Legge vs. clausole di parità UE: obbligatorio rivolgersi alla Consulta?
Clausole di parità di trattamento dotate di efficacia diretta, norma di legge incompatibile, discriminazione collettiva pro futuro: disapplicazione o (obbligo di) rimessione alla Consulta? Nota all’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, 26 ottobre 2024, IV sez. civile del Tribunale di Firenze.
di Davide Strazzari
Sommario: 1. Una breve premessa sui fatti di causa - 2. Alcuni dati di contesto: il giudizio antidiscriminatorio… - 2.1. e il precedente della sentenza n. 15/2024 della Corte Costituzionale - 3. Qualche considerazione critica - 3.1. La disapplicazione della legge: soluzione impraticabile? - 3.2. Le ragioni dell’incompatibilità del requisito di residenza regionale con la clausola di parità di trattamento di cui alla direttiva lungo-soggiornanti - 4. Osservazioni conclusive
1. Una breve premessa sui fatti di causa
Il bando 2022 relativo alla assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica del comune di Arezzo contiene una clausola che, nel definire i criteri per l’attribuzione del punteggio utili per la graduatoria, valorizza la “storicità della presenza” nel comune. A tale scopo individua, come indicatori utili, o la residenza anagrafica continuativa nel territorio comunale o lo svolgimento di attività lavorativa, sempre nel territorio comunale, da almeno tre fino a vent’anni, secondo una logica che valorizza in modo incrementale il collegamento previo coll’ente territoriale.
La clausola è, però, meramente riproduttiva di una disposizione contenuta in una legge regionale. Le ricorrenti – due associazioni iscritte nell’elenco di cui all’art. 5 del d.lgs. 215/2003 – agiscono in giudizio iure proprio per far valere una discriminazione a carattere collettivo, in assenza di “vittime” concretamente escluse da un provvedimento della PA.
Secondo parte attorea, la valorizzazione della previa residenza continuativa e/o dello svolgimento pregresso di attività lavorativa nel territorio comunale determinerebbe una discriminazione indiretta a danno dei cittadini di paesi terzi lungo soggiornanti e di quelli titolari di permesso unico lavoro, incompatibile con gli articoli, rispettivamente, 11 della direttiva 2003/109/CE e 12 della direttiva 2011/98/UE. Queste disposizioni sanciscono un obbligo per gli Stati membri di garantire la parità di trattamento tra i cittadini nazionali e quelli di paesi terzi, titolari del permesso di soggiorno o dello status disciplinato dalle direttive, in una serie di ambiti materiali che includono anche l’accesso alle procedure per l’ottenimento di un alloggio.
Su questa premessa, le ricorrenti chiedono al giudice, adito ex art. 28 d.lgs. 150/2011, di sollevare, in via preliminare, la questione di costituzionalità della disposizione della legge regionale per violazione sia dell’art. 3 Cost. sia dell’art 117, c. 1 Cost., atteso, in relazione a quest’ultimo parametro, il contrasto con gli artt. 11 e 12 delle direttive richiamate, nonché con gli artt. 21 e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Successivamente, anche all’esito del relativo giudizio, chiedono di accertare e dichiarare il carattere discriminatorio della condotta; di ordinare al Comune di Arezzo di modificare il bando ERP, eliminando le clausole censurate; di annullare e riformulare la graduatoria già emessa senza considerare l’applicazione della clausola di “storicità della presenza”; di condannare al risarcimento del danno non patrimoniale in loro favore e di disporre delle astraintes per ogni giorno di ritardo nell’adempimento della decisione.
Il giudice di Firenze, in accoglimento della richiesta delle ricorrenti ed esplicitamente richiamandosi nelle sue argomentazioni alla sentenza n. 15/2024 della Corte costituzionale – di cui riporta ampi stralci -, rimette alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità della disposizione della legge regionale per violazione dell’art. 3 e dell’art. 117, c. 1 Cost., individuando, però, in relazione a quest’ultimo, quale parametro interposto, il solo art. 11 della dir. 2003/109/CE[1].
Questi, in sintesi, i fatti da cui è scaturita l’ordinanza di rimessione del giudice fiorentino. I motivi di interesse di questa risiedono soprattutto nel fatto che con essa si dia applicazione, tra le prime volte, al modello di rimedio delineato dalla Corte costituzionale nella richiamata sentenza n. 15/2024[2]. Una soluzione, quella indicata dalla Corte, che impone al giudice comune la strada della rimessione costituzionale, ogniqualvolta gli venga chiesto, con il giudizio antidiscriminatorio, non già di dare rimedio al singolo leso da un provvedimento individualizzato, ma di rimuovere anche pro futuro la condotta discriminatoria della PA, laddove questa sia conseguenza di atti regolamentari (o, aggiungiamo noi, atti amministrativi generali, come nel caso dell’ordinanza di Firenze) che riproducano, però, una norma primaria. In questi casi, anche laddove il contrasto fosse con una clausola di parità contenuta in una norma di diritto UE dotata di efficacia diretta, il giudice, al fine di ottenere un rimedio per rimuovere definitivamente la discriminazione pro futuro, dovrebbe appunto sollevare la questione alla Corte costituzionale e non potrebbe, invece, operare attraverso la disapplicazione della norma contenuta nella fonte primaria.
2. Alcuni dati di contesto: il giudizio antidiscriminatorio…
Prima di entrare nello specifico della ordinanza, si ritiene opportuno dare preliminarmente alcune indicazioni di contesto vuoi in relazione al diritto antidiscriminatorio, vuoi in relazione alla sentenza 15/2024 della Corte costituzionale.
Sotto il primo profilo, senza alcuna pretesa di esaustività ma al solo intento di illustrare aspetti rilevanti per la migliore comprensione del caso, conviene qui ricordare che il diritto antidiscriminatorio – per lungo tempo limitato al solo ambito lavorativo – ha conosciuto un sensibile incremento rispetto al suo tradizionale ambito materiale di applicazione come conseguenza sia di interventi normativi nazionali sia di obblighi derivanti dal diritto dell’Unione europea[3]. Inoltre, in ragione del carattere strutturalmente “debole” delle vittime di discriminazione, si sono spesso previste soluzioni processuali derogatorie rispetto alle regole comuni che hanno attribuito al giudice rimedi speciali al fine di garantire l’effettività della tutela della vittima.
È l’art. 44 del D.L.vo n. 286/1998, T.U. Immigrazione, a introdurre nell’ordinamento italiano un’azione civile contro la discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi attivabile, secondo il disposto dell’art. 43, c. 1 TUI, ogniqualvolta il comportamento, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica. L’azione si esperisce davanti al g.o. anche laddove la condotta discriminatoria sia determinata non già da un privato, ma da un comportamento della PA.
La misura in questione, introdotta dal legislatore italiano autonomamente, senza ottemperare a obblighi dell’UE, si è andata successivamente integrando con ulteriori apporti, questi sì di matrice dell’UE. Grazie all’approvazione di una nuova base giuridica – l’allora art. 13 TCE, oggi 19 TFUE - l’UE ha, infatti, adottato la direttiva 2000/43/CE che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, nonché la direttiva quadro 2000/78/CE che, in relazione al solo ambito lavorativo, dà tutela in relazione a disabilità, età religione o credo e orientamento sessuale.
La direttiva “razza”, più rilevante ai fini di questo scritto, pur rimettendo ai legislatori nazionali la scelta relativa agli strumenti processuali più adatti per darvi attuazione, stabilisce, tuttavia, alcuni importanti criteri che devono essere tenuti presenti dagli Stati[4].
Il legislatore nazionale ha dato attuazione a questa direttiva con il d.lgs. n. 215 del 2003, prevedendo, sotto il profilo della legittimazione ad agire, un elemento di tutela non previsto effettivamente dalla legislazione europea. Il legislatore italiano ha infatti attribuito agli enti che risultano iscritti nell’apposito albo costituito presso il Ministero non solo la possibilità di agire in giudizio a sostegno o in sostituzione di una persona concretamente lesa dalla discriminazione, ma ha anche attribuito una legittimazione in nome proprio, nei casi almeno di discriminazione collettiva in cui non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione (art. 5, d.lgs. 215/03). È appunto in applicazione di questa disposizione che le ricorrenti si sono rivolte al giudice fiorentino.
È da osservare, però, che la direttiva 2000/43/CE, all’art. 3, par. 2, esclude esplicitamente dal suo campo d’applicazione la nazionalità e la Corte di giustizia si è rifiutata di estendere la protezione rispetto a tale fattore in via interpretativa[5].
Ciononostante, nel diritto dell’UE, la tutela avverso la discriminazione per la nazionalità di cittadini di paesi terzi ha trovato altri canali. Essa, infatti, non si estrinseca attraverso una protezione generalizzata, nei confronti della semplice condizione di straniero, quanto, piuttosto, nella garanzia della parità di trattamento in favore di specifiche categorie di cittadino di paese terzo, individuate e disciplinate da puntuali direttive. Ogni direttiva prevede un diverso ambito materiale cui si applica la parità di trattamento, differenziato a seconda della specifica categoria di straniero presa in considerazione. Inoltre, in occasione del recepimento delle direttive, a ciascuno Stato è lasciata la possibilità di ulteriormente circoscrivere la portata materiale delle clausole di parità, sia pure entro i limiti tratteggiati dalle direttive stesse[6].
Per quanto riguarda il rimedio processuale attivabile per garantire le clausole di parità, le diverse direttive non hanno previsto alcunché, lasciando dunque agli stati piena autonomia quanto alla scelta dei relativi strumenti di protezione, sebbene nel rispetto dei limiti, da tempo sanciti dalla Corte di giustizia, dei principi di equivalenza e effettività[7].
Il legislatore italiano ha dato trasposizione alle diverse direttive e segnatamente, per venire ai fatti di causa, ha adottato in relazione ai lungo soggiornanti il d.lgs. n. 3 dell’8 gennaio 2007 e, circa la direttiva permesso unico lavoro, il d.lgs. 40 del 4 marzo 2014. Esso, però, non ha disciplinato un rimedio giudiziale specifico per quanto riguarda la violazione delle clausole di parità, né ha fatto uso delle possibilità di deroga del campo di applicazione materiale di dette clausole.
Nel frattempo, con l’art. 28 del d.lgs. 150/2011, si è dettata una disciplina processuale unitaria per le azioni in materia antidiscriminatoria, prevedendo che tanto alle azioni civili azionate ex art 44 del TUI quanto a quelle per far valere una discriminazione contro la razza e l’origine etnica, ai sensi del d.lgs. n. 215 del 2003, fosse applicabili uno schema processuale comune e comuni poteri al giudice. L’art. 28, c. 5 del d.lgs. n. 50 del 2011 stabilisce, infatti: «Con la sentenza che definisce il giudizio, il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare di adottare, entro il termine fissato dal provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Nei casi di comportamento discriminatorio di carattere collettivo, il piano è adottato sentito l’ente collettivo ricorrente».
Rispetto al tratteggiato quadro normativo, conviene inoltre ricordare almeno tre ulteriori profili che si sono andati radicando nella prassi giurisprudenziale e che appaiono tutti direttamente pertinenti per la comprensione dei fatti di causa.
Il primo è la pacifica giurisdizione del giudice ordinario anche laddove il convenuto sia rappresentato dalla pubblica amministrazione contro cui si fa valere non già una semplice condotta discriminatoria, ma l’assunzione di un atto discriminatorio[8], nonché il potere del giudice di ordinare la condanna al risarcimento del danno e alla rimozione dell’atto.
In secondo luogo, sotto il profilo della legittimazione ad agire, solo il d.lgs. 215 del 2003 – dunque nell’ambito della discriminazione per la razza e l’origine etnica – contempla in capo alle associazioni iscritte presso il Ministero una legittimazione ad agire in proprio in caso di discriminazione collettiva in cui non siano individuabili le persone lese. Tuttavia, la giurisprudenza della Cassazione ha ritenuto che, per ragioni di sistematicità e di raccordo col principio costituzionale di uguaglianza, la disciplina testualmente prevista in relazione alle discriminazioni per la razza e l’origine etnica andasse ad applicarsi anche alle condotte discriminatorie per la nazionalità, ai sensi dell’art. 44 del TUI[9].
Infine, nel silenzio del legislatore italiano che, come detto, in sede di trasposizione delle diverse direttive nulla ha previsto a riguardo, alle controversie in cui si invochi il rispetto delle clausole di parità di cui alle direttive europee si è ritenuto di applicare lo schema processuale di cui all’art. 28 del d. lgs. n. 150 del 2011, considerando che in tali situazioni venga comunque in gioco una discriminazione per la nazionalità ex artt. 43 e 44 TUI.
Come si vede, dunque, ai profili di per sé complessi del diritto antidiscriminatorio di matrice interna, che attengono sia alla posizione di diritto soggettivo fatta valere in giudizio e ai connessi poteri del giudice laddove il convenuto sia la PA, sia agli aspetti legati alla legittimazione ad agire di enti esponenziali dell’interesse alla parità di trattamento, si devono aggiungere quelli determinati dalla possibile incidenza esercitata dal diritto Ue e dunque l’operatività dei tradizionali meccanismi che ne garantiscono il pieno rispetto: rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, efficacia diretta, primato, interpretazione conforme [10].
E sotto quest’ultimo profilo è da osservare che proprio il diritto antidiscriminatorio ha costituito e continua a costituire un difficile banco di prova per testare i rapporti tra ordinamento interno e quello europeo, come comprovato dal fatto che il relativo contenzioso ha impegnato tutte le giurisdizioni, incluse la Corte di Cassazione e la Corte costituzionale, con il coinvolgimento diretto della Corte di giustizia[11].
La sentenza 15/2024 della Corte costituzionale rappresenta, da questo punto di vista, un’ulteriore evidenza. Ad essa, dunque, è necessario dedicare qualche cenno, anche in ragione del richiamo ad essa svolto dal giudice fiorentino.
2.1. e il precedente della sentenza n. 15/2024 della Corte Costituzionale
La sentenza 15/2024 della Corte costituzionale ha definito due distinti ricorsi: il primo è originato da un conflitto di attribuzioni tra la Regione Friuli Venezia-Giulia e lo Stato; il secondo ha riguardato una questione di costituzionalità avente ad oggetto una disposizione di legge regionale. I fatti da cui sono scaturiti i due ricorsi hanno, però, una medesima origine. La Regione aveva disciplinato, con fonte legislativa, un contributo regionale per l’acquisto di alloggio da destinare a prima casa di abitazione, escludendo quanti risultassero proprietari di altro immobile. La legge regionale prevedeva una clausola, poi riprodotta in una fonte regolamentare, che distingueva tra cittadini dell’UE e quelli di paesi terzi quanto alle modalità relative alla dimostrazione di impossidenza di immobili. Mentre per i primi era sufficiente un’autodichiarazione, per i secondi, invece, la dimostrazione di non essere proprietari di altri alloggi nei rispettivi paesi d’origine era molto più onerosa.
La disciplina regionale aveva determinato un vasto e aspro contenzioso con soluzioni diverse, nella giurisprudenza di merito, quanto alla possibilità per il giudice di ordinare alla PA la modifica – e dunque anche l’abrogazione – della norma regolamentare, ma riproduttiva della legge, laddove in violazione delle clausole di parità previste dalle summenzionate direttive europee, norme dotate di efficacia diretta.
Secondo una prima ricostruzione, applicata da parte del Tribunale di Udine[12] e che era alla base del conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione, il giudice, adito ex art. 28 d.lgs. 150/2011, ben potrebbe, ai sensi del c. 5 ultimo periodo di tale articolo, disporre nel senso sopra indicato e dunque ottenere, per tale via, la rimozione definitiva della norma e dunque un rimedio che consenta di soddisfare anche le potenziali future persone lese dall’atto discriminatorio.
Secondo, invece, una seconda ricostruzione, fatta propria dallo stesso Tribunale di Udine ma in diversa composizione, laddove la norma regolamentare riproduca una norma di legge, al giudice ordinario sarebbe precluso ordinare la modifica della norma, dovendosi necessariamente sollevare questione di costituzionalità della disposizione di legge regionale, anche se in conflitto con una norma UE dotata di efficacia diretta. Allo stesso tempo, però, in relazione ai soli ricorrenti che hanno lamentato in giudizio la loro concreta esclusione dal beneficio, in ragione di provvedimenti di diniego adottati dalla PA sulla base del disposto normativo illustrato in precedenza, il giudice dovrebbe applicare subito la normativa dell’UE e ordinare all’amministrazione la cessazione della condotta discriminatoria e la rimozione degli effetti di questa, attraverso l’emissione di un provvedimento di ammissione al beneficio.
Il giudice, dunque, opererebbe, cumulativamente, secondo due distinti rimedi e due diverse soluzioni processuali: la disapplicazione della norma interna e l’applicazione della norma UE dotata di efficacia diretta (rectius, l’ordine all’amministrazione di applicare la norma UE direttamente applicabile), al fine di rimediare a situazioni di avvenuta discriminazione, individuate in ragione dei soggetti ricorrenti; la rimessione alla Corte costituzionale laddove il giudice intenda rimuovere con effetti generalizzati e anche pro futuro la condotta discriminatoria della PA determinata dalla legge regionale.
È questa seconda soluzione a ricevere l’avallo da parte della Corte costituzionale.
La Corte, infatti, riconosce la specificità del diritto antidiscriminatorio e dei rimedi previsti ex art. 28 del d.lgs. 150/2011, cui si sommano le particolari garanzie del diritto dell’UE, laddove, appunto, il relativo principio di parità di trattamento trovi una copertura eurounitaria. Essa ammette, infatti, che il giudice possa ordinare alla PA anche la modifica di una norma regolamentare (o di un atto amministrativo generale, come il bando), laddove sia questa a contenere la norma discriminatoria, e non la legge. Laddove, invece, il regolamento riproduca una norma contenuta in una legge, allora è necessario distinguere.
La Corte rileva, infatti, che il giudizio antidiscriminatorio offre un «concorso di rimedi che possono svolgersi anche in momenti successivi» (punto 6.2 del considerato in diritto). In un primo momento, al fine di dare tutela a una lesione attuale e immediata, il giudice è chiamato ad accertare il carattere discriminatorio dell’atto o comportamento; a condannare al risarcimento del danno non patrimoniale; a ordinare la cessazione della discriminazione e l’adozione di provvedimenti tesi a rimuoverne gli effetti. In un secondo momento, invece, al fine di «impedire in futuro il ripetersi e il rinnovarsi di quelle stesse discriminazioni non solo nei confronti dei soggetti che hanno agito in giudizio, ma anche di qualsiasi altro soggetto che potrebbe potenzialmente essere vittima» (punto 6.2 considerato in diritto), il giudice può ordinare l’adozione di un piano di rimozione della discriminazione espressamente accertata e in tale contesto ordinare la modifica di una norma regolamentare.
Ebbene, questa seconda soluzione non sarebbe disponibile al giudice qualora la norma secondaria riproduca una norma di legge. A impedire questa soluzione vi sarebbe il principio di legalità, non potendo il giudice ordinare all’amministrazione di adottare regolamenti confliggenti con la legge anche se illegittima. In tali situazioni, il giudice deve sollevare questione di costituzionalità della legge e ciò anche se la disposizione legislativa contrastasse con una norma UE dotata di effetti diretti.
Infatti, il giudice adito garantirebbe il primato del diritto UE dando soddisfazione ai ricorrenti individualmente lesi dalla condotta discriminatoria della PA, ordinando pertanto all’amministrazione di attribuire il bene della vita negato. Ma, al fine di evitare la discriminazione de futuro, e, quindi, quando si tratti di attivare un rimedio dal carattere proattivo quale l’ordine della modifica del regolamento, «non viene più in rilievo l’esigenza che il diritto dell’Unione europea dotato di efficacia diretta trovi immediata applicazione perché tale esigenza è stata, appunto, già pienamente soddisfatta». Piuttosto, secondo la Corte, in tali casi «viene in gioco, invece, una logica interna all’ordinamento nazionale che, con una forma rimediale peculiare e aggiuntiva, è funzionale a garantire un’efficace rimozione, anche pro futuro, della discriminazione […]» (punto 7.3.3 considerato in diritto).
La soluzione individuata dalla Corte costituzionale, applicabile solo laddove si intenda eliminare con efficacia generalizzata una norma di legge in conflitto con clausole antidiscriminatorie, si accosta per certi versi e per altri si discosta[13] da quella elaborata, sempre dalla Corte costituzionale, a partire dall’obiter dictum contenuto nella sentenza n. 269/2017, poi ulteriormente precisata e “temperata”[14] nelle successive sentenze 20, 63, 112 del 2019. Secondo questa giurisprudenza, quando il giudice abbia il dubbio che una disposizione di legge confligga tanto con disposizioni della Carta, dotate di efficacia diretta, quanto con la Costituzione, egli può decidere se rivolgersi alla Corte di giustizia, col rinvio pregiudiziale, assumendo come parametro le disposizioni della Carta, oppure alla Corte costituzionale, invocando profili costituzionali o anche dell’UE (in via mediata ex art. 11 e 117, c. 1 Cost.)[15].
Se ne accosta, perché, al pari di quella, il relativo accentramento in capo alla Corte costituzionale viene giustificato dalla necessità di garantire la certezza del diritto e una soluzione, quale appunto la rimozione della legge previa sua dichiarazione di incostituzionalità, che produca effetti generalizzati, dunque uniformi, per l’intero ordinamento nazionale.
Se ne discosta, perché, mentre nel modello della 269 vi è una facoltà di rimessione alla Corte costituzionale, qui, invece, si tratterebbe di un vero obbligo di promuovere la relativa questione incidentale[16].
In secondo luogo, nel sistema delineato dalla sentenza 269/2017, questa alternatività dei rimedi opererebbe in relazione a controversie in presenza di un sospetto contrasto della legge interna con un diritto fondamentale tutelato sia dalla Costituzione nazionale sia dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE[17]. Nell’ipotesi, invece, delineata dalla Corte costituzionale nella sentenza 15/2024, il necessario incidente di costituzionalità opererebbe in ragione del fatto che il giudice intende garantire, con un rimedio specifico del diritto antidiscriminatorio – il piano di rimozione della discriminazione –, la espunzione definitiva della norma di legge che determina la violazione della parità di trattamento. La rimessione alla Corte, dunque, si dà a prescindere dal fatto che il giudice comune abbia fatto esplicito e formale riferimento, nell’ordinanza di rimessione, alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE[18].
Vero è che tale distinzione può forse avere un senso appunto nei casi di formale omissione di ogni riferimento ai diritti della Carta nell’ordinanza di rimessione. In termini, invece, sostanziali, si deve concordare con quella dottrina che sottolinea criticamente come la Corte costituzionale e i giudici comuni sembrino attrarre nel “modello 269 temperato” situazioni in cui il parametro della Carta dei diritti fondamentali dell’UE sia semplicemente evocato, senza che venga davvero in gioco un problema di effettiva compatibilità con un diritto ivi sancito. E da questo punto di vista, anche sulla base delle argomentazioni da ultimo formulate nella sentenza 181/2024, è difficile non ravvedere sempre nelle controversie antidiscriminatorie un “tono costituzionale”, stante il nesso con interessi e principi costituzionali e della Carta[19].
Infine, mentre nel contesto delineato dalla sentenza 269/2017 la concorrenza tra rimedi riguarda il rinvio pregiudiziale rispetto alla questione di costituzionalità, ciò che presuppone un dubbio sulla compatibilità della norma, nell’ipotesi di cui alla sentenza 15/2024 l’alternativa è, come osservato in dottrina, tra disapplicazione e dichiarazione di incostituzionalità[20] e, dunque, aggiungiamo noi, il dubbio ben potrebbe non esserci[21]. Anche qualora il giudice fosse convinto del contrasto con la normativa UE dotata di efficacia diretta, nei casi almeno in cui venisse adito solo attraverso un’azione di carattere collettivo, come appunto avvenuto nella controversia dinnanzi al Tribunale di Firenze, egli non potrebbe che rimettere alla Corte costituzionale, non essendoci una vittima identificata cui sia possibile garantire, separatamente, il bene della vita attraverso la disapplicazione della legge e l’applicazione puntuale e circoscritta della norma UE dotata di efficacia diretta.
3. Qualche considerazione critica
Date le opportune indicazioni di contesto, è necessario ora muovere all’analisi dell’ordinanza del giudice fiorentino. Le riflessioni si articoleranno secondo due prospettive. La prima considererà la scelta dell’organo giudicante di effettuare la rimessione di costituzionalità della disposizione di legge regionale, facendo così applicazione del percorso procedurale che la Corte costituzionale ha appunto definito nella sentenza 15/2024. Si tratta di una soluzione, quella prescelta dal giudice fiorentino, comprensibile, quasi “obbligata”, in ragione appunto del più volte richiamato arresto. Ciononostante, ci si interrogherà, se questa strada – che, in effetti, era stata chiesta dalle stesse ricorrenti – fosse l’unica percorribile e comunque quella più adatta a garantire l’effettività del rimedio nella prospettiva del diritto dell’UE. Si ritiene, infatti, che esistano ragioni per ritenere che l’applicazione immediata della norma di parità, contenuta nella direttiva, possa continuare ad essere almeno una via percorribile, a nostro parere anche preferibile, rispetto alla questione incidentale alla Corte costituzionale.
La seconda prospettiva di analisi guarderà, invece, alle ragioni che militano a favore della incompatibilità tra la disposizione della legge regionale e la clausola di parità contenuta nella direttiva 2003/109/CE.
3.1. La disapplicazione della legge: soluzione impraticabile?
Venendo dunque al primo profilo, il giudice fonda la decisione di sollevare la questione di costituzionalità della legge regionale su due distinte argomentazioni.
Quanto alla prima, il giudice sembra dubitare dell’efficacia diretta dell’art 11, par. 1 lett. f) della dir. 2003/109 in relazione ai fatti di causa. Sarebbe, infatti, la stessa direttiva, all’art. 11, par. 4, a consentire agli Stati membri di limitare la parità di trattamento ai casi in cui il cittadino lungo soggiornante abbia eletto dimora o risieda abitualmente nel territorio statale. Detta possibilità sarebbe idonea a far venir meno l’efficacia diretta della disposizione. Senonché, è lo stesso giudice a non ritenere questa argomentazione pienamente convincente. Egli ricorda, infatti, come la Corte di giustizia abbia sottolineato in più occasioni che un’autorità pubblica, sia essa di livello nazionale, regionale o locale, può invocare la deroga prevista dalla direttiva unicamente qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato, per l’attuazione di tale direttiva, abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi della deroga suddetta. E come il giudice rileva, allo stato degli atti non risulta che la Repubblica italiana abbia manifestato tale intenzione.
È, dunque, sulla base di una seconda argomentazione che il giudice decide per la rimessione alla Corte costituzionale e questa è, appunto, rappresentata dalla ricostruzione offerta dalla Corte costituzionale nella sentenza 15/2024, cui il giudice mostra di aderire, riportando nel testo ampi stralci.
È una prospettiva, quella delineata dalla Consulta e appunto fatta propria dal Tribunale di Firenze, cui riteniamo si possano muovere alcuni rilievi critici, anche sul presupposto che, diversamente dal caso deciso dalla Corte costituzionale, il Tribunale di Firenze è chiamato a pronunciarsi unicamente su di un’ipotesi di discriminazione a carattere collettivo in cui, dunque, non ci sono “vittime” individuate che agiscano in nome proprio, ma solo enti esponenziali che chiedono, in via principale, la modifica dell’atto suppostamente discriminatorio. In questo caso, quindi, la cumulabilità dei rimedi (disapplicazione e questione di costituzionalità), applicabile alla controversia decisa dalla Corte costituzionale, non potrebbe operare e si darebbe solo la via della questione di costituzionalità.
Conviene, in primo luogo, muovere dai principi che fondano i rapporti tra norme dell’ordinamento dell’UE e quelle dell’ordinamento nazionale. Come noto, infatti, il primato del diritto dell’UE richiede che il giudice nazionale, quando ritenga, anche eventualmente all’esito di un rinvio pregiudiziale dinnanzi alla Corte di giustizia, che la normativa interna sia incompatibile con quella del diritto UE, dotata di efficacia diretta, non applichi (secondo la ricostruzione offerta dalla Corte costituzionale nel caso Granital che postula, richiamandosi al criterio di competenza, che la norma interna sia valida ed efficace, ma appunto non sia quella competente) – o disapplichi (secondo la ricostruzione offerta dalla Corte di giustizia, a partire dal caso Costa e poi Simmenthal, per cui la disapplicazione sarebbe la conseguenza del fatto che la norma interna non si sia formata validamente) – la norma interna. Entrambe le prospettive, però, convergono sul fatto che il giudice debba applicare la norma del diritto dell’Ue dotata di efficacia diretta, che, per definizione, è incondizionata e dunque non subordinata all’emanazione di ulteriori atti normativi.
Quale sarebbe la norma di diritto dell’UE dotata di efficacia diretta applicabile al caso di specie?
Ci sembra che la norma applicabile sia la clausola, contenuta nell’art. 11 della dir. 2003/109/CE (ma anche nell’art. 12 dir. 2011/98/UE) che impone la parità di trattamento tra cittadini nazionali e quelli lungo soggiornanti, norma sulla cui efficacia diretta la Corte di giustizia si è più volte pronunciata, anche in relazione a controversie sorte in relazione all’accesso all’edilizia residenziale pubblica[22].
Ne deriva che, al fine di rimuovere la discriminazione anche pro futuro, il giudice non abbia affatto bisogno di ordinare all’amministrazione la modifica dell’atto regolamentare o, come nel caso di specie, dell’atto ammnistrativo generale, riproduttivo di norma di legge[23]. Al fine di far cessare la condotta discriminatoria e di rimuoverne gli effetti, come prevede la prima parte dell’art. 28, c. 5 d. lgs. 150/2011, è sufficiente, una volta accertata la discriminazione, che egli condanni l’amministrazione ad applicare la … legge alla generalità dei casi. Questa non è evidentemente la legge regionale, ma la norma di diritto dell’UE, che è quella correttamente applicabile, tanto ai casi individuali, di persone concretamente lese, qui non presenti, quanto pro futuro per (asserite) vittime ipotetiche.
Non pare che a questa ricostruzione faccia ostacolo l’argomento tratto dal principio di legalità. In effetti, questo profilo sembra usato in modo un po’ contraddittorio dalla Corte costituzionale. Laddove, infatti, si tratti di dare soddisfazione alla singola vittima, concretamente lesa dall’attività dell’amministrazione, il giudice ben potrebbe soddisfare la pretesa di quest’ultima, ordinando all’amministrazione l’applicazione della norma UE, che, dunque, sarebbe in questi casi il fondamento legislativo dell’agire della PA. Al contrario, laddove si trattasse di soddisfare non una vittima concreta, ma solo futuribile (almeno nella prospettiva fatta propria dalla Corte), la norma UE dotata di efficacia diretta – la clausola di parità della direttiva – non dispiegherebbe più alcun effetto sull’ordinamento nazionale e l’agire della PA tornerebbe ad essere retto solo dalla prospettiva delle norme interne. A noi pare che la norma UE non possa essere ritenuta a efficacia intermittente. Essa deve ritenersi applicabile in entrambe le situazioni e soddisfare così in tutti e due i casi i vincoli derivanti dal principio di legalità.
In secondo luogo e ad ulteriore sostegno di quanto si sta osservando, è da sottolineare che il primato non si applica solo ai giudici, ma alla stessa amministrazione[24]. È questo un principio che discende dall’obbligo di leale collaborazione tra Ue e Stati membri (art. 4, par. 3 TUE) e che si applica evidentemente a tutte le componenti dello Stato e dunque anche alle amministrazioni degli enti territoriali, quali la Regione e il Comune. L’amministrazione comunale sarebbe già tenuta, di suo, a non applicare la norma interna, sia questa regolamentare o legislativa, laddove essa fosse in contrasto con altra norma di diritto dell’UE dotata di efficacia diretta, in quanto, per la prospettiva della Corte di giustizia, non potrebbe ritenersi validamente prodotta. È la stessa Corte costituzionale, del resto, a ricordare questo aspetto (punto 8.2 considerato in diritto). Il fatto che l’amministrazione «per mancata contezza della predetta incompatibilità o in ragione di approdi ermeneutici che la ritengano insussistente» (sempre punto 8.2 del considerato in diritto) continui ad utilizzare le norme interne in contrasto col diritto UE, anziché quelle dell’UE, non fa venir meno l’illiceità della condotta.
Un ulteriore elemento di perplessità, poi, è rappresentato dalla qualificazione in termini solo meramente potenziali della condotta suppostamente discriminatoria, come se la norma della legge regionale non fosse idonea a determinare una discriminazione già attuale, ma solo appunto pro futuro.
L’assenza di una vittima “reale”, concreta, che reclami il bene della vita in giudizio, non rende meramente potenziale la discriminazione. La norma di legge e/o la clausola del bando che attua quella norma, infatti, hanno già scoraggiato, scoraggiano e continueranno a scoraggiare eventuali richiedenti dal presentare la domanda e ciò accadrà anche per tutto il periodo necessario per la relativa pronuncia di costituzionalità[25], rendendo attuale e immediata la lesione del bene della vita.
Il punto è stato affrontato dalla Corte di giustizia nelle sentenze Feryn[26], Asociația Accept[27] e Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford [28]. Organismi pubblici di parità o soggetti esponenziali della società civile – tutti legittimati ad agire dal rispettivo diritto nazionale[29] – ricorrevano in giudizio per far accertare la condotta discriminatoria di datori di lavoro che, con dichiarazioni pubbliche, avevano lasciato intendere di praticare, in relazione all’assunzione, pratiche discriminatorie. Anche qui, dunque, si verteva in un’ipotesi in cui non vi era in giudizio una persona concretamente e direttamente lesa dal comportamento discriminatorio. La Corte ha ciononostante stabilito: «Il fatto che un datore di lavoro dichiari pubblicamente che non assumerà lavoratori dipendenti aventi una determinata origine etnica o razziale configura una discriminazione diretta nell’assunzione ai sensi dell’art. 2, n. 2, lett. a), della direttiva del Consiglio 29 luglio 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, in quanto siffatte dichiarazioni sono idonee a dissuadere fortemente determinati candidati dal presentare le proprie candidature e, quindi, a ostacolare il loro accesso al mercato del lavoro»[30].
Come si vede, dunque, la discriminazione (diretta, in questo caso) è accertata anche se, all’evidenza, non vi era prova che la dichiarazione resa avesse, nei fatti, determinato una concreta lesione a un soggetto individuato.
È vero, peraltro, che nel caso fiorentino l’applicazione della cd. discriminazione da scoraggiamento sarebbe determinata non già da semplici dichiarazioni, ma da un atto normativo, espressione dunque di discrezionalità politica dei competenti organi.
Inoltre, è vero che la Corte di giustizia non si è mai pronunciata sulla possibilità di estendere tale anticipazione della tutela della discriminazione anche alle clausole di parità di cui alla direttiva lungo soggiornanti.
Non sembrano, tuttavia, esserci ragioni per negare tale possibile sviluppo. L’integrazione sociale dei cittadini di paesi terzi, dotati dello status di lungo soggiornante (cons. 12 del preambolo), è tra le finalità dichiarate della direttiva 2003/109/CE. E sarebbe agevole osservare che una norma, quale quella della Regione Toscana (e/o la clausola del bando comunale), è certamente idonea a ostacolare questo obiettivo. Inoltre, come si vedrà in relazione alla nozione di discriminazione indiretta, sebbene quest’ultima sia affermata testualmente solo nelle direttive antidiscriminatorie adottate ex art. 13 TCE (oggi 19 TFUE), ma non anche nella clausola di parità di cui alla direttiva lungo soggiornanti, la Corte di giustizia l’ha ugualmente applicata anche a queste ultime situazioni. Segno, dunque, che la nozione di discriminazione di cui alle direttive ex art. 13 TCE/19TFUE e la giurisprudenza che su di essa si è formata sono espressione di principi più generali, applicabili ogniqualvolta si controverta in materia di disparità di trattamento.
Il richiamo agli arresti giurisprudenziali della Corte di giustizia di cui sopra è, inoltre, importante per un altro profilo. La Consulta sembra suggerire che l’ordine da parte del giudice nazionale di adottare un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, ai sensi dell’art. 28, c. 5 ultimo periodo del d.lgs. 150/2011 – categoria cui la Corte riconduce anche l’ordine all’amministrazione di modificare una norma regolamentare –, sarebbe «una forma rimediale peculiare e aggiuntiva», venendo in gioco «una logica interna all’ordinamento nazionale».
Ciò è senz’altro vero. Come detto, la direttiva 2003/109/CE non contiene indicazioni quanto ai profili della tutela giudiziale[31]. Tuttavia, ciò non toglie che, quando il giudice è adito per far valere la clausola di parità di cittadini di paesi terzi lungo soggiornanti, la situazione ricada pur sempre nell’ambito di applicazione del diritto UE. Ne consegue che l’autonomia processuale degli Stati deve sottostare al rispetto dei principi di equivalenza ed effettività, quest’ultimo letto nel prisma dell’art. 47 della Carta[32].
Ed è dunque alla luce di tale principio che conviene interrogarsi se sia conforme al diritto dell’UE un meccanismo processuale che, una volta che riscontri la discriminatorietà dell’agire dell’amministrazione e la sua idoneità a produrre già in modo concreto e attuale discriminazioni a danno di una pluralità di soggetti, sia pure non immediatamente identificabili, non disponga di uno strumento per rimediarvi in via immediata.
Ci sembra che rimangano intatte – ed applicabili al caso di specie – le ragioni che, nella sentenza Simmenthal, hanno portato la Corte di giustizia a ribadire che i giudici di ogni grado debbano, all’occorrenza, disapplicare la norma interna confliggente con la norma Ue dotata di efficacia diretta: l’immediatezza della tutela per i singoli, da un lato; l’esigenza di dare uniforme applicazione al diritto UE in tutti gli stati membri (corsivo nostro)[33].
La certezza e l’uniforme applicazione non sono principi che vanno declinati avendo di mira la sola dimensione nazionale, ma devono essere predicabili all’insieme degli Stati membri e dunque tradursi in un rimedio che garantisca a tutti i giudici, di tutti gli Stati membri, la possibilità di dare piena e concreta soddisfazione ad una pretesa fondata sul diritto UE, nonché, eventualmente, di chiedere alla Corte di giustizia una sentenza con cui quest’ultima possa assolvere alla sua funzione nomofilattica sul territorio europeo. Del resto, è stato proprio il fatto che nei paesi dell’allora CEE vi fossero tradizioni giuridiche diverse quanto alle modalità di recepimento del diritto internazionale pattizio (e, dunque, del diritto comunitario) e delle modalità con cui risolvere le eventuali antinomie rispetto al diritto interno[34], a spingere la Corte di giustizia ad individuare un rimedio, come la disapplicazione dell’atto interno, che è sì nella disponibilità di tutti i giudici nazionali, ma che sconta, per sua stessa struttura, la possibilità di contrasti giurisprudenziali nella sua concreta applicazione. Non è poi superfluo ricordare la centralità che la Corte di giustizia attribuisce al giudice comune, anche in una prospettiva di equilibrio istituzionale e di indipendenza interna della magistratura, necessaria per garantire lo stato di diritto e l’effettività del diritto dell’Unione[35].
Vero è che nella sentenza Melki e Abdeli[36] e A[37] il giudice del Lussemburgo sembra considerare compatibile con il diritto dell’Ue una disciplina nazionale che preveda l’obbligo di avviare un procedimento incidentale di costituzionalità che impedirebbe al giudice nazionale di disapplicare immediatamente una disposizione legislativa nazionale che ritenga contraria al diritto UE, ma lo ha fatto precisando che il giudice deve essere libero in ogni momento, anche successivo all’intervenuta sentenza dell’organo di legittimità costituzionale, di rimettere la questione pregiudiziale alla Corte; di adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione e di poter comunque disapplicare, al termine di siffatto procedimento incidentale, le norme interne se le ritengano contrastanti col diritto dell’Unione (corsivo nostro)[38].
E, tuttavia, in casi successivi alle sopraccitate sentenze, la Corte di giustizia ha ribadito la precedente dottrina Simmenthal per cui, laddove non vi siano dubbi quanto all’incompatibilità della norma interna con la norma Ue dotata di efficacia diretta, vi è la necessità di dare piena e immediata efficacia alle norme Ue, «disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi normativa o prassi nazionale, anche posteriore, che sia contraria a una disposizione del diritto dell’Unione dotata di efficacia diretta, senza dover chiedere o attendere la rimozione di tale normativa o prassi nazionale in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale» (corsivo nostro)[39].
Del resto, se, come osservato in precedenza, il primato impone già all’amministrazione di applicare il diritto dell’Ue, laddove dotato di efficacia diretta, e ciò evidentemente senza necessità che vi sia una previa pronuncia del giudice costituzionale, sembrerebbe contraddittorio ritenere che, nel caso del giudice comune, tale possibilità venga appunto condizionata dalla previa rimessione alla Corte costituzionale.
Inoltre, si creerebbe una diversità nel rimedio a seconda che vi sia o meno una vittima “concreta” o solo “potenziale” nella condotta discriminatoria della Pa: nel primo caso, questa, attivandosi in giudizio, otterrebbe, secondo lo schema delineato dalla Corte costituzionale nella sentenza 15/2024, la disapplicazione della legge e la soddisfazione immediata del bene della vita, mentre nel secondo caso, e nonostante, come si sia cercato di dimostrare prima, la lesione sia già in atto, si potrebbe ottenere solo un rimedio prospettico. È da considerare, a riguardo, che la vittima potrebbe essere assolutamente reale, nel senso di esistente, ma, anche in ragione della strutturale debolezza delle parti in questo tipo di giudizio, aver confidato nell’attivazione in giudizio da parte degli enti esponenziali secondo lo schema del ricorso collettivo. Si creerebbe, dunque, una diversità di tutela e, a monte, di trattamento che mette in discussione, in quest’ultimo caso, l’imparzialità dell’agire della PA, tenuta a rispettare sempre la medesima norma di legge.
In questo senso, potrebbe essere opportuno un chiarimento alla Corte di giustizia circa i limiti di tale obbligo di rimessione alla Corte costituzionale nel caso appunto descritto.
Alla luce di tutte queste osservazioni, ci si chiede se non ci possa essere spazio per una soluzione alternativa che, pur tenendo ferme le esigenze interne di certezza del diritto e dell’ordinato rapporto tra fonti, possa contemperare le ragioni dell’effettività del rimedio e del rispetto del diritto UE.
Il giudice, dunque, in una situazione quale quella descritta, laddove fosse convinto della incompatibilità della disposizione di legge con la clausola di parità di trattamento, potrebbe già, in applicazione della prima parte dell’art. 28 d.lgs. 150/2011, accertare la discriminazione da parte dell’amministrazione e condannarla al risarcimento del danno; ordinare la cessazione del comportamento discriminatorio, intimando di non dare applicazione alla norma interna discriminatoria e confliggente con norma UE e, al fine di rimuovere gli effetti discriminatori, ordinare all’amministrazione di l’applicare alla generalità dei casi la norma di parità di cui alla direttiva. Tutto questo si baserebbe proprio sul presupposto che l’amministrazione opererebbe dando attuazione alla direttiva, rispettando, dunque, il principio di legalità.
In alternativa, e secondo una valutazione libera, laddove si ritenesse di dare precedenza ai valori della certezza del diritto sul piano interno, anziché a quelli di immediatezza della tutela, potrebbe effettuare la rimessione alla Corte costituzionale, ma, secondo l’insegnamento della Corte di giustizia in Melki, dovrebbe poter «adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione»[40], garantendo, dunque, in termini interinali la sospensione della legge. Questa ipotesi, dunque, rappresenterebbe un’applicazione della “269 temperata”, che si giustificherebbe stante il coinvolgimento di principi presenti tanto nella Carta quanto in Costituzione e in ragione dell’ “impatto sistemico”, di cui ragiona la Consulta nella recente sent. 181/2024.
3.2. Le ragioni dell’incompatibilità del requisito di residenza regionale con la clausola di parità di trattamento di cui alla direttiva lungo-soggiornanti
Posto, dunque, che la norma di parità di cui alla direttiva 2003/109/CE è dotata di efficacia diretta, la clausola della storicità della presenza, prevista dalla legge regionale della Toscana, può dirsi in conflitto con essa? Detto in altri termini, la parità di trattamento di cui alla direttiva copre anche la discriminazione indiretta, quale, appunto, sarebbe quella determinata dall’uso della durata della residenza? E se sì, entro che limiti deve essere articolato il relativo giudizio di valutazione della giustificazione e proporzionalità della misura?
Gli interrogativi ci portano a valutare gli argomenti che il giudice ha posto in punto di non manifesta infondatezza relativamente al parametro di cui all’art. 117 , c. 1 Cost., cui vorremmo dedicare qui maggiore rilievo, anche per continuità tematica col discorso in precedenza sviluppato[41].
L’ordinanza di rimessione, in effetti, si rifà a una serie di pronunce in cui la Corte di giustizia ha valutato, in relazione al divieto di non discriminazione tra cittadini nazionali e quelli dell’UE, talune disposizioni nazionali che subordinavano l’accesso a prestazioni sociali a requisiti di residenza prolungata nello stato in questione.
Secondo il giudice fiorentino, da tale giurisprudenza si evincerebbe che la Corte di giustizia non avrebbe del tutto escluso l’ammissibilità di criteri volti a misurare il “nesso reale” tra il richiedente la prestazione e lo stato erogatore, come appunto un requisito di previa residenza continuativa, sempreché con essi si intenda perseguire uno scopo legittimo, siano idonei e proporzionati a raggiungere tale scopo e non siano troppo esclusivi[42].
Sulla base di tale giurisprudenza, il giudice di Firenze ritiene che l’elevata valorizzazione della residenza pregressa, di cui alla legge regionale, non offrendo una prognosi sulla stanzialità futura, non sia idonea a perseguire lo scopo di favorire chi probabilmente si radicherà in Regione. In ogni caso, il criterio finirebbe per tradursi in un mezzo di postergazione automatica di quanti, pur avendo un maggior bisogno soggettivo, sono presenti da minor tempo in regione.
Credo che il richiamo a queste sentenze, sebbene certamente utile per una messa a fuoco della natura sospetta del fattore “residenza” nei casi di discriminazione per la nazionalità e per considerazioni in punto di proporzionalità della misura, debba essere improntato a una certa cautela. In primo luogo, perché esse riguardano un parametro normativo diverso, quale appunto la libertà di circolazione dei cittadini UE e la parità di trattamento, che hanno rango di norma primaria (anche se poi meglio articolate e specificate nella dir. 2004/38/CE), mentre in relazione ai fatti di causa il diritto pertinente è la clausola di parità di cui alla dir. 2003/109/CE (nonché della dir. 2011/98/UE). In secondo luogo, perché la giurisprudenza della Corte di giustizia in merito al genuine link appare di particolare difficile sistematizzazione. Diversi sono, infatti, gli elementi che possono influire sull’esito delle sentenze della Corte, a partire, ad esempio, dal fatto che il requisito di previa residenza continuativa tocchi gli interessi di un cittadino UE che sia un lavoratore, ad esempio transfrontaliero, o un soggetto cd. non economicamente attivo.
Più utile, forse, per i fatti di causa sarebbe stato rifarsi alla sentenza con cui la Corte di giustizia ha ritenuto incompatibile, proprio in relazione alla clausola di parità di cui alla direttiva 2003/109/CE, il requisito di residenza decennale in Italia, di cui gli ultimi due continuativi, prevista dal legislatore italiano per accedere al reddito di cittadinanza[43].
In effetti, un primo aspetto che questa sentenza ha chiarito è che la clausola di parità in questione dà tutela non solo alle disparità di trattamento direttamente fondate sulla cittadinanza, ma anche a quelle, di carattere indiretto, fondate sulla residenza e sulla durata della residenza.
Per la Corte, infatti, pur non motivando adeguatamente[44], «il principio di parità di trattamento sancito all’art. 11 della direttiva 2003/109 vieta non soltanto le discriminazioni palesi fondate sulla cittadinanza, ma anche tutte le forme dissimulate di discriminazione che, in applicazione di altri criteri distintivi, pervengono di fatto allo stesso risultato» (punto 48). E la residenza è tra questi.
La precisazione è importante. Mentre, infatti, la nozione di discriminazione indiretta è codificata in relazione ai diversi fattori discriminatori tutelati dal diritto UE (o è stata da tempo formulata dalla Corte di giustizia in relazione, ad esempio, al divieto di discriminazione per la nazionalità tra cittadini UE), non lo è in relazione alla clausola di parità di trattamento di cui alla direttiva lungo-soggiornanti – come anche delle altre clausole di parità di trattamento previste nei diversi atti di diritto UE derivato, volti alla disciplina di specifici status immigratori – che si limita ad affermare il relativo principio, senza ulteriori specificazioni.
La Corte di giustizia chiarisce un ulteriore aspetto: una misura può ritenersi indirettamente discriminatoria senza che sia necessario che essa abbia l’effetto di favorire tutti i cittadini nazionali o di non sfavorire soltanto i cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo, ad esclusione dei cittadini nazionali (par. 51)[45].
È un chiarimento prezioso in relazione ai fatti su cui è chiamato a giudicare il giudice di Firenze. Sebbene il criterio della storicità della presenza favorisca una piccola porzione soltanto dei cittadini nazionali, quelli appunto storicamente residenti, e sfavorisca, al pari dei lungo-soggiornanti, quegli italiani trasferitisi da poco in loco da fuori regione o comune, ciò non toglie che, tra quelli esclusi a causa della durata della residenza, sia più probabile vi siano i cittadini stranieri lungo-soggiornanti.
Ma forse la parte più rilevante della sentenza – e di indubbia pertinenza per il caso fiorentino – è quanto la Corte dice in punto di possibile giustificazione della misura che determina l’impatto discriminatorio. Come noto, infatti, la nozione di discriminazione indiretta nel diritto antidiscriminatorio presuppone due passaggi: la dimostrazione da parte dell’attore che la misura determini un impatto maggiore per gli appartenenti al gruppo protetto; la prova da parte del convenuto che la misura, anche se causa un impatto più svantaggioso per il gruppo protetto, è ugualmente legittima perché persegue uno scopo legittimo ed è necessaria al raggiungimento di tale fine, sulla base di un test di proporzionalità,
Anche su questo aspetto la sentenza offre importanti spunti.
Il governo italiano, al fine di giustificare il requisito di residenza decennale e continuativa negli ultimi due anni, aveva sottolineato che il reddito di cittadinanza, poiché prevede un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale, presuppone che i destinatari della misura siano soggiornanti in Italia in modo permanente e ben integrati.
La Corte respinge questo argomento sulla base di un dato testuale che si lega a uno di carattere più generale e sistematico. La direttiva consentirebbe già di prendere in considerazione la residenza come fattore derogatorio della parità di trattamento, ma lo farebbe in modo tassativo: l’art. 11, par. 4 abilita gli Stati, appunto, a limitare la parità di trattamento ai lungo soggiornanti (o ai loro familiari) che abbiano eletto dimora o risiedano abitualmente nel suo territorio. Al di fuori di tali ipotesi, uno Stato non potrebbe invocare una pretesa diversità di fatto tra cittadini lungo soggiornanti e cittadini nazionali quanto all’integrazione e al supposto legame con lo Stato di soggiorno. Infatti, l’acquisto dello status di lungo soggiornante presuppone un requisito di soggiorno legale e ininterrotto di cinque anni nel Paese, che è un periodo di tempo considerato dallo stesso legislatore dell’UE sufficiente per ritenere maturato il radicamento del richiedente nel paese in questione e poter vantare, successivamente all’acquisizione di tale status, la parità di trattamento.
Ne deriva, dunque, che al di fuori dei casi di utilizzo formale della deroga, ai sensi dell’art. 11 dir. 2003/109/CE – e come visto il caso di Firenze non è tra questi -, una condizione di residenza o di durata della residenza sia sempre una misura non giustificabile e dunque discriminatoria verso i lungo soggiornanti.
In questo senso, dunque, il precedente della Corte di giustizia contiene diversi elementi che prospettano un’incompatibilità della clausola di “storicità della presenza”, di cui alla legge regionale della Toscana, rispetto alla direttiva lungo-soggiornanti. L’unico profilo su cui può residuare il dubbio – e che è lo stesso che fonda, la rimessione del giudice alla Corte costituzionale sotto il profilo della ragionevolezza – è che qui la clausola che valorizza la residenza non è posta come condizione di accesso al bene, come avveniva nel contesto del reddito di cittadinanza, ma quale criterio concorrenziale, al pari di altri. E, tuttavia, a noi pare che esso sia pur sempre in contrasto con la clausola di parità della direttiva. Il fatto che il criterio discriminatorio non determini direttamente e univocamente l’esclusione dal beneficio, ma concorra assieme ad altri fattori legittimi, non fa venir meno la natura discriminatoria dello stesso.
4. Osservazioni conclusive
Le questioni trattate in questa nota trascendono, per certi profili, la dimensione dell’ordinanza di rimessione del giudice fiorentino. Esse toccano inevitabilmente la svolta indotta dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza 269 del 2017, in tema di doppia pregiudiziale e ruolo del giudice in relazione all’applicazione del diritto dell’UE, di cui la sentenza 15/2024 rappresenta per certi aspetti uno sviluppo.
Si richiamano le ragioni che hanno indotto autorevole dottrina ad esprimere perplessità su questo approccio[46]. Qui ci si limita ad osservare che la promozione della certezza del diritto e della sua uniforme applicazione, che giustifica, secondo la Corte, la scelta da parte del giudice comune di sollevare la questione incidentale in alternativa ai consueti rimedi previsti dal diritto dell’Ue, non è senza conseguenze e avviene a discapito di altri interessi, egualmente rilevanti. Essa può comportare, infatti, non solo svantaggi in termini di immediatezza ed effettività della tutela del singolo, ma anche il rischio che il giudice nazionale sia indotto a preferire o comunque ad approfondire il linguaggio costituzionale, per certi versi più consueto, a quello del diritto dell’UE, come volta per volta chiarito dalla Corte di giustizia. Il diritto dell’antidiscriminazione, da questo punto di vista, rappresenta un esempio.
Ciò potrebbe comportare il rischio di un certo isterilimento nella giurisprudenza e il venir meno di un pluralismo nell’interpretazione del dato normativo che è un fattore di arricchimento complessivo del sistema. Anche perché non è detto che la Corte costituzionale, in sede di giudizio di costituzionalità, valorizzi il profilo eurounitario, limitandosi magari a fondare la decisione sul solo parametro interno, ritenendo assorbito così l’altro[47]. In questo modo, però, vi è il rischio di escludere la Corte di giustizia e di limitare la sua funzione nomofilattica, impedendo così di offrire chiarimenti nell’applicazione del diritto dell’UE valevoli per tutti gli ordinamenti nazionali, non solo per quello interno.
Se il modello della 269 rimette almeno al giudice la scelta di quale via percorrere (anche se nella sentenza 181/2024 la questione incidentale viene indicata come la “più proficua” e, dunque, in termini almeno sostanziali, come quella implicitamente preferenziale), la sentenza 15/2024 va oltre, imponendo la strada della rimessione costituzionale in un ambito certamente circoscritto ma che ha avuto applicazioni di notevole portata. Pensiamo che per la ragioni in precedenza esposte la compatibilità di questo sviluppo andrebbe quanto meno vagliata dalla Corte di giustizia.
[1] In effetti, sebbene il dispositivo si riferisca solo alla direttiva lungo-soggiornanti, nella parte motivazionale, sia pure di sfuggita, compaiono riferimenti anche alla dir. 2011/98/UE.
[2] Su questa pronuncia, in dottrina, vedi: C. Favilli, La possibile convivenza tra disapplicazione e questione di legittimità costituzionale dopo la sentenza n. 15 del 2024 del giudice delle leggi, in Rivista del Contenzioso europeo, 1, 2024, 26 ss.; L. Tomasi, Diretta applicazione del diritto UE e incidente di costituzionalità nel giudizio antidiscriminatorio: la sentenza n. 15 del 2024 della Corte costituzionale, in Lavoro Diritti Europa, 2, 2024; C. Amalfitano, La sentenza n. 15/2024 della Corte costituzionale: istruzioni per i giudici su come assicurare il primato del diritto Ue, in QC, 2, 2024, 420 ss.; O. Scarcello, Un altro passo nel processo di riaccentramento del sindacato di costituzionalità eurounitario. Nota a Corte cost., sentenza n. 15 del 2024, in Osservatorio AIC, 2, 2024; A. Ruggeri, Ancora in tema di tecniche di risoluzione delle antinomie tra norme interne e nome sovranazionali self-executing (a prima lettura di Corte cost. n. 15 del 2024), in Consulta online, 1, 2024, U. Villani, Il nuovo “cammino comunitario” della Corte costituzionale, in Eurojus, 1, 2024, 81 ss.
[3] Per una prospettiva d’insieme, vedi M. Barbera, A. Guariso, La tutela antidiscriminatoria – Fonti strumenti interpreti, Giappichelli, Torino, 2019.
[4] Tra questi: il riconoscimento, in capo ad associazioni, organizzazioni o altre persone giuridiche, che abbiano, secondo i criteri definiti dai legislatori nazionali, un interesse a garantire le disposizioni della direttiva, della legittimazione ad agire in nome e per conto della vittima, previo consenso di questa (art. 7); un meccanismo di alleggerimento dell’onere probatorio a favore della persona lesa dalla discriminazione (art. 8); la previsione di forme di tutela che proteggano la persona da ritorsioni in caso questa si attivi in giudizio (art. 9); l’istituzione di un organismo di parità indipendente in materia di lotta e promozione del divieto di discriminazione per la razza e l’origine etnica; la previsione che le sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive (art. 15).
[5] Corte giust., sent. 24 aprile 2012, Causa C-571/10, Kamberaj.
[6] Su questi profili, amplius W. Chiaromonte, A. Guariso, Le discriminazioni nell’accesso a beni, prestazioni e servizi pubblici, in M. Barbera, A. Guariso (cur.), op. cit., 363 ss.
[7] Sul punto, C. Favilli, op. cit., 30
[8] Cass. Sez. unite, n. 3670/2011.
[9] Cass. 11165/2017 e 11166/2017.
[10] Come osserva C. Favilli, op. cit., 29 ss.
[11] Per un evidente esempio in tal senso, la vicenda relativa all’assegno per il nucleo familiare e la sentenza della Corte cost. n. 67/2022.
[12] Vedi Trib. Udine, ordinanza 1 febbraio 2023, RG n. 38/2022, reperibile nel sito www.asgi.it. Sono state diverse, peraltro, le azioni intentate avverso tale disciplina regionale. Cfr. A Guariso, L’uguaglianza è razionale: breve storia di una discriminazione degli stranieri nella regione Friuli Venezia Giulia, in Italian Equality Network, 27 marzo 2023.
[13] Come notano L. Tomasi, op. cit., 8 e C. Favilli, op. cit., 37-38.
[14] Così C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, Corte di giustizia e Corte costituzionale dopo l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti, vol. 12, f. 2, 2019.
[15] Su cui R. Mastroianni, Sui rapporti tra Carte e Corti: nuovi sviluppi nella ricerca di un sistema rapido ed efficace di tutela dei diritti fondamentali, in European papers, vol. 5, f. 1, 2020, 492 ss.; C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, Corte di giustizia e Corte costituzionale dopo l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti, vol. 12, f. 2, 2019, D. Gallo, Effetto diretto del diritto dell’Unione europea e disapplicazione, oggi, in Osservatorio sulle fonti, vol. 12, f. 3 2019; A. Ruggeri, La Consulta rimette a punto i rapporti tra diritto eurounitario e diritto interno con una pronunzia in chiaroscuro (a prima lettura di Corte cost. sent. n. 20 del 2019), in Consulta Online, 1, 2019 113 ss.; R. Conti, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?, in giustiziainsieme.it, 4 marzo 2019.
[16] Come sottolinea L. Tomasi, op. cit., p. 8.
[17] Su questa distinzione, C. Favilli, op. cit., 37
[18] In effetti, nell’ordinanza che ha portato alla sentenza 15/2024, la Carta di Nizza non compariva tra i parametri interposti richiamati dal giudice. Analogamente, in relazione ai fatti di cui alla presente nota, è da notare che le ricorrenti hanno in effetti richiamato l’art. 34 (diritto all’assistenza abitativa) e art. 21 (non discriminazione) della Carta, ma questi parametri non sono stati poi ripresi dal giudice a quo nell’ordinanza di rimessione.
È opportuno ricordare che in passato la Corte costituzionale è sembrata concludere nel senso dell’inammissibilità della questione, laddove il giudice omettesse il riferimento alla violazione della Carta e la controversia si potesse decidere facendo applicazione del diritto dell’UE dotato di efficacia diretta. Così almeno sembrerebbe ricavarsi dalla sentenza 67/2022 in relazione alle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di Cassazione circa la disciplina dell’assegno per il nucleo familiare. La questione incidentale alla Corte costituzionale viene sollevata dopo che la Cassazione aveva effettuato il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e quest’ultima aveva rilevato l’incompatibilità della legge nazionale con la clausola di parità di trattamento di cui alla direttiva 2011/98/UE. La Corte costituzionale ritiene che il giudice debba procedere all’applicazione del primato, senza ulteriore coinvolgimento della Corte costituzionale. Tuttavia, al punto 1.2.1 del considerato in diritto, essa rileva che le ordinanze di rimessione non hanno evocato la violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e in particolare dell’art. 34, lasciando intendere che qualora ciò fosse stato fatto, la conclusione, in punto di inammissibilità, avrebbe potuto essere diversa.
[19] Vedi sent. 181/2024 la quale, pur riaffermando che spetta al giudice comune la scelta se intraprendere la via della questione incidentale rispetto ai rimedi del diritto euro-unitario, mostra di ritenere la prima opzione “particolarmente proficua” «qualora l’interpretazione della normativa vigente non sia scevra di incertezze o la pubblica amministrazione continui ad applicare la disciplina controversa o le questioni interpretative siano foriere di un impatto sistemico, destinato a dispiegare i suoi effetti ben oltre il caso concreto, oppure qualora occorra effettuare un bilanciamento tra principi di carattere costituzionale» (6.5 consid. in diritto). Su questa sentenza, cfr. A Ruggeri, La doppia pregiudizialità torna ancora una volta alla Consulta, in attesa di successive messe a punto (a prima lettura di Corte cost. 181 del 2024), in Giur. Cost., f. 3, 2024.
[20] Nota questo profilo, C. Favilli, op. cit., 37.
[21] In realtà, come si desume da ultimo dalla sent. 181/2024, anche nell’ipotesi del “modello 269”, l’alternativa può essere tra disapplicazione – quindi il giudice avrebbe già a disposizione una norma UE dotata di efficacia diretta – e giudizio di rimessione alla Corte finalizzato all’espunzione della norma.
[22] Corte giust., sent. 24 aprile 2012, Causa C-571710, Kamberaj.
[23] In modo conforme, in relazione alla vicenda di cui alla sen. 15/2024, mi pare argomenti, autorevolmente, A. Ruggeri, op. cit., p. 306, «Stando così le cose, non v’è, dunque, necessità di mettere in atto le procedure per la formale rimozione – in via legislativa come pure in sede di giudizio di costituzionalità – della norma antieurounitaria, dal momento che grava comunque su ogni operatore di diritto interno (non solo i giudici ma, appunto, anche amministratori e privati) l’obbligo di ignorarla, puramente e semplicemente, facendo valere al suo posto quella eurounitaria self-executing».
[24] A partire da Corte giust., sent. 22 giugno 1989, Causa C-103/88, F.lli Costanzo.
[25] Salvo ritenere che il giudice comune possa disporre la sospensione degli effetti della legge, in via cautelare, sulla base della giurisprudenza Melki, su cui infra nel testo. Del resto, la possibilità per la Corte costituzionale di provvedere in tal senso è normativamente contemplata solo per i ricorsi in via principale (vedi art. 35 della l. 87/1953, come modificato dall’art. 9 della L. 131/2003).
[26] Corte giust., sent. 10 luglio 2008, Causa C-54/07, Feryn.
[27] Corte giust., sent. 25 aprile 2013, Causa C.81/12, Asociația Accept.
[28] Corte giust., sent. 23 aprile 2020, Causa 507/18, Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford.
[29] Come osservato, il diritto derivato UE non impone agli Stati membri tale soluzione, che si configura, dunque, come rimedio autonomamente previsto dal legislatore nazionale.
[30] Corte giust., sent. 10 luglio 2008, Causa C-54/07, Feryn
[31] E, per la verità, tranne i riferimenti in precedenza svolti in nota 4, nemmeno la direttiva 2000/43/CE e più in generale il sistema di tutela previsto dalle direttive fondate sull’art. 13 TCE/19 TFUE lo prevedono, pur stabilendo che gli Stati siano tenuti a prevedere sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive (art. 15 dir. 2000/43/CE).
[32] Del pari, nei casi in precedenza illustrati, la circostanza per cui la legittimazione attiva agli enti esponenziali derivasse da una norma interna e non fosse imposta dalle direttive non ha messo in discussione che le situazioni rientrassero nel campo di applicazione del diritto UE. Il punto è chiarito soprattutto dalle Conclusioni dell’Avvocato generale Sharpston in Causa 507/18, Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford, mentre la Corte, entrando nel merito, lo ha implicitamente confermato.
[33] Corte giust., sent. 9 marzo 1978, Causa C-106/77, Simmenthal, cons. 14: «L’applicazione diretta va intesa nel senso che le norme di diritto comunitario devono esplicare la pienezza dei loro effetti, in maniera uniforme in tutti gli Stati membri».
[34] Tali dunque da mettere in discussione tanto l’eguaglianza degli Stati membri dinnanzi ai Trattati (da ultimo, Corte giust., sent. 22 febbraio 2022, Causa C-430/21, RS, punto 55) quanto la parità di trattamento dei cittadini dell’UE (Corte giust, Causa C-6/64, Costa).
[35] Su questo, per il conflitto che vedeva contrapporsi giudice costituzionale rumeno e giudici comuni, si veda in particolare Corte giust., sent. 22 febbraio 2022, Causa C-430/21, RS; Corte giust., sent. 21 dicembre 2021, Causa C-357/19, C-379/19, C-547/19, C-811/19, C-840/19, Euro Box Promotion e a.
[36] Corte giust., sent. 22 giugno 2010, cause C-188/10 e C-189/10, Melki, Abdeli, su cui vedi almeno R. Mastroianni, La Corte di giustizia ed il controllo di costituzionalità. Simmenthal revisited?, in Giur. Cost., 5, 2014, 4089 ss.; F. Donati, I principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione in un sistema di tutele concorrenti dei diritti fondamentali, in federalismi.it, 12, 2020.
[37] Corte giust. sent. 11 settembre 2014, Causa C-112/13, A c. B.
[38] Vedi punto 53, sent. Melki/Abdeli. Sul punto, C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, cit., p. 8-9, che osserva come l’approccio temperato della Corte costituzionale e la trasformazione da doverosità a semplice opportunità della rimessione alla Consulta non fossero richiesti dalla giurisprudenza Melki della Corte di giustizia.
[39] Da ultimo Corte giust., sent. 22 febbraio 2022, Causa C-430/21, RS, punto 53; Corte giust., 24 giugno 2019, Popławski, causa C-573717, punti 61 e 62. Sul punto, vedi C. Amalfitano, Il rapporto tra rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e rimessione alla consulta e tra disapplicazione e rimessione alla luce della giurisprudenza “comunitaria” e costituzionale, in Rivista AIC, 1, 2020, 314, che dà indicazioni ulteriori circa la giurisprudenza della Corte di giustizia. La stessa Autrice, La sentenza costituzionale n. 15/2024, cit., pur apprezzando la soluzione della Corte costituzionale 15/2024 che concilierebbe le esigenze di immediatezza ed effettività della tutela, care al diritto UE, e quelle della certezza del diritto, care alla Corte costituzionale, osserva: «Un’estensione generalizzata del sistema parallelo di tutela delineato dalla sentenza analizzata – ovvero al di là della specificità del caso in esame e di eventuali casi simili dove alla disapplicazione della norma regolamentare non potrebbe seguire una sua modifica pro futuro se non previa rimozione erga omnes della legge che dà sostanza al regolamento – non rischio di deviare definitivamente dal sistema Granital, con derive non necessariamente compatibili con la giurisprudenza di Lussemburgo», 423-424.
[40] Punto 53, Corte giust., sent. 22 giugno 2010, cause C-188/10 e C-189/10, Melki, Abdeli.
[41] Per quanto riguarda l’altro parametro costituzionale evocato – l’art. 3 Cost. e il principio di ragionevolezza – il giudice ricorda la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale (dalla sentenza 44/2020 fino alle più recenti sentenze 67/2024 e 147/2024) in cui si sono ritenute irragionevoli disposizioni legislative regionali che subordinavano l’accesso all’ERP a un requisito di previa di residenza continuativa e ciò sul presupposto che l’edilizia residenziale pubblica miri a soddisfare un bisogno sociale rispetto cui la residenza prolungata non esprimerebbe alcuna ragionevole correlazione. Tuttavia, come ben chiarito nell’ordinanza di rimessione, la giurisprudenza della Corte (viene in particolare richiamata la sentenza 9/2021) non sembra escludere del tutto la possibilità che il legislatore regionale possa dare rilievo a considerazioni legate alla “prospettiva della stabilità” non già quale condizione di accesso, ma come criterio di determinazione del punteggio. Ciò nonostante sia la stessa Corte a qualificare il criterio della residenza protratta come un indice debole a tal fine, sottolineando che la prospettiva di stabilità dovrebbe avere carattere recessivo rispetto alla centralità di altri fattori più strettamente correlati a misurare la situazione di bisogno.
[42] Vengono richiamate, tra le altre, Corte giust., sent. 21 luglio 2011, Causa C-503/09; Stewart; sent. 26 febbraio 2015, Causa C-359/13, B. Martens; sent. 15 marzo 2005, Causa C-209/03, Bidar, sent. 23 marzo 2004, Causa C-138/02, Collins.
[43] Corte giust., sent. 29 luglio 2024, Cause riunite C-112/22, C-223/22, CU/ND, con nota di A. Guariso, Incompatibile con il diritto UE il requisito di dieci anni di residenza per accedere al reddito di cittadinanza, in Diritto, Immigrazione cittadinanza, 3, 2024.
[44] Ma è agevole ipotizzare che il fondamento di tale soluzione ermeneutica riposi nel fatto che, per la Corte di giustizia, la nozione di discriminazione indiretta abbia assunto valenza generale e che rappresenti un modo, al pari della discriminazione diretta, per ritenere violata la parità di trattamento.
[45] Il giudice del rinvio si era interrogato se il requisito della residenza decennale potesse considerarsi ugualmente discriminatorio per i cittadini lungo-soggiornanti anche se, a ben vedere, tramite la sua applicazione, venivano lesi anche gli interessi dei cittadini italiani, almeno di quelli che ritornano in Italia dopo un periodo di residenza all’estero.
[46] In particolare da A. Ruggeri in numerosi suoi scritti, tra cui, oltre a quelli già citati in nota, I rapporti tra Corti europee e giudici nazionali e l’oscillazione del pendolo, in Consulta on line, 1, 2019, ove si evidenzia che la Corte adotterebbe un approccio assiologico-sostanziale che porta a dare centralità alle norme costituzionali. Perplessità espresse anche da C. Pinelli, L’approccio generalista del modello di rapporti tra fonti: i Trattati sono tutti uguali?, in Osservatorio sulle fonti, 1/2018, 13, che lamenta il rischio di un “effetto slavina” per cui il modello della 269 finirebbe per divenire la regola, emarginando il sindacato diffuso e l’applicabilità diretta del diritto UE.
[47] In questo senso, ad esempio, la sentenza 44/2020 della Corte costituzionale.
Immagine: Vasily Kandinsky, Houses at Murnau, olio su cartone, 1909, Chicago Art Institute, Bequest of Katharine Kuh.