – chiarisce il Tar - è delineata dalla norma in termini volutamente ampi (“vendita” e “qualsiasi altra forma di collocamento”), tali da ricomprendere ogni attività contrastante e/o elusiva del divieto ivi sancito.
Fatta tale premessa, il Tar Lazio, Roma ritiene che l’attività dell’operatore – concretizzandosi nella “…gestione di un sito web che fornisce in via esclusiva, tramite un’articolata gestione imprenditoriale .. servizi finalizzati a favorire la conclusione di negozi giuridici…” e ad “…agevola(re) .. la conclusione di vendite illecite in ragione del pagamento di un prezzo superiore a quello nominale…” – sia violativa del richiamato art. 1, c. 545 della l. 232/2016, non potendo tale condotta “…essere assimilata a quella di un “trasportatore” ignaro del contenuto della merce trasportata…”
Nella medesima pronuncia il Giudice amministrativo ritiene non applicabile all’operatore il regime di esonero dalla responsabilità previsto per il c.d. “hosting passivo” dall’art. 16 del d.lgs. 70/2003[3] (“Attuazione della direttiva 2000/31/CE inerente i servizi della società dell'informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico”).
A dire del Tar, infatti, la condotta dell’operatore – essendo connotata da “…articolate attività di ottimizzazione e promozione pubblicitaria dei titoli in vendita, definizione dei parametri giuridici ed economici della transazione, inclusi i termini di consegna e il prezzo…” nonché “…nella gestione operativa e nella riscossione di quest’ultimo…” - non è qualificabile in termini di “hosting passivo” (ma in termini di “hosting attivo”[4]), con conseguente inapplicabilità dell’anzidetto regime di esonero (previsto dall’art. 16 d. lgs 70/2003).
Nella pronuncia di primo grado viene inoltre:
- rigettata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, c. 545 l. 232/2016 sollevata dal ricorrente. La disposizione risulta infatti coerente con il principio europeo di libera circolazione dei servizi (che ammette deroghe funzionali a garantire la tutela dei consumatori e l’ordine pubblico nonché ad evitare fenomeni di elusione/evasione fiscale) e con l’art. 106 TFUE[5] (non attribuendo la norma “diritti esclusivi” nei confronti di nessun soggetto e risultando la stessa proporzionata e adeguata rispetto alle finalità perseguite), con conseguente rispetto dell’art. 117, c. 1 Cost.[6] e dei “vincoli derivanti dall’ordinamento UE”. La disposizione risulta inoltre rispettosa della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost.[7], in quanto “…gli obiettivi perseguiti con l’introduzione della disciplina sanzionatoria all’esame (contrasto evasione /elusione fiscale, tutela dei consumatori) costituisc(o)no interessi di rilievo tale da integrare la deroga prevista dall’art. 41 comma II della Costituzione alla libertà di iniziativa economica…”
- ritenuta congrua e proporzionata la sanzione comminata dall’amministrazione, avendo l’autorità correttamente ritenuto che la condotta dell’operatore abbia integrato “…plurime violazioni della stessa norma (art. 1, c. 545 l. 232/2016)poste in essere in tempi e con riferimento ad eventi diversi…”.
4. Il giudizio di appello. La sentenza n. 10510/2023 del Consiglio di Stato.
L’operatore impugna innanzi al Consiglio di Stato la sentenza (n. 3955/2021) del Tar Lazio, Roma, contestando la sentenza nella parte in cui ha qualificato l’attività dell’appellante in termini di “hosting provider attivo”, in violazione degli artt. 3, 14 e 15 della direttiva 2000/31/ce e degli artt. 16 e 17[8] del d.lgs. di n. 70/2013 e sulla base di presupposti erronei e travisanti.
Con il medesimo appello, l’appellante censura la pronuncia di primo grado (anche) nella parte in cui ha ritenuto – sulla base di una motivazione asseritamente “carente” – compatibile l’art. 1, c. 545 della l. 232/2016 con l’art. 41 cost. nonché laddove ha ritenuto proporzionata e congrua la sanzione comminata dall’Autorità in suo danno.
L’appello proposto pone quindi all’attenzione del Consiglio di Stato la soluzione di tre macro questioni, ovvero:
a) quali sono gli elementi tipici dell’attività dell’hosting provider “attivo” (e di quello “passivo”) e quali sono le condotte del “provider” astrattamente idonee ad integrare una responsabilità amministrativa dello stesso;
b)in quali casi e/o a quali condizioni l’attività di hosting provider “attivo” può determinare una violazione del divieto di vendita di cui all’art. 1, c. 545 d. lgs. 232/2006;
c) se, in linea generale, il divieto di vendita sancito dall’art. 1, c. 545 del d. lgs. 232/2006 sia costituzionalmente legittimo e rispettoso dell’art. 41 della Costituzione.
5. La differenza tra hosting provider “passivo” e hosting provider “attivo” delineata dal Consiglio di Stato e il regime di responsabilità degli “Internet Service Providers”.
Nella pronuncia in esame, il Consiglio di Stato ripercorre innanzitutto il quadro normativo di riferimento e la disciplina recata dal d. lgs. 9.4.2003, n. 70 in materia di “hosting provider”.
In tale prospettiva, il giudice – dopo aver ricordato che per “provider” si intende il “…soggetto che organizza l’offerta ai propri utenti dell’accesso alla rete internet e dei servizi connessi all’utilizzo di essa…”[9] - rimarca l’ontologica differenza (delineata a livello giurisprudenziale) intercorrente tra la figura dell’hosting provider “passivo” e quella dell’hosting provider “attivo”.
Il primo (hosting provider “passivo”) è il soggetto che “…pone in essere un’attività di prestazione di servizi di ordine meramente tecnico e automatico…”, senza conoscere le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali forniscono il servizio; laddove il secondo (hosting provider “attivo”) è invece il soggetto la cui attività ha “…ad oggetto anche i contenuti della prestazione resa…”.
Fatta la suvvista premessa, la pronuncia delinea il regime di responsabilità degli “Internet service providers”, chiarendo che – con riferimento a tali soggetti – l’ordinamento ha affiancato alla “…disciplina generale sulla responsabilità da fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c…” alcune “…norme speciali, ad alto contenuto tecnico…”, disciplinanti una tipica ipotesi di responsabilità (amministrativa) per colpa.
Si chiarisce quindi che, in linea generale, è esclusa la responsabilità del provider in tutti casi in cui non vi è una “manipolazione dei dati memorizzati”, rilevando quindi (in punto di responsabilità) solo le condotte che hanno “…in sostanza l’effetto di completare e arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte degli utenti…”.
Il regime di responsabilità degli “Internet Service Providers” passa quindi dall’accertamento di una condotta attiva dell’operatore, che può estrinsecarsi, ad esempio, nell’attività di “selezione”, “indicizzazione”, “organizzazione”, “catalogazione”, “aggregazione”, “valutazione”, “uso”, “modifica”, “estrazione” o “promozione” dei contenuti pubblicati dagli utenti[10].
6. (Segue) Vendita telematica dei titoli di accesso ad attività di spettacolo nei mercati secondari: ratio del divieto (introdotto dal d. lgs. 232/2016) e responsabilità dell’hosting provider.
Dopo aver ricostruito il regime di responsabilità in materia di “Internet Service Providers”, il Consiglio di Stato sottolinea che l’art. 1, comma 545 della l. 11.12.2016, n. 232 vieta, in linea generale, “…la vendita o qualsiasi altra forma di collocamento di titoli di accesso ad attività di spettacolo effettuato da soggetto diverso dai titolari, anche sulla base di apposito contratto o convenzione, dei sistemi per la loro emissione…”; e sottolinea altresì che l’unica eccezione a tale regola (rectius: divieto) si ha nell’ipotesi in cui ad effettuare la vendita del biglietto sia “…una persona fisica in modo occasionale (e) senza finalità commerciali…”, fermo restando che in tal caso la vendita deve comunque essere effettuata “…ad un prezzo uguale o inferiore a quello nominale di titoli di accesso ad attività di spettacolo…”.
Le anzidette previsioni – precisa il Giudice Amministrativo – hanno chiara matrice “fiscale” e sono dirette a reprimere il c.d. bagarinaggio ovvero la vendita secondaria di biglietti da parte dei soggetti che non risultino titolari dei relativi sistemi di emissione. Il tutto, al fine di tutelare gli interessi del fisco e la disciplina in materia di diritto d’autore.
Richiamate le suvviste coordinate normative, il Giudice ritiene la sentenza impugnata immune da vizi: secondo il Consiglio di Stato, infatti, il Tar (e, prima ancora, l’AGCOM) ha correttamente qualificato l’attività dell’appellante in termini di “hosting provider attivo” (e ritenuto conseguentemente sussistenti a suo carico una responsabilità ex art. 1, c. 545 l. 232/2016).
Il contegno serbato dall’operatore è infatti rilevatore di “..una serie di elementi indicativi dello svolgimento di un’attività connotata in termini di non mera passività…”. Depongono in tal senso, ad esempio, la “predisposizione grafica dell’offerta, organizzata per ogni singolo evento (indicizzazione)”, la “predisposizione e messa a disposizione delle piante degli impianti (organizzazione)”, il “suggerimento dei prezzi (catalogazione e valutazione)” e l’ “aggregazione dei contenuti per singolo evento (aggregazione)”.
Secondo il Consiglio di Stato, dunque, l’adozione da parte dell’operatore di una serie di misure “attive” - indicizzazione, organizzazione, aggregazione, catalogazione e valutazione dei prodotti - funzionali ad agevolare la vendita online di biglietti (ad un prezzo superiore al loro valore nominale) unitamente alle finalità commerciali/lucrative sottese all’adozione di tali misure consuma una violazione dell’art.1, comma 545 della l. 11.12.2016, n. 232 da parte dell’operatore, con conseguente legittimità del provvedimento sanzionatorio adottato in suo danno.
7. (Segue) La questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, c. 545 l. 232/2016.
Nel prosieguo della pronuncia, il Consiglio di Stato chiarisce poi che l’art. 1, c. 545 della l. 232/2016 si sottrae a possibili profili e censure di incostituzionalità.
Tale disposizione – a dire del Consiglio di Stato – risulta infatti del tutto ragionevole, ben potendo “…il legislatore fiscale (..) decidere di vietare fenomeni che siano per la loro dimensione o per il loro impatto contrari all’ordine economico…” (fenomeni tra questi tra i quali rientra il c.d. “…bagarinaggio informatico…”, vietato dalla disposizione de qua e che costituisce un vero e proprio “rischio” per l’ordine economico).
In siffatte ipotesi, il divieto non determina alcuna violazione della libertà d’impresa degli operatori, non potendosi tale libertà svolgersi “…in contrasto con l’utilità sociale…”.
Sempre secondo il Consiglio di Stato, la costituzionalità della sopra richiamata disposizione è confermata anche dal fatto che:
a) la stessa non vieta in modo assoluto la “vendita secondaria”, ammettendo tale vendita a certe condizioni di prezzo e in condizioni di “occasionalità”;
b) la Corte Costituzionale ritiene legittime le limitazioni alla libertà contrattuale (in materia commerciale) introdotte per scopi previsti o consentiti dalla costituzione o al fine di evitare che apparecchi di svago fossero utilizzabili come gioco o scommessa[11]. Tali ragioni sarebbero “…ancora attuali a fronte di un fenomeno di nuova portata come il c.d. bagarinaggio informatico…”;
c)l’art. 1, c. 545 della l. 232/2016 “…sceglie la via dell’illecito amministrativo…” per punire il soggetto sanzionato e non già quella “…penale…”. Sul punto, la norma appare quindi del tutto “…proporzionata…” in quanto – pur non integrando il c.d. bagarinaggio una fattispecie di rilevanza penale (poiché non lesivo dell’ordine e della sicurezza pubblica) - il fenomeno della “…rivendita massiva di biglietti a prezzi maggiorati…” è comunque “…in grado di produrre effetti negativi sia per i privati che vogliono partecipare a concerti o a partite di calcio, sia per gli organizzatori di eventi e gli artisti, che vedono lucrare sconosciuti sul proprio lavoro…”[12].
8. Profili sanzionatori a carico dell’hosting provider: presupposti per la determinazione della sanzione e principio di proporzionalità.
Da ultimo, la pronuncia si concentra sulla proporzionalità della sanzione applicata dall’AGCOM nei confronti dell’operatore.
Il Consiglio di Stato principia sul punto affermando che la circostanza che l’operatore abbia venduto sulla propria piattaforma “…diversi biglietti…” in relazione a “…diversi eventi…” integra una “…pluralità e generalità di operazioni, tali da dare vita ad una vera e propria ulteriore piattaforma di vendita…”; ciò concorrerebbe a “…definire la gravità del fatto…”[13] e ad escludere la possibilità di applicare (ai fini del computo della sanzione) l’istituto del c.d. cumulo giuridico di cui all’art. 8 l. 689/1981 (applicabile solo nell’ipotesi in cui la pluralità di violazioni discenda da un’unica condotta e non già in presenza di distinte condotte, anche se identiche o analoghe[14]).
Sulla scorta di tali presupposti concettuali, il Consiglio di Stato conclude quindi affermando che, nella vicenda all’attenzione, “…l’Autorità ha fatto corretto utilizzo dei parametri di quantificazione di cui alla normativa di principio, valorizzando i seguenti elementi: la gravità della condotta anche per la rilevante diffusione della stessa attraverso i più diffusi social media; l’assenza di qualsiasi comportamento, nel corso del procedimento, finalizzato a eliminare o attenuare le conseguenze della violazione e anzi, all’opposto, l’aver dato vita a comportamenti omissivi alla richiesta di elementi; la personalità dell’agente, dotato di una struttura adeguata e qualificata, e le condizioni economiche dello stesso…”.
Sulla scorta delle sopra riportate considerazioni, il Consiglio di Stato rigetta l’appello proposto dall’appellante e conferma la sentenza di primo grado (che aveva, a sua volta, ritenuto legittima la sanzione adottata dall’AGCOM).
9. Conclusioni.
La pronuncia in esame risulta particolarmente interessante poiché adottata su una materia - quella della vendita online di prodotti sui mercati secondari e della responsabilità amministrativa del “provider” – nuova e particolarmente “attuale”, in considerazione, tra le altre cose, dell’elevato numero di transazioni/vendite effettuate in rete dai consociati e del “ruolo” svolto ad oggi dal fenomeno della digitalizzazione delle operazioni commerciali.
La sentenza pone alcuni punti fermi su quelli che sono i profili e/o le tipologie di attività del provider giuridicamente rilevanti (anche in punto di responsabilità amministrativa del provider stesso), individuando altresì alcune ipotesi/casistiche specifiche che andranno sicuramente ad “arricchirsi” con l’evolversi del fenomeno della digitalizzazione (e della vendita online) e con il registrarsi di nuove pronunce giurisprudenziali in materia.
Il dato di particolare rilievo che emerge dalla pronuncia è che, sotto un profilo strettamente giuridico, il provider – in tutte quelle ipotesi in cui non si limiti ad adottare misure meramente “passive” (ad esempio, raccogliendo e memorizzando dati di terzi) - dovrà assicurarsi che le misure adottate sulla propria piattaforma/sito (al fine di “arricchire” la fruizione dei contenuti da parte dell’utenza) non violino interessi protetti e/o comunque non siano funzionali ad eludere divieti introdotti dal legislatore per la tutela di diritti tutelati a livello nazionale o comunitario (es. ordine pubblico; salute; concorrenza; libera iniziativa economica).
[1] L’art. 1, comma 545 della legge 11 dicembre 2016, n. 232 stabilisce che “…Al fine di contrastare l'elusione e l'evasione fiscale, nonché di assicurare la tutela dei consumatori e garantire l'ordine pubblico, la vendita o qualsiasi altra forma di collocamento di titoli di accesso ad attività di spettacolo effettuata da soggetto diverso dai titolari, anche sulla base di apposito contratto o convenzione, dei sistemi per la loro emissione è punita, salvo che il fatto non costituisca reato, con l'inibizione della condotta e con sanzioni amministrative pecuniarie da 5.000 euro a 180.000 euro, nonché, ove la condotta sia effettuata attraverso le reti di comunicazione elettronica, secondo le modalità stabilite dal comma 546, con la rimozione dei contenuti, o, nei casi più gravi, con l'oscuramento del sito internet attraverso il quale la violazione è stata posta in essere, fatte salve le azioni risarcitorie. L'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, di concerto con l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, effettua i necessari accertamenti e interventi, agendo d'ufficio ovvero su segnalazione degli interessati e comminando, se del caso, le sanzioni amministrative pecuniarie previste dal presente comma. Non è comunque sanzionata la vendita ad un prezzo uguale o inferiore a quello nominale di titoli di accesso ad attività di spettacolo effettuata da una persona fisica in modo occasionale, purché senza finalità commerciali…”.
[2] Nella sentenza Tar Lazio, Roma n. 3955/2021 si chiarisce che “…Per “titolari di sistemi di emissione” dei titoli si intendono i soggetti cui è stata conferita specifica autorizzazione dall’Agenzia delle Entrate, ai sensi del provvedimento della stessa Agenzia del 22 ottobre 2002 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 258 del 4 novembre 2002) recante “Autorizzazione al rilascio delle carte di attivazione relative a sistemi di emissione di titoli di accesso e di riconoscimento di idoneità di apparecchiature”, che presuppone la conformità dei sistemi di emissione dei titoli di accesso al decreto del Ministero delle Finanze del 13 luglio 2000, riguardante le caratteristiche degli apparecchi misuratori fiscali, il contenuto e le modalità di emissione dei titoli di accesso per gli intrattenimenti e le attività spettacolistiche. Le misure tecniche di dettaglio sono, inoltre, contenute nel provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 27 giugno 2019 che, al capo III, punti 6.3 e 6.4, indica i parametri tecnici della procedura di cambio nominale dei titoli di accesso e della procedura di intermediazione per la rivendita, e che, come evidenziato dall’Avvocatura dello Stato, è stato oggetto di notifica alla Commissione Europea ai sensi della Direttiva (UE) 2015/1535…”.
[3] L’art. 16 del d. lgs. 9 aprile 2003, n. 70 prevede che “…1. Nella prestazione di un servizio della società dell'informazione, consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l'attività o l'informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l'illiceità dell'attività o dell'informazione; b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso. 2. Le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano se il destinatario del servizio agisce sotto l'autorità o il controllo del prestatore. 3. L'autorità giudiziaria o quella amministrativa competente può esigere, anche in via d'urgenza, che il prestatore, nell'esercizio delle attività di cui al comma 1, impedisca o ponga fine alle violazioni commesse…”.
[4] Secondo la Corte di Cassazione ricorre la figura dell’ “…hosting provider attivo, sottratto al regime privilegiato (di cui all’art. 16 del d. lgs. 70/2003), quando sia ravvisabile una condotta di azione (..) gli elementi idonei a delineare la figura o “indici di interferenza”, da accertare in concreto ad opera del giudice del merito, sono - a titolo esemplificativo e non necessariamente tutte compresenti - le attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l'adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione: condotte che abbiano, in sostanza, l'effetto di completare ed arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte di utenti indeterminati…” (Cass. Civ., Sez. I, 19 marzo 2019, n. 7708).
Anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha chiarito che “…allorché il prestatore del servizio, anziché limitarsi ad una fornitura neutra di quest'ultimo, mediante un trattamento puramente tecnico e automatico dei dati forniti dai suoi clienti, svolge un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo di tali dati…”, in particolare consistente “…nell'ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita di cui trattasi e nel promuovere tali offerte, si deve considerare che egli non ha occupato una posizione neutra tra il cliente venditore considerato e i potenziali acquirenti, ma che ha svolto un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo dei dati relativi a dette offerte. In tal caso non può avvalersi, riguardo a tali dati, della deroga in materia di responsabilità di cui all'art. 14 della direttiva 2000/31…” (Corte UE, Grande Sezione, 12 luglio 2011, C-324/09, L’Orèal c. eBay, punti 112 – 117; in termini analoghi, id., 23 marzo 2010, C-236/08, Google c. Louis Vuitton, punti 109 e seguenti).
[5] L’art. 106 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea stabilisce che “…1. Gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme dei trattati, specialmente a quelle contemplate dagli articoli 18 e da 101 a 109 inclusi. 2. Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi dell'Unione. 3. La Commissione vigila sull'applicazione delle disposizioni del presente articolo rivolgendo, ove occorra, agli Stati membri, opportune direttive o decisioni…”.
[6] Ai sensi dell’art. 117, comma 1 della Costituzione “…La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonchè dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali…”.
[7] Ai sensi dell’art. 41 della Costituzione “…1. L'iniziativa economica privata è libera. 2. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. 3. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali…”.
[8] L’art. 17 del d. lgs. 9 aprile 2003, n. 70 prevede che “…1. Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 14, 15 e 16, il prestatore non è assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. 2. Fatte salve le disposizioni di cui agli articoli 14, 15 e 16, il prestatore è comunque tenuto: a) ad informare senza indugio l'autorità giudiziaria o quella amministrativa avente funzioni di vigilanza, qualora sia a conoscenza di presunte attività o informazioni illecite riguardanti un suo destinatario del servizio della società dell'informazione; b) a fornire senza indugio, a richiesta delle autorità competenti, le informazioni in suo possesso che consentano l'identificazione del destinatario dei suoi servizi con cui ha accordi di memorizzazione dei dati, al fine di individuare e prevenire attività illecite. 3. Il prestatore è civilmente responsabile del contenuto di tali servizi nel caso in cui, richiesto dall'autorità giudiziaria o amministrativa avente funzioni di vigilanza, non ha agito prontamente per impedire l'accesso a detto contenuto, ovvero se, avendo avuto conoscenza del carattere illecito o pregiudizievole per un terzo del contenuto di un servizio al quale assicura l'accesso, non ha provveduto ad informarne l'autorità competente…”.
[9] Nella pronuncia n. 10510/2023, il Consiglio di Stato chiarisce, nello specifico, che “…Il provider è il soggetto che organizza l’offerta ai propri utenti dell’accesso alla rete internet e dei servizi connessi all’utilizzo di essa. Si distinguono, ai sensi del decreto in esame (d. lgs. 70/2003), tre figure di soggetti che operano nel presente mercato, articolate in ragione della tipologia di prestazione resa a cui corrisponde una specifica forma di responsabilità: i) attività di semplice trasporto – mere conduit (art. 14); ii) attività di memorizzazione temporanea – caching (art. 15); iii) attività di memorizzazione di informazione – hosting (art. 16)…”.
[10] La pronuncia in esame ribadisce i principi affermati dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 7708/2019, nella quale la Suprema Corte ha riconosciuto che “…La distinzione tra hosting provider attivo e passivo può, a ben vedere, agevolmente inquadrarsi nella tradizionale teoria della condotta illecita, la quale può consistere in un'azione o in un'omissione, in tale ultimo caso con illecito omissivo in senso proprio, in mancanza dell'evento, oppure, qualora ne derivi un evento, in senso improprio; a sua volta, ove l'evento sia costituito dal fatto illecito altrui, si configura l'illecito commissivo mediante omissione in concorso con l'autore principale. La figura dell'hosting provider attivo va ricondotta alla fattispecie della condotta illecita attiva di concorso. Al riguardo, vale la pena di ricordare l'osservazione della dottrina, secondo cui il diritto privato Europeo è pragmatico e non si cura delle architetture concettuali, avendo il legislatore comunitario il difficile compito di ottenere effettività con il "minimo investimento assiologico" ed un "minimo tasso di riconcettualizzazione"; ed il rilievo, secondo cui le norme di derivazione Europea provengono da sistemi giuridici segnati da una "tendenziale sottoteorizzazione". Dal suo canto, le pronunce della Corte di giustizia sono delimitate dai quesiti sottoposti dai giudici a quibus. Eppure, come del pari si osserva, nell'esigenza di trovare una nuova dogmatica universalmente fruibile, oltre le dogmatiche municipali, gli esponenti dell'accademia e delle corti, nei rispettivi ruoli, sono chiamati a preservare il valore della certezza del diritto: il che passa anche attraverso la riconduzione ad un sistema concettuale efficiente delle norme di derivazione Europea. Dunque, si può parlare di hosting provider attivo, sottratto al regime privilegiato, quando sia ravvisabile una condotta di azione, nel senso ora richiamato. Gli elementi idonei a delineare la figura o "indici di interferenza", da accertare in concreto ad opera del giudice del merito, sono - a titolo esemplificativo e non necessariamente tutte compresenti - le attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l'adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione: condotte che abbiano, in sostanza, l'effetto di completare ed arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte di utenti indeterminati…” (Cass. Civ., Sez. I, 19/03/2019, n. 7708).
[11] Si fa riferimento alle sentenze della Corte Costituzionale nn. 125/1963, 30/1965 e 12/1970.
[12] Nella sentenza in esame si riconosce che “…La norma poi sceglie la via dell’illecito amministrativo e non penale ed in ciò appare proporzionata. Va ricordato che l’illecito penale in tempi risalenti era stato ravvisato ipoteticamente per “la violazione del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 115, (Tulps) per attività di vendita di biglietti di ingresso ad una manifestazione, costituendo tale attività un’operazione riconducibile all’apertura di un’agenzia d’affari in assenza della prescritta licenza” e per l’art. 665 codice penale ( poi depenalizzato ). Tale inquadramento non ha retto nemmeno al vaglio della giurisprudenza civile. Per Cass. Civ. n. 10881 del 2008 “chi acquista per poi rivendere a proprio rischio e pericolo biglietti per spettacoli e manifestazioni in genere non è tenuto a chiedere alcuna licenza al questore. L’attività in esame, detta volgarmente di “bagarinaggio”, non è riconducibile, infatti, all’esercizio di un’agenzia d’affari per la quale il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza all’art. 155 prevede il permesso dell’autorità locale competente, poiché il bagarino, che rivende biglietti nel proprio esclusivo interesse ed al fine di lucrare un prezzo maggiore di quello d’acquisto, non esercita alcuna intermediazione - neppure atipica – riconducibile all’agenzia d’affari. Per lo svolgimento di questa attività, dunque, non sussistono le ragioni di specifica vigilanza per motivi d’ordine pubblico e sicurezza da cui sorge la necessità della licenza ( in senso analogo Cass. Civ. n. 12826 del 2007 si tratta di sentenze relative al bagarinaggio dei c.d. ambulanti). A fronte dell’esplosione del “bagarinaggio” c.d. informatico, invero molto impattante sull’economia del settore dei pubblici spettacoli, il legislatore fiscale è intervenuto con norma limitativa, ma compatibile con l’orientamento della giurisprudenza civile perché introduttiva di un mero illecito amministrativo. La rivendita massiva di biglietti a prezzi maggiorati, unitamente all’incetta dei biglietti che si può fare alla fonte mediante programmi informatici, è un fenomeno che ha attratto l’attenzione del legislatore intervenuto con la norma di cui si eccepisce l’incostituzionalità. Il fenomeno si è ritenuto in grado di produrre effetti negativi sia per i privati che vogliono partecipare a concerti o a partite di calcio, sia per gli organizzatori degli eventi e gli artisti, che vedono lucrare sconosciuti sul proprio lavoro…”.
[13] Nella pronuncia in esame il Consiglio di Stato sottolinea che “…In linea generale, i criteri generali di cui fare applicazione in sede di commisurazione delle sanzioni pecuniarie sono rinvenibili nell'ambito dell'art. 11 della l. 689 del 1981, per il quale, "nella determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo e nell'applicazione delle sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità della violazione, all'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche" (cfr. ex multis, Cons. St., Sez. VI, 24 agosto 2011, n. 4799)…”.
[14] Sui presupposti ai fini dell’applicabilità del principio del cumulo giuridico di cui all’art. 8 l. 689/1981 si veda anche Cass. civ., Sez. II, 22 giugno 2022, n. 20129.
Detenzione domiciliare al detenuto condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso: possibili aperture della Corte di cassazione (nota a Cass. Pen., Sez. I, 8 gennaio 2024, n. 510)
di Francesco Martin
Sommario: 1. Premessa - 2. Sulla detenzione domiciliare: brevi cenni - 2.1. La detenzione domiciliare speciale - 3. La detenzione domiciliare al condannato per reati di mafia - 4. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
Il tema inerente alla situazione carceraria italiana, intesa non solo come sovraffollamento, ma più in generale come qualità della vita dei detenuti, è ritornato all’attenzione del mondo politico e sociale complici, purtroppo, i gravi fatti inerenti all’elevato numero di suicidi avvenuti all’interno degli istituti penitenziari[1].
Ad una situazione già complessa, negli ultimi anni si è aggiunto il difficile rapporto tra tutela della collettività e assistenza e cura ai soggetti detenuti, affetti da malattie psichiche, che ha interessato tanto il legislatore quanto la giurisprudenza.
Difatti, a seguito della chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari si era posto il problema di dove curare i soggetti socialmente pericolosi affetti da disturbo psichico; questione che non è stata ancora risolta definitivamente in quanto le attuali strutture non riescono a far fronte al numero di soggetti che ne abbisognano[2].
Per questo motivo, nel diritto vivente si è progressivamente affacciata la valorizzazione dell’istituto del differimentodella pena, quale ulteriore valvola di sfogo.
Prima di procedere oltre, quindi, è opportuno prendere le mosse dall’attuale stato dell’arte della giurisprudenza in materia di differimento della pena, avente perlopiù a riguardo infermità di natura fisica.
Più in particolare, di recente, la Suprema Corte[3] è tornata sul differimento dell’esecuzione della pena, nella forma della detenzione domiciliare, per motivi di salute con argomentazioni di particolare interesse.
A seguito del rigetto da parte del Tribunale di sorveglianza, la Corte rilevava che, in caso di una richiesta di differimento dell'esecuzione della pena – o di sua esecuzione nelle forme della detenzione domiciliare – per grave infermità fisica, il Tribunale è tenuto a valutare se le condizioni di salute del condannato, oggetto di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all’interno dell'istituto penitenziario o, comunque, in centri clinici penitenziari e se esse siano o meno compatibili con le finalità rieducative della pena, con un trattamento rispettoso del senso di umanità, tenuto conto anche della durata del trattamento e dell’età del detenuto, a loro volta soggette ad un’analisi comparativa con la pericolosità sociale del condannato.
Proprio su questo punto, peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha più volte stabilito che: «In tema di differimento facoltativo della pena detentiva, ai sensi dell’art. 147 cod. pen., comma primo, n. 2), è necessario che la malattia da cui è affetto il condannato sia grave, cioè tale da porre in pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose e, comunque, da esigere un trattamento che non si possa facilmente attuare nello stato di detenzione, operando unbilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza dellacollettività»[4].
Tale decisione deve quindi fondarsi sull’equilibrato contemperamento di interessi tra le esigenze di certezza ed indefettibilità della pena e la salvaguardia del diritto alla salute e ad un’esecuzione penale rispettosa dei criteri di umanità, che non consente il mantenimento della restrizione carceraria che finisca con il rappresentare una sofferenza aggiuntiva intollerabile da vivere in condizioni umane degradanti, dovendosi tenere conto tanto dell’astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici disponibili quanto della concreta adeguatezza della possibilità di cura ed assistenza che nellasituazione.
Ancora, la Corte di cassazione ha stabilito che: «(...) in tema di differimento dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica, ai fini della valutazione sull’incompatibilità tra il regime detentivo e le condizioni di salute del condannato,ovvero sulla possibilità che il mantenimento dello stato di detenzione costituisca trattamento inumano o degradante, il giudice deve verificare, non soltanto se le con- dizioni di salute del condannato, da determinarsi ad esito di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all’interno dell’istituto di pena o comunque in centri clinici penitenziari, ma anche se esse siano compatibili o meno con le finalità rieducative della pena, alla stregua di untrattamento rispettoso del senso di umanità, che tenga conto della durata della pena e dell’età del condannato comparativamente con la sua pericolosità sociale»[5].
Si deve, in definitiva, effettuare un bilanciamento ed una valutazione che tenga conto delle esigenze di tutela della collettività e della possibilità per il detenuto di accedere a delle strutture sanitarie ove poter ricevere le migliori cure.
2. Sulla detenzione domiciliare: brevi cenni
Pare opportuno, al fine di inquadrare meglio la questione affrontata dalla sentenza in commento, evidenziare le principali caratteristiche di tale misura.
La detenzione domiciliare ordinaria è disciplinata dall’art. 47-ter O.P., introdotto con la L. 10 ottobre 1986, n. 663, e permette al condannato di espiare la pena detentiva, o residuo della stessa, non più nell’istituto penitenziario, bensì presso la propria abitazione, in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza.
L’art. 47-ter O.P. individua tassativamente i soggetti a che possono richiedere, al Tribunale di sorveglianza competente per territorio, l’accesso a tale beneficio, cioè coloro che abbiano compiuto i 70 anni di età, purché non siano stati condannati per reati previsti dagli artt. 609-bis, 609-quater e 609-octies c.p., i delinquenti abituali, professionali o recidivi ai sensi dell’art. 99 c.p.-
Su quest’ultimo punto è opportuno evidenziare che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 56 del 9 marzo 2021, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 01, O.P., limitatamente alle parole «né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’articolo 99 del codice penale».
La Consulta, rimuovendo la preclusione assoluta alla concessione della misura domiciliare in favore dei condannati recidivi ultrasettantenni, ha in tal modo sottoposto alla valutazione del giudice di sorveglianza la possibilità di applicare in beneficio domiciliare nei confronti di quei soggetti di età avanzata, nei cui confronti ragioni umanitarie fanno ritenere sussistente una presunzione di incompatibilità con la restrizione carceraria[6].
Inoltre la detenzione domiciliare può essere concessa ai condannati alla pena della reclusione non superiore a quattro anni qualora si tratti di donne incinta o madri di prole di età non superiore a 10 anni con esse conviventi, persone che versano in uno stato di salute particolarmente grave da necessitare di costanti contatti con i presidi sanitari del territorio, soggetti che abbiano compiuto i 60 anni di età e affetti da patologie gravi o parzialmente invalidanti, ovvero che non abbiano compiuto i ventun anni di età, per motivi di lavoro, famiglia, salute e studio.
Il comma 1-bis, dell’art. 47-ter O.P., prevede l’applicazione della misura alternativa anche nei confronti dei condannati alla pena detentiva non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena.
Il successivo comma 1-ter, che qui riveste particolare interesse, prevede che in caso di rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degli articoli 146 e 147 c.p., il Tribunale di sorveglianza, anche se la pena supera il limite di cui al comma 1, può disporre la applicazione della detenzione domiciliare.
Tale misura, infine, non si applica per i soggetti condannati per uno dei reati di cui all’art. 4-bis O.P.-
La natura giuridica della detenzione domiciliare ha suscitato notevole dibattito, soprattutto in dottrina.
Ad attenta analisi, infatti, si evince che il legislatore ha introdotto la misura in esame con finalità umanitarie e assistenziali e ne ha in seguito ampliato l’ambito di operatività per perseguire esigenze di politica deflattiva, senza però mai preoccuparsi di prevedere prescrizioni a contenuto rieducativo o risocializzante[7].
La dottrina maggioritaria[8] ha per lungo tempo classificato solo l’affidamento in prova al servizio sociale e la liberazione condizionale come misure alternative in senso proprio, mentre ha ritenuto la detenzione domiciliare ed il regime di semilibertà strumenti di diversificazione alternativa all’esecuzione delle sanzioni penali.
Tuttavia, nell’applicazione pratica, la detenzione domiciliare ha sempre più di contenuti di natura risocializzante mediante l’imposizione di prescrizioni, non solo a carattere negativo, ma anche positivo, finalizzate alla rieducazione del condannato.
Il Tribunale di sorveglianza, infatti, può stabilire anche disposizioni di natura risocializzante, non limitandosi ad una regolamentazione in negativo, elencando solamente i divieti; costituisce inoltre una misura intermedia, applicata in ragione dei progressi conseguiti nel corso del trattamento, prima dell’applicazione della misura più ampia dell’affidamento in prova.
La concedibilità della liberazione anticipata anche al detenuto domiciliare, inoltre, conferma ulteriormente la natura di misura alternativa, in quanto beneficio che ha come presupposto proprio la partecipazione all’opera di rieducazione.
L’indirizzo interpretativo seguito infatti dalla giurisprudenza, sia della Corte costituzionale[9] sia della Corte di cassazione[10], è costante nel riconoscere alla detenzione domiciliare una componente rieducativa, proprio in virtù del carattere impresso alla pena dall’art. 27 Cost.-
Orbene è allora possibile affermare che la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter O.P. si ponga come strumento volto a garantire, anche a quei soggetti a cui non potrebbe essere concessa la più ampia misura dell’affidamento in prova ai servizi sociali, la possibilità di reinserirsi all’interno del tessuto sociale, effettuando altresì un percorso volto a comprendere il disvalore delle condotte poste in essere per le quali hanno riportato la condanna.
2.1. La detenzione domiciliare speciale
L’ordinamento penitenziario disciplina anche una particolare ipotesi de detenzione domiciliare, prevista dall’art. 47-quinquies O.P.-
L’art. 3, comma 1, L. 8 marzo 2001, n. 40 ha introdotto, tra le altre disposizioni, l’art. 47-quinquies che è stato poi successivamente innovato dalla L. 21 aprile 2011, n. 62.
La detenzione domiciliare speciale si applica nell’ipotesi in cui non ricorrono le condizioni di cui all’art. 47-terO.P., cioè quando non sia possibile disporre la detenzione domiciliare ordinaria, prevista per le madri di prole di età inferiore ai dieci anni, purché la pena detentiva da eseguire non superi la durata di quattro anni.
La norma in esame prevede dunque un’ipotesi di detenzione domiciliare speciale ed in particolare che, qualora la condannata sia una madre di prole non superiore ad anni dieci – in assenza di pericolo di commissione di ulteriori reati e dopo aver espiato un terzo della pena, ovvero almeno quindici anni in caso di condanna all’ergastolo – la pena possa essere espiata attraverso tale misura alternativa alla detenzione[11].
La ratio della norma è quella di consentire alle madri la cura e l’assistenza ai figli, evitando che l’esecuzione della pena possa influire in maniera nocumentale e negativa sul rapporto madre-figlio, ovvero condizionare lo sviluppo psicologico e sociale del minore.
La misura è dunque finalizzata, in presenza di determinati presupposti e circostanze, sia al reinserimento sociale del condannato (finalità propria di tutte le misure alternative alla detenzione) sia a garantire ai figli l’assistenza necessaria.
Come noto sul punto è intervenuta la Corte costituzionale[12] che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 1, O.P., limitatamente alle parole «Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis»[13].
Con una successiva pronuncia, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art 47-quinquies, comma 1,O.P., nella parte in cui non prevede la concessione della detenzione domiciliare speciale anche alle condannate madri difigli affetti da handicap grave, ai sensi dell’art. 3, comma 3, L. 104/1992[14].
3. La detenzione domiciliare al condannato per reati di mafia
Come evidenziato sub.1, la Corte di cassazione si è recentemente pronunciata circa la concessione della detenzione domiciliare, nelle forme previste dall’art. 47-ter, comma 1-ter, O.P., al detenuto condannato per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso e affetto da diverse patologie fisiche.
Il Tribunale di sorveglianza aveva respinto l’istanza sulla base dell'alto indice di pericolosità sociale, attuale anche alla luce dell'evasione commessa nel 2018, nonché delle informazioni provenienti dai competenti organi dello Stato.
Tuttavia, l’ordinanza, secondo la tesi difensiva, si sarebbe soffermata sul profilo personologico e sui titoli di reato in espiazione, mentre non avrebbe reso alcuna valutazione sui presupposti giuridici dell'invocato differimento dell'esecuzione della pena, con motivazione apparente e con argomentazioni extra petitum, che non si ricollegano alle condizioni di salute del detenuto.
Costituisce ormai principio giurisprudenziale consolidato quello secondo cui il giudice chiamato a decidere sul differimento dell'esecuzione della pena o, in subordine, sull'applicazione della detenzione domiciliare per motivi di salute, deve effettuare un bilanciamento tra le istanze sociali correlate alla pericolosità del detenuto e le condizioni complessive di salute di quest'ultimo con riguardo sia all'astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici disponibili, sia alla concreta adeguatezza del livello di cura ed assistenza che nella situazione specifica è possibile assicurare al predetto, valutando anche le possibili ripercussioni del mantenimento del regime carcerario in termini di aggravamento del quadro clinico.
Ai fini del differimento facoltativo dell'esecuzione della pena per infermità fisica, il grave stato di salute va inteso come patologia implicante un serio pericolo per la vita o la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose, eliminabili o procrastinabili con cure o trattamenti tali da non poter essere praticati in regime di detenzione inframuraria, neppure mediante ricovero in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura ai sensi dell'art. 11 O.P.-
La valutazione della gravità dell'infermità si deve dunque riferire al combinato disposto dei referenti di rango costituzionale ai quali la norma si richiama, cioè l'esigenza di certezza dell'esecuzione della pena e l'eguaglianza di fronte alla legge (art. 3 Cost.), il divieto di trattamenti disumani (art. 27 Cost.), il principio di legalità della pena (art. 25 Cost.) e il diritto alla salute (art. 32 Cost.), in ordine ai quali si impone un'opera di bilanciamento affidata al giudice.
Tuttavia non ogni patologia, fisica o psichica, rileva ai fini della valutazione.
Deve infatti intendersi solo una grave infermità fisica tale da comportare un'intollerabile sofferenza aggiuntiva nello stato di detenzione.
Ai fini dell'accoglimento di un'istanza di differimento facoltativo dell'esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute, ai sensi dell'art. 147, comma 1, n. 2, c.p. non è necessaria un'incompatibilità assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione, ma occorre pur sempre che l'infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, o da non poter assicurare la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, da causare al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario.
L'infermità fisica non deve menomare in maniera anche rilevante la salute del soggetto e sia suscettibile di generico miglioramento mediante il ritorno alla libertà, ma è necessario invece che sia di tale gravità da far apparire l'espiazione della pena detentiva in contrasto con il senso di umanità cui si ispira la norma costituzionale, anche in considerazione dell'art. 3 Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, che afferma che la protrazione dello stato detentivo deve evitare di costituire un fattore di probabile aggravamento delle patologie in atto, con valutazione da operarsi in concreto.
Nella motivazione del potere di rinvio di esecuzione della pena, il giudice di merito deve dare ragione delle sue scelte, bilanciando il principio costituzionale di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 Cost.) con quelli della tutela della salute (art. 32 Cost.) e del senso di umanità (art. 27 Cost.) che deve caratterizzare l'esecuzione della pena, per modo che in sede di legittimità se ne possa valutare la correttezza e la completezza.
In tale valutazione, è necessario verificare non soltanto se le condizioni di salute del condannato, da determinarsi ad esito di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all'interno dell'istituto di pena o comunque in centri clinici penitenziari, ma anche se esse siano compatibili o meno con le finalità rieducative della pena, alla stregua di un trattamento rispettoso del senso di umanità, che tenga conto della durata della pena e dell'età del condannato comparativamente con la sua pericolosità sociale.
In conclusione, la Corte ha ritenuto che l'ordinanza impugnata dovesse essere annullata onde effettuare i necessari approfondimenti sulle condizioni di salute del condannato, eventualmente attraverso l'espletamento di una perizia, affinché il Tribunale di sorveglianza competente possa effettuare le conseguenti rivalutazioni in tema di bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti.
4. Considerazioni conclusive
Come evidenziato la porta applicativa della detenzione domiciliare si presta ad ampie e variegate ipotesi.
Se da un lato infatti tale istituto può trovare applicazione anche nei confronti dei detenuti affetti da patologia psichica, dall’altro consente a colui che è affetto da una grave ed invalidante patologia fisica di poter scontare la pena fuori dall’istituto penitenziario.
Nel caso di specie poi è di particolare interesse la questione circa i titoli di reato oggetto di espiazione che concernono alcuni reati di cui all’art. 4-bis O.P.
A ben vedere non si tratta della prima decisione in tal senso in quando, già nel 2020, il Magistrato di Sorveglianza, pronunciandosi circa l’istanza avanzata da un soggetto ristretto in regime di cui all’art. 41-bis O.P., tenuto conto del quadro clinico descritto dai sanitari, con particolare riferimento alle patologie di natura oncologica e cardiaca ed in considerazione dell’età avanzata del soggetto, aveva riscontrato la sussistenza dei presupposti per il rinvio facoltativo della esecuzione della pena ai sensi dell’art. 147, co. 1, n. 2 c.p.-
Tale scelta era stata presa anche in considerazione anche dell’emergenza sanitaria e del correlato rischio di contagio – indubitabilmente più elevato in un ambiente ad alta densità di popolazione come il carcere – che esponeva a conseguenze particolarmente gravi i soggetti anziani affetti da serie patologie pregresse.
Tuttavia, tenuto conto della gravità dei reati commessi e della caratura criminale del condannato, il Giudice aveva disposto che il suddetto rinvio avvenisse nelle forme della detenzione domiciliare ex art. 47-ter, comma 1-ter, O.P. al fine di salvaguardare, nel contempo, le esigenze di cura del soggetto e le esigenze di tutela della collettività[15].
La potestà punitiva dello Stato, che l'esecuzione della pena attua con la costrizione del condannato, incontra infatti un limite costituito dalla tutela della salute come fondamentale diritto dell'individuo (art. 32 Cost.), che neppure la generale inderogabilità dell'esecuzione della condanna può sopravanzare allorquando la pena, per le condizioni di grave infermità fisica del soggetto (art. 147, comma primo n. 2, c.p.), finisca col costituire un trattamento contrario al senso di umanità, così perdendo la tendenza e la finalità rieducativa.
La Corte, con la sentenza in commento, ha inteso rimarcare il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, ai fini dell'accoglimento di un'istanza di differimento facoltativo dell'esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute, ai sensi dell'art. 147, comma 1, n. 2, c.p., non è necessaria un'incompatibilità assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione, ma occorre pur sempre che l'infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, o da non poter assicurare la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, da causare al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario.
[1] Si veda il report inerente ai suicidi in carcere disponibile all’indirizzo http://www.ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/.
[2] B. SECCHI, La Corte EDU e le due misure emesse per sollecitare la cura. Servono davvero nuove Rems, in Sist. pen., 14.11.2022.
[3] Cass. Pen., Sez. I, 8 gennaio 2024, n. 510, in Dejure.
[4] Ex multis Cass. Pen., Sez. I, 13 novembre 2020, n. 2337, in Dejure.
[5] Cass. Pen., Sez. I, 20 ottobre 2022, n. 38917, in Dejure.
[6] F. FIORENTIN, Illegittima la preclusione in tema di detenzione domiciliare per condannati recidivi ultrasettantenni, in Il Penalista, 06.04.2021
[7] M. GASPARI, M. LEONARDI, La detenzione domiciliare, Torino, 2017
[8] M. CANEPA, S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Milano, 2010; C. FIORIO, F. FIORENTIN, Manuale dell’ordinamento penitenziario, Piacenza, 2023.
[9] Cort. cost., 31 marzo 2021, n. 56.
[10] Cass. Pen., Sez. I, 4 marzo 2021, n. 24099, in Dejure.
[11] M.G. PAVARIN, Le ipotesi di detenzione domiciliare, in F. FIORENTIN (a cura di), Misure alternative alla detenzione, Torino, 2012.
[12] Cort. cost., 12 aprile 2017, n. 76.
[13] Secondo la Consulta nella disposizione in esame il legislatore ha escluso in assoluto dall’accesso ad un istituto primariamente volto alla salvaguardia del rapporto con il minore in tenera età le madri accomunate dall’aver subito una condanna per taluno dei delitti indicati in una disposizione (l’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975) che contiene, oltretutto, un elenco di reati complesso, eterogeneo, stratificato e di diseguale gravità (sentenza n. 32 del 2016). Ne deriva quindi che vengono del tutto pretermessi l’interesse del minore ad instaurare un rapporto quanto più possibile “normale” con la madre, nonché la stessa finalità di reinserimento sociale della condannata, non estranea, come si è già detto, alla detenzione domiciliare speciale, quale misura alternativa alla detenzione. Questa sorta di esemplarità della sanzione – la madre deve inevitabilmente espiare in carcere la prima frazione di pena – non può essere giustificata da finalità di prevenzione generale o di difesa sociale (sentenza n. 313 del 1990). Infatti, le esigenze collettive di sicurezza e gli obiettivi generali di politica criminale non possono essere perseguiti attraverso l’assoluto sacrificio della condizione della madre e del suo rapporto con la prole.
[14] Cort. cost., 18 febbraio 2020, n. 18.
[15] S. RAFFAELE, Dal 41-bis ai domiciliari: l’ordinanza “Bonura”, in DPU, 29.04.2020.
Immagine: Sula Bermudez Silverman, “Sighs and Leers and Crocodile Tears”, 2021.
Questo contributo è parte dell'approfondimento in tema di infortuni inaugurato su questa Rivista il 1° marzo 2024 (v. L'emergenza nazionale degli infortuni sul lavoro e la risposta delle istituzioni: uno sguardo di insieme di Maria Laura Paesano, Le indagini in materia antinfortunistica e la sensibilità del pubblico ministero di Giuseppe De Falco, Controlli amministrativi e sanitari. Il contrasto agli infortuni in via preventiva di Francesco Agnino).
Sommario: 1. Il sistema prevenzionistico dei garanti del rischio - 2. L’ineludibile attualità degli infortuni sul lavoro: i numeri di un’emergenza - 3. L’impresa individuale: numeri, vantaggi e rischi del “modello gestorio” statisticamente prevalente - 4. Il principio di effettività datoriale come “contromisura” al ricorso all’impresa individuale per finalità illecite - 5. Gli strumenti di ricerca della prova della posizione datoriale di fatto nell’impresa individuale: fonti dichiarative, perquisizioni e sequestri, acquisizioni documentali, intercettazioni telefoniche e tabulati
1. Il sistema prevenzionistico dei garanti del rischio
La tematica dell’individuazione delle posizioni di garanzia rappresenta da sempre non solo una della più interessanti questioni di interesse teorico del diritto penale della sicurezza sul lavoro, ma rileva anche sotto il profilo pratico, ai fini dell’applicazione concreta delle sanzioni previste dalle violazioni poste a tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro. Nella vigente normativa prevenzionistica, caratterizzata per essere orientata verso la tutela del lavoratore, interesse costituzionalmente protetto ai sensi del combinato disposto degli artt. 32, 35, 41 Cost., il datore di lavoro e più in generale il titolare della posizione di garanzia, diventa il principale debitore del sistema di sicurezza, colui che deve realizzare in concreto le condizioni volte ad eliminare, o quanto meno ridurre al minimo, il rischio lavorativo, da cui possono originarsi eventi lesivi per il lavoratore impiegato nel sistema produttivo. L’individuazione del soggetto attivo del reato proprio, quale quello produttivo di eventi infortunistici per violazioni alla disciplina prevenzionistica sul lavoro, diventa pertanto un passaggio indispensabile per la corretta applicazione delle fattispecie poste a tutela penale del lavoro, tenuto conto che queste ultime sono fondate proprio sullo specifico rapporto e legame fra il bene tutelato e il soggetto qualificato a tutelarle, appunto il titolare della posizione di garanzia. Al fine di apprestare massima estensione alla tutela dei debitori di sicurezza, la normativa vigente prevede che accanto al garante di diritto del rischio lavorativo, secondo quanto previsto dall’art. 2 del Tusl, la riferibilità soggettiva della responsabilità per danno da evento lesivo sul lavoro possa estendersi anche nei confronti di coloro che di fatto si accollano e svolgono i poteri dei garanti di diritto, ossia i garanti di fatto, in forza del disposto di cui all’art. 299 del citato testo unico. Ebbene, nonostante tali premesse, la prassi applicativa quotidiana dei procedimenti penali in materia di sicurezza sul lavoro, ed in particolare quelli più complessi per infortuni e malattie professionali, fornisce sempre più spesso occasione per riflettere sulla difficoltà concreta di cogliere la reale figura del garante del rischio, a causa da un lato, di un’elevata domanda di giustizia che continua ad interessare a tutte le latitudini del territorio nazionale i procedimenti per infortunio sul lavoro, anche mortali, così riducendo i tempi fisiologici da dedicare all’approfondimento investigativo del singolo caso e, dall’altro, per il ricorso sempre più diffuso da parte dei responsabili delle attività produttive, e nei più svariati comparti, al modello gestorio dell’impresa individuale che, più di ogni altro, mediante l’impiego illecito del prestanome, consente di realizzare una clandestinizzazione della figura del reale datore di lavoro, ossia dell’effettivo soggetto responsabile. D’altra parte, la sfida che si pone agli operatori del diritto, ed in primo luogo a pubblici ministeri e giudici chiamati a risolvere le questioni sulla riferibilità soggettiva della responsabilità per infortunio sul lavoro e malattie professionali non pare rinviabile, tenuto conto del monito specifico che sul punto è venuto dalle Sezioni unite della Suprema Corte (Cass. Pen., Sez. Un., 18 settembre 2014 n. 38343 sul noto caso Thyssenkrupp), le quali hanno ricordato che, anche nello specifico settore della sicurezza del lavoro, “…lo scopo del diritto penale, tuttavia, è proprio quello di tentare di governare tali intricati scenari, nella già indicata prospettiva di ricercare responsabilità e non capri espiatori”. Da qui la scelta di proporre stimoli e riflessioni per indirizzare in concreto l’azione degli investigatori prima, e dei giudici poi, nelle indagini e nel processo penale sul lavoro, alla ricerca del reale garante del rischio lavorativo, con particolare riferimento ai contesti lavorativi gestiti da imprese individuali le quali, come detto, più di altre si possono prestare ad occultare il garante effettivo del rischio, con l’effetto ultimo di scaricare il giudizio di responsabilità soggettiva su un mero capro espiatorio.
2. L’ineludibile attualità degli infortuni sul lavoro: i numeri di un’emergenza
I numeri degli infortuni sul lavoro in genere, e degli eventi mortali più in particolare, dimostrano all’attualità come il tema della sicurezza sul lavoro rischi di diventare un fenomeno patologico ormai cronicizzato del sistema economico imprenditoriale nazionale, capace di coinvolgere svariati comparti produttivi. Un rapido sguardo ai numeri, ufficiali, non può che corroborare tale considerazione. Alla fine di ottobre 2023 l’Inail ha pubblicato i dati consolidati degli infortuni sul lavoro e malattie professionali relativi all’anno 2022[1]. Ebbene, i dati evidenziano in primo luogo che in detta annualità sono state effettate 703.432 “denunce di infortunio”, con un aumento del 24,6% rispetto al 2021 (+139mila casi), dovuto sostanzialmente in ugual misura sia al più elevato numero di denunce di infortunio da Covid-19 (dai circa 49mila del 2021 ai 120mila del 2022, pari a +71mila casi), sia alla crescita degli infortuni “tradizionali”. Ne consegue che l’aumento delle denunce non risulta essere stato condizionato in via assoluta dal fenomeno contingente della pandemia, anche se è vero che tale aumento si riduce, al netto dei contagi, a livello nazionale, dal +24,6% al +13,2%[2]. Laddove poi si passa ad analizzare all’interno della macroarea degli infortuni quelli che hanno prodotto un esito mortale, e come tali rappresentano un indice di massimo allarme per la valutazione delle condizioni di rischio cui sono esposti i lavoratori, emerge che con l’ultima rilevazione al 30.04.2023 le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Inail nell’intero anno 2022 sono state 1.208, ossia 118 casi in più (+10,8%) rispetto alle 1.090 rilevate quattro mesi prima, al 31.12.2022[3]. Anche in tal caso, scorporando le denunce mortali connesse a casi di Covid-19, ossia le denunce con esito mortale “tradizionale”, nel 2022 risulta un aumento dello 0,8% rispetto al 2021, e più decisamente rispetto al 2020 (+14,2%), dove però il blocco di molte attività e il massiccio ricorso al lavoro agile per la pandemia aveva contenuto il numero degli infortuni sul lavoro e in itinere “tradizionali” non letali. Tra i settori di attività economica con il più elevato numero di decessi in occasione di lavoro nel 2022 si segnalano le Costruzioni (143 casi, -23,1% rispetto al 2021), il Trasporto e magazzinaggio (126, -19,2%) e il comparto Manifatturiero (114, -23,5%). Dal punto di vista dei lavoratori, sono diminuite le denunce di infortunio mortale per i lavoratori italiani (da 1.205 a 970, -19,5%), e sono invece aumentate quelle degli extracomunitari (da 164 a 178, +8,5%) e comunitari (da 56 a 60, +7,1%). A livello territoriale emerge infine un decremento diffuso in tutte le aree ma con diversa intensità: al notevole calo del 29,7% registrato nel Sud (109 denunce mortali in meno), segue, in termini percentuali, quello delle Isole (-14,0%, 16 casi in meno), del Nord-est (-11,5%, -36 casi), del Nord-ovest (-10,5%, - 38 casi) e del Centro (-6,6%, -18 casi). La sintesi appare impietosa: di lavoro si continua a morire, lo si fa ad ogni latitudine del territorio nazionale, e nei più svariati comparti produttivi. Il tema degli infortuni sul lavoro costituisce pertanto, ancora, un’attualità ineludibile, rispetto al quale il pubblico ministero e il giudice sono chiamati a svolgere nel processo penale per infortunio sul lavoro la loro parte attiva con professionalità, scrupolo e rigore, al fine della compiuta ricostruzione dell’evento lesivo e dell’accertamento delle cause che l’hanno determinato in concreto, nella prospettiva ultima anche di individuare il reale soggetto responsabile.
3. L’impresa individuale: numeri, vantaggi e rischi del “modello gestorio” statisticamente prevalente
La seconda realtà statisticamente comprovata dai numeri, che potenzialmente rischia di impattare sul complesso percorso di ricerca dell’individuazione del garante del rischio lavorativo è connessa al modello gestorio. Secondo i dati di Unioncamere alla fine del 2022 in Italia risultano iscritte oltre 6 milioni di imprese nel Registro delle imprese[4]. Rispetto al dato complessivo, per la precisione 6.019.276 - che ricomprende il numero complessivo di imprese senza tener conto dello stato attivo, inattivo, sospeso, in liquidazione - sono 5.129.335 le unità di “imprese attive”, ossia le imprese che oltre ad essere iscritte al Registro delle imprese hanno effettuato la comunicazione di inizio (o ripresa di) attività alla Camera di commercio. In questo numero sono ricomprese realtà molto diverse, dalle ditte individuali, alle imprese agricole e familiari, fino alle società di persone e di capitali. Il dato delle imprese individuali è però il più alto, pari al 50,8%, ben più elevato del valore delle imprese collettive “complesse”, avuto riguardo al dato del 30,8% costituito dalle società di capitale. Se si rivolge lo sguardo alla distribuzione territoriale emerge che la maggior parte delle aziende italiane si trova nelle regioni del Nord, il 45%, di cui il 26% nel Nord-Ovest e il 19% nel Nord-Est. A seguire ci sono Sud e Isole, dove risultano registrate oltre due milioni di imprese (il 35%) e infine il Centro (20%). Quanto alla distribuzione delle imprese nei vari comparti produttivi, il primato è quello del commercio (25,7%), seguito dalle costruzioni (14,9%), agricoltura (12,8%) e la manifattura (9,4%). Significativo elemento di novità rispetto al passato è il trend di crescita delle imprese straniere, pari a 650 mila. La crescita si è verificata soprattutto negli ultimi cinque anni (+7,6%), mentre nello stesso periodo le imprese avviate da persone nate in Italia sono diminuite del 2,3%. Parlando in termini assoluti, dal 2018 al 2020 le imprese avviate da cittadini stranieri sono aumentate di 45.617 unità, mentre le realtà imprenditoriali avviate da persone nate in Italia sono diminuite di oltre 126 mila unità. Il settore più rappresentativo delle imprese avviate da cittadini stranieri è quello delle costruzioni (18,4%), seguito dai servizi alle imprese (16,8%), dal commercio (14,3%) e da alloggio e ristorazione (11,9%). La regione con la maggior concentrazione di imprese straniere è la Liguria (15,2% del totale); a seguire Toscana (15,1%) ed Emilia-Romagna (13,5%). Dunque, il modello gestorio privilegiato della nostra economica è quello dell’impresa individuale, uno schema a cui si ricorre nei più svariati settori produttivi. Le ragioni sono plurime e riconducibili ad opzioni sia perfettamente lecite, che illecite. Sotto il primo profilo si segnalano, ad esempio, quelle economiche. La costituzione di una ditta individuale, infatti, rispetto al ricorso all’impresa collettiva, consente di ottenere indubbi benefici economici sia in fase di apertura - contenendo i costi, che saranno limitati all’iscrizione alla Camera di Commercio, Industria e Artigianato, anziché notarili, richiesti per la costituzione in forma di atto pubblico necessaria per le imprese collettive (societarie) -, che nel corso della vita dell’impresa, in ragione della semplificazione generalizzata delle obbligazioni fiscali, e del ricorso al regime di contabilità semplificata. A ciò si aggiungano ragioni connesse all’opzione operativa gestionale, che nel caso di impresa individuale assicura maggiore garanzia di autonomia e rapidità delle decisioni, che prescindono dal confronto con altre persone, come avviene invece anche per le imprese societarie più semplici. Quanto, invece, alla motivazione che sottende a scelte illecite, rileva prevalentemente la motivazione economica. L’imprenditore individuale, infatti, nel caso di debiti contratti dalla sua azienda assume personalmente il rischio di dovervi fare fronte con il proprio patrimonio. Ecco allora che per evitare un simile rischio, l’imprenditore - ossia il datore di lavoro effettivo, soggetto su cui dovrebbe gravare l’obbligo di garante del rischio - può optare per intestare l’attività ad un mero prestanome, che gli potrà garantire non solo di andare esente dalla responsabilità economica connessa alla gestione dell’impresa, ma anche, più in generale, l’ impunità per i reati commessi nell’esercizio dell’attività di impresa, fra cui anche eventualmente la responsabilità penale per il caso di eventi infortunistici o malattie professionali connesse alla violazione della normativa prevenzionistica.
4. Il principio di effettività datoriale come “contromisura” al ricorso all’impresa individuale per finalità illecite
Svolte le predette considerazioni sui potenziali rischi che in punto di individuazione del reale garante del rischio lavorativo possono derivare, da un lato, dai numeri emergenziali complessivi degli infortuni sul lavoro e, dall’altro, dalla scelta sorretta da finalità illecite di ricorrere al modello gestorio dell’impresa individuale, rileva riflettere sulle possibili contromisure che il sistema normativo prevenzionistico, anche per come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, offre al pubblico ministero e al giudice chiamati a risolvere la questione della riferibilità soggettiva della responsabilità penale nei casi di infortunio sul lavoro e malattie professionali. In via di principio, si può osservare come nei casi di impresa esercitata in forma individuale dovrebbe essere pacifica la soluzione offerta alla questione dell’individuazione del garante del rischio datoriale, tenuto conto del fatto che il datore di lavoro in senso penalistico coincide con quello avente rilievo giuslavoristico. Nell’impresa individuale, infatti, vi è identità soggettiva fra chi esercita il ruolo e l’attività di impresa. L’imprenditore individuale è pertanto necessariamente anche il datore di lavoro, e come tale il principale debitore di sicurezza, in quanto soggetto che proprio in ragione della qualifica ricoperta ha il compito di organizzatore del sistema produttivo, essendo chiamato ad assicurare tutela a quei beni che potrebbero essere potenzialmente lesi in conseguenza dello svolgimento del processo produttivo di impresa. Laddove invece il datore di lavoro di diritto, ossia quello individuato in base al criterio formale di cui all’articolo 2 lettera b) del Tusl, non risulti minimamente coinvolto nella gestione, ossia proprio nel caso patologico di attività intestata ad un mero “prestanome”, può soccorrere il principio di effettività. Il vigente sistema prevenzionistico, infatti, disciplina, accanto alle posizioni di garanzia originarie legali, fra cui in primis quella datoriale (art. 2 d.lgs. 81/2008), anche le corrispondenti figure che di fatto, ossia coloro che nell’ambito dell’organizzazione di lavoro, esercitano il ruolo, i poteri e la funzione, che la legge prevede normativamente per le posizioni di garanzia di diritto (datore di lavoro, nonché dirigente e preposto). Il disposto normativo che in tal caso viene in rilievo è l’articolo 299 del Tusl, significativamente rubricato “Esercizio di fatto dei poteri direttivi”. Tale norma prevede che “…le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all’articolo 2, comma 1, lettere b), d) ed e) [rispettivamente, appunto, il datore di lavoro, il dirigente e il preposto, N.d.A.] gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti”. Dunque, l’articolo 299 del Tusl fissa in via normativa l’equiparazione tra l’esercizio di fatto dei poteri giuridici riferiti alla qualifica datoriale e l’acquisto della corrispondente posizione di garanzia penalmente rilevante. In altre parole, al pari di una valida ed efficace investitura civilistica, può essere altresì rilevante lo svolgimento, in concreto, delle funzioni o mansioni tipiche del datore di lavoro. In definitiva, volendo delineare un quadro di sintesi dei rapporti tra l’art. 2 e art. 299 Tusl si può osservare che mentre la nozione legislativa di datore di lavoro (art. 2 lett. b) ha come referente operativo un contesto di lavoro “fisiologico”, ossia quello in cui, in particolare proprio per l’impresa individuale alla qualifica formale segue l’effettivo esercizio dei poteri gestori, la clausola di equiparazione espressa (art. 299), ha la funzione di estendere la responsabilità a carico della posizione di garanzia originaria che opera in una realtà imprenditoriale caratterizzata da profili “patologici”, nella quale non vi è coincidenza tra il soggetto ritualmente investito della qualifica, e il soggetto in concreto impegnato nella gestione dell’impresa, come nel caso di imprese individuali intestate dal reale imprenditore ad un prestanome, con l’obiettivo ultimo di garantirsi l’impunità dalle responsabilità connesse agli obblighi discendenti dalla normativa prevenzionistica. Ecco allora che, proprio per superare lo schermo del prestanome nelle imprese individuali, riferendo la responsabilità soggettiva al reale imprenditore, il principio di effettività che opera come “clausola di equivalenza” nella estensione della posizione di garanzia datoriale, rappresenta lo strumento normativo cui ancorare il procedimento probatorio di riferibilità soggettiva, al fine di colpire il garante effettivo del rischio, assicurando lo scopo ultimo del diritto penale, ossia la ricerca delle reali responsabilità e non meri “capri espiatori”.
5. Gli strumenti di ricerca della prova della posizione datoriale di fatto nell’impresa individuale: fonti dichiarative, perquisizioni e sequestri, acquisizioni documentali, intercettazioni telefoniche e tabulati
Le considerazioni svolte sulla funzione assegnata dal legislatore al principio di effettività costituiscono la premessa indispensabile per comprendere gli spunti di riflessione, e i suggerimenti pratici, volti ad operare in concreto, nel procedimento penale per infortunio sul lavoro, maturato in un contesto di impresa individuale, alla ricerca di elementi di prova in grado di sostanziare la riferibilità soggettiva al garante di fatto, ossia all’imprenditore occulto, che per scelta mirata, quella di perseguire un’impunità generalizzata dalle conseguenze del rischio lavorativo non adeguatamente gestito, si è clandestinizzato dietro lo schermo del titolare formale prestanome dell’impresa individuale. In primo luogo, un contributo essenziale a tal fine può venire dalle fonti di natura dichiarativa. Il ruolo dei possibili testimoni nelle indagini per infortuni sul lavoro, infatti, può assumere rilevanza decisiva non solo per ricostruire l’evento lesivo, riferendo elementi relativi alla materialità del fatto, ma anche in punto di organizzazione del lavoro, e quindi di individuazione del soggetto responsabile. L’ascolto dei dichiaranti, però, impone di distinguere da un lato, le fonti di prova dichiarative interne all’organizzazione di lavoro investigata e, dall’altro, quelle esterne ad essa. Le fonti dichiarative interne sono rappresentate da coloro che con diverso ruolo, compito e funzione, operano stabilmente nel contesto lavorativo in cui ha avuto luogo l’infortunio. Esse, pertanto, proprio perché intranee all’organizzazione imprenditoriale - e quindi a conoscenza delle dinamiche operative del processo produttivo e degli indirizzi decisionali sulla vita di impresa -, rappresentano un sicuro bacino di conoscenza della posizione soggettiva datoriale, e dunque il loro ascolto può rivelarsi essenziale per l’individuazione del soggetto responsabile, anche laddove lo stesso assuma la veste del garante di fatto. Con riferimento al tempo dell’audizione delle fonti dichiarative interne, la prassi dimostra l’importanza di un’acquisizione “a caldo” di informazioni rispetto all’evento infortunio, per evitare di condizionarne la genuinità dell’apporto dichiarativo, in conseguenza dei rischi di inquinamento connessi al contesto di lavoro, soprattutto quando detti possibili testimoni sono rappresentati dai lavoratori subordinati, al contempo colleghi dell’infortunato e dipendenti del potenziale responsabile dell’infortunio. Quanto invece all’oggetto specifico dell’esame, sarà importante concentrare l’ascolto della fonte dichiarativa su tutto quanto risulta funzionale ad individuare la figura che di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro di diritto - secondo il costante insegnamento della giurisprudenza della Suprema Corte, per affermare la responsabilità del garante di fatto (vedasi da ultimo anche Cass. Sez. 4, 6.2.2018, n. 12643, Sez. 4., 10.10.2017, n. 50037, Sez. 4, 4.4.2017, n. 22606) -, con l’obiettivo di verificare, se accanto o anche oltre alla figura formale, vi sia qualcuno che “…ha la responsabilità dell’organizzazione…in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”, in quanto in grado di decidere, ad esempio, l’assunzione dei lavoratori, o come ripartire le mansioni agli stessi, o come corresponsione gli stipendi, sulle modalità con cui relazionarsi sempre a fini di spesa con i fornitori, i manutentori, e la rete commerciale di rivendita. Altrettanto utili possono poi essere le informazioni acquisibili da soggetti terzi estraneiall’attività di lavoro. Per essi, innanzitutto, risulta generalmente minore le difficoltà connesse all’assunzione, in quanto l’estraneità al contesto lavorativo li preserva da rischi di condizionamento ed inquinamento. Tendenzialmente l’assunzione come fonti dichiarative ne disvelerà genuinità quanto alla ricostruzione del fatto conosciuto ed ai soggetti coinvolti, potendosi in contrario evidenziare un difetto di specificità nella rappresentazione dell’organizzazione del lavoro. Per questa ragione appare opportuno che il pubblico ministero riesca ad operare a monte una corretta selezione delle fonti dichiarative esterne, in modo da procedere in concreto all’esame soltanto di quelle che possano essere potenzialmente in grado di fornire un contributo utile alle indagini. La soluzione al problema dell’individuazione delle fonti dichiarative esterne al contesto di lavoro investigato utili può venire dal ricorso anche ad altri mezzi di ricerca della prova, fra cui in primo luogo le perquisizioni, i sequestri, gli ordini di esibizione, strumenti tutti connotati dall’invasività come un minimo comune denominatore, poiché consentono di entrare nella vita dell’organizzazione di impresa prescindendo da una disponibilità e collaborazione spontanea offerta dai responsabili della stessa. Il pubblico ministero nel decidere cosa ricercare all’interno del luogo di lavoro in cui si è verificato l’infortunio non può dimenticare che l’attività di impresa, in qualunque forma essa venga esercitata, si caratterizza per essere “…un’attività economica professionalmente organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi” (art. 2082 c.c.). Se dunque “fare impresa” significa organizzare in modo professionale il lavoro con lo scopo di produrre beni e servizi da destinare a terzi, esterni all’impresa, al fine di conseguimento di profitto, il pubblico ministero potrà individuare potenziali fonti di prova dichiarative utili per ricostruire l’organizzazione del processo produttivo ed il gestore reale di esso, attraverso il confronto con: coloro che hanno rapporti di fornitura della materia prima lavorata nel processo produttivo oggetto di accertamento; coloro che forniscono periodicamente supporto tecnico esterno al processo produttivo; coloro che svolgono attività ausiliarie, come quelle connesse alla rappresentanza funzionale alla commercializzazione dei prodotti realizzati; coloro che costituiscono il vasto e variegato mondo della clientela dei beni prodotti dall’impresa, quali i soggetti intermedi (si pensi ai grossisti), o i rivenditori al dettaglio (ultimo segmento della commercializzazione). Tutti questi soggetti possono rappresentare una “potenziale fonte dichiarativa” - che seppur esterna al contesto lavorativo - sia in grado di riferire circostanze utili per addivenire ad una compiuta ricostruzione dell’organizzazione del lavoro e, attraverso di essa, per l’individuazione del reale soggetto responsabile, il garante di fatto. É evidente che nel fare ricorso ai predetti strumenti di ricerca della prova, la perquisizione ed il sequestro, sarà necessario per il pubblico ministero abbia cura di rispettare i limiti imposti dalla disciplina processualpenalistica, per come interpretata ormai dalla giurisprudenza consolidata della Suprema Corte, in particolare facendo attenzione a motivare sul vincolo di pertinenzialità esistente fra l’ipotesi criminosa per cui procede - l’infortunio sul lavoro - e il bene che viene dapprima ricercato, e poi assoggettato a vincolo. In tal senso, si osserva, tutto ciò che risulta espressione dell’organizzazione del processo lavorativo in cui si ipotizza essere maturata la violazione in materia di sicurezza, risulta ragionevolmente rientrare nel concetto di pertinenzialità. Così sarà, ad esempio, adeguatamente motivabile il vincolo su una pluralità di documenti quali: i documenti di trasporto (che potranno consentire di acquisire informazioni su soggetti che hanno trasportato beni da o verso l’impresa, sui destinatari o sui fornitori); gli atti di contabilità (che potranno consentite di risalire al fornitore della merce o al destinatario della stessa); i documenti relativi alle manutenzioni periodiche cui sono sottoposte solitamente le macchine utilizzate nei sistemi produttivi (per facilitare l’individuazione dei referenti della manutenzione stessa). In terzo luogo, oltre alle fonti dichiarative e ai mezzi di ricerca della prova invasivi, ulteriori informazioni utili nel percorso di ricerca del reale garante del rischio lavorativo, celatosi dietro lo schermo del prestanome, potranno venire dalle acquisizioni documentali, le quali oltre che all’interno dell’impresa, possono essere ricercate attraverso una mirata analisi delle banche dati, cui hanno solitamente accesso le forze di polizia giudiziaria. All’attualità, infatti, esistono una pluralità di enti pubblici, o di enti privati di diritto pubblico, che possono costituire una potenziale fonte di conoscenza per le indagini penali interessate ad acquisire informazioni, o anche soltanto meri spunti investigativi, utili per individuare il reale titolare della posizione di garanzia all’interno dell’organizzazione di lavoro. Si pensi a quanto accade per le banche dati gestite dall’Inps, l’Inail, l’Agenzia delle Entrate o le Camere di Commercio, tutte caratterizzate da un minimo comune denominatore, ossia l’essere alimentate da informazioni che vengono trasmesse da soggetti terzi, solitamente per via telematica. I dati trasmessi, una volta acquisiti dall’ente destinatario, vengono elaborati e catalogati secondo le specifiche finalità dell’ente stesso. Ebbene, proprio l’acquisizione di informazioni in merito al soggetto che ha trasmesso il dato di interesse per l’ente può diventare il primo passaggio per risalire al reale titolare dell’informazione che è stata comunicata. Le informazioni sono quelle che attengono alla vita d’impresa, e riguardano diversi contenuti a seconda dell’ente cui l’informazione viene comunicata[5]. É proprio dall’acquisizione delle informazioni sul “soggetto trasmittente il dato”, che solitamente potrà avvenire, ad esempio, attraverso l’emissione da parte del PM di un ordine di esibizione ex art. 256 c.p.p., che sarà possibile o individuare il soggetto che direttamente è titolare di quelle informazioni - e come tale inevitabilmente soggetto o personalmente coinvolto nella gestione dell’impresa, o a conoscenza diretta di dati fondamentali della vita di impresa e del soggetto che la dirige, anche sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro - oppure, in alternativa, risalire ad un soggetto “intermedio” rispetto al reale titolare del dato comunicato, tenuto conto che nella prassi sovente si verifica che siano i professionisti (commercialisti, consulenti contabili, consulenti del lavoro…) a curare, per conto dei loro clienti, le fasi della trasmissione delle comunicazioni aventi ad oggetto la vita dell’attività d’impresa; anche in tale ultima ipotesi si sarà comunque raggiunto l’obiettivo di acquisire informazioni di interesse investigativo su colui che, nel quotidiano svolgersi della vita di impresa, si incarica di curarne i rapporti e di perseguirne gli interessi, nella delicata fase della relazione con i propri professionisti, siano essi commercialisti, consulenti del lavoro o studi di elaborazione dati, e pertanto sarà possibile verificare se accanto al rappresentante legale dell’attività di impresa si muova un soggetto che in forma occulta agisce e decide per l’organizzazione di impresa che, come tale, potrà assumere la veste di datore di lavoro di fatto. In via conclusiva, un breve riferimento ai mezzi di ricerca della prova di natura tecnica, quali le intercettazioni e i tabulati telefonici. Le prime, in ragione dei limiti di ammissibilità disciplinati dall’art. 266 c.p.p., che ne limitano il ricorso ai delitti dolosi, risultano generalmente precluse nelle investigazioni in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro, tenuto conto che la maggior parte degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali sono collegate ad ipotesi di colpevolezza colposa. Residua però la possibilità di fare ricorso all’utilizzo delle captazioni telefoniche, telematiche ed ambientali, nel caso in cui si proceda per il delitto di all’art. 437 c.p., in forma aggravata, che, come noto per la giurisprudenza di legittimità, può essere integrato anche nel caso di un “singolo infortunio”, sia esso con esito mortale che di mera lesione per il lavoratore subordinato, e che ben può concorrere anche con ipotesi di responsabilità colposa per lesioni o morte del lavoratore. In termini di utilità investigativa, invece, deve sottolinearsi il potenziale contributo utile che potrebbe venire dall’acquisizione (ed analisi) delle risultanze dei tabulati telefonici; soltanto a titolo esemplificativo, infatti, si pensi che da una mirata analisi delle celle telefoniche relative all’utenza in uso al soggetto che si ipotizza svolgere una funzione di datore di lavoro di fatto nel contesto di lavoro in cui è maturato l’infortunio, potrebbero emergere importanti elementi di prova a suo carico, quale la dimostrazione della sua costante presenza sul luogo di lavoro nel tempo, anche prima del verificarsi dell’evento illecito, così di fatto ancorandolo ad un contesto produttivo rispetto al quale, invece, almeno formalmente, dovrebbe apparire del tutto estraneo. Da ultimo, un contributo che può venire dalle annotazioni di polizia giudiziaria ex art. 357 c.p.p. redatte in sede di primo sopralluogo, e diverse dal verbale di accertamenti e rilievi ex art. 354 c.p.p., che deve svolgere la funzione essenziale di “fotografare” il luogo in cui si è verificato materialmente l’evento lesivo dell’infortunio. La prassi investigativa consente di affermare che sin dal “primo accesso” sul luogo di lavoro possono talvolta emergere elementi sintomatici di una non corrispondenza fra la titolarità formale della posizione di garanzia di datore di lavoro, e l’esercizio in concreto dei poteri di organizzazione del lavoro. Una simile situazione si verifica solitamente proprio in contesti lavorativi non complessi, come quelli delle imprese individuali. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui a fronte di tale accesso il datore di lavoro formale non sia immediatamente presente e non sia rintracciabile, oppure se presente non appaia ictu oculi il gestore dell’attività, per le modalità con cui si relaziona con il personale di polizia giudiziaria specializzata. Ebbene, in tal caso risulta importante che il pubblico ministero sensibilizzi la polizia giudiziaria del primo sopralluogo a redigere un’apposita annotazione in cui venga dato conto proprio dell’anomalia fra quanto emerso in concreto, e quanto invece ci si sarebbe potuti attendere in astratto, avuto riguardo alla titolarità formale dell’impresa controllata, così acquisendo al procedimento, seppur in fase embrionale, uno spunto utile per approfondire nel corso della successiva investigazione se sussiste o meno una posizione datoriale di fatto.
[1] Per un’analisi di dettaglio vedasi i contenuti della pubblicazione Inail, ottobre 2023 dal titolo: “Andamento degli infortuni sul lavoro e malattie professionali”, dati consolidati 2022.
[2] L’analisi disaggregata dell’aumento delle denunce tra il 2021 e 2022 è legato sia alla componente femminile che sale del 40,5% (da 206mila a 289mila) sia a quella maschile con +15,6% (da 359mila a 415mila), ed ha interessato sia i lavoratori italiani (+25,8%) che quelli extracomunitari (+20,6%) e comunitari (+15,6%). A livello di distribuzione territoriale oltre il 60% dei casi del 2022 sono stati denunciati al Nord, circa il 20% sia al Centro, che al Meridione.
[3] La rilevazione più aggiornata ha consentito di conteggiare anche i casi di infortunio mortale denunciati tardivamente rispetto al 31.12.2022 e di registrare come mortali quei casi di infortunio che pur avvenuti entro il 2022 ma non immediatamente letali, hanno visto sopraggiungere il decesso successivamente alla rilevazione di fine anno.
[4] Vedasi per informazioni di dettagli il sito https://www.unioncamere.gov.it.
[5] Ad esempio: all’INPS e all’INAIL vengono comunicati i dati relativi all’assunzione dei lavoratori, al loro inquadramento, ai tempi di lavoro e alla retribuzione dovuta; all’Agenzia dell’Entrate le dichiarazioni rese in adempimento degli obblighi fiscali; alle Camere di Commercio le comunicazioni relative ai momenti fondamentali della vita dell’impresa, quali l’inizio e la cessazione dell’attività, la tipologia dell’attività, la forma giuridica di gestione della stessa.
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