ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La privazione della libertà: il proprio nome, il proprio tempo[1]
di Mauro Palma
Il nome
Non bisogna andare a tragiche memorie del passato per riconoscere che la prima e più rilevante riduzione di una persona a “cosa” – o forse anche a un “fascicolo” da evadere e archiviare – è la sua identificazione in base a un numero e non a un nome.
Più volte nei racconti di chi ha subito tale umiliazione si ripercorre l’eco dell’impossibilità di riconoscersi all’interno del simbolo numerico, riassunto incongruo delle proprie vicende e della propria individualità. Un tragico passato, è vero. Eppure, in periodi più recenti, la stessa riduzione de-umanizzata si è resa evidente nelle sepolture di persone venute dal mare e mai giunte ai lidi delle loro speranze, così come, per chi è approdato ma non accolto, nella sistemazione in strutture destinate anche nella loro denominazione al suo respingimento.
Ci sono luoghi del nostro presente che sono densi di questa anonimia: sono spesso vicini a quelle spiagge che mantengono l’ambiguità dell’essere luogo della vastità che il mare sempre propone e della piccolezza del suo rivelarsi muro invalicabile. Ma non sono questi gli unici luoghi dell’anonimia. Anche in altre realtà la persona è soltanto un “caso”, il suo nome viene dimenticato o comunque non considerato e sostituito non più dal numero, ma dalla presunta nazionalità di origine o da qualche tratto somatico più evidente. Mutuando un linguaggio foucaultiano possiamo definirli gli spazi delle eterotopie escludenti[2], marginali rispetto a quelli della quotidianità e resi invisibili da muri, sbarre o cancelli. Sono luoghi dove non esiste la possibilità di autodeterminare la gestione del proprio tempo e neppure del proprio muoversi perché in essi la libertà è ristretta, limitata o del tutto privata. Luoghi dove spesso la densità numerica e la molteplicità tipologica dei presenti confluiscono, per trasformarsi nella spersonalizzazione di chi vi è ospitato, ricoverato, trattenuto o detenuto.
Nei luoghi di privazione della libertà, qualunque siano la loro specificità e le motivazioni per cui le persone sono in essi ristrette, l’anonimia è quasi una costante. Si presenta in una varietà di forme soprattutto nei confronti delle persone straniere o comunque di persone non direttamente inquadrabili in un presunto concetto di “normalità” la cui semantica sfocia nel luogo comune denso di paura, di difesa individualistica, di convenzionalismo: il nome è spesso sostituito da un aggettivo sostantivato che dovrebbe permettere di distinguere il soggetto in base a una sua rilevante caratteristica. In carcere questo avviene frequentemente.
Il diritto al nome non è codificato, non appartiene alla lista dei diritti fondamentali riconosciuti esplicitamente dal diritto positivo. Ma questa assenza è indicativa di una necessità ancor più forte perché è connaturata al non riconoscimento dell’individuo come persona e, nel nostro orizzonte costituzionale, della sua realtà interagente e comunicante con le altre. L’essere persona acquista una fisionomia soggettiva attraverso tale relazionalità che è intrisa della propria storia e del proprio mondo: per questo ha bisogno del riconoscimento di un nome. Ma, come più volte mi è capitato di ricordare, la negazione del diritto al nome si configura anche in una varietà di forme; per esempio, nella realtà penitenziaria, nell’anonimia di trasferimenti scollegati da qualsiasi connessione territoriale. Così come, soprattutto in questo periodo, si configura nella indicazione di ipotesi per affrontare il tema del sovraffollamento penitenziario senza alcuna preventiva considerazione della pienezza soggettiva delle persone destinatarie di taluni provvedimenti.
Mi riferisco, in particolare, alla possibilità avanzata dal versante ministeriale nell’attuale dibattito[3] di trasferire in una caserma, presuntamente disponibile in un comune del centro dell’Italia, un numero consistente di persone detenute per scontare condanne molto brevi o ridotti residui di condanne maggiori; il tutto indipendentemente da considerazioni relative alla loro individuale connessione con quel territorio. Al di là dell’effettività della proposta – rispetto alla quale è lecito avere dubbi, anche in relazione ai tempi rispetto all’urgenza attuale del sovraffollamento penitenziario – la formulazione in sé di un possibile spostamento di persone in un contesto qualsiasi, scelto sulla base di disponibilità del demanio e di accordi con esso raggiunti e del tutto irrelato alle loro soggettività, è indicativa di una perseguita anonimia delle persone affidate e rispetto alle quali, occorre ricordare, chi amministra la privazione della libertà ha una funzione di tutela e di garanzia dei diritti, nonché di finalizzazione del proprio intervento nel solco che la Costituzione delinea.
Ecco perché la questione del nome è decisiva quando si tratta di giudizio, di sanzione e della sua esecuzione, soprattutto quando questa comporta la privazione della libertà e, quindi il rischio di una segregazione spersonalizzante.
Del resto, sappiamo bene come il sistema penale italiano abbia faticato – e tuttora fatichi – a dare il nome alle cose; sono dovuti passare più di trenta anni dalla ratifica della Convenzione Onu contro la tortura perché il nome stesso tortura entrasse nel codice penale – ben di più erano passati dall’imperativo dell’ultimo comma dell’articolo 13 della Costituzione, nonostante che questo desse una indicazione esplicita di punizione di ogni violenza fisica o mentale nei confronti delle persone sottoposte a restrizioni di libertà. Vale la pena, proprio in questo contesto di conclusione di un’attività tra giustizia e letteratura, ricordare l’affermazione di Albert Camus che scrisse nei suoi quaderni preparatori de La Peste: «quando si cominciano a nominare bene le cose diminuisce il disordine e diminuisce la sofferenza che c’è nel mondo».
Il tempo
Quindi, l’anonimia come primo indice della disattenzione ai diritti intrinseci con la persona. Ma c’è un altro diritto che pone forti questioni quando si parla di privazione della libertà e, quindi, anche di carcere: il diritto al significato del proprio tempo. Anche su questo mi è capitato di soffermarmi più volte, spesso in occasione del mio rivolgermi annualmente al Parlamento, nella funzione di Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.
Nella privazione della libertà la questione del tempo si pone sotto diversi aspetti, a partire dal principio che il tempo non può essere privo di significato. Perché in tal caso i vuoti del tempo, anch’essi necessari per l’intimità e la riflessione, non sono pause, ma il niente; oppure sono un contenitore da riempire con qualcosa che richiama l’intrattenimento e non la progettazione – e purtroppo questo termine, intrattenimento, è stato più volte utilizzato in circolari varie. Un tempo inutile, al più riempito di qualcosa è quello che quasi sempre scorre nelle istituzioni chiuse: un tempo che richiama ciò che, come segnalava Erving Goffman più di cinquant’anni fa, diviene denso di «attività di rimozione». Cioè attività non adulte, bensì infantilizzanti, sostanzialmente finalizzate a sé stesse, volte a far dimenticare provvisoriamente la situazione in cui vive. «Se dunque si può dire – scriveva Goffman – che nelle istituzioni totali le attività normali torturano il tempo, queste attività lo uccidono pietosamente»[4].
Il carcere non è esterno a questa concezione del tempo: sono innanzitutto i numeri a evidenziare questa fisionomia. Alla data odierna (maggio 2024) ci sono 1502 persone in carcere per scontare una pena – non un residuo di pena maggiore – inferiore a un anno, altri circa 3000 una pena tra uno e due anni. È evidente che in periodi così brevi non sia possibile costruire alcun percorso che dia significato a quanto la nostra Carta prescrive come finalità tendenziale per ogni pena, troppo complessa essendo l’organizzazione carceraria. La presenza in carcere per periodi così brevi, è innanzitutto destrutturante sul piano della consapevolezza del valore delle norme: nel luogo della ricostruzione della legalità si vive, infatti, un’esperienza che dà alla norma un valore meramente enunciativo e non fattuale, addirittura a una norma di rango costituzionale. Inoltre, tale presenza è indicativa della selettività dell’azione penale, perché, ovviamente, le persone che, pur in presenza di molte modalità alternative per pene così brevi, sono in carcere rappresentano quella minorità sociale che è fatta di assenza di una rete di supporto, assenza a volte di un domicilio che possa essere preso in considerazione dal magistrato che dovrebbe applicare la misura, nonché assenza di conoscenza delle possibilità che l’ordinamento prevede e ancor più di comprensione del dove si è e del proprio presente. È una realtà che interroga tutti noi: pone domande ineludibili al territorio che non ha più presidi intermedi che possano intercettare queste vite difficili e fornire loro strumenti di supporto e di controllo che diminuiscano l’esposizione al rischio della commissione di reati e affida invece al penale ciò che non si è risolto nel sociale.
Questi segmenti di vita interrotta sono destinati a riproporsi perché la persona uscirà dal carcere nelle condizioni con cui è entrata e con lo stigma della detenzione. Sono frantumazioni del tempo della vita, tratti vuoti, sottrazioni del significato stesso del proprio tempo: negazioni di quel diritto troppo spesso violato non solo in carcere, ma anche negli altri luoghi di privazione della libertà personale.
Ho parlato di segmenti di vuoto: non sono pause né sono quei silenzi che aprono alla riflessione, bensì i vuoti che ricordano l’interruzione – c’è differenza tra il silenzio di John Cage[5] e l’interruzione di corrente, da riempire con qualche rassicurante attività.
Il tempo interrotto nella sua continuità, in molte situazioni in carcere ha la caratteristica della sospensione, dell’interruzione e non certamente dello spazio per il sé. Per questo il tempo rappresenta una variabile esplicativa della difficoltà del presente nella risposta penale. Non lo è, tuttavia, solo sotto questo aspetto perché è descrittivo e determinate anche relativamente ad altri due profili. Il primo riguarda la non sincronia tra la ciclicità del tempo interno alla detenzione, che sostanzialmente riproduce sempre sé stesso, quasi rappresentabile con un moto circolare e la linearità del tempo esterno: inizialmente i due diversi tempi hanno un punto di contatto, la retta del tempo esterno è tangente alla circonferenza del tempo detentivo, ma subito poco la loro distanza rischia di accentuarsi. A ogni incontro con una persona esterna, a ogni incontro con i propri affetti, ma anche a ogni momento di confronto con l’Istituzione che regola e legittima il procedere dell’assenza di libertà, circonferenza e tangente sono di nuovo insieme in un singolo punto, cioè in un singolo momento: per un attimo sembrano avere lo stesso orologio, poi inevitabilmente si discostano, l’una torna a ripiegarsi nella logica dell’internamento, l’altra a seguire la direzione degli eventi.
Si riesce a far sincronizzare il più possibile i due tempi, pur nella loro intrinseca differenza? La via da percorrere è quella dell’accentuare la loro possibile e parziale similarità, a partire da quel principio che è posto tra le premesse delle Regole penitenziarie europee – adottate dal Consiglio d’Europa – che indica che «la vita in carcere deve essere il più possibile simile agli aspetti positivi della vita all’esterno». Qui la «positività» va interpretata nel senso di evoluzione, di adesione, quindi, alla mutevolezza crescente del tempo esterno. Ne emerge una carenza attuale del nostro sistema detentivo che richiede urgentemente di essere considerata: la carenza di attenzione positiva all’evoluzione tecnologica, tuttora vista dalla nostra Amministrazione non come opportunità per una detenzione più calibrata sul ritorno al contesto sociale, bensì come rischio di riduzione della sicurezza interna ed esterna.
Vale la pena ricordare che i dati ci dicono che delle 61200 persone attualmente detenute, coloro che hanno oggi un residuo di pena superiore ai cinque anni sono meno di 12600; tra un numero molto ridotto di anni, quasi 49mila persone ristrette rientreranno nella società; la maggiore connessione possibile tra il tempo interno e il tempo esterno è un elemento decisivo per il loro positivo reintegro in termini di una maggiore sicurezza della collettività, oltre che del loro personale percorso personale.
Il tempo è comunque una variabile significativa anche per un altro aspetto, che qui accenno soltanto: nelle scienze fisiche, in quelle sociali e anche nello sviluppo del sapere psicoanalitico il tempo non è mai una grandezza costante perché è sempre soggetto a dilatazioni e contrazioni. La misura del tempo della penalità, nella sua definizione edittale è invece costante: definita anni fa, resta tale. Eppure la quantità di esperienze e mutamenti racchiusa in un anno di privazione della libertà nel momento della definizione edittale è ben diversa da quella che un anno del presente racchiude. Questo comporta che il mutamento ha un ritmo diverso e che, conseguentemente, la distanza tra quel tempo che ho definito come interno e quello esterne tende ad accentuarsi, soprattutto data la rapidità di mutamento delle tecnologie e dei mutamenti sociali e contestuali che esso determina.
Questa consapevolezza manca alla riflessione sul presente della detenzione e tale mancanza si riflette sulla sottovalutazione di alcuni aspetti. Per esempio, quello della centralità assoluta della interconnessione per persone molto giovani, spesso accusate, anche a ragione, di vivere in un mondo virtuale a cui assegnano maggiore rilevanza rispetto al mondo delle relazioni materiali. In realtà proprio l’interruzione di tale connessione ha effetti dirompenti, nel senso di isolamento, in una persona che entra in carcere, ben superiore a quella che si determinava e si determina nell’interruzione dei rapporti familiari: Peralto, si tratta peraltro una disconnessione definitiva – non si avrà più lo smartphone – che potrà essere sanata neppure dal magro conforto degli incontri che l’ordinamento penitenziario prevede. Sono convinto che questa decisiva e definitiva disconnessione sia un co-fattore della disperazione e forse anche dei suoi nefasti esiti.
Il tempo della detenzione deve conservare la dimensione relazionale affinché si mantenga un equilibrio tra ciò che si è commesso e la sanzione penale corrispondente, con il suo quantum di sofferenza inevitabile.
Teatralità penale
L’incapacità di mantenere tale connessione svela l’ambiguità insita nella pena detentiva che si è storicamente affermata quasi come misura neutrale, oggettiva, in grado di opporsi alla teatralità della pena suppliziante. Nel suo discostarsi dal tempo vitale e nella sua esecuzione in condizioni di degrado finisce però per configurarsi come una sua semplice variante perché la segregazione, nel vuoto del nome e del significato del proprio tempo, anche laddove non vi è violenza fisica o psichica, esprime la stessa logica.
Scrisse Gabriel Bonnot De Mably nel periodo dell’Illuminismo e del passaggio dalla pena corporale alla detenzione: «Che il castigo, se così posso dire, colpisca l’anima, non il corpo»[6]. La teatralità insita in una detenzione soltanto centrata sulla sottrazione di tempo vitale e sull’esibizione frequente di tale sottrazione di tempo in funzione della costruzione di consenso finisce col concedere molto al residuo di vendetta – e il linguaggio spesso ne è sintomo e conferma. Così mostrando che una idea corporea della pena permane nella nostra contemporaneità, anche se avvolta dall’incorporeo di una penalità centrata sull’astratta neutralità del tempo sottratto come misura del castigo. È in questa corporeità residua rimane il nucleo della sanzione punitiva come sofferenza.
Nome e significato del tempo, quindi, sono due pilastri dello stesso concetto di dignità quale intrinseco bene di ogni persona, la cui tutela assoluta pone la parola pena meno riassumibile nell’afflizione che inevitabilmente essa porta con sé.
La tutela del diritto al riconoscimento della dignità di ogni persona è il primo compito di chi deve controllare che la ragione e le modalità esecutive della privazione della libertà. In ambito penitenziario, talune vicende in cui persone responsabili di particolari reati sono state sottoposte a umiliazioni specifiche da parte di chi le aveva in custodia ci dicono che c’è ancora molta strada da percorrere in questa direzione. Anche perché accanto al diritto al riconoscimento della propria dignità, vi è l’altro assoluto diritto al rispetto della propria integrità fisica e psichica.
Sembra strano, ma è necessario richiamare qualcosa già inciso nella nostra Carta e nella Convenzione europea per la tutela dei diritti umani, il cui articolo 3 – che vieta, appunto, tortura e trattamenti o pene inumani o degradanti – è uno dei soli quattro articoli mai derogabili. Una inderogabilità che ha resistito a più attacchi nei primi decenni di questo secolo nel contesto di una presunta efficacia di strumenti di lotta la terrorismo internazionale centrata sulla possibile inflizione di sofferenza aggiuntiva sulla base di una più generale tutela, così recuperando schemi obsoleti e scivolosi della disponibilità del corpo della persona ristretta – un Presidente degli Stati Uniti, quindi, di un Paese cioè che è parte della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, è giunto ad affermare che il waterboarding è una tecnica di interrogatorio.
Per chi ha avuto per anni il compito di vigilare sulla privazione della libertà personale, nelle sue diverse motivazioni, finalità, forme e nei diversi luoghi dove essa si attua, lo schema dei diritti da garantire e delle raccomandazioni da formulare a chi ha responsabilità di tali provvedimenti e delle relative strutture discende da questi principi[7]. Sempre con una funzione preventiva. Sempre avendo chiaro che la necessità, la finalità e la valutazione di proporzionalità che permettono di violare quel bene essenziale costituito dalla libertà individuale, non sono dei meri parametri enunciati quale generico indirizzo dell’azione di chi è responsabile della cosa pubblica. Essi indicano invece sia il limite del possibile esercizio di tale potere coercitivo, sia la sua misura, sia, infine la sua direzione. È così che, nel caso del carcere, la tendenziale finalità rieducativa non è una semplice enunciazione di principio né una indicazione di politica penale e penitenziaria, ma l’asse dell’azione su cui modulare la privazione della libertà. Quindi, il diritto soggettivo della persona ristretta a che tale finalità sia realmente perseguita.
Sempre ricordando che «si va in carcere perché si è puniti e non per essere puniti».
[1] Il testo è stato presentato al Convegno Responsabilità, giudizio, riparazione, pena. Intrecci, analogie, differenze, organizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore a conclusione del XIV Ciclo seminariale “Giustizia e Letteratura”, 11 – 12 aprile 2024. Gli atti del Convegno sono in corso di pubblicazione.
[2] M. Foucault, Les hétérotopies. Le corps utopique, 1966; trad. it Utopie Eterotopie (A. Moscati, a cura di), Cronopio, Napoli, 2006.
[3] Intervento del Ministro della Giustizia Carlo Nordio all’iniziativa di dibattito dal titolo Senza dignità organizzata da Radio Radicale e tenutasi al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre il 23 aprile 2024 (videoregistrazione disponibile sulla pagina web di Radio Radicale).
[4] E. Goffman, Asylums. Essays on the social situation of mental patients and other inmates, 1961; trad.it Asylums. Le istituzioni totali (introduzione di Franco e Franca Basaglia), Einaudi, Torino, 1968.
[5] J. Cage, Silenzio, volume e musica, 1961, trad.it (G. Carlotti, a cura di), Il Saggiatore, Milano, 2019.
[6] G. Bonnot de Mably, De la législation ou Principes de lois (1776) in Œuvres complètes, Amst ed., Lausanne., tomo IX.
[7] Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (febbraio 2016 – gennaio 2024), Presentazioni da parte del Presidente della Relazione annuale al Parlamento. Le presentazioni sono editabili dal sito del Garante nazionale: https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/pages/it/homepage/pub_rel_par/.
Immagine: Héctor Zamora, Lattice Detour, 2020. Credits: The Metropolitan Museum of Art. Photo Anna-Marie Kellen.
Il rinvio pregiudiziale, l’art. 1284 c.c. e il rapporto tra cognizione ed esecuzione: alcune riflessioni a margine di due recenti pronunce delle Sezioni Unite
Con due sentenze rese nello scorso mese di maggio, le Sezioni Unite della Suprema Corte tornano a confrontarsi con la giurisprudenza di merito, col nuovo strumento processuale del rinvio pregiudiziale ex art. 363bis c.p.c., su temi di rilevante portata nelle aule di Giustizia, quello degli interessi: nelle sentenze nn. 12449, resa il 7 maggio, e 12974, del 13 maggio, la questione sottoposta dai giudici remittenti (rispettivamente, Tribunale di Milano e Tribunale di Parma) riguarda la disciplina dei cd. ‘super-interessi’ di cui all’art. 1284 c.c.
Nei due procedimenti, la questione di diritto che viene in rilievo è sovrapponibile, tanto che con la seconda sentenza (n. 12974) la Suprema Corte ha rilevato la “inammissibilità sopravvenuta al decreto presidenziale di assegnazione del rinvio pregiudiziale” espressamente richiamando il principio di diritto enunciato con la sentenza n. 12449; inammissibilità che però più che a sanzione processuale per una qualche violazione di regole (come i processualisti considerano sovente la figura appunto della inammissibilità) induce a pensare a una specie di ‘ne bis in idem’ sorte per effetto della sottoposizione contemporanea di identica questione alla Corte, e che potrebbe indurre a riflettere sulla possibilità di una soluzione differente.
Tornando al primo giudizio (sentenza del 7 maggio), qui la questione posta al centro del rinvio pregiudiziale “è se la mera previsione degli «interessi legali» nella pronuncia di condanna da parte del giudice della cognizione, possa essere interpretata, per la parte di interessi decorrenti dopo il momento della proposizione della domanda giudiziale, nei termini del saggio di interessi previsto dal comma quarto dell’art. 1284 cod. civ., oppure se, per l’assenza di specificazioni nella decisione, il saggio degli interessi debba restare limitato a quello previsto dal primo comma della medesima disposizione.” La Corte esamina i diversi propri indirizzi emersi sin qui, a riprova della fondatezza del rinvio disposto dal Tribunale remittente (difatti il 1° comma dell’art. 363 bis, comma 1, prevede quale condizione di ammissibilità del rinvio, fra l’altro, che la questione non sia stata ancora «risolta» dalla Corte di Cassazione: il primo, in ragione del quale il mero richiamo a ‘interessi legali’ nel corpo della pronuncia di merito consente il collegamento al solo 1° comma dell’art. 1284 c.c., stante la portata generale della norma; un secondo, sorto in particolare nel settore giuslavoristico, che invece considera come predeterminata per legge nella misura del 4° comma dell’art. 1284 c.c. ogni indicazione di interessi legali che emerga in qualsivoglia giudizio, anche arbitrale.
Sullo sfondo delle sentenze della Cassazione e prima ancora del provvedimento di rimessione [1], vi è il dibattito giurisprudenziale, del quale lo stesso Tribunale rimettente da atto, sorto dopo l’introduzione della novella del 2014 (art. 17 comma 1 del D.L. 12 settembre 2014 n. 132 che appunto ha aggiunto i commi 4° e 5° dell’art. 1284 c.c.) con alcuni arresti della Suprema Corte si segno diverso. Ad esempio, in Cassazione civile Sez. II 7 novembre 2018 n. 28409 del si legge che “Il saggio d’interesse previsto dall’art. 1284, comma 4, c.c. si applica esclusivamente in caso di inadempimento di obbligazioni di fonte contrattuale, dal momento che, qualora tali obbligazioni derivino, invece, da fatto illecito o dalla legge, non è ipotizzabile nemmeno in astratto un accordo delle parti nella determinazione del saggio, accordo la cui mancanza costituisce presupposto indefettibile di operatività della disposizione”. A medesime conclusioni perviene Cassazione civile sez. II 25 marzo 2019 n. 8289, che ha inteso il quarto comma dell’art. 1284 c.c. come applicabile in correlazione a obbligazione pecuniaria che trova fonte in un contratto e anche se afferente ad obbligo restitutorio; in entrambe le statuizioni, veniva in rilievo il tema dell’equa riparazione per eccessiva durata del processo. Di diverso avviso la successiva ordinanza Sez. III del 3 gennaio 2023, secondo cui il quarto comma dell’art. 1284 c.c. si applica a qualsiasi obbligazione sia di origine contrattuale sia di altra natura, ivi comprese quelle da responsabilità extracontrattuale, e ciò al fine di impedire che l’eccessiva durata del processo sia di vantaggio per il debitore; qui la Suprema Corte, in un giudizio avente a oggetto domanda di ripetizione di indebito proposta dal correntista per la restituzione delle somme illegittimamente trattenute dalla banca, in forza delle clausole di un contratto di conto corrente dichiarate nulle, dopo aver evidenziato la differenza tra l’art. 1224 c.c. e art. 1284 comma 4 stesso codice, col primo che prevede il tasso di mora nelle obbligazioni pecuniarie, mentre “l’art. 1284 c.c., comma 4, riguarda invece solo il tasso degli interessi di mora per il periodo successivo all'inizio del processo: le due disposizioni hanno, quindi, un campo di applicazione differente.”, sottolinea l’esigenza, perseguita dal legislatore, di “scoraggiare l’inadempimento e rendere svantaggioso il ricorso ad inutile litigiosità, scopo che prescinde dalla natura dell'obbligazione dedotta in giudizio e che si pone in identici termini per le obbligazioni derivanti da rapporti contrattuali come per tutte le altre.”, e perciò che non è “possibile affermare, in generale, che l'art. 1284 c.c., comma 4, abbia di per sé un campo di applicazione limitato alle sole obbligazioni nascenti da rapporti negoziali.”, potendosi quindi ritenere estendibile, in via generale e astratta, ma anche a quelle nascenti da fatto illecito o da altro fatto o atto idoneo a produrle, valendo la clausola di salvezza iniziale (che rimette alle parti la possibilità di determinarne la misura) ad escludere il carattere imperativo e inderogabile della disposizione e non già a delimitarne il campo d'applicazione.
Ora, in questo quadro si muove la sentenza delle Sezioni Unite n. 12449, che ovviamente, dato il ‘tipo’ di procedimento per il quale è chiamata a intervenire, non prende posizione sul tema dei confini di applicabilità dei cd. ‘super-interessi’ (così definiti quelli di cui al 4° comma dell’art. 1284 c.c.) in senso sostanziale, ma si sofferma sul rapporto tra giudice dell’esecuzione e titolo esecutivo laddove quest’ultimo non specifichi a quali interessi debba farsi riferimento. Precisa invece la Corte il perimento entro il quale deve muoversi il giudice dell’esecuzione, al cospetto del titolo esecutivo giudiziale, il quale, pur nell’ambito attività di interpretazione (lato sensu, perché svolta in sede esecutiva), non ha poteri di cognizione, ma “deve limitarsi a dare attuazione al comando contenuto nel titolo esecutivo medesimo, mediante un’attività che ha, sul punto, natura rigorosamente esecutiva.”. E così esclude che l’attività interpretativa possa spingersi sino a identificare nella mera locuzione ‘interessi legali’ (o simile) contenuta nel titolo il riferimento all’uno (I comma dell’art. 1284 c.c.) o all’altro interesse (IV comma della stessa norma): ciò in quanto, precisa la Corte, “il quarto comma dell’art. 1284 non integra un mero effetto legale della fattispecie costitutiva degli interessi (cui la legge collega la relativa misura), ma rinvia ad una fattispecie, i cui elementi sono per una parte certamente rinvenibili in quelli cui la legge in generale collega l’effetto della spettanza degli interessi legali, ma per l’altra è integrata da ulteriori presupposti, suscettibili di autonoma valutazione rispetto al mero apprezzamento della spettanza degli interessi nella misura legale. Entro tali limiti, viene a stabilirsi una soluzione di continuità fra la fattispecie costitutiva dell’effetto della spettanza degli interessi legali in generale e quella degli interessi legali contemplati dal quarto comma dell’art. 1284. La relativa autonomia della fattispecie produttiva dei c.d. super-interessi (relativa perché contenente ulteriori elementi di specificazione), rispetto a quella produttiva degli ordinari effetti legali, fa sì che uno dei diversi profili oggetto di accertamento giurisdizionale, a seguito della introduzione della controversia con la deduzione in giudizio di un determinato rapporto giuridico, sia anche quello della ricorrenza dei presupposti applicativi dell’art. 1284, comma 4.”: dunque, da accertare in sede di cognizione, in relazione alle varie ipotesi che possano presentarsi (e che la Corte stessa cerca di individuare, in relazione ai presupposti applicativi) in ciascun caso concreto.
Perciò, precisa la Corte, “se il titolo esecutivo è silente, il creditore non può conseguire in sede di esecuzione forzata il pagamento degli interessi maggiorati, stante il divieto per il giudice dell’esecuzione di integrare il titolo, ma deve affidarsi al rimedio impugnatorio.”; e conclude affermando il seguente principio di diritto: “ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.
Queste le coordinate all’interno delle quali si dovrà muovere il giudice rimettente: ma che, ovviamente, saranno tenute in attenta considerazione in ogni caso analogo, considerando che più che sulla disciplina dell’art. 1284 c.c., la statuizione, seppur resa in caso di rinvio pregiudiziale, offre spunti di notevole interesse nel costante dibattito tra giudice della cognizione e giudice dell’esecuzione, a prescindere dal ‘tipo’ di obbligazione che viene in rilievo. E che, ancora una volta, lascia trasparire l’esigenza, nella cognizione, di una motivazione completa in ogni sua parte, anche nella puntuale individuazione delle norme di legge da applicare alla fattispecie.
[1] Si tratta del decreto del giudice dell’esecuzione del Tribunale di Milano reso il 25 luglio 2023, con il quale è stata sottoposta alla Suprema Corte la seguente questione: “se in tema di esecuzione forzata – anche solo minacciata - fondata su titolo esecutivo giudiziale, ove il giudice della cognizione abbia omesso di indicare la specie degli interessi al cui pagamento ha condannato il debitore, limitandosi alla loro generica qualificazione in termini di "interessi legali" o "di legge" ed eventualmente indicandone la decorrenza da data anteriore alla proposizione della domanda, si debbano ritenere liquidati soltanto gli interessi di cui all'art. 1284 primo comma c.c. o - a partire dalla data di proposizione della domanda - possano ritenersi liquidati quelli di cui al quarto comma del predetto articolo”.
Questo contributo fa parte della discussione aperta da questa Rivista sul disegno di legge di riforma costituzionale n. 935, comunicato alla Presidenza del Senato il 15 novembre 2023, che prende il nome di premierato. Si veda anche Premierato sì, ma non così di Stefano Ceccanti, Trent’anni dopo. L’Ingegneria costituzionale e le Riforme di Alessandro Mangia, Brevissime note sulla riforma costituzionale del premierato di Giuliano Scarselli.
La senatrice a vita Liliana Segre è intervenuta a Palazzo Madama durante la discussione sul disegno di legge costituzionale in oggetto il 14 maggio 2024. Pubblichiamo di seguito il testo integrale del suo discorso.
Signor Presidente, Care Colleghe, Cari Colleghi,
continuo a ritenere che riformare la Costituzione non sia una vera necessità del nostro Paese. E le drastiche bocciature che gli elettori espressero nei referendum costituzionali del 2006 e del 2016 lasciano supporre che il mio convincimento non sia poi così singolare.
Continuo anche a ritenere che occorrerebbe impegnarsi per attuare la Costituzione esistente. E innanzitutto per rispettarla.
Confesso, ad esempio, che mi stupisce che gli eletti dal popolo – di ogni colore – non reagiscano al sistematico e inveterato abuso della potestà legislativa da parte dei Governi, in casi che non hanno nulla di straordinariamente necessario e urgente.
Ed a maggior ragione mi colpisce il fatto che oggi, di fronte alla palese mortificazione del potere legislativo, si proponga invece di riformare la Carta per rafforzare il già debordante potere esecutivo.
In ogni caso, se proprio si vuole riformare, occorre farlo con estrema attenzione. Il legislatore che si fa costituente è chiamato a cimentarsi in un’impresa ardua: elevarsi, librarsi al di sopra di tutto ciò che – per usare le parole di Leopardi – “dall’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Sollevarsi dunque idealmente tanto in alto da perdere di vista l’equilibrio politico dell’oggi, le convenienze, le discipline di partito, tutto ciò che sta nella realtà contingente, per tentare di scrutare quell’ “Infinito” nel quale devono collocarsi le Costituzioni. Solo da quest’altezza si potrà vedere come meglio garantire una convivenza libera e sicura ai cittadini di domani, anche in scenari ignoti e imprevedibili.
Dunque occorrono non prove di forza o sperimentazioni temerarie, ma generosità, lungimiranza, grande cultura costituzionale e rispetto scrupoloso del principio di precauzione.
Non dubito delle buone intenzioni della cara amica Elisabetta Casellati, alla quale posso solo esprimere gratitudine per la vicinanza che mi ha sempre dimostrato. Poiché però, a mio giudizio, il disegno di riforma costituzionale proposto dal governo presenta vari aspetti allarmanti, io non posso e non voglio tacere.
Il tentativo di forzare un sistema di democrazia parlamentare introducendo l’elezione diretta del capo del governo, che è tipica dei sistemi presidenziali, comporta, a mio avviso, due rischi opposti.
Il primo è quello di produrre una stabilità fittizia, nella quale un presidente del consiglio cementato dall’elezione diretta deve convivere con un parlamento riottoso, in un clima di conflittualità istituzionale senza uscita. Il secondo è il rischio di produrre un’abnorme lesione della rappresentatività del parlamento, ove si pretenda di creare a qualunque costo una maggioranza al servizio del Presidente eletto, attraverso artifici maggioritari tali da stravolgere al di là di ogni ragionevolezza le libere scelte del corpo elettorale.
La proposta governativa è tale da non scongiurare il primo rischio (penso a coalizioni eterogenee messe insieme pur di prevalere) e da esporci con altissima probabilità al secondo. Infatti, l’inedito inserimento in Costituzione della prescrizione di una legge elettorale che deve tassativamente garantire, sempre, mediante un premio, una maggioranza dei seggi a sostegno del capo del governo, fa sì che nessuna legge ordinaria potrà mai prevedere una soglia minima al di sotto della quale il premio non venga assegnato.
Paradossalmente, con una simile previsione la legge Acerbo del 1923 sarebbe risultata incostituzionale perché troppo democratica, visto che l’attribuzione del premio non scattava qualora nessuno avesse raggiunto la soglia del 25%.
Trattando questa materia è inevitabile ricordare l’Avvocato Felice Besostri, scomparso all’inizio di quest’anno, che fece della difesa del diritto degli elettori di poter votare secondo Costituzione la battaglia della vita. Per ben due volte la Corte Costituzionale gli ha dato ragione, cassando prima il Porcellum e poi l’Italicum perché lesivi del principio dell’uguaglianza del voto, scolpito nell’art. 48 della Costituzione. E dunque, mi chiedo, come è possibile perseverare nell’errore, creando per la terza volta una legge elettorale destinata a produrre quella stessa “illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare” ?
Ulteriore motivo di allarme è provocato dal drastico declassamento che la riforma produce a danno del Presidente della Repubblica. Il Capo dello Stato infatti non solo viene privato di alcune fondamentali prerogative, ma sarebbe fatalmente costretto a guardare dal basso in alto un Presidente del Consiglio forte di una diretta investitura popolare.
E la preoccupazione aumenta per il fatto che anche la carica di Presidente della Repubblica può rientrare nel bottino che il partito o la coalizione che vince le elezioni politiche ottiene, in un colpo solo, grazie al premio di maggioranza.
Anzi, è addirittura verosimile che, in caso di scadenza del settennato posteriore alla competizione elettorale, le coalizioni possano essere indotte a presentare un ticket, con il n°1 candidato a fare il capo del governo ed il n° 2 candidato a insediarsi al Quirinale, avendo la certezza matematica che – sia pure dopo il sesto scrutinio (stando all’emendamento del Senatore Borghi) – la maggioranza avrà i numeri per conquistare successivamente anche il Colle più alto.
Ciò significa che il partito o la coalizione vincente - che come si è visto potrebbe essere espressione di una porzione anche assai ridotta dell’elettorato (nel caso in cui competessero tre o quattro coalizioni, come è già avvenuto in un recente passato) sarebbe grado di conquistare in un unico appuntamento elettorale il Presidente del Consiglio e il governo, la maggioranza assoluta dei senatori e dei deputati, il Presidente della Repubblica e, di conseguenza, anche il controllo della Corte Costituzionale e degli altri organismi di garanzia. Il tutto sotto il dominio assoluto di un capo del governo dotato di fatto di un potere di vita e di morte sul Parlamento.
Nessun sistema presidenziale o semi-presidenziale consentirebbe una siffatta concentrazione del potere; anzi, l’autonomia del Parlamento in quei modelli è tutelata al massimo grado. Non è dunque possibile ravvisare nella deviazione dal programma elettorale della coalizione di governo – che proponeva il presidenzialismo – un gesto di buona volontà verso una più ampia condivisione. Al contrario, siamo di fronte ad uno stravolgimento ancora più profondo e che ci espone a pericoli ancora maggiori.
Aggiungo che il motivo ispiratore di questa scelta avventurosa non è facilmente comprensibile, perché sia l’obiettivo di aumentare la stabilità dei governi sia quello di far eleggere direttamente l’esecutivo si potevano perseguire adottando strumenti e modelli ampiamente sperimentati nelle democrazie occidentali, che non ci esporrebbero a regressioni e squilibri paragonabili a quelli connessi al cosiddetto “premierato”.
Non tutto può essere sacrificato in nome dello slogan “scegliete voi il capo del governo!” Anche le tribù della preistoria avevano un capo, ma solo le democrazie costituzionali hanno separazione dei poteri, controlli e bilanciamenti, cioè gli argini per evitare di ricadere in quelle autocrazie contro le quali tutte le Costituzioni sono nate.
Motivazione “apparente” della sentenza e controllo giurisdizionale sulla discrezionalità amministrativa (nota a Consiglio di Stato, Sez. III, 16 novembre 2023, n. 9824)
di Marco Magri e Enrico Zampetti
Sommario: 1. La vicenda. 2. La motivazione apparente quale causa di rimessione al primo giudice. 3. L’inconfigurabilità nel caso di specie di un’ipotesi di motivazione apparente. 4. Motivazione apparente e omessa pronuncia. 5. Motivazione apparente e discrezionalità amministrativa (in tema di sindacato sull’atto di scioglimento dei Comuni per infiltrazioni mafiose).
1. La vicenda.
L’esito della decisione annotata è già di per sé abbastanza significativo: il Consiglio di Stato riforma una sentenza del Tar Lazio[1] che, in linea con un indirizzo giurisprudenziale consolidato, aveva respinto il ricorso presentato contro il decreto di scioglimento di un Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose (art. 143 TUEL).
La pronuncia di primo grado, tipico esempio di sindacato estrinseco sul vizio di eccesso di potere[2], aveva ritenuto sostanzialmente corrette le valutazioni dell’amministrazione, annettendo valore decisivo all’ampio margine di discrezionalità di cui quest’ultima dispone nel ponderare gli elementi indiziari circa i collegamenti diretti e indiretti degli amministratori locali con la criminalità organizzata.
In appello però i ricorrenti avevano insistito su tutte le censure sollevate in primo grado, sostenendo che il Tar non le avesse sostanzialmente esaminate. A loro avviso il giudice, anziché compiere una valutazione sulla sussistenza dei presupposti per lo scioglimento del consiglio comunale, si era limitato a richiamare princìpi generali e a recepire acriticamente gli esiti dell’istruttoria eseguita dall’amministrazione, senza alcun riguardo per le contestazioni che i ricorrenti avevano addotto per dimostrare l’infondatezza degli elementi di contiguità mafiosa rilevati a carico dell’ente locale.
La sentenza d’appello, come si accennava, rovescia la pronuncia di primo grado in modo piuttosto inaspettato. Ma altrettanto significative sono le conseguenze processuali che il Consiglio di Stato ne trae rispetto al principio del doppio grado di giurisdizione. Ci riferiamo all’esclusione dell’effetto devolutivo dell’appello e alla scelta di accogliere il gravame con una pronuncia di rito, disponendo la regressione al giudice di primo grado e la ripetizione del processo amministrativo.
Il Consiglio di Stato perviene infatti all’ulteriore considerazione che “nel caso in esame, non può riscontrarsi la presenza di requisiti minimi e nemmeno la struttura decisionale essenziale per consentire l’intervento ‘ortopedico’ del giudice di appello”. In linea con le sentenze dell’Adunanza Plenaria nn. 10 e 11 del 2018, la Sezione riconosce nella pronuncia del Tar il vizio di motivazione “apparente”, che comporta la nullità della sentenza appellata con rinvio della causa al primo giudice “per il combinato disposto degli artt. 88, comma 2, lett. d), e 105, comma 1, c.p.a.”.
È bene però subito soggiungere che la motivazione è ritenuta “apparente” non tanto perché il Tar si sia fermato alla classica petizione di principio, abbia cioè completamente trascurato di porre a fondamento della propria decisione le risultanze degli atti di causa. Gli elementi che l’atto impugnato considerava indizi di infiltrazione mafiosa erano stati tutti richiamati, valutati, ritenuti verosimili, o non irragionevoli, nella sentenza di primo grado. Non si trattava insomma di un difetto di collegamento tra la motivazione della sentenza e il concreto svolgimento del giudizio.
Decisivo, secondo il Consiglio di Stato, è che il Tar abbia rigettato il ricorso, dopo essersi rifatto alle circostanze ravvisate dall’amministrazione, senza curarsi di “confutare” la posizione dei ricorrenti. Al di sotto della nullità per motivazione apparente vi è quindi una compromissione del principio di imparzialità del giudice, un diseguale trattamento delle parti e, in ultima analisi, una menomazione del contraddittorio in senso lato. Il che è degno di nota, se posto a paragone della massima, correntemente avallata dalla giurisprudenza (e dalla stessa Plenaria), per cui la “lesione del diritto di difesa” e la “mancanza di contraddittorio”, autonomamente previste dall’art. 105 c.p.a. quali ipotesi di annullamento con rinvio, debbono intendersi come fattispecie tipiche, identificabili solo attraverso la violazione di norme processuali che prevedono poteri o garanzie strumentali a quelle di difesa e contraddittorio[3]. A più riprese la sentenza annotata offre l’impressione di non sentirsi vincolata da questa tradizionale interpretazione e di ritenere, piuttosto, che la categoria della nullità possa assicurare il doppio grado di giurisdizione in una prospettiva ampia, capace di valorizzare adeguatamente i profili sostanziali della garanzia sancita dall’articolo 24 Cost.[4]
Per il Consiglio di Stato, le “circostanze fattuali” avrebbero dovuto essere esaminate “anche alla luce delle allegazioni dei ricorrenti e non solo con l’indicazione dell’elenco di taluni elementi indizianti sulla contiguità tra gli organi comunali e la criminalità organizzata”, visto che l’art. 143 del TUEL esige una valutazione di “univocità e rilevanza” dei sintomi di infiltrazione mafiosa.
Occorreva dunque che il Tar Lazio operasse un “filtro”, una “valutazione critica” dell’operato degli organi statali, un “riferimento argomentato ai vari elementi indiziari sui quali si è basato il censurato decreto di scioglimento (pur contestati, uno per uno, nel ricorso introduttivo e nei motivi aggiunti)”.
Invece il ricorso è stato respinto tramite un “apodittico richiamo a principi e regole giurisprudenziali (…) non declinati in relazione al caso concreto esaminato”; privo di “ragioni ulteriori rispetto alla generica affermazione della sua infondatezza” e senza alcuna “confutazione” delle allegazioni difensive dei ricorrenti.
Ciò secondo il giudice d’appello “non consente in alcun modo di comprendere il percorso logico-giuridico su cui il Tar ha fondato le proprie conclusioni”. Ne consegue una “parvenza” di motivazione, da cui l’applicazione dell’art. 105 c.p.a. come interpretato dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 11/2018.
Il precedente della Plenaria ha costituito un riferimento obbligato perché in quella sede, allineandosi agli indirizzi della Cassazione, l’organo di nomofilachia del Consiglio di Stato ha chiarito cosa debba intendersi per “motivazione apparente” e ha precisato che essa si configura (dunque la sentenza va dichiarata nulla) non solo nel caso-limite della mancanza materiale della motivazione, ma anche nell’ipotesi di motivazione apodittica, assertiva, tautologica, incomprensibile.
Di più, il caso in esame suggerisce che la nullità della sentenza per motivazione tautologica può verificarsi anche di fronte ad argomentazioni chiare, articolate con riferimento ai fatti di causa; se il giudice aderisce al provvedimento impugnato in modo preconcetto e privo di ogni considerazione per le difese dei ricorrenti.
La sentenza della terza Sezione merita, a nostro giudizio, di essere commentata per due motivi: il primo è che il concetto di “motivazione apparente” ne risulta particolarmente esteso e offre lo spunto per qualche considerazione più generale sulla garanzia del doppio grado di giurisdizione nel processo amministrativo; il secondo è che la nullità con rimessione al giudice di primo grado viene giustificata con riferimento all’esigenza di un confronto più serrato tra allegazioni di parte e valutazioni dell’amministrazione, richiamando un punto di vista rimasto recessivo nell’interpretazione giurisprudenziale della norma sullo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose e, forse, nell’intera sistematica del giudizio su atti discrezionali.
Sotto questo secondo profilo, non può sfuggire che, mentre nel giudizio civile di annullamento della sentenza per “motivazione apparente” il rinvio al giudice di grado inferiore non fa sorgere alcun problema di discrezionalità, ma, al più, di esatto rapporto del giudice con i fatti di causa, la circostanza in cui sia il Consiglio di Stato a pronunciare la nullità per “motivazione apparente” impone al Tar, nel giudizio di rinvio, un più penetrante sindacato sull’atto impugnato. In altri termini, la declaratoria di nullità per “motivazione apparente” della pronuncia di un Tar non si limita a risolvere un cattivo funzionamento del doppio grado; essa implica sempre, in qualche misura, una correzione del rapporto tra giudice amministrativo e amministrazione.
2. La motivazione apparente quale causa di rimessione al primo giudice.
Come è noto, la nullità della sentenza rappresenta una delle cause di rimessione previste dall’articolo 105 c.p.a., ai sensi del quale “il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l'ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l'estinzione o la perenzione del giudizio”[5]. Il c.p.a. si riferisce genericamente alla nullità della sentenza, differenziandosi in ciò dal codice di procedura civile, che, invece, prevede la rimessione al primo giudice esclusivamente al cospetto di una sentenza nulla per difetto di sottoscrizione[6]. Senonchè, la generica espressione nullità della sentenza non offre alcuna puntuale qualificazione della correlata ipotesi di rimessione, dal momento che, come pure è stato osservato, una sentenza può ritenersi tecnicamente nulla per qualsiasi vizio processuale[7], come, ad esempio, quando nel relativo giudizio si sia perpetrato un difetto di contraddittorio o una lesione del diritto di difesa, ipotesi anch’esse incluse dal citato articolo 105 c.p.a. tra le cause di rimessione. Ciò significa che la causa di rimessione rappresentata dalla nullità della sentenza viene spesso a sovrapporsi o confondersi con altre delle cause previste dalla norma codicistica, restando così priva di una sua specifica autonomia. Dove, invece, la causa in questione acquista un’autonoma rilevanza ai fini della rimessione è nell’elaborazione giurisprudenziale sul difetto assoluto di motivazione, ossia sulle ipotesi in cui la motivazione sarebbe inesistente o soltanto “apparente” o “meramente assertiva”[8]. Al riguardo, la giurisprudenza precisa che il difetto assoluto di motivazione non “si identifica con la motivazione illogica, contraddittoria, errata, incompleta o sintetica” e che, più in generale, l’ordinario difetto di motivazione non può rappresentare una causa di rimessione al primo giudice, considerato che il carattere sostitutivo dell’appello consentirebbe “sempre al giudice di secondo grado di correggere, integrare e completare la motivazione carente, contraddittoria o insufficiente e di pronunciarsi sul merito della causa”[9]. Piuttosto, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, il difetto assoluto di motivazione riguarderebbe soltanto le ipotesi di mancanza "fisica" o "grafica" della motivazione, di “motivazione palesemente non pertinente rispetto alla domanda proposta (perché fa riferimento a parti, fatti e motivi totalmente diversi da quelli dedotti negli scritti difensivi)” e di “motivazione apparente”, dove per motivazione apparente si intende la “motivazione tautologica o assertiva, espressa attraverso mere formule di stile” ovvero la motivazione che, a sostegno dell'accoglimento o non accoglimento del ricorso, “non individua neppure una ragione ulteriore rispetto alla generica affermazione della sua fondatezza o infondatezza, di cui, però, non viene dato conto e spiegazione, se non attraverso l'utilizzo di astratte formule di stile”[10]. In sostanza, a dar luogo alla nullità della sentenza sarebbero soltanto quelle anomalie motivazionali che si identificano o nella “mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico”, o nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, o nella “motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica, oppure obiettivamente incomprensibile”[11]. In questi casi, la grave anomalia motivazionale rende nulla la sentenza imponendo la rimessione della causa ai sensi dell’articolo 105 c.p.a. Il giudice di appello non potrebbe, infatti, adottare alcuna decisione sulla causa, poiché il difetto assoluto della motivazione gli impedisce “di esercitare un qualsivoglia sindacato di tipo sostitutivo per essere mancata, nella sostanza, una statuizione sulla quale egli possa incidere, seppure nella forma di integrazione/emendazione delle motivazioni”[12].
Da questo rapido excursus si evince che il difetto assoluto di motivazione impedisce in toto di individuare le ragioni alla base della decisione di accoglimento o di rigetto e che, in sua presenza, la causa deve essere rimessa al primo giudice ai sensi dell’articolo 105 c.p.a. In aggiunta, si può osservare che la rimessione sarebbe giustificata anche per il vulnus inferto dal difetto assoluto di motivazione al diritto di difesa, posto che, all’evidenza, la non intellegibilità del percorso argomentativo a sostegno della decisione implica una “lesione del diritto di difesa” rilevante agli effetti dell’articolo 105. In ogni caso, il riscontro di un difetto assoluto di motivazione priva l’appello del suo tipico carattere rinnovatorio e sostitutivo, precludendo ogni intervento del giudice che non sia quello di prendere atto della nullità e disporre il rinvio.
Di per sé il richiamato orientamento non presenta particolari problemi applicativi, dal momento che l’eccezionalità delle ipotesi di motivazione apparente dovrebbe consentire agevolmente di cogliere la differenza tra un difetto di motivazione assoluto rilevante agli effetti della rimessione e un difetto di motivazione soltanto ordinario che impone al giudice di decidere la causa.
3. L’inconfigurabilità nel caso di specie di un’ipotesi di motivazione apparente.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla decisione in commento, la sentenza del TAR non sembra affatto afflitta da un difetto assoluto di motivazione che giustifichi il rinvio della causa. Basti considerare che:
1) Il TAR richiama preliminarmente i principi della materia, rilevando che “la qualificazione della concretezza, univocità e rilevanza delle circostanze poste a fondamento del provvedimento di cui si verte, va riferita non “atomisticamente” a ogni singolo elemento preso in esame in sede istruttoria, ma a una valutazione complessiva del coacervo di elementi acquisiti” e che “l’amministrazione gode di ampi margini di discrezionalità nella valutazione degli elementi su collegamenti diretti o indiretti, non traducibili in singoli addebiti personali, ma tali da rendere plausibile il condizionamento degli amministratori, essendo asse portante della valutazione di scioglimento, da un lato, l’accertata o notoria diffusione sul territorio della criminalità organizzata e, dall’altro, le precarie condizioni di funzionalità dell’ente in conseguenza del condizionamento criminale (…)”;
2) tanto premesso, evidenzia che “il quadro emergente dall’istruttoria de qua svolta dall’autorità descrive un contesto generale che depone per una non occasionale “contiguità” tra gli organi comunali e la criminalità organizzata, talchè il disposto scioglimento resiste al sindacato estrinseco di legittimità del Giudice amministrativo”, poiché “emerge invero dagli atti un quadro connotato da diffusa illegalità e condizionamento, che la relazione ha individuato in vari ambiti della vita consiliare”;
3) con specifico riferimento al difetto di motivazione censurato nel ricorso, precisa che “la doglianza non può essere accolta, proprio alla luce delle sopra riferite coordinate ermeneutiche” poiché “vari elementi depongono per la rilevata disfunzione dell’amministrazione locale e per la “prossimità” degli organi amministrativi con le consorterie criminali”, tra cui: (…) “le varie operazioni di polizia giudiziaria sfociate anche nell’applicazione di misure cautelari; - il rilevato palesato sostegno elettorale, confermato dalle risultanze giudiziarie, di esponenti della locale criminalità in favore di taluni candidati che facevano parte della lista che sosteneva l’organo di vertice dell’ente; - la riscontrata rete di rapporti parentali e di frequentazioni che esisteva da taluni amministratori e esponenti delle locali consorterie; - la partecipazione del primo cittadino quale testimone di nozze al matrimonio di un soggetto legato a locale famiglia mafiosa e la presenza in seno al consiglio comunale di amministratori gravati da legami con i medesimi esponenti dei clan camorristici (…) i coinvolgimenti in procedimenti penali di personale amministrativo dell’ente, la carente strutturazione delle procedure di gara, anche sotto il profilo dell’acquisizione della documentazione antimafia; -l’avvenuto pagamento effettuato in favore di una società destinataria di un provvedimento interdittivo e l’affidamento di commesse in via diretta e senza rotazione”;
4) osserva che “la difesa degli istanti tenta di smontare minuziosamente tutti gli episodi valorizzati dall’amministrazione, ma lo fa in chiave “atomistica”, senza riuscire ad inficiare l’impressione d’assieme di un comune fortemente esposto all’illegalità e al condizionamento criminale, alla luce della applicazione del ridetto criterio del “più probabile che non”, il quale sorregge il giudizio di inferenza posto in essere dall’amministrazione”;
5) rileva ancora che “le risultanze dell’attività di indagine e la significatività degli elementi indiziari emersi, alla luce del sopramenzionato criterio probabilistico, siano state correttamente valutate dall’amministrazione intimata, la quale gode di ampio margine di discrezionalità nella ponderazione degli elementi indiziari circa i collegamenti diretti e indiretti, che rendano verosimile una pericolo di condizionamento ovvero di soggezione dell’amministratore locale alla criminalità organizzata; e ciò anche laddove tali elementi non siano sufficienti a sostenere un’azione penale a esitare in una condanna, posto che si tratta di due giudizi ontologicamente differenti, in ragione della natura preventiva e di “difesa anticipata” tipico della misura dissolutoria di cui si verte”;
6) conclude che “alla luce delle superiori considerazioni, la censura di illogicità e di deficit motivazionale articolata in ricorso deve essere disattesa ed il ricorso deve dunque essere respinto”.
In sintesi, il TAR evidenzia l’ampia discrezionalità che in materia caratterizza le valutazioni dell’amministrazione; individua gli elementi dell’istruttoria idonei a giustificare lo scioglimento del consiglio comunale; ritiene che tali elementi siano stati correttamente valutati dall’amministrazione ai fini dell’adozione del provvedimento impugnato; reputa che la censura di illogicità e difetto di motivazione non sia accoglibile perché incapace di inficiare gli elementi presi in considerazione dall’amministrazione, anche per il carattere “atomistico” delle difese; conclude per il rigetto del ricorso sulla base delle considerazioni svolte. Dalla motivazione addotta emerge come la ratio decidendi della pronuncia sia perfettamente comprensibile nel suo percorso argomentativo, anche alla luce delle censure d’illogicità e difetto di motivazione dedotte nel ricorso. La motivazione non si basa su mere formule di stile tautologiche e apodittiche, ma individua pur sempre le ragioni poste a sostegno del rigetto anche in relazione ai motivi di ricorso, in un contesto in cui il sindacato giurisdizionale deve comunque misurarsi con l’ampia discrezionalità delle valutazioni amministrative.
Ciò non significa che le ragioni addotte siano corrette o sufficienti a giustificare il rigetto del ricorso o che la motivazione non sia carente o illogica, ma basta per escludere che nel caso di specie possa ritenersi sussistente un difetto assoluto di motivazione rilevante agli effetti della rimessione. Le anomalie motivazionali riscontrate dal Consiglio di Stato integrano al più un ordinario difetto di motivazione della sentenza, che, in conformità al carattere sostitutivo e rinnovatorio dell’appello, avrebbe potuto e dovuto essere corretto dal giudice di secondo grado[13].
4. Motivazione apparente e omessa pronuncia.
Pur nell’esplicito richiamo all’orientamento in materia di motivazione apparente, la decisione del Consiglio di Stato finisce di fatto per disattenderlo, ricomprendendo nel difetto assoluto di motivazione anche ipotesi, quale quella in esame, che andrebbero ricondotte ad un ordinario difetto di motivazione. Il concetto di motivazione apparente subisce così un’eccessiva dilatazione che, oltre a non essere giustificata dall’attuale contesto normativo, rischia in parte di comprimere il carattere sostitutivo e rinnovatorio dell’appello. È quindi auspicabile che il concetto, così come elaborato dall’attuale orientamento, resti circoscritto alle ipotesi in cui la “motivazione” impedisca completamente di individuare le ragioni alla base della decisione, arrecando così un vulnus al diritto di difesa. In questi casi, la rimessione al primo giudice è pienamente idonea a reintegrare la violazione perpetrata, in quanto garantisce che la causa sia decisa sin dal primo grado con una “vera” motivazione. Al contempo, il rinvio tutela pienamente il principio del doppio grado, perché la “vera” motivazione a corredo della nuova decisione potrà essere oggetto di una successiva impugnazione innanzi al giudice di appello.
Resta a questo punto da chiedersi perché se la rimessione è prevista nei casi di motivazione apparente, non lo sia anche nei casi di omessa pronuncia. Anche in questi casi si determina una lesione del diritto di difesa, forse anche più grave di quella arrecata da una motivazione apparente: se, infatti, la decisione corredata da motivazione apparente impedisce di comprendere le ragioni di un decisum, la sentenza afflitta dal vizio di omessa pronuncia è financo priva di un decisum, quantomeno per la domanda dimenticata dal giudice[14]. Senonchè, la giurisprudenza continua a ritenere che i casi di omessa pronuncia non integrino alcuna lesione del diritto di difesa e che il giudice di appello possa decidere la domanda dimenticata senza che ciò implichi alcuna violazione del principio del doppio grado[15]. Pur se la questione è più complessa e non può certo essere approfondita in questa sede, è lampante la contraddizione nell’ammettere la rimessione al cospetto di una motivazione apparente e nell’escluderla a fronte di un’omessa pronuncia. Nei limiti del presente scritto si può solamente osservare che, per superare la contraddizione, è necessario assumere una concezione del diritto di difesa e del principio del doppio grado diversa da quella attualmente assunta dal prevalente orientamento. Bisognerebbe, cioè, ammettere che la lesione del diritto di difesa rilevante agli effetti della rimessione possa dipendere anche da un vizio della decisione e non soltanto da un vizio del procedimento; e che la garanzia del doppio grado, lungi dall’esaurirsi nel potere di appellare, comporti che ogni decisione di merito debba poter sempre essere sindacata in appello, così da impedire che le controversie attribuite ai TAR possano essere decise per la prima volta nel merito dal Consiglio di Stato, di fatto in unico grado[16]. Si tratta di una strada oggi impervia che si scontra frontalmente con il prevalente orientamento, ma che sembra meglio adattarsi alla specificità costituzionale di una giurisdizione amministrativa articolata in due gradi di giudizio e priva del controllo in cassazione per violazione di legge.
5. Motivazione apparente e discrezionalità amministrativa (in tema di sindacato sull’atto di scioglimento dei Comuni per infiltrazioni mafiose).
Può darsi tuttavia che l’eccessiva dilatazione del concetto di motivazione apparente sia, nella sentenza in esame, anche la conseguenza di una particolare sensibilità del giudice verso gli interessi coinvolti caso concreto.
Gli appellanti erano rimasti ingiustamente senza risposta, davanti a un provvedimento che, come sempre, tocca profili alquanto delicati della vita delle comunità locali. Di fronte all’enorme latitudine del potere di scioglimento dei comuni per infiltrazioni mafiose (quale senza dubbio si ricava dall’art. 143 TUEL), il giudice amministrativo è costretto a rispettare il principio di separazione dei poteri, ma non può rinunciare a quel briciolo di garanzia data dalla sua stessa posizione di terzietà.
Bisogna quindi fare il giusto credito all’ipotesi che l’annullamento con rinvio sia stato anche, forse soprattutto, una soluzione escogitata per rimandare il processo al Tar con il vincolo a un più stringente effetto conformativo, un sindacato più penetrante sulla discrezionalità amministrativa, a garanzia della stessa impugnabilità dei decreti di scioglimento. Nullità della sentenza e regressione del giudizio servirebbero, allora, non tanto a ripristinare l’integrità del doppio grado dinanzi a un vizio del procedimento giurisdizionale, quando a provocare una valutazione giudiziaria più oculata degli apprezzamenti svolti dall’amministrazione resistente (nel caso di specie: gli indizi di contiguità mafiosa dell’ente locale e dei suoi amministratori).
Va detto che la sentenza in esame ha il merito di un atteggiamento più spregiudicato verso l’amplissima discrezionalità dei provvedimenti di scioglimento per infiltrazioni mafiose. Tanto che il Consiglio di Stato dà l’impressione di rifarsi all’interpretazione più rigorosa e costituzionalmente conforme dell’art. 143 del TUEL.
La pronuncia annullata, come tante altre, seguiva un indirizzo giurisprudenziale oramai consuetudinario, al punto che, se non si conoscesse la sentenza di appello, sarebbe assai difficile imputare al Tar Lazio un qualche margine di errore.
È prassi consolidata che il giudice amministrativo, nel respingere i ricorsi avverso i decreti di scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose, metta davanti a tutto la natura ampiamente discrezionale dell’atto impugnato e neghi la necessità di confutare “una per una” le circostanze fattuali contestate dai ricorrenti, sul presupposto che la ricostruzione della dinamica infiltrativa operata dall’amministrazione statale vada giudicata nel suo complesso e non “atomisticamente”[17].
A rafforzare tale indirizzo ha contribuito, con ogni probabilità, la modifica intervenuta con la legge n. 94/2009, che ha introdotto nel testo dell’art. 143 TUEL (comma 11), una nuova misura di prevenzione, cosiddetta “interdittiva elettorale”: l’incandidabilità per due turni, dichiarata dal tribunale civile ad esito di giudizio camerale che si svolge, su istanza del Ministero dell’interno, contro gli amministratori locali ritenuti responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento.
L’esistenza di un giudizio civile sulla responsabilità dei singoli amministratori offre un nuovo quadro di accertamento dell’imputazione soggettiva dell’infiltrazione mafiosa, sia pure con riguardo a comportamenti non necessariamente rilevanti a fini penali e, anzi, neppure isolatamente considerati o parcellizzati. Vale anche per il giudizio d’interdittiva elettorale la massima per cui, trattandosi di misure di prevenzione, la valutazione indiziaria a carico della persona non deve essere “atomistica”[18], nel senso che i fatti rilevanti per la dichiarazione di incandidabilità degli amministratori locali prescindono dal coinvolgimento in processi penali e possono quindi essere considerati nel loro complesso, secondo la regola del “più probabile che non”.
Il procedimento d’incandidabilità implica un più ampio potere di rivalutazione dei fatti da parte del giudice civile, che, come ha chiarito la Cassazione, non è vincolato dagli accertamenti eseguiti dall’amministrazione e tanto meno dalle conclusioni alle quali essa è pervenuta; può qualificare autonomamente le condotte (attive od omissive) degli amministratori al fine di giudicare sulla loro responsabilità[19].
Ciò peraltro non sottrae al giudice amministrativo, davanti al quale sia stato proposto il ricorso contro l’atto di scioglimento del consiglio comunale, la potestà di apprezzamento della contiguità mafiosa delle persone coinvolte: l’atteggiamento dei singoli, nonostante la devoluzione al giudice civile del suo accertamento ai fini dell’incandidabilità, resta elemento essenziale anche del controllo sull’organo[20]. Ai sensi del comma 1 dell’art. 143, il consiglio comunale può essere sciolto in presenza di due requisiti: il primo – preliminare – è la sussistenza di elementi “concreti, univoci e rilevanti” su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata degli amministratori di cui all’articolo 77 comma 2 o su forme di condizionamento degli stessi; il secondo – conseguenziale – è che gli indizi di collegamento o condizionamento mafioso, rilevati a carico degli amministratori dell’ente, siano “tali da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati”.
Il giudizio sul contegno dei singoli, ossia l’origine dell’infiltrazione mafiosa, non può quindi ritenersi “assorbito” dalla valutazione di malfunzionamento dell’ente, che ne rappresenta solo il contraccolpo organizzativo. Le due situazioni sono collegate da un nesso di causa-effetto, ma proprio per questo rappresentano passaggi autonomi e distinti della decisione sullo scioglimento del consiglio, che deve valutarli entrambi: le situazioni di collegamento o condizionamento degli amministratori, in cui trova spazio la specificità ordinamentale della mafia[21], e la compromissione funzionale dell’organizzazione, che, nonostante sia provocata dalla presenza della criminalità, rimane di per sé costituita da semplice cattivo andamento politico-amministrativo, il quale si può verificare anche in enti locali non interessati da fenomeni di contiguità mafiosa degli amministratori (i Comuni in stato di dissesto, per esempio).
Non di rado invece le sentenze dei giudici amministrativi tollerano una visione attenuata o addirittura capovolta di tale ordine logico, sganciando lo scioglimento del Consiglio da una prospettiva di stretta causalità e configurandolo come un controllo di tipo oggettivo, i cui parametri sono il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione locale; mentre la contiguità mafiosa dei singoli viene declassata a conseguenza, spesso immotivata, di una diffusa malamministrazione. In tale prospettiva, l’idea che il giudizio infiltrativo non possa essere “atomistico” viene a significare alcunché di diverso dalla non necessaria rilevanza penale del fatto; diventa un modo di spiegare che lo scioglimento deve spingersi a valutare ciascun elemento indiziario nella sua connessione con gli altri, come se nessuno fosse decisivo, ma tutti, nell’insieme, si reggessero vicendevolmente, l’uno rappresentando la “stampella” dell’altro.
Assumono allora rilievo, ai fini dello scioglimento del Consiglio, situazioni non traducibili in episodici addebiti individuali, che, prese per loro stesse, sarebbero insufficienti per l’applicazione di misure di prevenzione personali[22].
Così argomentando, però, la giurisprudenza amministrativa si allontana dalle coordinate interpretative della Corte costituzionale[23], che ha sempre annesso allo scioglimento la natura di sanzione (e non di misura di prevenzione) diretta a colpire “l’organo collegiale considerato nel suo complesso, in ragione della sua inidoneità a gestire la cosa pubblica”. Muovendo da tale premessa, la Corte ha sottolineato che la norma implica una “stringente consequenzialità” tra due fattori: le situazioni di collegamento o condizionamento mafioso, da un lato, e l’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi o la compromissione del buon andamento o dell’imparzialità dell’amministrazione locale, dall’altro. E ne ha concluso – dal punto di vista che a noi interessa – che il rispetto della garanzia costituzionale del diritto di difesa (art. 113 Cost.) è assicurata proprio dal controllo del giudice amministrativo sulla “consistenza fattuale” degli elementi addotti a giustificazione dello scioglimento (sentenza n. 103/1993), fino ad ammettere che lo scioglimento per mafia “evoca chiaramente una fattispecie penale ben specifica: il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis cod. pen.” (sentenza n. 195/2019).
L’ampia discrezionalità che caratterizza il potere di scioglimento non viene meno; ma si localizza soprattutto nel secondo momento di cui si è detto: quello in cui lo Stato valuta gli effetti, pregiudizievoli per l’ente locale, delle situazioni di collegamento e condizionamento acclarate a carico dei singoli amministratori locali.
Differente è la natura del potere amministrativo quando si tratta di stabilire l’origine delle infiltrazioni, ovverosia il rapporto di contiguità, compiacente o soggiacente, tra le condotte degli amministratori e il mondo della criminalità organizzata; momento in cui, per la Corte costituzionale, va messa al primo posto l’esigenza che le ragioni dello scioglimento trovino riscontro “con riferimento a risultanze obbiettive circa l’effettiva sussistenza di quelle situazioni” (sentenza n. 103/1993)[24].
Il principio del controllo giudiziario “non atomistico”, sul quale, nel caso qui esaminato, aveva fatto perno la sentenza di primo grado, tende a confondere questi due piani del discorso ed è pertanto ragguardevole che il Consiglio di Stato lo abbia colto, ancorando il sindacato del giudice amministrativo a un “minimo costituzionale”, coincidente con il confronto tra la ricostruzione dei fatti basata sull’attività informativa degli organi statali e le contrarie allegazioni del ricorrente[25].
Rimane tuttavia il dubbio – se questo era ciò che il Consiglio di Stato voleva garantire (una valutazione più mirata dei comportamenti che avevano dato causa allo scioglimento) – che la correzione di cui il Tar sarà capace, nel giudizio di rinvio, valga la pena di un nuovo processo di primo grado. Senza dubbio una motivazione che non si limiti a uno scrutinio di ragionevolezza del provvedimento e si spinga fino a confutare le difese dei ricorrenti è più giusta: su questo la sentenza in esame è assolutamente da condividere. Ma difficilmente il giudizio sull’eccesso di potere, pur così riorganizzato, potrà andare oltre i limiti di un sindacato estrinseco sulle ragioni che hanno portato il governo allo scioglimento del consiglio comunale. Il Tar Lazio potrà prendere posizione sulle argomentazioni dei ricorrenti; sempre, però, nel quadro di un giudizio su valutazioni riservate all’amministrazione (stabilire se esistono indizi concreti, univoci e rilevanti di collegamento o condizionamento mafioso).
Forse allora tanto sarebbe valso non impedire all’appello di svolgere la propria funzione rinnovatoria e rinunciare a un’interpretazione così ampia dell’art. 105 c.p.a.. La quale rischia, tra l’altro, di estendersi a tutti i giudizi su provvedimenti discrezionali, trasformando l’annullamento con rinvio in un rimedio operante ogniqualvolta il giudice di primo grado non abbia portato il proprio sindacato al “minimo” sufficiente.
* Nell’ambito di una riflessione comune, i paragrafi 1 e 5 sono di Marco Magri e i paragrafi 2, 3 e 4 sono di Enrico Zampetti.
[1] Tar Lazio, Roma, sez. I, 17 aprile 2023 n. 6586,
[2] Limite che la giurisprudenza amministrativa riconosce a sé stessa oramai tradizionalmente, come sottolinea senza eccezioni (ma non senza voci critiche) la dottrina. Si vedano al riguardo, per stare solo agli scritti più recenti, F. Manganaro, R. Parisi, Note sullo scioglimento dei consigli degli enti locali per infiltrazioni mafiose, in Dir. econ., 2023, pp. 251 ss., 265; R. Rolli, Dura lex, sed lex. Scioglimento dei Consigli comunali per infiltrazioni mafiose, interdittive prefettizie antimafia e controllo giudiziario, in Ist. Fed., 2023, pp. 15 ss., 23.
[3] Cons. St., ad. plen., 30 luglio 2018, n. 10; Id., 30 luglio 2018 n. 11.
[4] E. Zampetti, Lesione del diritto di difesa e principio del doppio grado nel processo amministrativo. Studio sugli editi del giudizio di appello, Napoli, 2020, p. 180.
[5] Sulla disciplina della rimessione recata nell’articolo 105 c.p.a., senza pretesa di completezza, D. Corletto, commento all’articolo 105 c.p.a., in Il processo amministrativo, a cura di A. Quaranta - V. Lopilato, Milano, 2011, 810 ss.; F.P. Luiso, Le impugnazioni, in Il codice del processo amministrativo, a cura di R.Villata – B. Sassani, Torino, 2012, 1207 ss.; R. De Nictolis - M. Nunziata, commento all’articolo 105 c.p.a. in Codice della giustizia amministrativa, a cura di G. Morbidelli, cit., 965 ss.; C.E. Gallo, Omessa pronuncia e annullamento con rinvio da parte del giudice di appello nel processo amministrativo, in Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo, a cura di F. Francario e M.A. Sandulli, Napoli, 2019, 81 ss.; M. Trimarchi, Omessa pronuncia in primo grado regime dell’appello (sull’alternativa tra ritenzione della causa e annullamento con rinvio), in Dir. proc. amm., 2/2020, 341 ss.; E. Zampetti, L’appello, in Il giudizio amministrativo. Principi e regole, a cura di M.A. Sandulli, Napoli, 2024, 608 ss.; Id., Lesione del diritto di difesa e principio del doppio grado nel processo amministrativo, cit.; Id., Riflessioni a margine delle decisioni dell’Adunanza Plenaria nn. 10.11 e 15 del 2018 in tema di annullamento con rinvio, in Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo, a cura di F. Francario e M.A. Sandulli, cit., 427 ss.; G. Tropea, art. 105, in Commentario breve al codice del processo amministrativo, a cura di G. Falcon, F. Cortese, B. Marchetti, Padova, 2021, 820 ss.
[6] Come noto, l’articolo 354 c.p.c. prevede che “il giudice d'appello, se dichiara la nullità della notificazione dell'atto introduttivo, riconosce che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte, oppure dichiara la nullità della sentenza di primo grado a norma dell'articolo 161 secondo comma, pronuncia sentenza con cui rimette la causa al primo giudice”; a sua volta, l’articolo 161, co. 2, stabilisce che la regola generale, secondo cui la nullità della sentenza deve essere fatta valere nei limiti e secondo le regole dei mezzi d’impugnazione (appello e ricorso in cassazione), non si applica alle ipotesi in cui “la sentenza manca della sottoscrizione del giudice”; per approfondimenti in tema, B. Gambineri, Appello, in Commentario al Codice di Procedura civile, a cura di S. Chiarloni, Bologna, 2018, 768 ss.; C. Besso, art. 161, in C. Besso – M. Lupano, Atti processuali, Bologna, 2016, 798 ss.
[7] A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2019, 339, evidenzia che l’espressione “nullità della sentenza” è utilizzata “in modo palesemente improprio, perché qualsiasi vizio processuale nel giudizio di primo grado determina tecnicamente la nullità della sentenza, mentre la rimessione al giudice di primo grado va disposta solo in casi particolari”.
[8] Sulla motivazione della sentenza del giudice amministrativo, G. Strazza, La motivazione della sentenza amministrativa, in Il giudizio amministrativo. Principi e regole, a cura di M.A. Sandulli, Napoli, 2024, 533 ss.
[9] Cons. St., ad. pl., nn. 10 e 11 del 2018, cit.; cfr. anche Cons. St., ad.pl., 5 settembre 2018 n. 14; Id., 28 settembre 2018 n. 15.
[10] Cons. St., ad. pl., nn. 10 e 11 del 2018
[11] Così, sempre Cons. St., ad. pl., nn. 10 e 11 del 2018, cit.
[12] Cons. St., ad. pl. nn. 10 e 11 del 2018, cit.; Cons.St., ad. pl., n. 14 del 2018, cit., evidenzia che, ai fini dell’integrazione di un’ipotesi di nullità della sentenza, il difetto assoluto di motivazione deve essere apprezzato “con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso” e non “in maniera parcellizzata o frammentata, facendo riferimento ai singoli motivi o alle singole domande formulate all’interno di esso”.
[13] Merita ribadire che “il carattere sostitutivo dell'appello consente sempre al giudice di secondo grado di correggere, integrare e completare la motivazione carente, contraddittoria o insufficiente e di pronunciarsi sul merito della causa” (Cons. St., ad. pl., n. 10/2018, cit.); sulla tassonomia dei vizi della motivazione della sentenza, G. Strazza, La motivazione della sentenza amministrativa, cit., 544 ss.
[14] Le stesse considerazioni dovrebbero valere anche per i casi di erronea declaratoria di irricevibilità, inammissibilità e improcedibilità del ricorso in cui, a causa di un errore del giudice, la sentenza si arresta ad un profilo di rito senza decidere nel merito la controversia. Anche in queste ipotesi, secondo la prospettiva indicata, l’errore del giudice verrebbe ad integrare una lesione del diritto di difesa, ossia un’ipotesi che l’articolo 105 c.p.a. annovera testualmente tra le cause di rimessione al primo giudice. Tuttavia, come noto, questa soluzione non è condivisa dal prevalente orientamento giurisprudenziale, fermo nell’escludere che l’errore in rito del primo giudice determini una violazione del diritto di difesa rilevante ai sensi dell’articolo 105 c.p.a., dovendosi piuttosto inquadrare in un ordinario error in iudicando che, come tale, non comporta l’annullamento con rinvio (Cons. ad. pl., nn. 10 e 11 del 2018, cit.). Va segnalato che, con una recentissima decisione, il Cons. St., sez. VII, 19 febbraio 2024, n. 1653, ha riesaminato la questione alla luce dell’altrettanto recente orientamento espresso dalle Corte di cassazione, sez. un., 23 novembre 2023, n. 32559 (v. anche Cass., sez. un., 9 gennaio 2024, n. 786), secondo il quale integrerebbe una questione di giurisdizione, sindacabile con il ricorso ai sensi dell’articolo 111, co.8 Cost, “la decisione con cui il giudice amministrativo esclude la sussistenza di una posizione giuridica attiva che consente di agire in giudizio”. Come rilevato dal Consiglio di Stato, questo nuovo orientamento della Cassazione potrebbe avere degli effetti anche sulla disciplina di cui all’articolo 105 c.p.a., in quanto se, in linea con quanto affermato dalla Cassazione, la rilevata insussistenza della legittimazione ad agire viene ad integrare un diniego di giurisdizione, coerentemente l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione dovrebbe considerarsi alla stregua di un erroneo diniego di giurisdizione rilevante agli effetti della rimessione della causa al primo giudice. Senonchè, il Consiglio di Stato ritiene di non condividere il nuovo orientamento della Cassazione e ribadisce, pertanto, che “l’errata declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione attiva, così come l’errata estromissione dal giudizio di una parte intervenuta, non rientrano nell’ambito delle questioni di giurisdizione di cui all’articolo 105”, pur evidenziando “le persistenti criticità dell’attuale assetto della disciplina che, secondo un’opinione talvolta prospettata in dottrina, non consentirebbero il pieno e completo sviluppo del principio del doppio grado”. Va, tuttavia, sottolineato che la decisione del Consiglio di Stato riesamina la questione solo dal punto di vista del diniego di giurisdizione, ma non anche nella diversa prospettiva qui indicata, secondo cui l’erronea declaratoria d’inammissibilità, irricevibilità e improcedibilità del ricorso integrerebbe una lesione del diritto di difesa rilevante ai sensi dell’articolo 105 c.p.a. (E. Zampetti, Lesione del diritto di difesa e principio del doppio grado nel processo amministrativo, cit., 183 ss.).
[15] In dottrina, M. Trimarchi, Omessa pronuncia in primo grado e regime dell’appello (sull’alternativa tra ritenzione della causa e annullamento con rinvio), cit., 385, ritiene che l’omissione di pronuncia “su una porzione della domanda o su una o più domande proposte cumulativamente (…) comporta la nullità della sentenza” e che, pertanto, si potrebbe configurare l’ipotesi di rimessione della causa al primo giudice prevista dall’articolo 105 c.p.a.
[16] In questi termini, E. Zampetti, Lesione del diritto di difesa e principio del doppio grado nel processo amministrativo, cit., 194.
[17] Tra le tante, Cons. St., sez. III, 18 luglio 2023, n. 7049; 15 dicembre 2021, n. 8362; 22 settembre 2020, n. 5548. Per più ampia trattazione del tema, anche con riferimento alla giurisprudenza, R. Rolli, Il comune degli altri. Lo scioglimento degli organi di governo degli enti locali per infiltrazioni mafiose, Roma, Aracne, 2013; F. Manganaro, R. Parisi, Note sullo scioglimento dei consigli degli enti locali per infiltrazioni mafiose, cit.; M. Magri, Il commissariamento degli enti locali per infiltrazioni o condizionamenti della criminalità organizzata, in F. Astone, F. Manganaro. R. Rolli, F. Saitta (a cura di) Legalità ed efficienza nell’amministrazione commissariata, Napoli, E.S.I., 2020, pp. 131 ss.
[18] Cass. civ., sez. I, 12 aprile 2024, n. 9928; sez. I, 2 novembre 2023, n. 30428; sez. I, 21 ottobre 2022, n. 31214;
[19] Cass. civ., sez. I, 13 novembre 2023, n. 31550, dove si precisa che “l’accertamento della incandidabilità degli amministratori attiene alle condotte che hanno dato causa allo scioglimento dell'organo consiliare, non alla valutazione del provvedimento amministrativo di scioglimento dell'organo, che quelle hanno pure generato” e che “la valutazione della legittimità del provvedimento Presidenziale fuoriesce dal thema decidendum, costituendo l’atto un mero presupposto dell'indagine, svolta in sede amministrativa, che ha ad oggetto, invero, la responsabilità degli amministratori dell'ente locale con riferimento alle loro condotte (omissive o commissive) che hanno dato causa allo scioglimento dell'organo consiliare o ne siano state una concausa (Cass. n. 3024/2019)”.
[20] Tra l’altro, è un’anomalia che questo dualismo comporti convinzioni opposte di giudici civili e amministrativi sulla situazione di contiguità mafiosa, partendo dai medesimi elementi di fatto (F.G. Scoca, Organi elettivi sciolti per condizionamento mafioso: stessi fatti, diverse valutazioni giudiziali, in Giustamm., n. 9/2019); non manca peraltro chi, ricostruendo la storia della disposizione oggi tradotta nell’art. 143 TUEL, arriva a mettere in dubbio la razionalità dell’istituto dell’incandidabilità in quanto tale (M. Magri,Osservazioni critiche sulla incandidabilità degli amministratori locali a seguito di scioglimento del consiglio per infiltrazioni mafiose, in federalismi.it, 7 aprile 2021).
[21] Sull’uso giudiziario dell’equazione tra mafia e ordinamento giuridico, G. Fiandaca, La mafia come ordinamento giuridico. Utilità e limiti di un paradigma, in Foro it., 1992, V, pp. 22 ss.
[22] Tipico l’esempio dei vincoli di parentela o di affinità, dei rapporti di amicizia o di affari, delle frequentazioni, della continuità amministrativa tra tornate elettorali, ecc. In giurisprudenza, le tante affermazioni del principio citato nel testo, TAR Lazio, Roma, sez. I, 5 marzo 2024, n. 4419); tra le tante altre, sez. I, 22 giugno 2023, n. 10570; Cons. St., sez. III, 12 marzo 2020, n. 1764; sez. III, 11 ottobre 2019, n. 6918; sez. III, 19 febbraio 2019, n. 1165.
[23] Come rileva anche A. Crismani, L’influenza della criminalità organizzata sul libero esercizio dell’azione amministrativa degli enti locali, in federalsimi.it, 2 aprile 2014, p. 17.
[24] Non a torto, osserva F.G. Scoca, Scioglimento di organi elettivi per condizionamento della criminalità organizzata, in Giur. it., 2016, pp. 1722 ss., che in questo caso a rigore non dovrebbe neppure parlarsi di discrezionalità amministrativa: “l’esercizio del potere prende avvio dall’accertamento di elementi di fatto. In questa prima operazione non è ipotizzabile alcuna valutazione discrezionale, ossia valutazione di interessi (pubblici); tanto più che i fatti devono essere concreti, univoci e rilevanti. Si tratta semplicemente di accertarli” (p. 1725).
[25] Per la garanzia di questo “minimo costituzionale” nel giudizio civile di incandidabilità degli amministratori locali, cfr. Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2024, n. 6200 (con esisti diversi da quelli della decisione in commento).
Questo contributo costituisce il secondo di una serie di approfondimenti sul "d.d.l. Nordio" di questa Rivista. Si veda D.d.l. Nordio in materia di intercettazioni: l'ennesima ombra gettata sull'operato del pubblico ministero (e l'ennesimo passo verso la separazione delle carriere) di Andrea Apollonio.
D.d.l. Nordio: l’interrogatorio prima della misura cautelare e l’elefante nella stanza [1]
di Costantino De Robbio
Sommario: 1. La riforma preannunciata sui media… e il disegno di legge. 2. Custodia in carcere e arresti domiciliari: le due misure cautelari più afflittive separano i loro destini. 3. Verso un nuovo assetto del bilanciamento tra interesse pubblico e diritti del singolo nella valutazione delle esigenze cautelari. 4. Ancora un bilanciamento di interessi: la misura cautelare tra necessità di azione tempestiva e diritto al contraddittorio. 5. Il dilemma tra efficacia dell’azione e responsabilità per gli errori: uno sguardo all’esterno. 6. La gerarchizzazione delle esigenze cautelari…. e l’elefante nella stanza.
1. La riforma preannunciata sui media… e il disegno di legge.
Poco più di un anno fa il Ministro della Giustizia ed alcuni esponenti del Governo attualmente in carica rilasciavano alcune dichiarazioni ai media preannunciando l’ennesima riforma del codice penale e del codice di procedura penale.
Tra le modifiche sommariamente illustrate, due riguardavano il delicato settore delle misure cautelari personali:
Si trattava di novità così allarmanti e dirompenti rispetto al sistema processuale vigente da provocare molteplici e diffuse riflessioni critiche “in prevenzione”[2].
Poche settimane dopo il progetto preannunciato sui media dagli esponenti del Governo si è tradotto nella presentazione del disegno di legge numero 808, che giunge in questi giorni, a tappe forzate, alla votazione alla Camera dei Deputati.
Rispetto alle previsioni iniziali, il provvedimento in discussione contiene alcune precisazioni, che non diminuiscono le perplessità e l’allarme[3] ma impongono una nuova riflessione.
2. Custodia in carcere e arresti domiciliari: le due misure cautelari più afflittive separano i loro destini.
Nelle prime interviste il Ministro della Giustizia e gli altri esponenti del Governo avevano proclamato l’intenzione di introdurre un generale obbligo di interrogatorio prima dell’emissione delle ordinanze cautelari personali.
Il disegno di legge effettivamente presentato contiene invece due importanti limitazioni, poiché circoscrive l’ambito di applicazione dell’interrogatorio preventivo:
La limitazione della previsione dell’interrogatorio preventivo ai casi di massima compressione della limitazione della libertà personale (custodia in carcere) non può che essere salutata con favore, quantomeno perché riduce significativamente l’impatto quantitativo di un intervento legislativo che suscita profonda perplessità, per le ragioni che qui si proveranno ad esporre.
Questo risultato viene ottenuto però “a caro prezzo”, perché il legislatore pone in discussione, forse inavvertitamente, uno dei cardini storici del sistema della cautela, costituito dalla equiparazione della misura cautelare degli arresti domiciliari a quella inframuraria.
Tale equiparazione, va ricordato, nasce dall’esigenza di riconoscere massima afflittività alla misura degli arresti domiciliari (conteggiando ad esempio il periodo trascorso tra le mura domestiche a quello in carcere ai fini del pre-sofferto), in ossequio ad una visione garantista che tende a limitare al massimo l’applicazione delle misure cautelari custodiali (carcere e domiciliari) e in tempi recenti è servito anche per fornire una copertura giuridica alla necessità di deflazionare le case circondariali da sempre sollecitate oltre la capienza: allorquando la Corte EDU ha “bacchettato” l’Italia per l’eccessivo sovraffollamento delle strutture carceraria, si è intervenuti implementando l’utilizzo alternativo degli arresti domiciliari, sul presupposto che si trattasse di due misure cautelari parimenti afflittive e quindi sostanzialmente equiparabili.
La nuova previsione, che prevede che l’indagato debba essere ascoltato prima della sola applicazione della custodia in carcere come se l’applicazione degli arresti domiciliari improvvisamente non avesse (più) la medesima afflittività, potrebbe costituire un pericoloso passo indietro in questo senso, poiché sembra frutto del ritorno ad una concezione che vede la custodia in carcere come misura indirettamente più efficace in quanto più oppressiva per chi la subisce.
3. Verso un nuovo assetto del bilanciamento tra interesse pubblico e diritti del singolo nella valutazione delle esigenze cautelari.
Perplessità (ancora) maggiori desta la differenziazione operata tra le diverse esigenze cautelari previste dall’articolo 274 del nostro codice di rito, che porterà ad un’implicita gerarchizzazione tra tipologie di misure cautelari aventi analogo contenuto di cui è difficile scorgere la rispondenza al nostro sistema.
Secondo il disegno di legge in commento si potrà continuare ad applicare inaudita altera parte la misura custodiale massima, rinviando l’interrogatorio alla fase successiva all’esecuzione, nel caso in cui la misura sia applicata per il pericolo di inquinamento delle prove (art. 274 lettera a) o per il pericolo di fuga (art. 274 lettera b), mentre l’indagato dovrà essere interrogato prima della valutazione della richiesta del Pubblico Ministero se il pericolo paventato è quello di reiterazione di delitti della stessa specie di quelli per cui si procede (art. 274 lettera c).
Qual è la ragione di questa inedita differenziazione del procedimento esecutivo delle misure cautelari personali?
La ratio dell’interrogatorio preventivo è (o dovrebbe essere) quella di non procedere alla limitazione della libertà personale dell’indagato in modo azzardato, risultato che si ritiene di poter raggiungere attribuendo al soggetto passivo dell’ordinanza la facoltà di fornire al giudice la propria versione dei fatti prima di essere esposto al danno di essere ristretto in carcere.
In merito, occorre sgombrare il campo da un retropensiero pernicioso: nessuno può seriamente affermare che, in linea generale ed astratta e fatte salve le dolorose eccezioni presenti in ogni categoria o professione, i giudici delle indagini preliminari non abbiano ben presente l’afflittività delle misure cautelari che redigono e sottoscrivono.
Incidere sulla libertà degli altri è un lavoro tutt’altro che piacevole o agevole, e si procede in tal senso all’esito di un ponderato e sofferto bilanciamento tra due interessi fondamentali: da un lato i diritti individuali dell’indagato, dall’altro i rischi per la collettività e la sicurezza sociale.
Solo quando risultano a giudizio del magistrato prevalenti i secondi, secondo i criteri dettati dalla legge, si ricorre ad una misura “a cautela” della collettività e a detrimento del singolo, a carico del quale devono peraltro essere stati individuati gravi indizi di colpevolezza in ordine a uno o più reati di sensibile allarme sociale.
Spiace dover precisare questi concetti, che non si dubita siano ben presenti in ogni collettività che affida la Giustizia allo Stato e non alla vendetta individuale e che a maggior ragione si ritiene siano patrimonio di tecnici del diritto quali devono essere considerati i rappresentanti del potere legislativo.
Tuttavia, l’esame della riforma in discussione sembra partire dal presupposto che la valutazione dei giudici sul predetto bilanciamento degli interessi sia attualmente viziata dalla mancata audizione delle ragioni dell’indagato.
È evidente che l’unica ragione della necessità di ricorrere alla sua voce (peraltro, naturalmente, tutt’altro che imparziale) sia da cercare nella solita ed onnipresente sfiducia nel ruolo del Pubblico Ministero, ritenuto non (più) in grado di offrire al giudice un quadro imparziale ed esaustivo così come previsto dall’impianto codicistico.
La riforma, a ben vedere, ha un senso solo se si immagina un pubblico ministero confinato nel ruolo di accusatore a tutti i costi e ormai incapace di onorare il ruolo di magistrato che dirige le indagini nella indifferenza dei suoi esiti come indicato dal codice di procedura penale: l’asserito venir meno del ruolo di interprete imparziale del suo ruolo è all’origine dell’esasperazione dell’anticipazione del contraddittorio prevista.
In buona sostanza, la parzialità della prospettazione del magistrato inquirente abbisognerebbe di un contrappeso che si individua nel diritto di interlocuzione anticipata dell’indagato, prima che il giudice – a sua volta, evidentemente, incapace di formarsi un giudizio non condizionato - arrechi un danno irreparabile procedendo alla privazione della libertà personale dell’indagato.
Entrambi i presupposti su cui poggia questa costruzione sono però indimostrati e smentiti dai fatti, che attestano come sia la perdita generalizzata della tenuta istituzionale della figura del Pubblico Ministero che l’appiattimento incondizionato del ruolo del GIP a quello del PM siano più spauracchi che realtà.
Del resto, si tratta di postulati indimostrabili: inutile invocare l’alta percentuale di accoglimento delle richieste del PM da parte dei GIP per dimostrare il potere di condizionamento dei primi sui secondi, perché questa percentuale può essere utilizzata anche a contrario, per dimostrare l’alta professionalità dei magistrati inquirenti (proprio il contrario dell’assunto di partenza del disegno di legge).
E del resto, nei casi in cui i giudici hanno mostrato sul campo di non essere condizionati dalle richieste dei Pubblici Ministeri non solo nessuno si è tranquillizzato, ma si è registrato curiosamente l’effetto opposto: in un recente caso di imputazione coatta, celebre perché riguardante un esponente del Governo, gli stessi che hanno esposto il disegno di legge in esame si sono affrettati a preannunciare … l’abolizione dell’istituto dell’imputazione coatta.
È dunque problematico scorgere linee di coerenza nella tumultuosa opera di riforma in atto, sicché non bisogna forse sorprendersi se la ratio invocata – sottrarre i GIP all’influenza nefasta di pubblici ministeri imparziali dando voce all’indagato – non convinca del tutto.
4. Ancora un bilanciamento di interessi: la misura cautelare tra necessità di azione tempestiva e diritto al contraddittorio.
Quanto detto non comporta ovviamente che il sistema attuale sia a prova di errore; gli errori ci sono e in questo settore – coinvolgendo un bene primario come la libertà personale – hanno un costo enorme e dolorosissimo.
Conseguentemente, l’intento di limitarli è assolutamente giusto e condivisibile.
È necessario però non dimenticare l’altro interesse in gioco, costituito come detto dalla necessità di tutela della collettività e chiedersi in che misura questo interesse viene sacrificato e se il bilanciamento dei due interessi ne risulti ancora equilibrato.
La riforma, giova ricordarlo, non introduce un obbligo nuovo, ma ne anticipa uno esistente.
L’interrogatorio del soggetto attinto da misura cautelare è infatti già previsto dall’articolo 294 del codice di procedura penale ed è il primo, doveroso adempimento, cui il giudice è tenuto dopo l’emissione dell’ordinanza applicativa della misura stessa, peraltro in termini strettissimi, pena l’inefficacia della misura emessa.
È però stato immaginato – finora - come adempimento differito rispetto alla restrizione della libertà dell’indagato per un motivo evidente: evitare che la misura cautelare sia del tutto inefficace o ridotta ad un mero simulacro, togliendo alla stessa i caratteri di tempestività e segretezza che le sono connaturali.
La misura cautelare è strumento connotato ontologicamente dal carattere di urgenza, essendo stato pensato quale intervento di reazione al pericolo di un accadimento irreparabile che interviene, vanificandolo, nelle more del processo penale (periculum in mora).
Facciamo un passo indietro: la privazione della libertà personale disposta dall’autorità giudiziaria è normalmente effetto dell’affermazione della responsabilità per un reato, e presuppone l’accertamento incontrovertibile della violazione di un precetto penale e l’attribuibilità di tale violazione all’imputato da parte del giudice competente (condanna passata in giudicato).
Incidere sopprimendolo, sia pur temporalmente, sul più sacro dei diritti costituzionali o anche semplicemente comprimere tale diritto, in assenza della certezza processuale di avere di fronte il colpevole del reato sembra dunque un controsenso.
Tuttavia, è altrettanto vero che la proclamazione della responsabilità penale non può prescindere da un accertamento serio, approfondito e in cui sia garantito il pieno rispetto del contraddittorio.
Questo tipo di processo comporta l’impiego di un notevole lasso di tempo: la formazione della prova richiede la massima attenzione e, nonostante i principi di oralità ed immediatezza che teoricamente informano il nostro sistema processuale penale, un’attenta ponderazione sia nella fase delle indagini che in quella del dibattimento.
Prima ancora della formazione in contraddittorio e della valutazione, le prove devono essere raccolte, ed in un momento ancora anteriore individuate e cercate, in quella fase delicata e importante del processo denominata nel nostro attuale sistema processuale penale “indagini preliminari”: un esito insoddisfacente o incompleto delle stesse porta inevitabilmente all’assoluzione, secondo il principio fondamentale del sistema accusatorio.
È pertanto fondamentale preservare tutta la fase delle indagini, e quella successiva del dibattimento, dal pericolo che le prove siano occultate, nascoste, manipolate, distrutte, distorte: ed è inevitabile e naturale che sia proprio chi ha commesso il reato ad essere interessato ad un accertamento incompleto o distorto.
Sorge dunque la necessità di “proteggere” (cautelare) il procedimento penale dalle aggressioni del suo attore principale: l’indagato/imputato.
È inoltre inevitabile che, man mano che si acquisisca la ragionevole certezza della colpevolezza di taluno, anche se questa certezza non è ancora sacralizzata in una sentenza di condanna definitiva, il fatto stesso che il colpevole continui a circolare libero crea allarme sociale, soprattutto in relazione a determinati reati.
Laddove, in casi siffatti, si raccolgano elementi consistenti sulla persistente attività delinquenziale dello stesso soggetto lo Stato è chiamato ad intervenire, con la massima urgenza possibile, per evitare che il tempo occorrente per lo svolgimento del giusto processo comporti un prezzo eccessivamente alto per la collettività e l’ordine pubblico.
Anche la funzione general-preventiva della pena, oltre che quella strettamente sanzionatoria, è dunque “cautelata” dal nostro sistema processuale; ed è proprio a questo scopo che è dettata la norma della lettera c dell’articolo 274 del nostro codice di rito.
Infine, è intuitivo che l’imputato, man mano che si rende conto che l’accertamento processuale procede verso l’acquisizione di un compendio probatorio pieno ed inoppugnabile e che dovrà dunque essere assoggettato alla privazione della libertà in risposta alla violazione del precetto da lui compiuta, possa considerare la fuga come strumento per sottrarsi alle conseguenze penali della sua azione: per impedire che il tempo di accertamento processuale del responsabilità comporti la frustrazione in concreto dello scopo principale del processo stesso (assoggettare a sanzione il responsabile della violazione del precetto) è dunque possibile, ancora una volta, intervenire in via preventiva impedendo che l’imputato fuggendo si sottragga alle sue responsabilità.
La prima ragione dell’esistenza delle misure cautelari è dunque data dalla necessaria protrazione temporale del momento di accertamento della verità processuale, che comporta l’esistenza di un sensibile periodo in cui taluno, pur sospettato o gravemente indiziato di essere l’autore di un reato, non è ancora formalmente etichettabile come “colpevole”: “se il processo fosse un punto e non una retta non occorrerebbero le misure cautelari” (la citazione è di Giovanni Conso).
Da quanto detto deriva che il requisito più importante per assicurare l’efficacia dell’intervento cautelare è senza dubbio la tempestività: un intervento tardivo rispetto alla verifica della sussistenza delle situazioni di pericolo rischia di essere del tutto vano, e risolversi nella mera anticipazione degli effetti della pena che l’articolo 274 del codice di procedura penale intendeva, come si è visto, scongiurare.
Questo requisito rischia di passare in secondo piano con la riforma in esame.
La totale elisione dell’effetto sorpresa, l’instaurazione del contraddittorio, la ponderazione del materiale raccolto dal richiedente e l’allungamento dei tempi configurano la misura cautelare ipotizzata come una sorta di dibattimento anticipato, dove i pericula in mora hanno perso ogni valore e sbiadiscono sullo sfondo della decisione dell’istituendo collegio, ridotta ad una valutazione quasi del tutto sbilanciata sull’analisi della sussistenza dei gravi indizi.
Di più: appare impossibile emettere un’ordinanza motivata sul periculum in mora, perché l’intervento pensato per scongiurare i suddetti pericula è vanificato dalle regole di azione del giudice della cautela, che è chiamato ad agire, paradossalmente, senza alcuna cautela ma anzi con modalità tale da avvertire l’indagato del pericolo per la sua libertà, effetto contrario a quello proprio delle misure cautelari.
Un esempio, tra i tanti, di applicazione delle nuove ipotizzate regole ai procedimenti che i Pubblici Ministeri gestiscono quotidianamente: nel corso di un’indagine per pedopornografia gli inquirenti individuano alcuni degli utilizzatori degli IP da cui parte e si diffonde quotidianamente materiale illecito e scoprono, attraverso intercettazione dei messaggi, che gli stessi si apprestano a reperire e divulgare ulteriore materiale pedopornografico. Il Pubblico Ministero avanza dunque richiesta di applicazione di misura cautelare motivata – oltre che dai gravi indizi di colpevolezza delle condotte precedenti – dal concreto ed attuale pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie.
Il Collegio dei GIP dovrebbe dunque, secondo le regole della paventata riforma, convocare gli indagati e chiedergli, alla presenza dei difensori, di fornire la loro versione sui delitti di cui sono accusati nonché convincere i giudici della insussistenza del pericolo di reiterazione, dopo essere stati avvertiti che se non saranno convincenti potrebbero essere privati della libertà personale.
È evidente che la tutela delle vittime, della sicurezza, dell’ordine pubblico e tutte le ragioni che sono connaturate all’intervento cautelare (cioè, letteralmente: “a cautela”) scompaiono del tutto in favore del principio di non colpevolezza, trascurando la circostanza che quando si agisce in via di urgenza l’articolo 272 del codice di procedura penale impone già un severo vaglio della sussistenza dei gravi indizi.
La stessa scena può essere immaginata nel caso di una richiesta di misura cautelare per soggetti per i quali emerge dalle indagini un’attività di spaccio di stupefacente in corso: anche in questo caso non si potrebbe intervenire con una misura cautelare prima di avere chiesto agli indagati di fornire la loro versione e convincere il Collegio dei GIP del fatto che il Pubblico Ministero sbaglia a ritenere che l’attività di spaccio in itinere continuerà anche in futuro.
Di fatto, si sta proponendo di abolire le misure cautelari previste dalla lettera c dell’articolo 274 e procedere ad una sorta di incidente probatorio del tutto eccentrico in quanto avente ad oggetto non l’assunzione di una singola prova ma il giudizio di colpevolezza dell’indagato (non ancora imputato); un innesto nel procedimento penale sostanzialmente inutile e al contempo una pericolosa abdicazione del presidio d’urgenza del processo e della sicurezza pubblica.
5. Il dilemma tra efficacia dell’azione e responsabilità per gli errori: uno sguardo all’esterno.
Il tentativo di eliminare o limitare al massimo gli errori nell’applicazione delle misure cautelari attraverso un depotenziamento totale della loro efficacia dunque non convince, perché sacrifica del tutto la protezione degli interessi collettivi a cui sono finalizzate le misure medesime.
Quello del processo penale non è del resto l’unico campo in cui la collettività demanda a qualcuno, in nome degli interessi collettivi, il potere di comprimere (a certe condizioni) diritti individuali fondamentali.
Basti pensare al medico, che ha il potere, anche senza il consenso del paziente (ad esempio in casi di urgenza) di provocare lecitamente lesioni ad un individuo, aggredendone addirittura l’integrità fisica.
Anche in questo campo, naturalmente, si determinano errori; e questi errori hanno conseguenze persino più importanti (e a volte drammatiche) di quelli che possono derivare da una custodia cautelare.
Eppure, è a tutti noto che il legislatore è più volte intervenuto negli ultimi anni per limitare fin quasi ad azzerare la responsabilità penale per gli errori dei medici e degli operatori sanitari, sul presupposto che non si possa consentire alla magistratura di intimorire e condizionare con lo spettro di un processo penale l’operato di un settore così importante.
E senza andare troppo lontano, nello stesso disegno di legge 808 che qui si commenta è contenuta la norma che abroga l’abuso d’ufficio.
Questa abrogazione viene giustificata dalla necessità di liberare gli amministratori pubblici dal “terrore della firma”.
Attenuare (se non azzerare) la responsabilità di chi provoca danni con la sua azione in nome di un superiore interesse pubblico (la salute del paziente, il buon andamento della pubblica amministrazione) è dunque possibile e il legislatore, anche questo legislatore, sembra essere assai propenso a questa scelta per molti settori, persino se coinvolgono interessi ancora più importanti della libertà personale (come la salute o la stessa vita, settori di azione dei medici).
Se ne potrebbe dedurre che la sicurezza e l’ordine pubblico, interessi alla cui tutela è preposta la lettera c dell’articolo 274 del codice di procedura penale, sono interessi ritenuti dall’attuale legislatore sacrificabili.
Ma questa conclusione è smentita da una penalizzazione esasperata che è impossibile non riscontrare nell’attuale legislazione e da altre recenti riforme del settore, tra cui si segnalano quelle che rafforzano i poteri della Polizia Giudiziaria nella applicazione di misure precautelari come arresto e fermo.
E allora torna ad affacciarsi il dubbio che il problema non sia la salvaguardia della libertà personale dell’indagato ma una larvata forma di commissariamento del potere di controllo sulla violazione dei precetti penali che la Costituzione affida alla magistratura.
6. La gerarchizzazione delle esigenze cautelari…. e l’elefante nella stanza.
Un ulteriore elemento di perplessità è costituito dalla gerarchizzazione tra le esigenze cautelari previste dal nostro codice di procedura penale, cui si accennava al termine del primo paragrafo.
Dall’impianto della riforma emerge, come si è visto, che tempestività ed efficacia della misura cautelare non sono più valori meritevoli di tutela, ma solo per alcune delle ipotesi che pure sono previste dall’articolo 274 come talmente “pericolose” da richiedere all’autorità giudiziaria di agire senza attendere l’esito del processo per comprimere la libertà dell’accusato.
Non è agevole comprendere quale sia il motivo per cui sia stata operata questa divisione tra esigenze cautelari, che sembra postulare una differenza tra un intervento cautelare a salvaguardia del processo (lettere a e b), che si connota di urgenza tale da superare l’esigenza di audire l’indagato anticipatamente, e intervento cautelare a salvaguardia della collettività (lettera c).
Il periculum in mora, in pratica, è un po’ meno… “periculum” se il rischio cui la collettività è esposta è che un soggetto gravemente indiziato di un delitto continui a delinquere.
L’importante è che non fugga o non inquini le prove del reato già commesso.
Viene da chiedersi quale sia la coerenza sistematica rispetto a recenti modifiche quali l’arresto in flagranza differita, che sembrano avere indicato la necessità di ricorrere alla privazione della libertà personale in modo massiccio anche a costo di torcere il concetto di flagranza oltre i suoi limiti concettuali.
Non è senza significato che pochi mesi orsono è stato indetto un referendum per l’abrogazione della lettera c dell’articolo 274 del codice di procedura penale.
Pur se la consultazione popolare ha avuto esito negativo per i proponenti, è interessante rilevare che la ragione per cui si è proposta l’abrogazione della norma è stata indicata in un asserito contrasto con il principio di colpevolezza.
Sul punto è sufficiente rilevare che tale contrasto è reiteratamente stato escluso dalla Corte Costituzionale, che ha stabilito che ragioni di prevenzione (esterne al processo) possono essere poste a fondamento delle misure cautelari.
Vale la pena rilevare incidentalmente che la stragrande maggioranza delle misure cautelari nel nostro paese sono adottate proprio con riferimento alla lettera c dell’articolo 274, perché di fatto è evento statisticamente assai più ricorrente che chi si renda responsabile di un reato possa reiterarlo piuttosto che lo stesso soggetto inquini le prove o si dia alla fuga, anche perché il giudizio prognostico nel primo caso è meno arduo da provare rispetto a quello delle altre due.
L’abrogazione di questa norma avrebbe dunque comportato di fatto una riduzione drastica dei casi di applicazione delle misure cautelari e la conseguente perdita di un presidio di sicurezza di fondamentale importanza.
L’introduzione dell’interrogatorio preventivo porterebbe al medesimo risultato, in pratica portando alla rarefazione dell’intervento cautelare da parte dei Pubblici Ministeri in fase di indagine, proprio mentre - per altro verso - si chiede alla Polizia Giudiziaria di arrestare anche senza flagranza.
Forse lo scenario tanto spesso evocato dai critici della separazione delle carriere, che paventano un pubblico ministero depotenziato e ridotto a mero esecutore delle operazioni di polizia, avanza a passi più veloci di quanto si immagini.
Ma c’è un ultimo aspetto da considerare: se il legislatore avesse voluto assegnare al pericolo di reiterazione dei delitti un valore ontologicamente diverso dagli altri due pericula avrebbe semplicemente previsto che, per tutte le richieste basate sulla lettera c dell’articolo 274 c.p.p., si doveva procedere ad interrogatorio preventivo.
Per quanto discutibile, questa soluzione avrebbe mantenuto un profilo di coerenza riconoscibile: la cautela della collettività (protetta dalla lettera c) è meno importante di quella del processo (protette dalle lettere a e b) e dunque deve cedere di fronte ai diritti dell’indagato.
Tuttavia, come si è detto, non è questa la scelta evincibile dal disegno di legge in esame, perché anche nell’ambito delle misure cautelari per il pericolo di reiterazione dei delitti è stata introdotta un’ulteriore distinzione: solo quelle per i reati “meno gravi” richiederanno l’interrogatorio preventivo, mentre per le altre si seguirà la regola tradizionale.
Al di là della discutibilità del criterio seguito, che rinviando all’elenco dell’articolo 407 comma 2 lettera a del codice di procedura penale assegna maggiore o minore gravità ai reati a seconda che siano o meno inserite nella norma pensata per la lunghezza dei termini delle indagini preliminari (che è cosa ben diversa), è evidente che allora anche il discorso cambia completamente.
Non si può dire che la tutela della collettività ceda rispetto agli interessi del singolo, ma che l’interesse del singolo prevale solo per determinati reati che ricadono in una fascia considerata grave (perché consentono l’adozione di una misura cautelare) ma non abbastanza (perché non inseriti nello speciale elenco dell’articolo 407 comma 2 lettera a).
Per questa specifica fascia di reati dovrebbe ipotizzarsi che una reiterazione dei delitti possa essere elisa anticipando l’interrogatorio dell’indagato, come se – anziché privare il soggetto che si rivela gravato da indizi di colpevolezza della libertà personale – bastasse chiamarlo e renderlo edotto della spada di Damocle di una richiesta di misura cautelare per indurlo a cessare dalle condotte illecite, circostanza che risulta difficile immaginare in chi vive abitualmente di delinquenza (come negli esempi fatti del soggetto dedito alla pedopornografia o dello spacciatore) ma che si attaglia bene ai delitti compiuti da non professionisti del crimine come ad esempio i “colletti bianchi”.
E poiché è inverosimile che un giudice si accontenti in tal senso delle mere rassicurazioni dell’indagato di impegnarsi a non reiterare il delitto, questa cessazione dovrebbe essere resa plasticamente da qualche condotta riscontrabile, come può accadere ad esempio per i delitti contro la Pubblica Amministrazione con le dimissioni dalla carica…. Cominciate a vedere anche voi l’elefante nella stanza?
[1] Da Wikipedia: “elefante nella stanza” (in inglese elephant in the room) è un’espressione tipica della lingua inglese per indicare una verità che, per quanto ovvia e appariscente, viene ignorata o minimizzata. L’espressione si riferisce cioè ad un problema noto ma di cui nessuno vuole discutere… questo atteggiamento è tipicamente adottato in presenza di tabu sociali o di situazioni imbarazzanti”.
[2] Costantino De Robbio, Collegialità del giudice della misura cautelare e separazione delle carriere: due tasselli di uno stesso mosaico, in questa Rivista, 19 maggio 2023.
[3] Le voci critiche, pressoché unanimi, non vengono solo dalla magistratura cfr. documenti redatti sul punto dall’ANM – ma altresì dalla dottrina: sul punto cfr. Tra gli altri MARANDOLA, Troppi dubbi sulle garanzie dell’interrogatorio cautelare anticipato, in Sistema Penale, 10 maggio 2024 o BRONZO, Brevi note sul “disegno di legge Nordio”, in Sistema Penale, 12 aprile 2024.
Nell'immagine, l'elefante in una stanza secondo Banksy.
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