ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il dialogo Habermas-Günther riletto dalla cultura giuridica italiana, parte seconda. I giuspubblicisti.
Intervista di F. Francario a D. Sorace, F.G. Scoca e G.Montedoro
Giustizia insieme, dopo avere ospitato il confronto fra Habermas-Günther messo a disposizione dal settimanale tedesco Die Zeit, nella sua versione italiana -Jürgen Habermas e Klaus Günther Diritti fondamentali: “Nessun diritto fondamentale vale senza limiti”- ha deciso di promuove un dialogo a distanza fra i due pensatori tedeschi e la cultura giuridica italiana. Il ciclo di approfondimenti è stato inaugurato dal presidente emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri -Il dialogo Habermas-Günther riletto dalla cultura giuridica italiana, parte prima - e prosegue con questa intervista di Fabio Francario ad altri tre autorevoli e illustri giuspubblicisti, Domenico Sorace, professore emerito di diritto amministrativo dell’università di Firenze, Franco Gaetano Scoca, professore emerito di diritto amministrativo dell’Università di Roma La Sapienza e Giancarlo Montedoro, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato.
F. Francario (prima domanda): Il tema dell’intervista travalica il ristretto riferimento ad un dato ordinamento nazionale e investe in termini generali il problema della possibilità di limitazione dei diritti fondamentali e del loro eventuale bilanciamento.
Inizierei chiedendo di esprimere la propria opinione sulle posizioni espresse da Habermas e Gunther proprio con riferimento al fatto che la pandemia ha messo società civile e ordinamenti giuridici di fronte allo spietato interrogativo se la tutela della vita sia un diritto veramente assoluto e incondizionato o se lo sia tanto quanto possono esserlo anche altri diritti fondamentali dell’individuo e se possa pertanto porsi un problema di bilanciamento in primis tra diritto alla vita e alla dignità dell’uomo.
D. Sorace: Il titolo dell’intervista pubblicata su Die Zeit “Nessun diritto fondamentale vale senza limiti” può valere anche a riassumere quanto affermato dalla nostra Corte costituzionale nella sentenza n. 85 del 2013, nel giudicare della costituzionalità di una legge la cui ratio era indicata consistere in un “ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione”: il diritto alla salute (art. 32 Cost) e il diritto al lavoro (art. 4 Cost). In quell’occasione la Corte ha affermato che “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri”, divenendo così “tiranno nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette”.
Mancano nella nostra Costituzione disposizioni come quelle che nella Legge Fondamentale tedesca riguardano, nel primo articolo, la dignità umana e, nel secondo, il diritto alla vita.
Tuttavia si ritiene pacificamente che il diritto alla vita sia il primo dei diritti dichiarati inviolabili dall’art. 2 (di cui è proiezione l’esclusione della pena di morte, art. 27). Obbiettivo finale di quella “tutela della salute” che, secondo l’art. 32 della Costituzione è “fondamentale diritto dell’individuo” (oltre che interesse della società) è considerato correntemente la salvaguardia della vita, la cui assolutezza è peraltro sempre più frequentemente riconosciuta alla condizione che possa essere qualificata appunto “dignitosa” (emblematica la vicenda che ha portato alla sentenza della Corte n. 142 del 2019).
D’altro canto, secondo la Corte costituzionale (nella sentenza n. 85/2013, già ricordata), tutte le “situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette ... costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona”, mentre nel testo costituzionale (rispettivamente negli articoli 3, c. 1 e 26, c. 1) si parla di “pari dignità sociale” e di “esistenza ... dignitosa”.
Riferendoci dunque al nostro ordinamento, la prima domanda da porre potrebbe essere: il diritto alla vita ha una posizione di preminenza rispetto alle libertà ed ai diritti sociali?
Si deve premettere che non è dubbio, giuridicamente, che ogni persona possa arbitrariamente decidere di rinunciare alla propria vita per una qualsiasi ragione, quindi anche perché ritiene insopportabile la carenza di libertà e/o di diritti sociali. Però in tal caso non si potrà dire che questi abbiano prevalso sulla vita della persona in questione, visto che il loro valore esiste in quanto esista la vita. Il loro valore potrà definirsi prevalente semmai nel caso di una persona che rinunci alla propria vita per favorire libertà e diritti altrui, ma in tal caso si dovrà parlare della loro prevalenza sulla vita non in termini individuali ma di comunità.
Però la questione che interessa qui è un’altra: riguarda lo Stato (intendendolo come insieme dei pubblici poteri), uno Stato retto in ipotesi da una Costituzione liberale e democratica, e la domanda è se gli si possa riconoscere il potere di togliere libertà ai cittadini al fine di salvare vite. Domanda che così posta è però troppo generica.
Innanzitutto: si tratta di togliere libertà e altri diritti ai cittadini per salvare le loro proprie vite o per salvare le vite di altri, o anche di altri?
Quanto alla prima ipotesi: se lo Stato non può imporre a una persona di vivere, a maggior ragione non può privarla delle libertà al fine di imporle di vivere.
L’ipotesi da considerare è dunque la seconda e la risposta può essere positiva se, senza limitazione di libertà e diritti di taluno, altri (o anche altri) perderà la vita: secondo la Costituzione “la Repubblica ... richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2) mentre la salute è tutelata anche come “interesse della collettività” (art. 32). Resta però fermo, ovviamente, che le conseguenti restrizioni delle libertà e dei diritti individuali potranno essere imposte soltanto con le modalità consone ad uno Stato liberale e democratico. Tuttavia, così formulata, l’ipotesi è astratta. Bisogna tener presenti invece ipotesi più realistiche: da un lato, considerando che le limitazioni delle libertà possono disporsi, da un minimo ad un massimo, in una gamma molto ampia; dall’altro lato, avendo presente che il rischio per la vita può, a sua volta, avere diversi gradi di probabilità e risolversi invece in affezioni più o meno gravi per la salute oltre che riguardare un numero più o meno grande di persone. Le limitazioni delle libertà in questione hanno comunque natura precauzionale e debbono essere appropriate e quindi rispettose del principio di proporzionalità, quindi idonee, non sostituibili, commisurate al fine.
Le misure restrittive motivate dalla pandemia Covid-19 hanno suscitato in molti un forte fastidio, però i giuristi sembrano aver ritenuto problematico il profilo della effettiva titolarità dei relativi poteri da parte delle numerose autorità che hanno decretato le restrizioni, piuttosto che quello dell’appropriatezza, secondo il canone della proporzionalità, delle pur fastidiose misure prese (ma v. nel numero del 24 marzo di questa Rivista, l’articolo di Giovanni Pitruzzella).
F.G Scoca: Mi sembra che sia universalmente condiviso (e condiviso anche da Habermas e Günther) che nessun diritto fondamentale possa essere riconosciuto in modo assoluto e incondizionato. Quanto al diritto alla vita, a differenza di ciò che risulta dall’ordinamento tedesco, non si trova, nel nostro ordinamento, una disposizione costituzionale che lo tuteli in modo esplicito; ciò non significa ovviamente che non sia adeguatamente riconosciuto e tutelato.
La Corte costituzionale considera la vita un bene fondamentale, “il primo dei diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti dall’art. 2 della Costituzione (sent. n. 223 del 1996). A me sembra che il carattere fondamentale del bene della vita possa ricavarsi (anche) dall’art. 32, che qualifica la salute “fondamentale diritto dell’individuo”, oltre che “interesse della collettività”. Dal che si deduce che il bene tutelato non è (soltanto) la vita, bensì la vita sana; bene che comporta per lo Stato, non solo il rispetto della vita dei cittadini, anzi di qualsiasi persona (ad esempio con l’abolizione della pena di morte; che, peraltro, è ancora prevista dalle leggi militari di guerra), ma anche il dovere di garantire a tutti, nei limiti delle risorse disponibili, la cura contro le malattie e le disabilità. Diverso e problematico profilo è se vi sia anche un “dovere” di vivere, ovvero se possa configurarsi un diritto alla morte: su questo aspetto, che attiene al contenuto del diritto alla vita ma esula dal tema della intervista, rinvio alla sent. Corte cost. n. 242 del 2019.
Dagli artt. 2 e 3 Cost. si ricava ancora che l’ordinamento tutela la dignità dell’uomo, ossia il diritto fondamentale ad una vita “degna”; cosicché il bene tutelato costituzionalmente è, non solo la vita in sé stessa, ma la vita sana e dignitosa.
Considerando oggetto della tutela costituzionale la vita sana, può darsi il caso (e sembra che si sia dato nl momento di massima virulenza della pandemia) che la inadeguatezza dei mezzi di cura non consenta di provvedere a tutti coloro che avrebbero bisogno di essere curati. In tal caso il diritto fondamentale alla vita dell’uno si scontra frontalmente con il diritto fondamentale, avente lo stesso oggetto, dell’altro. Si verifica una situazione in cui non c’è spazio per alcun bilanciamento; il problema si può risolvere soltanto assicurando la tutela del diritto all’uno e negandola all’altro; come in tutti i casi di salvataggio con mezzi limitati.
Il bilanciamento è possibile – e, per ciò stesso, doveroso – tra diritti fondamentali diversi: se il diritto alla vita sana si scontra con altri diritti fondamentali, ad esempio con la libertà di circolazione, di riunione, religiosa e così via, nel senso che, per tutelare il primo, diventa necessario (per concorde opinione scientifica) limitare il godimento degli altri, diventa indispensabile raggiungere soluzioni che contemperino i bisogni in contrasto tra loro, assicurando il massimo della tutela possibile per ciascuno di essi. La Corte costituzionale riconosce pacificamente che la “Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluralistiche contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e di ragionevolezza” (sent. nn. 85/2013; 20/2017).
L’assenza di assolutezza dei diritti fondamentali discende, in primo luogo e – direi – intrinsecamente, dalla inadeguatezza delle risorse disponibili ed effettivamente impiegate per la sua tutela; inoltre discende dal fatto che nessuno di essi possa essere “tiranno” (termine usato nelle sentenze citate) nei confronti degli altri.
Ci si può chiedere se l’assenza di assolutezza comporti anche la inesistenza di una scala di valori tra i diritti fondamentali. Certamente una scala di valori non si rinviene nella Costituzione né nella giurisprudenza costituzionale; tuttavia il bene della vita potrebbe (e forse può) considerarsi prevalente sugli altri beni protetti, se si attribuisse (come è possibile) un significato effettivo alla affermazione della Corte costituzionale che lo considera “il primo dei diritti inviolabili”. Se così fosse, il bilanciamento con gli altri diritti fondamentali dovrebbe consentire la tutela prioritaria del diritto alla vita. Ma anche alla vita sana e dignitosa? Propenderei per una risposta affermativa; e su questa linea mi sembra che si sia posto Habermas.
G. Montedoro: La pandemia ci pone di fronte a questioni ultime, come tali indecidibili una volta per tutte ed in modo categorico e soprattutto questioni da non affidare, se non in modo assolutamente temporaneo, allo Stato ed ai suoi doveri di protezione, a pena di scivolare in una deriva da Stato etico.
Leggo poi alcuni lati inquietanti tuttavia nel ragionamento sia di Habermas che di Gunter.
Le posizioni dell’uno e dell’altro evidenziano alcuni aspetti del problema e sono per più parti condivisibili.
Tuttavia mi preme segnare alcune perplessità relative alla loro impostazione del tema.
Leggo Habermas: “Oggi è la vita autodeterminata e autoresponsabile ad essere quella “degna”. Possono darsi situazioni che fanno venire meno tale dignità, condizioni come quelle di una malattia incurabile, di soverchiante miseria o di umiliante privazione di libertà, nelle quali una persona preferisce la morte piuttosto che dover condurre una tale vita. Ma, a prescindere da situazioni tragicamente senza uscita, una tale decisione può essere presa soltanto in prima persona, e cioè dallo stesso interessato. Nessun altro, e certamente nessun potere dello stato vincolato ai diritti fondamentali può sottrarre ai cittadini una tale decisione.”
Condivido la tesi di fondo, ossia il fatto che lo Stato deve stare alla larga il più possibile da tali questioni, salvo il dovere di proteggere i corpi ( su cui fra un attimo ), ma non mi persuade del tutto il fatto di ritenere che la dignità sia essenzialmente nella autodeterminazione, poiché a rigore questo porterebbe a ritenere che non vi sia dignità in certe estreme forme di disabilità con ogni possibile conseguenza ( non certo accettabile per Habermas ne sono convinto ma filosoficamente derivante dall’identificazione – di stampo kantiano – fra dignità ed autonomia ).
Affermare infatti che dignità sia autonomia pone il tema delle situazioni estreme delle vite non autonome, se ci si trovi di fronte a vite non degne di essere vissute in quanto non autonome, indi, in astratto, sopprimibili anche per interventi esterni, indeterminati ed “a mon avis” ripugnanti perché attuabili in chiave di darwinismo sociale.
Il caso Englaro - comunque divisivo in Italia - è diverso, sul piano di principio, l’interruzione delle cure era possibile proprio perché riportata – in modo ritenuto controvertibile ma poi accertato dal giudice all’esito di una complessa vicenda di giurisdizione volontaria – ad una volontà supposta della stessa persona incosciente e viva per ventilazione assistita e non ad una volontà di un’autorità pubblica.
Uno potenziale ruolo improprio dell’autorità pubblica si rivela un risvolto implicito e nascosto nel pensiero habermasiano come in certe concezioni del diritto alla salute che ne sottolineano troppo gli aspetti collettivistici.
Meglio ritenere piuttosto – anche in una prospettiva laica - che la vita umana anche semplicemente biologica è sempre degna o assistita da una qualficazione di dignità e che sia pericoloso dall’esterno non ritenerla, tale identificando la persona solo e soltanto con la sua autonomia ( così fa un autorevole indirizzo della filosofia tedesca e penso al professor Quante da me ascoltato in una sua interessante conferenza modenese visionabile in rete ), aprendo il campo a esiti indeterminati sul confine fra esseri umani che sono pienamente persone ed esseri umani che non lo sono più.
Ancora oltre va il ragionamento di Gunter.
Ne riporto le parole: “Nell’ambito del diritto alla vita sorge, così ( intende: con l’affinamento delle capacità di cura della medicina ) l’obbligo dello stato di tutelare vita e salute, e ciò non soltanto, come già in precedenza, nei confronti di aggressioni antigiuridiche di terzi, ma anche tramite la predisposizione di un’adeguata assistenza medica. Ciò è però sottoposto alla riserva del possibile; nessuna società può allocare tutte le sue risorse nel sistema sanitario. A seconda però di quanto una società abbia ben costruito e mantenuto efficiente il suo sistema sanitario, varia il confine tra conseguenze mortali inevitabili ed evitabili dei “rischi generali per la vita”. Qui mi sembra consista l’essenza del conflitto di bilanciamento: vi è diversità di vedute su dove tracciare il confine tra decorsi patologici mortali evitabili e inevitabili a fronte dell’elevato dispendio in rinunce alla libertà dalle conseguenze imprevedibili – tra minimo e massimo.”
Qui è esplicitamente detto che si tratta di una questione da valutarsi solo sul piano costi-benefici.
Riterrei questa prospettiva ancora una volta e più ancora della precedente una china scivolosa, apertamente improntata ad una logica tecno-efficientistica del tipo di Sloterdejik (la vita è perfomativa e timocratica; è rischiosa con quel che ne consegue; gli apparati che governano gli umani sono apparati tecnici di efficientamento).
La prospettiva va criticata a fondo.
Le decisioni sulla vita sono sempre quelle per le quali l’unico decisore dovrebbe essere la persona umana non certo lo Stato in modo paternalistico dando rilievo ora alla vita intesa come oggetto di una tutela a tutta oltranza (a prezzo di tutti gli altri diritti fondamentali e animalizzando la vita umana astrattamente riducibile nel confinamento a tempo indeterminato a quella del memorabile scarafaggio kafkiano) ora alla dignità umana (costringendo gli uomini a morire in branco o in gregge, per salvaguardare in nome della collettività e di un dovere di avere coraggio, una normalità non sostenibile in alcune circostanze, richiedendo un coraggio che al limite conduce ad una società militarizzata ed obbediente votata mannianamente o heideggerianamente alla morte, penso al Thomas Mann del Doctor Faustus ed all’essere per la morte di Heidegger).
Lo Stato, piuttosto, intervenendo a protezione dei corpi ed imponendo limitazioni severe del tipo delle ben note quarantene, deve sempre cercare di conciliare vita e dignità della vita, promuovendo più che sanzionando e riducendo al minimo il sacrificio delle libertà.
Ciò è il frutto della piana lettura della nostra Carta fondamentale.
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F. Francario (seconda domanda): Calando la riflessione nel nostro ordinamento nazionale e vista l’esperienza concretamente vissuta, muoverei dalla considerazione che compito primario dello Stato nazionale è non solo quello di selezionare gli interessi ritenuti meritevoli di tutela nel proprio ordinamento giuridico e di stabilire modi e limiti della loro protezione, ma anche quello di provvedere alla cura concreta dell’interesse pubblico. Proprio nel caso della salute, la nostra Costituzione si preoccupa di affermare che la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività.
Quando bisogna provvedere alla cura concreta dell’interesse della collettività il problema del bilanciamento si pone inevitabilmente per diverse ragioni e sotto diversi profili.
In primo luogo perché, per garantire il diritto alla vita messo in pericolo da un evento pandemico, occorre innanzi tutto elaborare delle strategie di contrasto e questo significa che bisogna effettuare delle scelte sulle misure più idonee a contrastare il pericolo. Sotto questo profilo, viene immediatamente in discussione il rapporto tra decisione politico – amministrativa e conoscenze scientifiche. Queste ultime sono vincolanti per il decisore pubblico? E se le indicazioni offerte dalla comunità scientifica non sono univoche, cosa deve orientare il decisore pubblico?
D. Sorace: Anche a proposito del rapporto fra scienza (intesa come insieme di conoscenze acquisite applicando il metodo scientifico) e decisione politica esiste una condivisibile giurisprudenza costante della nostra Corte costituzionale che ha ripetutamente giudicato incostituzionali norme impugnate risultate in contrasto con acquisizioni scientifiche (v. tra tante la sent. n. 274/2014) e invece respinto obiezioni di incostituzionalità di norme coerenti con il contesto scientifico e tecnologico (v. fra tante la sent. n. 420/1994).
Esiste un acquis della ricerca scientifica che si può chiamare “scienza certa” o “verità scientifica - cioè condivisa universalmente dalla comunità scientifica (così che chi non la condivide viene considerato estraneo a questa), anche se, eventualmente, non ancora confermata sperimentalmente (è stato detto che “la capacità di comprendere prima di vedere è il cuore del pensiero scientifico”): a tali risultati della ricerca scientifica si può fare riferimento come a “dati fatto”. Vi è però anche una “scienza incerta” o nel senso che nella comunità scientifica esistono opinioni diverse o perché sono in via di formulazione nuove ipotesi da verificare che possono portare a revisioni o correzioni dei risultati fino ad un certo momento conseguiti.
Va aggiunto che il profano non può conoscere la scienza che attraverso gli scienziati, individuabili come tali attraverso criteri più o meno formali, che indicano il loro status di appartenenti alla comunità scientifica, e che non sempre gli scienziati quando esprimono un’opinione precisano se stanno riferendo di un risultato scientifico certo o invece incerto o in evoluzione o addirittura se stanno esponendo una opinione che non pretende di essere riconosciuta come scientifica. Questo spiega il fenomeno da molti lamentato di scienziati che esprimono opinioni diverse (facendo aumentare i dubbi di una parte del pubblico sulla attendibilità della scienza).
Il decisore politico deve dunque, in primo luogo, aver chiaro se l’opinione espressa dallo scienziato (o dall’organismo scientifico) chiamato a fornirgli un parere sia l’esposizione di una “verità scientifica” consolidata (anche se solo parziale), o se esponga invece un risultato non del tutto certo perché non ancora definitivamente accettato dalla comunità scientifica o perché se ne prospetta il superamento. Nel primo caso non potrà prendere decisioni contraddittorie con l’opinione che è stata espressa mentre nell’altro caso non potrà ignorarla ma, dando atto dei motivi della incertezza, potrà anche discostarsi dal parere facendo riferimento all’opinione di altri scienziati.
Nell’esperienza ancora in corso, non sembrano esserci state incertezze sulle terapie da adottare per curare chi fosse affetto da Covid-19, mentre è sulla necessità di certe restrizioni alle libertà e ai diritti dei cittadini decise in riferimento al rischio del contagio che sono stati espressi dei dubbi.
In proposito, è da aggiungere, che una volta acquisite con la maggior certezza possibile le conoscenze scientifiche vincolanti sui meccanismi del contagio, la decisione circa la misura del rischio accettabile, in relazione al quale dovranno essere conformi alla proporzionalità in senso stretto le eventuali misure restrittive, non è di competenza degli scienziati ma spetta al decisore politico.
F.G. Scoca: Quando, come nel caso della pandemia, la strategia di contrasto può essere elaborata soltanto sulla base delle cognizioni scientifiche disponibili sul modo in cui il virus si trasmette, è logicamente necessario che le scelte operative, il concreto modus operandi, sia deciso sulla base delle indicazioni degli esperti. Se gli esperti forniscono indicazioni non coincidenti, o addirittura contraddittorie, il loro esame e l’individuazione della linea da seguire va affidata agli organi tecnici dell’amministrazione pubblica, scelti secondo le caratteristiche della situazione concreta. Ad esempio, nella pandemia che si manifesta in modo differente negli ambiti regionali, dovrebbero, a mio avviso, coordinarsi gli organi tecnici sanitari statali e regionali.
La decisione finale sul bilanciamento, in modo adeguato e proporzionato, dei diversi diritti fondamentali coinvolti, comportando anche valutazioni non tecniche, resta tuttavia affidata agli organi politici, con precisione agli organi legislativi, dato che le limitazioni di ordine generale al godimento di diritti fondamentali sono materia soggetta a riserva di legge.
G. Montedoro: La questione posta ci fa tornare da un piano filosofico ad un sano pragmatismo che però non ci deve fare dimenticare mai l’esigenza di chiarezza concettuale.
La salute e l’integrità fisica sono beni tutelabili, definibili e relativi, come i corpi. La salute peraltro ha un suo nucleo duro, indegradabile sul piano del dover essere ( si pensi al caso Ilva nel quale è sempre più chiaro che le compressioni ammissibili vanno valutate sul piano della temporaneità e proporzionalità ).
La vita invece, la sua definizione, pone un coacervo di questioni etiche e filosofiche ( lo spirito, l’anima, lo slancio vitale ) da cui il nostro legislatore, anche costituzionale, si è voluto tenere lontano, anche nella consapevolezza di quanto possano essere divisive specie in un paese già diviso come il nostro.
Non a caso le questioni del fine vita che da tempo cercano una risposta nell’ordinamento giuridico italiano, restio a consegnare alla persona una piena autodeterminazione nel senso della propria dignità, nonostante il significato più profondo della Carta risieda nella centralità della persona, vera arbitra direi fra vita e dignità.
Nell’ordinamento italiano la vita pur non espressamente nominata, è oggetto, va detto, di una considerazione culturale e sociale, per ragioni storiche, molto più alta di quanto non sia in Germania ( dove la dignità intesa come autodeterminazione è ben al centro dell’esperienza giuridica come ovvia reazione all’esperienza nazista e spesso con una coloritura kantiana o solidaristico- collettivista e meno individualistico-personalistica o vitalistica ).
La dignità umana (lo ricordava sempre Stefano Rodotà) è il valore riassuntivo di ogni esigenza di tutela della persona, ma la persona è pienamente tale se è capace di scegliere – in ogni momento - fra vita e morte (ad esempio se arrendersi o combattere un dittatore, se abiuriare il proprio credo o affrontare il martirio).
E la vita, ogni vita, è degna in quanto tale per l’ordinamento anche se la persona che la vive può ritenerla non più dignitosa e quindi non più degna di essere vissuta.
Non è certo, in linea teorica, un’autorità pubblica che può fare questa scelta.
L’autorità pubblica, piuttosto, deve sempre tuttavia incoraggiare e promuovere la protezione della vita. Questo sul piano filosofico politico deriva dall’obbligo costitutivo dello Stato che è la protezione dei corpi umani.
Nel fare questo ogni autorità pubblica deve rispettare il principio personalistico e la dignità umana anche quando ha l’obbligo di limitare le nostre libertà per proteggere la comunità da eventi pandemici.
Sull’autorità pubblica grava un dovere di protezione dei corpi (da quando, nell’età moderna, lo Stato pastore del corpo – secondo Foucault – si è sostituito alla Chiesa istituzione pastorale delle anime).
Questo dovere – di protezione dei corpi - assume aspetti invadenti le nostre libertà, in alcuni momenti, ben noti alla cultura amministrativistica.
Penso ai momenti di emergenza come le catastrofi naturali o le pandemie. Requisizioni e quarantene.
Penso all’organizzazione della difesa bellica da un nemico esterno. La leva obbligatoria.
Le emergenze richiedono mobilitazioni collettive e limitano le nostre libertà.
Le limitazioni – quando necessarie - tuttavia devono avvenire sempre nel rispetto della dignità umana ( anche il diritto bellico ha questo scopo ).
Il dibattito Habermas Gunter si è fatto meritevolmente carico di questo anche se, come prima dicevo, mi sembra, per certi aspetti, molto interno alla cultura tedesca e ad un certo modo di intendere lo Stato del benessere ( un modo calcolante i confini fra persone – aventi dignità - e persone non autonome – esseri umani a dignità ridotta - e penso, come prima notavo, agli esiti di certo kantismo ed alle riflessioni del filosofo Michael Quante ) protettivo ma in modo integrale solidaristico paternalistico e teso ad economizzare i costi sociali di tutte le scelte.
Noi siamo più individualisti, per fortuna e, nel contempo, più realisti nell’accettare, a certe condizioni un intervento pubblico, ma senza caricarlo di significati ultimi ancorandolo alle emergenze.
Intanto mi sembra già fuorviante mettere la questione in termini di ( difficile o impossibile ) bilanciamento fra valori, beni diritti od interessi senza accennare prima a quello schmittiano ( e romaniano ) stato di eccezione che è il fatto generativo di ordinamenti giuridici temporanei che si erigono quando la natura ( o la storia ) minaccia l’uomo.
Naturalmente ciò non significa che la logica del bilanciamento – e ciò in comune con gli amici tedeschi - non ci dia concrete indicazioni su come esercitare i doveri di protezione, ossia sul modo di valutare la proporzionalità degli interventi.
Ma la vera giustificazione di ciò che si fa non è il bilanciamento, ma la protezione della vita come scelta sempre doverosa (salva la decisione che può essere solo dell’individuo di far prevalere la dignità su di essa ad es. rifiutando le cure ). [1]
Il bilanciamento è una formula che significa solo “abbia il decisore equilibrio”, eviti di assolutizzare un valore su tutti gli altri, fosse anche la vita. Senza dire che proteggerci dalla pandemia ( dal virus Covid ) ci espone ad altri rischi sanitari, essendo il sistema sanitario temporaneamente concentrato su un solo obiettivo ( evitare il sovraccarico dei reparti anestesia e rianimazione ).
L’equilibrio e la mancanza di assolutizzazione ed ipostatizzazione dei valori è opportuno sempre perché la vita è rischio di morte. E la morte si rischia in tanti modi, non solo per un virus.
Ma la vera ragione delle limitazioni alle libertà nella pandemia è l’esistenza di un dovere di protezione della salute come interesse della collettività e del modo in cui questo dovere debba attuarsi di fronte ad un evento devastante ed ignoto.
La salvezza dei corpi degli amministrati potrà essere una priorità, ma solo temporanea ossia fino a quando il virus non regredirà fino a scomparire o la pandemia non si attenuerà come – a quanto sembra - sta già accadendo.
Ma non ci sono solo aspetti giuridici del tema.
Ci sono conseguenze antropologiche forse di lungo periodo (le epidemie agiscono nel profondo, su abitudini consolidate come l’alimentazione, l’affettività, il sesso).
Alcune aporie etiche – significative sul piano antropologico - sono state rivelate da Agamben (che pur errando nel ritenere l’epidemia un’invenzione entrando in un campo non suo e prendendo per buone alcune minoritarie opinioni espresse inizialmente da una parte degli scienziati esprime avvisi ai naviganti degni di considerazione).
Agamben si è espresso così : “la paura è una cattiva consigliera, ma fa apparire molte cose che si fingeva di non vedere. La prima cosa che l’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza è che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa. Gli altri esseri umani, come nella pestilenza descritta da Manzoni, sono ora visti soltanto come possibili untori che occorre a ogni costo evitare e da cui bisogna tenersi alla distanza almeno di un metro. I morti – i nostri morti – non hanno diritto a un funerale e non è chiaro che cosa avvenga dei cadaveri delle persone che ci sono care. Il nostro prossimo è stato cancellato ed è curioso che le chiese tacciano in proposito. Che cosa diventano i rapporti umani in un paese che si abitua a vivere in questo modo non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?”
Si tratta del paradigma dell’immunizzazione – su cui ha riflettuto Roberto Esposito ( immunitas come opposizione a communitas ) – che diventa un problema quando si diffonde nel corpo sociale perché lo paralizza e lo svuota.
Canetti – in Massa e potere – riteneva che la società si avesse con i movimenti di massa come neutralizzazione dell’atavica umana paura di essere toccati, la pandemia distanzia la massa, quindi ci lascia soli.
Anche la diseguaglianza può cambiare segno, può, nell’emergere di nuove gravi povertà, divenire quello che Papa Francesco ( e Bauman ), chiama lo scarto.
Lo scarto non è solo il diseguale per comparazione con il più abbiente, è il socialmente distanziato.
Potenzialmente chiunque venga categorizzato in uno status escludente.
La lotta alla pandemia si conduce meglio con queste consapevolezze.
Agamben ha continuato : “Una società che vive in un perenne stato di emergenza non può essere una società libera. Noi di fatto viviamo in una società che ha sacrificato la libertà alle cosiddette “ragioni di sicurezza” e si è condannata per questo a vivere in un perenne stato di paura e di insicurezza.
Non stupisce che per il virus si parli di guerra. I provvedimenti di emergenza ci obbligano di fatto a vivere in condizioni di coprifuoco. Ma una guerra con un nemico invisibile che può annidarsi in ciascun altro uomo è la più assurda delle guerre. È, in verità, una guerra civile. Il nemico non è fuori, è dentro di noi.
Quello che preoccupa è non tanto o non solo il presente, ma il dopo. Così come le guerre hanno lasciato in eredità alla pace una serie di tecnologie nefaste, dai fili spinati alle centrali nucleari, così è molto probabile che si cercherà di continuare anche dopo l’emergenza sanitaria gli esperimenti che i governi non erano riusciti prima a realizzare: che si chiudano le università e le scuole e si facciano lezioni solo on line, che si smetta una buona volta di riunirsi e di parlare per ragioni politiche o culturali e ci si scambino soltanto messaggi digitali, che ovunque è possibile le macchine sostituiscano ogni contatto – ogni contagio – fra gli esseri umani.”
Ha dipinto un futuro totalitario o autoritario, orwelliano ed antiumano.
Poiché in Italia ogni questione grave non è seria abbiamo ora risorgenti ( ed irresponsabili ) movide più che un Big Brother all’opera, resta però un avviso da umanista che, depurato da ogni tono apocalittico, possiamo accettare perché la movida è all’opera mentre le università e le scuole faticano a riaprire.
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F. Francario (terza domanda): Nella domanda precedente ho volutamente impiegato il termine di scelte politico amministrative per consentire un inquadramento generale del problema della scelta che il decisore pubblico è comunque tenuto ad effettuare. Sarebbe possibile precisare se si stratta di scelte propriamente politiche o amministrative, e con quali conseguenze?
D. Sorace : Sembra evidente che molte decisioni anche se non sono stati prese con atti aventi forza di legge abbiano una sostanza sociologicamente politica. Una analisi sotto il profilo giuridico non risulta ancora svolta, dato anche il grande numero e la varietà degli atti che dovrebbero esaminati.
Comunque sembra di poter dire che, al di là del grado più o meno ampio di libertà nel fine riconoscibile nel contenuto di certi atti, nessuno di essi pare svincolato dalla necessità di corrispondere ad un parametro che consente la loro sottoposizione al sindacato di legittimità, ad iniziare da quella deliberazione da parte del Consiglio dei Ministri dello stato d’emergenza nazionale, indicata da Massimo Luciani in questa Rivista come il vertice della “catena normativa”, alla quale numerosissimi anelli sono stati agganciati ed altri ancora si stanno agganciando. Se sotto un certo profilo, il contenuto di tale decisione non può non considerarsi di natura politica, non per questo essa potrebbe essere sottratta al sindacato giurisdizionale, almeno per la verifica dell’esistenza degli eventi, con i requisiti previsti dalla legge, e della previa loro valutazione da parte di un certo organo statale che ne costituiscono il presupposto.
Si può aggiungere che è stata oggetto di polemica la mancata adozione in forma di atto con forza di legge che per molti atti, data la materia trattata, si riteneva fosse necessaria. Al di là della fondatezza o meno di tale assunto, vien da osservare che la forma dell’atto amministrativo, in senso residuale, presenta il vantaggio per chi si ritenga leso di ottenere la tutela di un giudice ordinario in tempi più rapidi di quelli necessari per ottenere una pronuncia del giudice delle leggi.
F.G. Scoca: Va premesso che l’insorgere e lo svilupparsi della pandemia, a causa di un virus non conosciuto, comporta l’esigenza di interventi tempestivi e adattabili allo sviluppo della malattia ed eventualmente all’incremento delle conoscenze scientifiche.
Le scelte strategiche di contrasto alla pandemia, ossia la determinazione delle linee generali di intervento, pur dovendo tener pienamente conto del parere degli esperti, sono, a mio avviso, scelte prettamente politiche; le quali, tuttavia, non possono che attuarsi attraverso una serie di atti amministrativi (ordini, divieti, ecc.). In questa prospettiva, le scelte strategiche appartengono al legislatore; il quale le può anche delegare, secondo i principi generali, ad organi idonei a decidere con maggiore tempestività.
L’attuazione in concreto delle linee fissate dal legislatore dovrebbe essere affidata all’apparato amministrativo secondo le ordinarie competenze, sempre che allo schema ordinario delle competenze si possa fare utile riferimento. In ogni caso, data la rilevanza del fenomeno da contrastare, data la struttura regionale del nostro ordinamento, e date infine le regole di riparto delle funzioni legislativa ed amministrativa tra i diversi livelli di governo, sarebbe (stato) opportuno stabilire con disposizioni generali gli interventi affidati a ciascuno di tali livelli.
La conseguenza più rilevante della distinzione tra scelte strategiche e atti di intervento concreto è che, per le scelte strategiche, è assai difficile ipotizzare responsabilità giuridiche, sia penali sia amministrative, anche, ma non solo, perché si tratta di scelte operate con atti di livello legislativo; mentre per gli atti di concreta attuazione le responsabilità sono teoricamente predicabili.
G.Montedoro : Qui si incontra una distinzione formale.
Politica è la scelta fatta con legge o atto avente forza di legge, amministrativa è la scelta fatta con D.P.C.M.
Stiamo assistendo ad un’ampia – a mio avviso inevitabile nella prima fase - amministrativizzazione del sistema delle fonti.
La conseguenza è la riduzione degli spazi di controllo della Corte Costituzionale e l’ampliamento del ruolo del giudice amministrativo, ma qui mi fermo per doveroso riserbo.
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F. Francario (quarta domanda) Il problema del bilanciamento si pone comunque non solo al momento della pianificazione normativa delle linee generali d’intervento, ma anche al momento della concreta erogazione del servizio amministrativo. L’esperienza Covid 19 ha mostrato in maniera drammatica come la scarsità o comunque l’insufficienza delle risorse disponibili imponga di effettuare scelte su quali diritti alla vita possano essere salvaguardati, su chi possa essere salvato e su chi no. E’ immaginabile una graduazione del diritto alla vita a seconda di chi ne sia titolare? Ovvero: debbono essere comunque seguiti determinati criteri o principi quando si arriva al drammatico momento in cui non è possibile tutelare il diritto alla vita di tutti?
D. Sorace: Durante il periodo di più ampio sviluppo e di maggiore gravità della pandemia Covid.19 si sono verificate situazioni di insufficienza di risorse sanitarie che hanno imposto delle “scelte tragiche”. In quel periodo sono stati elaborati due documenti che hanno affrontato il problema, uno da un organismo professionale (la SIAARTI, Società Italiana di anestesia analgesica rianimazione e terapia), l’altro da un organo consultivo della Presidenza del Consiglio dei Ministri (il Comitato nazionale di bioetica).
Nel primo documento, SIIARTI raccomanda di utilizzare come criterio di razionamento di risorse scarse quello della “maggiore probabilità di successo terapeutico” ovvero della “maggior speranza di vita” - accettando che possa rendersi necessario porre un limite di età all’accesso ai trattamenti di terapia intensiva, - e richiama alla necessità che la decisione di porre una limitazione alle cure sia comunque motivata, comunicata e documentata. SIIARTI ritiene che l’applicazione solo di criteri di giustizia distributiva per stabilire quali cure possano ritenersi appropriate sia giustificato nella straordinarietà della situazione che vede uno squilibrio estremo fra richiesta e diponibilità. Lo scopo dichiarato delle sue raccomandazioni è rendere espliciti i criteri di erogazione oltre che sollevare i clinici da una parte della responsabilità in scelte emotivamente gravose nei singoli casi.
Nell’altro documento, il CNB ritiene che nell’allocazione di risorse scarse (che “necessita della massima trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica” “si debbano rispettare i principi di giustizia, equità e solidarietà” e “riconosce il criterio clinico come il più adeguato punto di riferimento” poiché “ritiene ogni altro criterio di selezione, quale ad esempio l’età, il sesso, la condizione e il ruolo sociale, l’appartenenza etnica, la disabilità, la responsabilità rispetto a comportamenti che hanno indotto la patologia, i costi, eticamente inaccettabile”. In definitiva il Comitato ritiene che “la priorità andrebbe stabilita valutando, sulla base degli indicatori menzionati, i pazienti per cui ragionevolmente il trattamento può risultare maggiormente efficace, nel senso di garantire la maggiore possibilità di sopravvivenza”.
Sembra che nella sostanza vi sia una convergenza nelle conclusioni dei due documenti.
Invero la situazione determinata dalla pandemia Covid-19 corrisponde ad un caso di scuola in cui tanto con criteri da law and economics che con i criteri etici propri di una certa società non si riesce a stabilire una regola che riesca soddisfacente da ogni prospettiva. Philip Bobbit, coautore insieme a Guido Calabresi, di quel libro “seminale” che è stato Tragic Choices, ha ricordato in questa rivista che in casi del genere “non esiste un "punto di equilibrio" che bilanciando i diversi valori in competizione riesca a massimizzarli tutti contemporaneamente”. Giudizio del tutto condivisibile, che può portare a qualche ulteriore considerazione.
Quanto al merito dei criteri, anche quello cronologico (ci si occupa per primo del primo arrivato) e quello casuale (si sceglie come capita), hanno una loro logica, che però si fonda sul presupposto che non possa esistere un criterio neppure approssimativamente razionale per affrontare il problema.
Sembra dunque preferibile il criterio indicato dai due documenti, sempre però che lo si intenda appunto come una raccomandazione, una guide line e non un precetto inderogabile (per esempio, ci si è domandati se a quel criterio ci si debba attenere anche nel caso che uno dei soggetti fra cui scegliere per riservargli l’unica prestazione disponibile sia uno scienziato il cui, anche breve, prolungamento della vita consentirebbe la scoperta di un vaccino o di un farmaco capace di evitare la morte di un gran numero di malati).
Sia la fissazione di criteri generali, sia le deroghe ad essi, presuppongono dati scientifici attendibili, forniti da scienziati, ma la decisione di adottare dei criteri o eventualmente di derogarvi non è in sé di natura scientifica e dunque non dovrebbe spettare ai medici. Anche se per l’urgenza potrebbe in qualche caso finire per ricadere su di loro, occorrerà tener conto di ciò.
G.D. Scoca
Ove la inadeguatezza dei mezzi di cura non consenta di tutelare tutti coloro che ne hanno necessità, la preferenza tra le persone da curare non può farsi sulla base delle loro caratteristiche fisiche (età, sesso, condizioni generali di salute) o di altri criteri oggettivi (nazionalità, cittadinanza, responsabilità familiari, livelli lavorativi, ordine temporale delle richieste, ecc.): il diritto alla vita è, in tesi, identico per tutti; non soffre graduazioni. I poteri pubblici devono, in primo luogo, cercare di incrementare tempestivamente i mezzi di cura: lasciare il diritto alla vita senza tutela deve essere una ipotesi del tutto eccezionale.
Ove tuttavia si verifichi una tale situazione drammatica, la sua soluzione non può che essere rimessa al singolo operatore sanitario; il quale dovrebbe, in base alla sua specifica esperienza, regolarsi secondo un criterio eminentemente clinico, l’unico, a mio avviso, moralmente ineccepibile (e neutro sotto il profilo della responsabilità del medico), stabilendo quale tra i malati da curare abbia migliori chances di scampare alla morte. Reputo assai difficile, e forse perfino immorale, che la regola preferenziale sia stabilita, a monte, in via generale da autorità politiche in base a criteri diversi da quello clinico.
G. Montedoro
Penso che sia un tema sul quale non si debba intervenire con norme giuridiche.
Il diritto penale e sanzionatorio si ferma di fronte all’inesigibilità della condotta.
In presenza di una scelta tragica occorre lasciare ai medici ed ai comitati bioetici dei margini di apprezzamento ed i giudici dovrebbero essere capaci di epoché.
Intendo dire che la scelta tragica va evitata, il lockdown a questo è servito, ma ove inevitabile non può seguire il criterio formale dell’anzianità del malato o della sua fragilità o della sua non autonomia o della vita di scarto.
Sono scelte che devono maturare per quanto possibile nel quadro di alleanze terapeutiche fra i medici e le famiglie.
Richiedono un’educazione collettiva al senso del limite della scienza e dell’uomo.
Il diritto – inteso come voglia di normare - si fermi di fronte a condotte inesigibili. E gli organi dell’accusa evitino di proporre razionalizzazioni a posteriori che inducono magari solo paura di operare e medicina difensiva ove vi erano impossibilità organizzative oggettive e scelte da lasciare alla sensibilità ed all’autonomia professionale dei medici, dei comitati bioetici delle persone e delle famiglie coinvolte.
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F. Fracario (quinta domanda): Le possibilità di scelta insite nella pianificazione degli interventi e nella concreta erogazione del servizio sanitario impongono anche la considerazione delle differenze esistenti tra i diversi sistemi regionali. Sono ipotizzabili o ammissibili soluzioni differenziate da regione a regione, in ragione delle risorse concretamente disponibili o della specificità del contesto territoriale propri di ciascuna di esse?
D. Sorace: Esistono al momento fra le diverse Regioni differenze non accettabili nell’organizzazione sanitaria e soprattutto nella qualità delle prestazioni sanitarie. I livelli essenziali di assistenza (LEA) non sembrano effettivamente garantiti ugualmente in tutto il territorio nazionale malgrado che il diritto alla salute sia una componente della massima importanza di quell’insieme che secondo la Corte costituzionale costituisce la “dignità”. Esiste notoriamente un problema di riordino della ripartizione delle risorse finanziarie fra le diverse Regioni del quale si parla da molto tempo ma la cui soluzione non pare ancora posta concretamente all’ordine del giorno, così come non pare ancora trovata una modalità efficace per intervenire a rimediare deficienze che non sembrano affidabili a meccanismi di autocorrezione. Sembra però innegabile l’esistenza di specificità territoriali, che riguardano, in modo più o meno accentuato, anche la salute delle persone, delle quali difficilmente potrebbe tenersi conto adeguatamente mediante un’articolazione burocratica del servizio sanitario nazionale, anche se certi impropri protagonismi cui si è assistito nei mesi passati non sono istituzionalmente corretti e sono diffusamente considerati ingiustificabili dall’opinione pubblica.
G.D Scoca: Le differenze tra i sistemi sanitari delle Regioni sono un dato di fatto e ciò comporta che nelle varie zone del territorio dello Stato la disponibilità dei mezzi di contrasto alla pandemia sia differente. Tuttavia il diritto alla vita è identico per tutti coloro che si ammalano nel territorio dello Stato. Ciò comporta che il servizio sanitario, la cui definizione e la cui disciplina hanno dimensione nazionale, deve assicurare a ciascun malato, in qualsiasi Regione sia residente, di avere le medesime opportunità di cura, anche attraverso il trasporto da una Regione all’altra e il ricovero in strutture di cura di Regioni diverse da quella di appartenenza.
A questo proposito devo aggiungere che il sistema sanitario nazionale, per come è attualmente strutturato, non consente di assicurare a tutti in loco, ovunque abbiano residenza nel territorio dello Stato, i medesimi livelli essenziali di assistenza. A mio avviso dovrebbe essere separata l’assistenza sanitaria di base e di ordinaria specializzazione, da restare affidate alle strutture regionali, dalla assistenza ultra-specialistica, per la quale dovrebbero incentivarsi strutture di eccellenza, ovunque esse siano collocate, aperte a coloro che ne abbiano bisogno, a prescindere dal luogo di residenza. Una simile riorganizzazione comporta ovviamente conseguenze anche sul modo di utilizzare e ripartire le risorse finanziarie disponibili.
D. Montedoro: La differenziazione è necessaria negli spazi non definiti dalla normativa nazionale.
Il senso è però chiaro si può solo restringere maggiormente.
Come in materia di ambiente, lo Stato fissa cautele minime non derogabili mediante aperture regionali.
Ma le regioni possono, in relazione a situazioni specifiche, adottare provvedimenti più rigorosi.
Il titolo V ci ha dato questo equilibrio.
Autorevoli voci (Sabino Cassese) si sono pronunciate in favore di un ripensamento di questo equilibrio e per un maggiore accentramento (notando anche che la profilassi sanitaria internazionale è materia statale).
Penso che queste critiche abbiano più di una ragione, poiché il sistema ha funzionato non senza poche cacofonie, ma l’urgenza imponeva anche di evitare conflitti Stato regioni e quindi si è trovato un compromesso imperfetto.
[1] Non lontano da questa idea ora espressa è Habermas che ridimensiona l’importanza deontica del bilanciamento : “Già Ronald Dworkin ci ha messo in guardia nei confronti della metafora del piatto della bilancia. I diritti non si riferiscono a “beni” che si possano bilanciare in base al peso. I diritti non sono neanche “valori”, che si possono collocare in una sequenza transitiva fondata su una condivisa preferenza politico-culturale. La decisione se un diritto sia adatto ad un caso consente solo un “si” o un “no”. Nel corso del processo di bilanciamento giudiziale i diritti fondamentali possono entrare in concorrenza tra loro. Ma, alla fine, la prevalenza resta di uno, il che significa che questo fa fuori tutti gli altri, ancorché esso debba, in caso di necessità, essere limitato in considerazione del pregiudizio agli altri diritti fondamentali che “devono arretrare”.
Dalla Sua osservazione ( di Gunter ) incidentale traggo ora che un “arretramento” non può riguardare allo stesso modo la tutela della vita e gli altri diritti fondamentali. La prima traccia, in ogni caso, al bilanciamento uno stretto confine, ove per soddisfare concomitanti pretese di diritti fondamentali un governo dovesse fare il tentativo di accettare il rischio prevedibile della morte di alcuni più o meno anziani, che hanno già vissuto la loro vita. Piuttosto, il nucleo contenutistico della tutela della vita, sulla base del carattere individualistico del nostro ordinamento giuridico, non ha un effetto impeditivo di ogni arretramento, che gli altri diritti fondamentali non hanno?”
Contraddittorio cartolare coatto, giudice amministrativo e Costituzione.
La Terza sezione del Consiglio di Stato, adita in appello nell’ambito di una controversia relativa a una procedura di gara per l’affidamento del servizio di ossigenoterapia domiciliare a lungo termine, ha dichiarato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale e di compatibilità eurounitaria dell’art. 84, co. 5 d.l. 18/2020 sollevate in relazione agli artt 3, 24, 111 Cost., 6 Cedu. In particolare, la società appellante lamentava che il rito previsto dall’art. 84, comma 5, d.l. 18/2020, nella parte in cui prevede che la causa passi in decisione in assenza della discussione orale, con la sola presentazione di brevi note due giorni liberi prima dell’udienza (diversamente da quanto disposto per le udienze penali, civili, tributarie, per la magistratura militare, nonché per le udienze celebrate dinanzi alla Corte dei conti e alla Corte costituzionale, per le quali è individuata la necessaria partecipazione degli avvocati da remoto), sarebbe inidoneo a garantire il fondamentale principio del contraddittorio, di cui dagli artt. 6 Cedu, 47 Carta di Nizza, 111 Cost., 87, co. 1 e 73 c.p.a.
Il Collegio ha dichiarato la manifesta infondatezza delle riferite questioni, essenzialmente sulla base di tre argomentazioni.
In primo luogo, poiché esse sono rivolte a una misura di legge di somma urgenza avente carattere strettamente temporaneo, fondata su ragioni di ordine pubblico nazionale, quali il “preminente interesse pubblico generale a garantire la Comunità nazionale dall’espandersi della pandemia in atto, a tutela del diritto alla vita di ciascun suo componente e del connesso diritto alla salute”, fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività (art. 32 Cost), definito come “primo dei “diritti inviolabili dell'uomo” che la Repubblica, a norma dell’articolo 2 della Costituzione, non solo “riconosce” ma “garantisce”, dovendo la Repubblica adottare, così come nella fattispecie considerata, ogni misura idonea, ragionevole e proporzionata rispetto alla gravità del pericolo e potendo in tale quadro la legge temporaneamente conformare, entro i predetti limiti, i diritti di libertà ed economici secondo le previsioni del citato articolo 2”.
In secondo luogo, in ragione del fatto che il diritto di azione e di difesa, nonché il diritto al contraddittorio processuale dell’appellante non risultano indebitamente incisi da disposizioni in grado di alterare gli esiti del giudizio in corso, data la possibilità di scambiare memorie fino a poche ore prima dall’udienza (facoltà di cui, peraltro, entrambe le Parti si sono ampiamente avvalse) e la facoltà processuale, non attivata, di chiedere il rinvio dell’udienza fino al superamento dell’emergenza, ferma restando la piena tutela cautelare, anche inaudita altera parte.
Infine, in quanto la denunciata violazione dell’art. 3 Cost, in relazione al diverso trattamento previsto per altre tipologie di riti, non sussiste laddove, “secondo la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, la non irragionevole differenziazione della disciplina di fattispecie fra loro diverse rientra nell’ambito della cosiddetta discrezionalità del legislatore”.
Nella stessa linea, il TAR Campania, sede di Napoli, chiamato a valutare la legittimità dell’aggiudicazione di una gara per l’affidamento della progettazione esecutiva e dell’esecuzione dei lavori di realizzazione di un impianto per il trattamento del percolato prodotto dalla discarica di parco Saurino, ha respinto la richiesta della controinteressata di rinvio dell’udienza per consentire la discussione orale. Nel dettaglio, il Collegio ha in primo luogo ricordato che (i) l’art. 84, comma 5, d.l. n. 18/2020 (conv. nella l. n. 27/2020) prevede che, nel periodo dal 15.4.2020 al 31.7.2020, le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati; (ii) nel giudizio de quo, le parti hanno articolato le proprie argomentazioni con ampie memorie e note di udienza, potendosi dunque ritenere adeguatamente soddisfatto il relativo diritto di difesa; (iii) la parte ricorrente non si è associata alla suddetta richiesta di differimento dell’udienza; (iv) il rinvio dell’udienza non sarebbe conforme al principio costituzionale della ragionevole durata del processo, soprattutto rispetto a quelle controversie, come ad esempio quelli in tema di appalti pubblici, in cui le esigenze di rapidità nella definizione sono vieppiù sentite.
Considerato l’orientamento manifestato dalla Sesta sezione del Consiglio di Stato nella nota ordinanza 21 aprile 2020 n. 2539 (in tal senso si vedano anche Cons. St., VI, 21 aprile 2020, n. 2538; id., V, 7 maggio 2020, nn. 2887, 2888 2889, 2890, 2891, id., III, 8 maggio 2020, n. 2918 e 2919, e la relativa analisi “Il principio dell’oralità secondo la giurisprudenza amministrativa nel periodo dell’emergenza Covid19”, a cura di V. Sordi, in questa Rivista, 27 maggio 2020), il TAR napoletano ha ritenuto doveroso sottolineare di non aver dubbi sulla costituzionalità dell’art. 84, co. 5 d.l. 18/2020, nella parte in cui preclude la discussione orale della controversia. In particolare, il Collegio ha escluso che tale norma potesse essere viziata da incostituzionalità, in quanto (i) alla stessa deve essere riconosciuta una natura eccezionale ed emergenziale, essendo finalizzata a evitare la “paralisi della Giustizia amministrativa”; (ii) il concetto di contraddittorio, quale “principio (sicuramente) ineludibile” non coincide con quello di oralità, costituendo quest’ultimo una modalità di svolgimento delle attività processuale, come tale “eventualmente surrogabile, specie in condizioni emergenziali e per un periodo di tempo limitato, da altri “modelli” (processo scritto; cfr. art. 352 c.p.c. per il giudizio innanzi alla Corte di Cassazione, art. 33 del D.Lgs. n. 546/1992 per il rito camerale tributario)”; il richiamo all’art. 6 CEDU, a dimostrazione dell’asserita incostituzionalità, non convince, dato che l’art. 15 della medesima Convenzione, “Deroga in caso di stato d’urgenza”, dispone che “1. In caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte contraente può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale”; infine (iii) “la compressione della facoltà delle parti di avvalersi della discussione orale è stata comunque bilanciata dall’introduzione dell’ulteriore strumento delle “brevi note” da depositarsi nei due giorni liberi anteriori dalla data di trattazione, a contenuto libero e quindi utilizzabili sia per la replica agli scritti delle altre parti che per la ulteriore illustrazione delle proprie prospettazioni e deduzioni”.
Anche in tale fattispecie, pertanto, il giudice amministrativo ha ritenuto che il modello processuale emergenziale, nonostante temporalmente comprima alcune facoltà processuali delle parti, è comunque conforme al sistema costituzionale, in quanto giustificato dall’esigenza di far fronte alla situazione determinata dalla diffusione del Covid-19 e, come tale, non è in grado di intaccare “in modo irrimediabile ed irreparabile la garanzia del contraddittorio tra le parti e la loro possibilità di “accesso e contatto” al/con il Giudice”.
(V.S.)
Falcone e quella notte al Consiglio Superiore della Magistratura (primo capitolo)*
* in ricordo di Carlo Smuraglia pubblichiamo intervista del 6 luglio 2020
Intervista di Paola Filippi e Roberto Conti a Carlo Smuraglia
Il Presidente emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri, già componente laico del CSM, in un suo recente saggio dedicato all’analisi delle non commendevoli vicende che attualmente agitano il mondo giudiziario (Notte e nebbia nella magistratura italiana, QG,12 giugno 2020), ha osservato che la vicenda della mancata nomina di Giovanni Falcone alla funzione di Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo assume ancora oggi un valore emblematico rispetto alle difficoltà mostrate dal governo autonomo della magistratura sul tema della c.d. anzianità senza demerito degli aspiranti a ricoprire incarichi direttivi o semi-direttivi.
Essa, a ben considerare, offre ulteriori e forse ancora maggiori punti di riflessione che riguardano da vicino il rapporto dei magistrati con le correnti, con l'opinione pubblica, la politica ed il CSM.
Giustizia Insieme intende tornare su quella vicenda per farne memoria, soprattutto a beneficio dei tanti che non vissero direttamente quella stagione ed il clima avvelenato che ne seguì, vuoi perché lontani da quella che viene considerata secondo un ben sperimentato stereotipo terra di mafia, vuoi perché non ancora entrati all’interno dell’ordine giudiziario.
Ciò ha inteso fare attraverso alcuni dei protagonisti che contribuirono direttamente a scrivere le note di quella notte del 19 gennaio 1988 consumata all'interno del plenum del CSM.
Carlo Smuraglia, Stefano Racheli, Marcello Maddalena e Vito D’ambrosio, membri alcuni togati (D’Ambrosio, Racheli e Maddalena), alcuni laici (Smuraglia) del CSM che si occupò di quella pratica, hanno accettato di rileggere quegli avvenimenti a distanza di oltre trentadue anni.
Una rilettura certamente mediata, per un verso, dall’esperienza maturata dai protagonisti nel corso degli anni passati al Consiglio Superiore della magistratura e, per altro verso, da quanto emerso rispetto alla gestione del goberno autonomo in tempi recenti.
La drammaticità di quella vicenda sembra dunque legarsi a doppia mandata all’attuale contesto storico che sta attraversando la magistratura italiana.
I contributi che seguono, nella prospettiva che ha animato la Rivista non intendono, dunque, offrire verità ma semmai stimolare la riflessione, aprire gli occhi ai tanti che non vissero quell’episodio e quell’epoca assolutamente straordinaria per tutto il Paese.
La spaccatura che si profilò all'interno dei gruppi presenti in Consiglio e delle scelte che i singoli consiglieri ebbero ad esprimere votando a favore o contro la proposta di nomina del Consigliere Istruttore Antonino Meli pongono, in definitiva, interrogativi più che mai attuali, occorrendo riflettere su quanto nelle determinazioni assunte dal singolo consigliere del CSM debba essere mutuato dall'appartenenza al gruppo e quanto, invece, debba liberamente ed autonomamente attingere al foro interno del consigliere, allentando il vincolo "culturale" con la corrente quando si tratta di adottare decisioni che riguardano gli uffici giudiziari ed i loro dirigenti.
Gli intervistati hanno mostrato tutti in dose elevata la capacità di approfondire in modo costruttivo quell'episodio e per questo va a loro un particolare senso di gratitudine.
In calce ad ognuna delle quattro interviste che saranno pubblicate in successione abbiamo riportato, oltre al verbale consiliare del 19 gennaio 1988 tratto dalla pubblicazione che il CSM ha dedicato alla memoria di Falcone, alcuni documenti storici che Giovanni Paparcuri, testimone vivente delle stragi mafiose e custode delle memorie raccolte nel museo “Falcone Borsellino” ha gentilmente messo a disposizione della Rivista. Documenti che offrono, in cifra, l’immagine dell’uomo e del magistrato Falcone e del contesto nel quale Egli operò.
La prima intervista è del Prof.Carlo Smuraglia, già senatore e presidente della commissione Lavoro del Senato, membro laico del CSM e Presidente emerito Nazionale dell'ANPI.
[In calce, il verbale della seduta del Plenum del CSM del 19 gennaio 1988]
1) Il contesto ed il clima nel quale si discusse il conferimento dell’incarico di Consigliere istruttore del Tribunale di Palermo nel gennaio 1988 ed il suo prodromo – la nomina di Paolo Borsellino a Procuratore della Repubblica di Marsala. Cosa ricorda?
2) Media e partiti politici prima, durante e dopo il voto consiliare: quale peso giocarono? Quali furono le posizioni dei consiglieri laici? Quali quelli delle correnti? E della Presidenza della Repubblica con i suoi consiglieri giuridici? Ebbe un peso l’opinione pubblica?
3) La composizione del Consiglio superiore della magistratura come influì sulla scelta?
4) Quali furono le ragioni espresse del voto e quali gli schieramenti che si manifestarono nel corso del Plenum. Ricorda qualche episodio in particolare che possa risultare, oggi, significativo?
5) Quale ruolo giocò il parametro dell’attitudine ovvero della specializzazione nell’attività di contrasto alla criminalità mafiosa nel giudizio di comparazione tra i magistrati che concorrevano alla direzione dell’ufficio istruzione (e) quanto il parametro dell’anzianità? Quali erano le regole della circolare dell’epoca sul conferimento degli incarichi direttivi, quale lo spazio rimesso alla discrezionalità del Consiglio?
6) Si assistette ad una votazione nella quale i componenti delle correnti non votarono in maniera compatta. Quale significato si sente di attribuire a questo fatto storico? Ebbero, in altri termini, un peso rilevante le convinzioni personali dei consiglieri o prevalsero motivazioni espressive comunque, nella diversità delle opinioni, della normale dialettica dell’esercizio del governo autonomo della magistratura?
7) Anche in quel caso si ventilò che l’adesione all’una o all’altra proposta avrebbe determinato uno scostamento dalla disciplina regolamentare. Allora come oggi si evocarono precedenti scelte per legittimare le rispettive posizioni. Cosa è cambiato negli anni successivi rispetto al tema delle scelte dei posti direttivi e semidirettivi?
Prof.Smuraglia
Ritengo utile partire un po’ da lontano, con una risposta unica alle varie domande, per ragioni di chiarezza e completezza di ricordi.
Rocco Chinnici, magistrato eccellente e personalità spiccata, che dirigeva l’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo ed aveva introdotto modalità organizzative dell’ufficio profondamente innovative, cercando di farlo funzionare in modo collegiale, chiamò a far parte dell’ufficio stesso Giovanni Falcone e poco dopo Paolo Borsellino. Si avviò così una collaborazione preziosa ed un impegno veramente efficace per affrontare la criminalità mafiosa, che in quegli anni si era distinta non solo per delitti atroci, ma anche per aver ucciso diversi magistrati ed uomini dello Stato. Fu quindi possibile, a Giovanni Falcone, applicare in concreto le sue “teorie“ sull’impegno giudiziario nella delicatissima materia della criminalità organizzata. Avviò così un’istruttoria di grande respiro applicando in concreto la sua convinzione di sempre, e cioè che la mafia dovesse essere perseguita, non solo sul terreno e con gli strumenti tradizionali, ma anche e soprattutto con indagini di carattere patrimoniale. Falcone partiva dal principio che se le persone possono far disperdere le proprie tracce, il denaro finisce, invece, per lasciare qualche segno del suo passaggio e dei suoi movimenti. Fu di Chinnici l’idea di dar vita a quello che poi si chiamerà “pool”, costruendo un metodo di lavoro che impegnasse al tempo stesso diversi magistrati, strettamente collegati tra loro, e tutti referenti al capo dell’ufficio.
Fu dunque impostato un lavoro molto efficace e si raggiunsero risultati un tempo impensabili. Questi successi, davvero importanti, determinarono anche una forte esposizione dei Magistrati impegnati nel pool, ma contribuirono a realizzare rapporti con altri uffici e perfino con Paesi stranieri. In particolare Falcone ebbe modo di contattare esponenti della giustizia americana, di ampliare, crescere e espandere la sua esperienza e di conquistarsi una fama di eccellente investigatore e teorico, anche a livello internazionale. Il pool, nella prima formulazione composta da Falcone e Borsellino e successivamente da Di Lello, svolse un lavoro importante, dimostrando la fondatezza dell’intuizione originaria di Chinnici, prontamente seguita e portata a ulteriori conseguenze, da Falcone ed altri. Ma Chinnici fu barbaramente ucciso il 29 luglio 1983, e fu sostituito da un altro eccellente magistrato (Caponnetto) che portò avanti e sviluppò ulteriormente il sistema di investigazione che era stato avviato e che fu essenziale per rendere possibile quello che poi fu definito “il maxiprocesso”, che si svolse fra non poche difficoltà, ma si concluse per la prima volta con molte condanne, che poi furono confermate sia in Corte d’appello che in Cassazione. Falcone era stato l’estensore della voluminosa sentenza di rinvio a giudizio, per completare la quale dovette lavorare anche nel carcere dell’Asinara, assieme al collega che aveva svolto il ruolo di Pubblico Ministero.
Nel frattempo, però, Caponnetto fu costretto ad abbandonare il servizio per ragioni di salute e tornare alla sua Firenze, ponendo il problema della sua successione. Problema tutt’altro che semplice, essendo evidente che si trattava non solo di sostituire un magistrato eccellente, ma anche di continuare la sua opera sul piano organizzativo, conseguendo – col pool – ulteriori e ancor più significativi risultati. Fu chiaro a tutti che di questo si sarebbe trattato, e non della semplice comparazione fra magistrati col criterio dell’anzianità, criterio sempre importante anche per evitare scelte influenzate da altri fattori, ma da verificare assieme alle qualità ed alle esperienze dei concorrenti, soprattutto quando – come in questo caso – si trattava di portare avanti esperienze e sperimentazioni di grande rilievo, già dimostratesi di grandissima efficacia.
Debbo dire, per quanto io mi ricordi, che questo dato apparve subito chiaro a tutti i componenti del C.S.M. sia a quelli eletti dai magistrati, sia a quelli eletti dal Parlamento. Di ciò, si discusse ampiamente, al di fuori delle sedute, come normalmente accade per le questioni di particolare importanza. Vi era chi sosteneva che doveva sempre prevalere il criterio dell’anzianità e chi invece riteneva che, pur essendo, quello dell’anzianità, un criterio importante, bisognava tener conto anche dell’esperienza e delle qualità tecniche e personali dei concorrenti, soprattutto quando si trattava della dirigenza di uffici destinati ad operare in zone molto difficili e su processi di notevole impegno. In questi confronti, informali, non entravano né criteri politici, né criteri correntizi, anche se poi chiaramente le correnti ne discussero al loro interno in modo approfondito e vario, tanto è vero che nessuna di esse votò poi, nel momento conclusivo, in modo compatto. Non ci fu, né ci poteva essere, una discussione analoga, se non sul piano strettamente personale, nell’ambito dei cosiddetti “laici “, come risulta evidente dal modo con cui ognuno di essi si espresse nella votazione conclusiva.
Sia ben chiaro, con questo, che non intendo dire che non vi siano state anche espressioni correntizie o politiche, ma che alla fine prevalsero le opinioni personali, di cui alcune certamente ispirate o da opportunismo o da ragioni diverse da quelle che poi furono espresse nel corso della famosa seduta notturna del C.S.M. Devo dire che ci furono anche dichiarazioni molto singolari, come è stato notato da studiosi e scrittori che si sono occupati a fondo del tema. Io ho un ricordo molto nitido, per fare un esempio, di un intervento quasi integralmente celebrativo delle qualità di Falcone, che poi si concluse con un voto a lui contrario; tant’è che fummo in molti a parlare di quell’incredibile discorso, come di una sorta di spiacevole “commemorazione “.
I candidati “favoriti” erano due; Antonio Meli e Giovanni Falcone. Due candidati profondamente diversi, non solo per anzianità di servizio (Meli era assai più anziano), ma soprattutto per i meriti acquisiti nel lavoro. A qualunque osservatore, anche solo un po’ attento, la differenza appariva enorme sul piano qualitativo, e tale da rendere evidente che la scelta sarebbe stata decisiva per le sorti del pool (nel frattempo arricchitosi di altri magistrati di qualità).
Nel gennaio del 1988, il Consiglio Superiore della Magistratura affrontò il tema, partendo dalla relazione della Commissione competente, che si era espressa, a maggioranza, a favore di Meli.
Correttamente, il Vicepresidente Mirabelli introdusse sottolineando l’importanza della discussione e ricordando che la questione avrebbe dovuto essere affrontata e risolta sulla base di tutti i criteri disponibili, e dunque l’anzianità, e il “merito”.
La discussione fu molto ampia e finì per occupare anche un’intera notte (il voto definitivo fu espresso nelle prime ore del mattino) e fu seguita con molto interesse dalla stampa, che si rese ben conto dell’importanza della posta in gioco. Vi fu, dunque, notevole attesa anche dall’esterno del Palazzo dei Marescialli, essendo divenuto chiaro, credo a tutti, che non si trattava solo di una delle tante scelte che il C.S.M. è tenuto a fare, ma qualcosa di assai più importante, ben oltre il piano giudiziario.
C’è un libro, di Enrico Deaglio (Patria, 1978-2008- Il Saggiatore. 2009) che riporta, sia pure a grandi linee, lo svolgimento della discussione nelle sedute pubbliche del C.S.M., riassumendo anche il contenuto di alcuni interventi. Ne emergono la disparità di vedute e la profonda divisione del C.S.M., non solo nel suo complesso, ma anche all’interno delle singole correnti , e le evidenti differenziazioni di principio fra i “laici”.
Ma, come ho già accennato, non tutti gli interventi furono ispirati alla necessaria consapevolezza e sincerità.
Una seduta singolare, dunque, molto tesa, molto complessa, anche nelle divisioni, e tutta da “leggere” con attenzione, per scoprire i reali intenti di alcuni interventi.
Il risultato, come ho detto, favorevole a Meli, fu determinato, insomma, da un mix di convinzioni legittime (anche se, a mio avviso, sbagliate), di ragioni correntizie, di scelte relative alle modalità di impegno contro le mafie, ed in alcuni casi di basse ragioni di invidia nei confronti di Falcone. Non va dimenticato, al riguardo, che Falcone è stato, prima e dopo quella vicenda, vittima anche di attacchi inaccettabili da parte di non poche personalità meschine, che combattevano l’esposizione di Falcone, dimenticando la pericolosità e l’impegno che hanno contraddistinto tutto il suo operato. Basti pensare alla vicenda del “corvo”, e della campagna diffamatoria contro Falcone, delle lettere anonime e così via, nate proprio all’interno della Magistratura e talora all’interno dello stesso Consiglio Superiore.
Peraltro, la vittoria di Meli confermò tutte le preoccupazioni che erano state espresse in quella notte dolorosa; e rappresentò la conclusione negativa dell’esperienza messa in campo da Chinnici, Caponnetto ed altri.
Insomma, io la ricordo ancora come una delle più brutte pagine della storia del C.S.M. e della stessa vita politica del Paese; una triste vicenda, che troverà, infine, il suo coronamento nella tragica e terribile esplosione del 23 maggio 1992.
Quanto alle altre domande, non posso dire granché, sia in relazione agli aspetti interni e correntizi della Magistratura, sia per quanto riguarda i componenti eletti dal Parlamento.
Posso solo dire che a prescindere dal gruppo dei tre designati dal PCI (Brutti, Gomez d’Ajala e Smuraglia) che votarono compatti per Falcone, non certo per ordini di partito, ma per profonda convinzione, nessun altro gruppo né politico, né giudiziario, è stato altrettanto compatto. In ogni “corrente” c’è stata una maggioranza in un senso, ed alcune defezioni nell’altro. Gli eletti dal Parlamento hanno votato indipendentemente dalla designazione ed in piena libertà, ma in modo del tutto variegato (si veda il quadro riassuntivo e conclusivo nel citato libro di Enrico Deaglio, a pag. 264).
Singolare è da ritenere, certamente, il fatto che in una vicenda così delicata ci siano state astensioni, poco comprensibili, al di là di quelle, per così dire “istituzionali” e relative alle cariche ricoperte. Come ho già detto, era chiaro a tutti che non si trattava di una nomina ordinaria, ma era in gioco la stessa organizzazione giudiziaria dell’impegno contro le mafie.
Infine, per rispondere ad una specifica domanda, non credo (o almeno non mi risulta) che ci siano state pressioni politiche. Per quanto mi riguarda, io avevo accettato la designazione a membro del C.S.M. da parte del mio partito alla esplicita condizione di una assoluta e totale libertà, e credo che così dovrebbe essere sempre per tutti i laici. E aggiungo che se è vero che nel C.S.M. ci sono alcuni “laici” che non si spogliano della loro tessera e della loro provenienza politica, è altrettanto certo che nel caso specifico questo, quanto meno, non fu chiaramente percepibile.
Per quanto riguarda i Magistrati e le correnti, mi pare di avere già detto che non vi fu la “compattezza” di altre occasioni, probabilmente perché il caso andava ben oltre la questione dell’anzianità. D’altronde, è vero che tra i due concorrenti c’era una forte differenza d’età di servizio, ma è altrettanto vero che la differenza sostanziale era assolutamente evidente, tanto più che il C.S.M., (“quel” C.S.M.) dette indicazioni molto significative istituendo un Comitato “antimafia” che non aveva precedenti, col solo fine di rafforzare l’impegno e la cultura necessaria per una vicenda di particolare gravità e di forte impegno, in cui oltretutto avevano perso la vita diversi Magistrati e non pochi servitori dello Stato.
Per concludere con un pensiero del tutto personale, direi che quando ci ripenso, rivedo l’alba livida di quella giornata, dopo una notte di discussione, e ricordo soprattutto non il senso di una personale sconfitta, che pure sarebbe stato legittimo, ma il senso di un arretramento gravissimo su un tema sul quale avrei voluto che tutto il C.S.M. e tutta la Magistratura (come, del resto, tutte le istituzioni ed i cittadini) fossero impegnati sempre e comunque; il che non significa fare una “giustizia orientata” ma assai più semplicemente capire che il fenomeno della criminalità organizzata e mafiosa, dovrebbe essere, per tutti, inaccettabile e affrontato dalla giustizia, con l’impegno e la cultura necessaria.
Normativa emergenziale ed esercizio pubblico del culto.
Dai protocolli con le confessioni diverse dalla cattolica alla legge 22 maggio 2020, n. 35*
di Alessandro Tira
Sommario: 1. La libertà di culto pubblico nel mosaico della nuova normativa emergenziale. – 2. I protocolli del 15 maggio 2020 tra Ministero dell’Interno e confessioni diverse dalla cattolica. – 3. Osservazioni conclusive.
1. La libertà di culto pubblico nel mosaico della nuova normativa emergenziale
Dopo l’emanazione del protocollo del 7 maggio 2020, con cui il Ministero dell’Interno ha stabilito d’accordo con la Conferenza Episcopale Italiana le condizioni per «la graduale ripresa delle celebrazioni liturgiche con il popolo», il 15 maggio il Governo ha annunciato l’avvenuta sottoscrizione, da parte del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e dei rappresentanti di numerose confessioni religiose, di analoghi protocolli per la ripresa in sicurezza delle attività cultuali pubbliche. Ciò offre l’occasione per completare l’esame di un tema già affrontato in un intervento precedente[1], precisando ed anche rivedendo alcune delle considerazioni espresse alla luce di un quadro che i nuovi protocolli e gli ulteriori interventi normativi non solo integrano dal punto di vista dell’estensione della disciplina, ma completano anche sotto il profilo dell’interpretazione complessiva.
La notizia dei nuovi protocolli si è infatti intrecciata con la ‘ristrutturazione’ del sottosistema giuridico oggi vigente in materia di emergenza sanitaria; un sottosistema che, a partire dallo scorso febbraio, era andato stratificandosi con esiti non sempre armonici, con l’effetto di suscitare talora difficoltà interpretative e di accentuare l’importanza di atti come le frequently asked questions del Ministero dell’Interno e gli interventi di chiarimento[2]. Senza addentrarsi nel complesso dibattito sulle fonti, che l’esplosione della normativa emergenziale ha suscitato tra i cultori del diritto costituzionale e pubblico[3], si deve osservare che il quadro che emerge dai nuovi interventi – i quali consistono, essenzialmente, in una legge di conversione, un nuovo decreto-legge e un ulteriore decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri – è più articolato che in precedenza, anche per ciò che riguarda lo specifico tema dell’esercizio della libertà di culto.
La legge 22 maggio 2020, n. 35 ha convertito con alcune modificazioni il decreto-legge n. 19 dello scorso 25 marzo, che recava misure urgenti per fronteggiare l’emergenza sanitaria da Covid-19 e attribuiva al Governo speciali poteri di intervento in moltissimi ambiti. Poteri che il Governo ha finora esercitato soprattutto attraverso i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri e che potrà esercitare ancora nelle stesse modalità, alla lettera del decreto-legge ora convertito, «per periodi predeterminati, ciascuno di durata non superiore a trenta giorni», con atti «reiterabili e modificabili anche più volte fino al 31 luglio 2020, termine dello stato di emergenza dichiarato con delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020» (art. 1, c. 1°)[4]. Anche dopo la conversione in legge, il d.-l. 19/2020, all’art. 1, c. 2° continua a contemplare la «limitazione o sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni altra forma di riunione o di assembramento[5] in luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo, ricreativo e religioso» (lett. g)). Il Governo potrà disporre la «sospensione delle cerimonie civili e religiose [e la] limitazione dell’ingresso nei luoghi destinati al culto» (lett. h)), ma potrà altresì disporre l’«adozione di protocolli sanitari, d’intesa con la Chiesa cattolica e con le confessioni religiose diverse dalla cattolica, per la definizione delle misure necessarie ai fini dello svolgimento delle funzioni religiose in condizioni di sicurezza» (lett. h-bis))[6]. Una previsione, quest’ultima, che è stata recepita in sede di discussione parlamentare sulla conversione in legge e che introduce la possibilità in esame, per così dire, ex post, dato che all’entrata in vigore della legge di conversione le facoltà di adottare i protocolli con le confessioni religiose era già stata esercitata dal Governo.
In parallelo alla conversione in legge del decreto di marzo, è stato promulgato anche il decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, che reca Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da Covid-19 (in vigore dallo stesso 16 maggio). Esso disciplina la materia del culto pubblico all’art. 1, c. 11°: «Le funzioni religiose con la partecipazione di persone si svolgono nel rispetto dei protocolli sottoscritti dal Governo e dalle rispettive confessioni contenenti le misure idonee a prevenire il rischio di contagio»[7]. Il successivo comma dodicesimo specifica che alcune disposizioni, tra cui quella appena menzionata, «sono attuate con provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 2 del decreto-legge n. 19 del 2020, che possono anche stabilire differenti termini di efficacia»[8]. In applicazione del decreto, inoltre, il Ministero dell’Interno ha emesso la circolare del 19 maggio 2020 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19), che tuttavia – per quanto interessa qui – si limita a richiamare ancora una volta all’osservanza dei protocolli con le confessioni religiose[9].
Sulla scia di queste disposizioni, il nuovo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 17 maggio 2020[10], le cui disposizioni resteranno in vigore fino al 14 giugno, ha infine modificato un impianto normativo che si era ripetuto, con minime variazioni[11], nei precedenti DPCM. Infatti l’art. 1, c. 1°, alle le lettere n) e o), affronta per la prima volta la questione delle cerimonie religiose disgiuntamente dalle altre ipotesi di eventi, manifestazioni e raduni. Sicché la lettera n) stabilisce ora che «l’accesso ai luoghi di culto avviene con misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra loro di almeno un metro». Si deve ritenere che tale norma riguardi essenzialmente la fruizione dei luoghi di culto per la preghiera individuale o comunque al di fuori delle cerimonie, e che sia quindi una previsione residuale rispetto a quanto disposto alla successiva lettera o). La quale, invece, afferma che «le funzioni religiose con la partecipazione di persone si svolgono nel rispetto dei protocolli sottoscritti dal Governo e dalle rispettive confessioni». Lo stesso DPCM, chiudendo così il cerchio dei richiami, contiene i testi dei protocolli agli allegati da 1 a 7; il solo protocollo per i Testimoni di Geova, aggiuntosi in un secondo momento, resta per ora fuori da tali allegati, ma si tratta di questione formale di facile soluzione, stante la natura facilmente modificabile dei decreti del Presidente del Consiglio.
A uno sguardo d’insieme, questo quadro delle fonti – si perdonerà l’espressione poco scientifica – assomiglia a una matrioska normativa, dove i provvedimenti di rango superiore sono stati in un certo senso sagomati sugli atti di rango diverso (i protocolli), i quali avevano visto la luce prima o durante la gestazione delle nuove norme e, in ultima battuta, riempiono di contenuti concreti i rimandi normativi superiori. Conviene allora considerare nel dettaglio tali testi, pur omettendo – se non per i fini della comparazione – di ripercorrere i contenuti del protocollo del 7 maggio con la Conferenza Episcopale Italiana.
2. I protocolli del 15 maggio 2020 tra Ministero dell’Interno e confessioni diverse dalla cattolica
Al contrario di quanto si ipotizzava in un primo momento, la via scelta dal Ministero dell’Interno per disciplinare la ripresa del culto pubblico delle confessioni diverse dalla cattolica non è stata quella di adottare un unico documento valido per tutti, bensì una serie di protocolli siglati con gli esponenti di una o più confessioni religiose. I sei protocolli del 15 maggio sono stati stipulati rispettivamente con le rappresentanze delle Comunità ebraiche; della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni; delle Comunità islamiche; delle Confessioni induista, buddista, Baha’i, Sikh; delle Chiese Protestante, Evangelica, Anglicana; delle Comunità ortodosse[12]. A questi ora citati se ne è aggiunto un settimo, reso noto in forma di bozza il 25 maggio, che (come anticipato) riguarda la Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova e risulta essere stato predisposto in via autonoma dalla Congregazione e poi sottoposto al Ministero per l’approvazione, dunque secondo un iter simile a quello seguito dalla CEI per la Chiesa cattolica[13].
Come si legge nella breve premessa – uguale per tutti i testi[14] – «l’esigenza di adottare misure di contenimento dell’emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2 rende necessario la redazione di un Protocollo con le confessioni religiose. Il Protocollo, nel rispetto del diritto alla libertà di culto, prescinde dall’esistenza di accordi bilaterali, contemperando l’esercizio della libertà religiosa con le esigenze di contenere l’epidemia in atto». Il riferimento alle intese con lo Stato ex art. 8, c. 3° Cost. sottolinea che quello che viene in rilievo nei documenti è un profilo dell’esercizio della libertà religiosa differente dalla valorizzazione delle specificità confessionali. Qui, piuttosto, si tratta di garantire a tutte le confessioni religiose che abbiano espresso interesse alla stipulazione dei protocolli il conseguente esercizio di uno dei diritti previsti dall’art. 19 Cost. (vale a dire il culto in forma associata), nelle presenti condizioni ancora emergenziali e dunque secondo un rigoroso bilanciamento con altri beni costituzionali. Si deve ricordare a questo riguardo l’art. 32 Cost., che tratta della salute non solo come di un «fondamentale diritto dell’individuo», ma anche come di un «interesse della collettività»; è inoltre il caso di ricordare anche il principio fondamentale sancito dall’art. 2, per cui «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», e contestualmente richiede tanto agli individui e ai gruppi «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Neppure le confessioni religiose, insomma, possono agire – pur nel nome di una libertà fondamentale qual è la libertà religiosa – in modo potenzialmente lesivo di altri interessi costituzionalmente protetti o al di fuori delle composizioni necessarie a un ragionevole equilibrio dei bisogni sociali di cui lo Stato è garante. In fondo, la tendenza a sfuggire dal gioco di questi contemperamenti concretizzava il profilo critico delle ‘fughe in avanti’ tentate nel mese di aprile da vari sacerdoti per la celebrazione di messe alla presenza dei fedeli.
Passando ora ai contenuti normativi, il testo dei sette protocolli, al pari di quello disposto con la CEI, si suddivide in cinque sezioni, la cui titolazione può cambiare lievemente da caso a caso, a seconda delle singolarità delle singole confessioni religiose, ma segue un andamento omogeneo: accesso ‘al tempio’, procedure di igiene di luoghi e oggetti, comunicazione ai fedeli delle regole e altri suggerimenti. Poiché, oltre ai titoli, anche i testi dei protocolli sono molto simili tra loro, s’intende che le disposizioni che verranno citate valgano per tutte le confessioni, salvo diversa specificazione.
La prima parte, come accennato, è dedicata alle modalità di «accesso ai luoghi di culto» in occasione delle cerimonie religiose, che nel caso delle Comunità induista, buddista (Unione Buddista e Soka Gakkai), Baha’i e Sikh diventano «funzioni religiose» e, nel caso dell’Islam, «in occasione della preghiera». Le sfumature terminologiche, naturalmente, riflettono le caratteristiche del culto praticato, che possono essere molto diverse, nelle forme e nel significato per i fedeli, da ciò che rappresentano le celebrazioni liturgiche per le confessioni cristiane (per esempio, nel caso dell’Islam, il rito del venerdì è più un momento di preghiera collettiva che una vera e propria cerimonia con differenze sostanziali rispetto a quanto il singolo fedele può praticare in privato).
Celebrazioni e incontri di natura religiosa sono consentiti, qualunque forma assumano in concreto, nel rispetto di tutte le norme precauzionali previste in tema di contenimento sanitario dell’emergenza epidemiologica. I partecipanti sono tenuti a indossare idonei dispositivi di protezione delle vie respiratorie (essenzialmente le mascherine citate dall’art. 1.3) e a mantenere distanze interpersonali di almeno un metro (art. 1.1). Naturalmente non saranno ammessi coloro che, alla prova, risulteranno avere una temperatura corporea pari o superiore ai 37,5°C, o – circostanza più difficile da verificare – «coloro che sono stati a contatto con persone positive al SARS-CoV-2 nei giorni precedenti» (art. 1.8).
Ai fini dell’osservanza delle misure di distanziamento, il legale rappresentante dell’ente individua il responsabile del luogo di culto e questi dovrà stabilire la capienza massima dell’edificio di culto. Nel fare ciò dovrà tenere conto dei sistemi di aerazione disponibili e della distanza minima di sicurezza di cui si è detto; in ogni caso non potranno essere ammesse più di 200 persone contemporaneamente (nel caso dei protocolli con le confessioni diverse dalla cattolica è stato inserito fin dall’origine il limite massimo in valore assoluto che, nel caso del protocollo con la CEI, era stato aggiunto in un secondo momento con un’apposita nota del Ministero dell’Interno del 13 maggio). L’art. 1.4 dispone che l’accesso individuale ai luoghi di culto si debba svolgere evitando qualunque assembramento, nell’edificio o nelle sue pertinenze; non si entra nei dettagli delle procedure di transito dei fedeli (come invece fa l’art. 1.4 del protocollo CEI), ma si specifica che «ogni celebrazione dovrà svolgersi in tempi contenuti». È una previsione che non trova riscontri nel protocollo del 7 maggio ed è forse stata suggerita dalla constatazione che alcuni riti – come le cerimonie cristiane-ortodosse – prevedono tempi liturgici molto ampi, il che è sconsigliabile se si considera che, per le specifiche modalità di diffusione del virus, la compresenza di persone in ambienti chiusi e poco aerati (come sono di solito gli edifici di culto) accresce sensibilmente il rischio di contrarre l’infezione.
L’art. 1.5 affida alle «autorità religiose» (solo nel protocollo per le Comunità induiste ecc. si fa riferimento ai «responsabili del luogo di culto», stante la particolare organizzazione di alcune di tali confessioni) la responsabilità di individuare «forme idonee di celebrazione dei riti» allo scopo di garantire il distanziamento interpersonale, facendo rispettare al contempo tutte le prescrizioni di sicurezza. Astenendosi dall’entrare nei dettagli rituali, la formulazione dell’articolo non solo evita di irrigidire la disciplina di aspetti che possono variare molto da confessione a confessione e forse anche tra declinazioni diverse della medesima religione, ma evita anche che sia un atto (sia pure concordato nei contenuti con i diretti interessati, però pur sempre) governativo a definire in che modo si debbano svolgere le azioni che danno forma al rito religioso, come invece fanno diffusamente le disposizioni dell’art. 3 del protocollo CEI.
Seguono alcune prescrizioni di carattere organizzativo: il contingentamento degli accessi da parte di «volontari e/o collaboratori» muniti di «adeguati dispositivi di protezione individuale, guanti monouso e un evidente segno di riconoscimento» (art. 1.6) (resta qui il problema della definizione delle rispettive responsabilità giuridiche di tali soggetti); il richiamo a distinguere le vie di accesso e quelle di uscita dagli edifici, tenendo le porte aperte per evitare i contatti (art. 1.7); l’invito a moltiplicare il numero delle funzioni, nel caso in cui la partecipazione di fedeli superi significativamente il numero di presenze consentite (art. 1.6). Si tratta di disposizioni che accomunano tutti i protocolli, compreso quello con la CEI.
Completano questo primo e più nutrito nucleo di previsioni alcuni punti che restano invece più sfumati, o che proprio non hanno pendant nel protocollo CEI. È il caso dell’indicazione, «ove possibile e previsto dalle rispettive confessioni religiose, di svolgere le funzioni negli spazi esterni dei luoghi di culto, avendo cura che, alla conclusione i partecipanti si allontanino rapidamente dall’area dell’incontro»[15]; un formula che suona più forte rispetto alla previsione di possibili celebrazioni all’aperto, rimesse quanto alla Chiesa cattolica alla valutazione dell’ordinario diocesano, per il caso in cui mancassero luoghi di culto idonei. L’art. 1.11, inoltre, prevede che i ministri di culto delle varie confessioni possano svolgere le attività proprie della loro funzione «ed eccezionalmente spostarsi anche oltre i confini della Regione, sempre che ricorrano le motivazioni previste dalla normativa vigente e nel rispetto di quanto previsto in tema di autocertificazione, corredata altresì dalla certificazione dell’ente di culto o della confessione di riferimento»[16]. Il significato della disposizione sarebbe più chiaro se non prevedesse il richiamo alle «motivazioni previste dalla normativa vigente». Gli spostamenti oltre i confini regionali, infatti, sono preclusi (da ultimo) dall’art. 1, c. 2° del d.-l. 16 maggio 2020, n. 33, il quale ne fa divieto fino al 2 giugno 2020 «salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute». Si tratta di un incrocio normativo temporaneo (i protocolli con le confessioni religiose sono entrati in vigore il 18 maggio o dopo – per i Testimoni di Geova – e il divieto generale è caduto il 2 giugno), ma riesce difficile comprendere la portata di una norma che, riferendosi a una specifica categoria di soggetti, sembra introdurre una facoltà di spostamento che viene poi subordinata al verificarsi delle condizioni in cui la medesima condotta risulta lecita per la generalità dei soggetti. La norma dell’art. 1.11, in ogni caso, non trova riscontro nel protocollo con la CEI, molto probabilmente perché l’organizzazione della Chiesa cattolica è capillarmente diffusa su tutto il territorio nazionale, mentre i ministri di culto delle altre confessioni sono in numero inferiore e sono chiamati ad esercitare adempiere alla loro missione in comunità che spesso risultano diradate sul territorio.
Vi è infine una clausola di chiusura, contenuta nell’art. 1.10, secondo cui «in relazione a particolari aspetti del culto che potrebbero implicare contatti ravvicinati, è affidata alle autorità religiose competenti la responsabilità di individuare, per ciascuna confessione, le forme più idonee a mantenere le cautele necessarie» (art. 1.10). Sarà dunque demandata all’autonomia delle confessioni, nel quadro della previsione protocollare ma senza ulteriori specificazioni da parte del Ministero, individuare secondo prudenza quali pratiche cultuali possano richiedere particolare attenzione.
Le previsioni sub 2 sono dedicate alle «attenzioni da osservare nelle funzioni liturgiche/nelle celebrazioni religiose[17]/nella preghiera[18]». Pur nella sostanziale omogeneità dei contenuti, sono quelle che fanno registrare le maggiori differenze in quanto fanno talora menzione delle specificità rituali delle varie confessioni o, comunque, declinano in rapporto alle rispettive esigenze le regole di prudenza. Tutte le confessioni, in ogni caso, convengono sulla necessità di «ridurre al minimo la presenza di ministri officianti, che sono, comunque, sempre tenuti al rispetto della distanza minima» (art. 2.1).
Si pone poi la questione della musica liturgica o dell’accompagnamento delle cerimonie, che ciascuna confessione pratica secondo esigenze e tradizioni proprie. Sicché si prevede per le Comunità ebraiche che possa essere presente un solo cantore; per gli Ortodossi «è consentita la presenza di un cantore che possa salmodiare a voce bassa»; per tutti gli altri, «ove previsto, è consentita la presenza di un solo cantore e di un solo organista, adeguatamente distanziati» (forse qui la figura dell’«organista» va intesa in senso ampio). Risalta qui l’unico caso di differenza sostanziale di trattamento, poiché il protocollo con i Testimoni di Geova prevede che «tutti i presenti alle funzioni pubbliche per il culto possono cantare su una base musicale preregistrata». È una soluzione che valorizza la particolare importanza che la Congregazione attribuisce al canto, ma che risulta piuttosto sorprendente se si considerano le ragioni strettamente sanitarie (maggior possibilità di diffusione dei virus eventualmente presenti nelle vie aeree) che hanno indotto a limitarne la possibilità per le altre confessioni. L’art. 2.3 ribadisce per tutti[19], in modo forse pleonastico vista la previsione generale dell’art. 1.1, l’impegno per gli aderenti alle rispettive comunità ad assicurare «il rispetto della distanza di sicurezza per almeno un metro».
La lettura parallela dei diversi protocolli diventa un po’ più ingarbugliata se si guarda agli artt. 2.4 e 2.5, che non compaiono in tutti i protocolli, né presentano i medesimi contenuti.
Partendo dall’art. 2.5, nel caso di Mormoni, Ortodossi, Protestanti, Evangelici e Anglicani il testo così dispone: «Si ritiene imprescindibile, se dal punto di vista liturgico non risulta possibile espungere dalla cerimonia religiosa le fasi dei riti precedentemente rappresentati dove maggiore è il rischio di contagio da SARS-CoV-2, richiamare gli officianti e tutti coloro ad ogni titolo coinvolti alla vigilanza nelle cerimonie ad un assoluto rispetto delle norme igienico-sanitarie, dell’uso dei dispositivi di protezione delle vie aeree e del distanziamento sociale». Questo corrisponde all’art. 2.3 del protocollo con le Comunità islamiche, dove si aggiunge a chiusura dell’articolo la specificazione «in particolare ove sia prevista la posizione in ginocchio» (per ragioni che è facile intuire). Scopo della disposizione è chiaramente il richiamo – rimesso, anche in questo caso, alla prudenza e all’autonomia delle confessioni religiose e non cristallizzato in dettagliate disposizioni assunte dal Ministero – a dare un’interpretazione sostanziale ed estensiva delle norme di cautela sanitaria stabilite nei protocolli. Non si rinvengono, invece, previsioni analoghe nei protocolli con i Testimoni di Geova e con le Comunità ebraiche, induista, buddista, Baha’i e Sikh.
L’art. 2.4 è quello che tocca più da vicino gli specifici aspetti cultuali e, oltre ad essere il più delicato sotto questo profilo, è presente solo in alcuni protocolli, anche perché riti affini a quello della Comunione cattolica sono presenti solo nelle altre confessioni cristiane. Così per i Mormoni «la distribuzione del Pane e dell’Acqua avverrà dopo che il celebrante avrà curato l’igiene delle mani e indossato guanti monouso; lo stesso indossando mascherina, avendo massima attenzione a coprirsi naso e bocca e mantenendo un’adeguata distanza di sicurezza avrà cura di offrire il Pane e l’Acqua senza venire a contatto con i fedeli». Per Protestanti, Evangelici e Anglicani, «la distribuzione della Comunione – Cena del Signore» avverrà secondo le stesse precauzioni sopra citate e i ministri «avranno cura di offrire il Pane senza venire a contatto con i fedeli». Per gli ortodossi, infine, si dovranno seguire le stesse cautele per distribuire «l’Eucarestia in conclusione della Divina Liturgia senza venire a contatto con i fedeli»[20].
L’articolo 3 riunisce norme per l’«igienizzazione dei luoghi e degli oggetti» che, in ragione della loro natura generale e organizzativa, sono uguali per tutti. Si dispone che i luoghi di culto vengano adeguatamente igienizzati prima e dopo ogni funzione (art. 3.1) e che all’ingresso siano resi disponibili, per coloro che ne fossero sprovvisti, mascherine e liquidi igienizzanti. Inoltre, «un incaricato della sicurezza esterna, individuato a cura dell’autorità religiosa e munito di un distintivo, vigilerà sul rispetto del distanziamento sociale e limiterà l’accesso fino all’esaurimento della capienza stabilita» (art. 3.2, che forse avrebbe trovato più congrua collocazione sub 1).
Quanto alle modalità di comunicazione delle norme di prevenzione sanitaria, l’art. 4 fa obbligo alle autorità religiose (così definite in senso ampio, oppure «responsabili del luogo di culto» o ancora, più, specificamente, «parroci») di rendere noti i contenuti dei protocolli «attraverso le modalità che assicurino la migliore diffusione» (art. 4.1). E, come nel caso della Chiesa cattolica, si specificano i requisiti minimi delle comunicazioni che devono essere affisse all’ingresso dei luoghi di culto: il numero massimo di partecipanti ammessi in relazione alla capienza dell’edificio; il divieto di accesso per i contagiati o chi è stato a contatto con ammalati di Covid-19 nei giorni precedenti; ancora una volta, gli elementari precetti igienici e di protezione personale.
Con la rubrica «Altri suggerimenti», l’art. 5 contiene una prima disposizione (art. 5.1) uguale per tutti («Ove il luogo di culto non sia idoneo al rispetto delle indicazioni del presente Protocollo, può essere valutata la possibilità di svolgere le funzioni all’aperto, assicurandone la dignità e il rispetto della normativa sanitaria, con la partecipazione massima di 1.000 persone»[21]), mentre il solo protocollo con le Comunità islamiche ne contiene una seconda (art. 5.2), in cui si specifica che «il luogo di culto resterà chiuso qualora non si sia in grado di rispettare le misure sopra disciplinate». È questo un unicum, in quanto – se intesa alla lettera – la disposizione sembrerebbe comportare l’impegno a chiudere, nell’eventualità, i luoghi di culto anche alla preghiera individuale, ma forse può essere inteso più semplicemente come una conferma della determinazione delle Comunità in parola ad evitare che si prendano forma riunioni di fedeli se non nel rispetto delle regole di precauzione sanitaria che fin qui sono state illustrate.
3. Osservazioni conclusive
A conclusione di questa rassegna dei contenuti, vorremmo portare brevemente l’attenzione su tre considerazioni di carattere generale, che riguardano i protocolli complessivamente intesi.
Merita, innanzi tutto, una riflessione la scelta del Governo di procedere attraverso l’individuazione di singoli o di piccoli gruppi di interlocutori. È una soluzione intermedia rispetto all’opzione tra un unico atto normativo (che avrebbe avuto il pregio di garantire la piena parità di trattamento di tutte le confessioni religiose, anche quelle non intervenute al confronto, ma forse anche il limite di sacrificare in partenza le pur limitate specificità che emergono dalla lettura dei testi) e la stipulazione di protocolli con i singoli interlocutori (che, viceversa, avrebbe forse consentito di ‘personalizzare’ di più i contenuti, ma a prezzo di maggiori difficoltà pratiche). Come è stato osservato, è prevalso «un criterio di ‘familiarità religiosa’, per cui sono state accorpate per quanto possibile esigenze simili», in nome di «un’esigenza di praticità e buon senso»[22]. La vicenda del protocollo per i Testimoni di Geova, aggiuntosi in un secondo momento, dimostra in ogni caso che si tratta di un sistema aperto, a cui le singole confessioni religiose che ancora non l’abbiano fatto possono accedere in tempi piuttosto celeri e con esiti prevedibili. Questo, insieme alla natura pur sempre interinale di tutto il sistema, permette di considerare con maggiore elasticità i limiti di questo modus operandi, che pure non mancano.
In secondo luogo, la dottrina si è posta il problema di considerare quale tipo di collaborazione tra lo Stato e le confessioni configurino questi protocolli. Ad avviso di alcuni Autori – si citano, in particolare, le posizioni di Jlia Pasquali Cerioli[23] – sono molti gli aspetti che inducono a considerare i protocolli estranei, in senso proprio, alla disciplina dei rapporti inter-ordinamentali tra la Repubblica e le confessioni religiose delineata dagli articoli 7, secondo comma, e 8, terzo comma, Cost., avente il fine di comporre interessi disponibili e dunque estranei agli ambiti nei quali ciascuna delle parti esercita in via esclusiva poteri sovrani. Vi è innanzi tutto il dato formale, per cui si tratta di protocolli propri del Ministero dell’Interno, benché sottoscritti anche dalle rappresentanze religiose, non anticipati da testi bilaterali quadro di natura apicale e soprattutto estranei alle procedure di cogestione dell’indirizzo politico tra il Governo e il Parlamento che caratterizza le fonti pattizie. Tali documenti, all’opposto, riguardano materie indisponibili – impermeabili a trattative negoziali che ne possano alterare il contenuto – quale la garanzia della salute individuale e collettiva, dinnanzi a cui lo Stato mantiene il potere di intervenire (come emerge nel caso del protocollo con la CEI) riqualificando condotte di matrice confessionale in fatti giuridici civili, dunque considerando anche i comportamenti di rilevanza interna delle confessioni religiose alla stregua di qualsiasi altro fatto di rilevanza sociale e sanitaria. In quest’ottica, i protocolli risultano essere invece, nella forma e nella sostanza, moduli concertati di collaborazione, alla stregua di quelli che, già in altri campi, lo Stato adotta con le rappresentanze di interessi sociali organizzati. Da parte loro le confessioni religiose, con siffatta partecipazione, preso atto degli imperativi di salvaguardia della salute, rappresentano allo Stato le forme di adattamento dei propri interna corporis che valutano più efficaci per perseguire il bene comune, a cui tutti i soggetti, confessioni religiose comprese, sono chiamati in nome dei doveri inderogabili di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.[24] (basti ricordare in proposito l’impegno sancito dall’art. 1 dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense, con cui la Chiesa cattolica si impegna, insieme allo Stato, al pieno rispetto del principio di distinzione tra sfera temporale e sfera spirituale e, in questa prospettiva, alla «promozione dell’uomo e il bene del Paese»). Viceversa, altri Autori sottolineano come, sia pure attraverso modalità inedite dal punto di vista formale, i protocolli abbiano rispettato nella sostanza il principio della bilateralità[25]: si tratterebbe dunque di una modalità nuova di applicazione dei princìpi costituzionali che regolano i rapporti in materia di rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose – pur nelle forme semplificate e settoriali imposte dall’emergenza sanitaria – e che risultano, in ultima analisi, giustificabili anche in ragione della natura interinale dei provvedimenti. Una terza posizione, infine, scorge nella vicenda dei protocolli ministeriali le avvisaglie, sia pure presenti solo in nuce, di esperienze di dialogo religioso con le confessioni che, superando le rigidità strutturali dei tradizionali metodi della bilateralità pattizia, potrebbero rivelarsi forieri di futuri sviluppi[26]. Qualunque sia la soluzione più coerente dal punto di vista dogmatico, sul piano sostanziale le soluzioni approntate con le confessioni religiose manifestano l’interesse dell’ordinamento statuale alla cooperazione con gli ordinamenti religiosi, al fine di un più efficace contemperamento tra le esigenze della prevenzione sanitaria e le istanze del culto, che resterebbero altrimenti insoddisfatte e potenzialmente confliggenti con le prime.
Di sicuro, l’elaborazione dei protocolli con le altre confessioni religiose ha fatto emergere la tendenza ad adottare un testo standard (perlomeno quanto alle confessioni diverse dalla cattolica), a cui i diretti interessati della parte confessionale hanno apportato, d’intesa con il Ministero, piccole variazioni per adattarli alle rispettive specificità. Nel fare questo – lo si è già accennato osservando le singole disposizioni – il testo ministeriale si è mantenuto su toni più ‘leggeri’ rispetto al protocollo con la Chiesa cattolica, quanto alla menzione e al disciplinamento dei singoli aspetti della vita interna delle confessioni religiose, anche di carattere liturgico. Risulta quindi più chiaro, alla luce degli sviluppi complessivi, che in quel caso, a portare il confronto e dunque l’esito normativo in tale direzione sia stata la ricezione da parte del Ministero di un testo predisposto dalla Conferenza Episcopale, che evidentemente l’aveva predisposto nell’ottica prioritaria delle sue esigenze di disciplina interna.
Infine, restano sempre vivi i dubbi su quali saranno, in concreto, le modalità con cui le previsioni dei protocolli per la ripresa del culto verranno interpretati e fatti osservare. Molto – ma non è certamente una novità o una regola valida solo in questo campo – dipenderà dallo spirito di collaborazione e dal senso di responsabilità con cui i destinatari delle norme sapranno collaborare alla realizzazione del bilanciamento che i protocolli hanno cercato di delineare: maggiore libertà, al prezzo di maggiore responsabilità e dell’impegno diffuso a considerare anche le attività cultuali non solo come cosa a sé stante, avulsa dai bilanciamenti di valori che abbiamo ricordato in precedenza, ma anche come situazione potenzialmente foriera di rischi sanitari, al pari di qualunque altra situazione sociale.
* NOTA: l’articolo è stato chiuso il 1° giugno 2020.
[1] Si consenta di rimandare, quanto al protocollo con la CEI e una più ampia bibliografia, ad A. Tira, Libertà di culto ed emergenza sanitaria: il protocollo del 7 maggio 2020 concordato tra Ministero dell’Interno e Conferenza Episcopale Italiana, in Giustizia insieme, 16 maggio 2020. Si vedano altresì, in aggiunta alla bibliografia ivi richiamata e oltre a quella che verrà citata nelle prossime pagine, L. Decimo, La “stagione” dei protocolli sanitari tra Stato e confessioni religiose, in Olir.it, 14 maggio 2020; T. Di Iorio, La quarantena dell’anima del civis-fidelis. L’esercizio del culto nell’emergenza sanitaria da Covid-19 in Italia, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2020, 11, pp. 36-67; S. Montesano, La Chiesa Cattolica e il Governo: la bilateralità tra “leale collaborazione” ed emergenza, in Olir.it, 12 maggio 2020.
[2] Si veda, per esempio, la nota del 27 marzo 2020 Sulle esigenze determinate dall’esercizio del diritto alla libertà di culto. Con essa il Ministero dell’Interno forniva un’interpretazione su alcuni punti di grande rilievo della normativa allora vigente, per esempio dichiarando che l’atto di recarsi in preghiera presso un luogo di culto (pur legittimamente aperto) doveva intendersi consentito solo se compiuto in occasione di un’uscita motivata dalle tassative ragioni (di salute, lavoro o sussistenza) allora previste e da attestarsi tramite autocertificazione. Una nota analoga era stata inviata dal Ministero al metropolita Gennadios, Arcivescovo ortodosso d’Italia ed Esarca per l’Europa meridionale, il quale aveva in seguito provveduto con la lettera del 4 aprile 2020 a dare al clero della Sacra Diocesi Ortodossa istruzioni coerenti con i chiarimenti ricevuti.
[3] Cfr. ex multis, per i profili generali della questione, M. Luciani, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, in Consulta Online, 11 aprile 2020. Riguardo alle complesse interazioni tra i diversi livelli normativi, nazionale e regionale, si veda F. Ruggiero e A. Bartolini, Sull’uso (e abuso) delle ordinanze emergenziali regionali, in Giustizia Insieme, 23 aprile 2020. Con specifico riferimento alla libertà religiosa, si veda invece P. Consorti, La libertà religiosa travolta dall’emergenza, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2, 2020, pp. 369-388.
[4] Il testo del d.-l. 25 marzo 2020, n. 19, coordinato e aggiornato con la l. 22 maggio 2020, n. 35, è consultabile nella Gazzetta Ufficiale. Serie generale, n. 132, 23 maggio 2020, p. 23 ss.
[5] Corsivo aggiunto. Le parole «o di assembramento» sono state inserite in sede di conversione in legge e chiariscono che il divieto e le conseguenti sanzioni riguardano non solo i casi di «riunioni» organizzate e intenzionali, ma anche gli «assembramenti» occasionali e spontanei.
[6] Il testo recepisce gli «identici emendamenti» al disegno di legge di conversione proposti dai deputati Ceccanti, Occhiuto e De Filippo (emendamenti presentati in pendenza del confronto tra Governo e CEI sull’allora emanando protocollo del 7 maggio).
[7] Poiché l’art. 1, c. 11° disciplina espressamente il caso delle funzioni religiose, si può ritenere che, al di fuori di quelle occasioni la fruizione dei luoghi di culto sia sottoposta alla regola dell’art. 1, c. 8°, che fa divieto di qualsiasi «assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico».
[8] Cfr. il testo del decreto-legge come modificato dalla legge di conversione (selezionare dalla mascherina le pagine 27, 28 e 29 del documento, che corrispondo alle p. 25-26 dell’impaginato della Gazzetta Ufficiale del 23 maggio 2020).
[9] «Lo svolgimento delle funzioni religiose con la partecipazione di persone dovrà avvenire nel rispetto dei protocolli sottoscritti dal Governo e dalle rispettive confessioni (allegati da 1 a 7 al d.P.C.M.), contenenti le misure idonee a prevenire il rischio di contagio (art.1, comma 11, D.L n.33/2020)» (p. 3).
[10] Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 17 maggio 2020, Disposizioni attuative del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, recante misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19, e del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, recante ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, in Gazzetta Ufficiale. Serie Generale, n. 126, 17 maggio 2020 (consultabile qui).
[11] Il riferimento è alla previsione della possibilità per non più di 15 persone di assistere alla celebrazione dei riti funebri, che era stata introdotta dall’art. 1, c. 1° lett. i) del DPCM 26 aprile 2020.
Più in generale è il caso di segnalare che la disposizione in oggetto (ma nella sostanza la valutazione può essere estesa a tutte quelle simili che l’hanno preceduta nei vari DPCM) è stata ritenuta non lesiva del diritto di libertà religiosa dal Giudice amministrativo. Pronunciandosi sull’istanza cautelare della sospensione dell’efficacia, richiesta insieme all’annullamento del DPCM del 26 aprile 2020, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (sez. I, decreto 3453 del 29 aprile 2020) ha «considerato che, nella specie, non sussistono le condizioni per disporre l’accoglimento dell’istanza anzidetta nelle more della celebrazione della camera di consiglio, dovendosi ritenere prevalente la tutela della salute pubblica, per come prevista nell’impugnato provvedimento, di natura latamente discrezionale». Il Giudice è pervenuto a tale conclusione considerando «altresì che il sacrificio della pur comprensibile esigenza, prospettata dal ricorrente, di partecipare fisicamente alle cerimonie religiose può ritenersi in via temporanea compensato dalla possibilità di soddisfare il proprio sentimento religioso usufruendo delle numerose alternative offerte mediante gli strumenti informatici».
[12] Un utile quadro sinottico dei testi dei protocolli, a cura di Simone Baldetti, è consultabile sul sito Diresom.net, a questo link.
[13] Nella nota conclusiva del protocollo del Ministero dell’Interno con la CEI si legge infatti che «Il Comitato Tecnico-Scientifico, nella seduta del 6 maggio 2020, ha esaminato e approvato il presente ‘Protocollo circa la ripresa delle celebrazioni con il popolo’, predisposto dalla Conferenza Episcopale Italiana» (corsivo aggiunto); circa le diverse modalità di trattativa della CEI rispetto alle altre confessioni si veda L.M. Guzzo, Stato e religioni: il dialogo è metodo, in Re-blog, 8 maggio 2020; critiche a questo modus operandi sono state espresse da G. Macrì, Brevi considerazioni in materia di governance delle pratiche di culto tra istanze egualitarie, soluzioni compiacenti e protocolli (quasi) “fotocopia”, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2020, 11, pp. 68-96. Le formule di chiusura dei protocolli del 15 maggio suonano invece così: «Il Comitato Tecnico-Scientifico, nella seduta [sic] n. 71 del 12 maggio e n. 73 del 14 maggio 2020, ha esaminato e approvato il presente ‘Protocollo […]’ con le raccomandazioni che sono state recepite».
Sempre nell’ottica di valorizzare i più minuti dettagli lessicali, quello del 25 maggio si intitola Protocollo per [anziché con, come si trova nel titolo di tutti gli altri testi concordati con le confessioni diverse dalla cattolica] la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova: la piccola variante serve probabilmente a rimarcare la posizione dottrinale dei Testimoni di Geova, i quali, pur senza opporvisi, rifuggono da ogni forma di partecipazione politica e, tendenzialmente, anche dalle relazioni istituzionali con le autorità civili. Il loro protocollo, ad ogni modo, si conclude con una formula anodina: «Il Comitato Tecnico-Scientifico, nella seduta del …, ha esaminato e approvato il presente ‘Protocollo per la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova’».
[14] Solo nel protocollo per i Testimoni di Geova è stata aggiunta una specificazione sull’efficacia temporale del testo, che si limita a dichiarare apertis verbis quanto che negli altri casi resta implicito: «Il Protocollo resterà temporaneamente in vigore fino alla ripresa delle normali attività, al termine dell’emergenza sanitaria legata alla pandemia da SARS-CoV-2. Nel caso in cui il Governo adotti misure meno restrittive durante il graduale passaggio al ripristino delle normali attività, tali misure sostituiscono quelle previste dal presente Protocollo».
[15] «Dall’area della preghiera», nel protocollo con le Comunità islamiche.
[16] L’art. 1.11 presenta minime varianti nei diversi protocolli, in particolare per quanto riguarda la definizione dei soggetti destinatari della disposizione, che nel caso degli Ortodossi sono definiti «sacerdoti»; nel caso di Indù e altre confessioni accomunate nel medesimo protocollo, «autorità religiose, ministri di culto o responsabili del luogo di culto (uomini e donne) autorizzati dalle rispettive confessioni»; per i Mussulmani «ministri di culto o responsabili di comunità (uomini e donne) autorizzati dai rispettivi organismi religiosi». Nel caso dei Testimoni di Geova si specifica inoltre la necessità che la certificazione in parola «attesti il ruolo di ministri di culto e la natura delle attività religiose che svolgono».
[17] Così recita il protocollo con le Comunità ebraiche.
[18] Protocollo con le Comunità islamiche.
[19] Nel caso delle Comunità islamiche, che non usano forme di canto nella preghiera, l’impegno al distanziamento nel corso delle pratiche cultuali è riportato anche all’art. 2.2.
[20] Quanto alle Chiese ortodosse (in particolare quella Romena) la questione è particolarmente delicata, perché la Comunione, sotto le due specie eucaristiche del Pane e del Vino, viene generalmente impartita con l’uso di un cucchiaio (uno solo per tutti i fedeli). Che la questione liturgica abbia risvolti molto concreti è emerso nel recente caso di Reggio Emilia, ricostruita negli articoli consultabili qui e qui.
[21] Anche in questo caso, i protocolli con le confessioni diverse dalla cattolica recepiscono direttamente il numero massimo di fedeli che il Comitato tecnico-scientifico ha invece aggiunto in un secondo tempo al protocollo con la CEI.
[22] Così P. Consorti in L.M. Guzzo, Riprendono anche i riti non cattolici. Per la prima volta accordi con islamici e confessioni senza intesa Intervista al Prof. Pierluigi Consorti, in Diresom.net, 16 maggio 2020, pp. 3-4.
[23] Per una considerazione generale dell’A. sui temi sottostanti si veda J. Pasquali Cerioli, Una proposta di svolta, in La legge che non c’è. Proposta per una legge sulla libertà religiosa in Italia, a cura di R. Zaccaria, S. Domianello, A. Ferrari, P. Floris, R. Mazzola, Bologna, Il Mulino, 2019, p. 349-356.
[24] Cfr. per la Chiesa cattolica le considerazioni svolte, anche oltre i rispettivi ambiti specifici di applicazione, da G. Casuscelli, Enti ecclesiastici e doveri di solidarietà, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2014, 7; F. Di Prima e M. Dell’Oglio, Lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, oggi: il consolidamento del principio della reciproca collaborazione (art. 1 Accordo di revisione concordataria). Il paradigma delle fabbricerie, in JusOnline, 2018.
[25] Si veda, a titolo di sintesi per un tema che meriterebbe ben altra bibliografia, C. Cardia, voce Intese (Dir. eccl.), in «Il Diritto. Enciclopedia giuridica», VIII, 2007, pp. 219-223 ed amplius, anche con riferimento alle diverse implicazioni, C. Cardia, Ordinamenti religiosi e ordinamenti dello Stato. Profili giurisdizionali, Bologna, Il Mulino, 2003. Riprendendo un dibattito dottrinale scaturito fin dalle prime settimane dell’emergenza sanitaria, legge in chiave critica il problema della bilateralità nel contesto attuale F. Botti, Bagattelle per un’epidemia, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2020, 10, pp. 1-21.
[26] «Il paragone fra sistemi centenari (quelli di bilateralità pattizia) ed esperienze contemporanee (quelle di dialogo religioso) comporta l’impiego di creatività ed energie nuove. Tale impegno nasce dall’analisi della società contemporanea, che restituisce un’immagine di ‘superdiversità’, nella quale il ruolo delle comunità religiose non si atteggia tanto come quello di poteri paritetici allo Stato, quanto quali formazioni sociali (art. 2 Cost.) che concorrono al «progresso materiale e spirituale della società» (art. 4 Cost.). Questo modello di esercizio della laicità ha il vantaggio di sottolineare le diversità che si presentano anche al livello territoriale, ove sono presenti ‘consulte’ o ‘tavoli’ che possono efficacemente mettere in relazioni bisogni specifici e risposte concrete, in grado di superare efficacemente criticità puntuali che il sistema pattizio al livello statale non è sempre – come dimostrano anche gli ultimi avvenimenti – capace di affrontare»; P. Consorti, Esercizi di laicità: dalla bilateralità pattizia al dialogo interreligioso (a causa del Covid-19), 7 maggio 2020.
Presentazione dell’incontro con Marco Damilano – 3 giugno ore 18.00 – diretta su “zoom” e bacheca Facebook “Memoteca Montanari” di Francesco Messina
La ricostruzione del passato è stata spesso manipolata al fine di fornire ai cittadini una interpretazione dei fatti che è funzionale alla tutela di determinati interessi, alterando così i processi cognitivi della scelta consapevole. Il dialogo organizzato per mercoledì 3 giugno, in occasione della ristampa del libro di Marco Damilano “Un atomo di verità”, ha lo scopo di discutere su un tema fondamentale, quello della verità nascosta o non completamente svelata, esaminandolo da esperienze e angolazioni culturali diverse, ma convergenti nella finalità. Si tratta di esaminare l’ampiezza di un fondamentale diritto della persona umana (quello a una conoscenza, il più possibile piena, della storia e della politica), i meccanismi distorsivi della realtà e i mezzi per cercare di restarne immuni.
E, infine, di comprendere cosa abbiamo perso nei "percorsi spezzati" della vicenda democratica italiana e cosa possiamo ancora guadagnare dall’analisi rigorosa di essi. La vicenda di Aldo Moro - tragica nel suo esito sia umano, ma decisiva sul piano politico - è paradigmatica dei tanti eventi cruciali e cupi degli ultimi decenni storia del nostro Paese, e del modo con cui essi sono stati rappresentati alla maggioranza dei cittadini. Il tema dell’incontro - il “diritto alla verità, inteso come pretesa soggettiva concreta - pone un problema non tanto della quantità dell'informazione a disposizione di ognuno, ma della sua qualità e della sua correttezza su fatti epocali. Da tempo, le tradizionali agenzie formative della collettività italiana (scuola, partiti politici, associazioni culturali) confliggono, o sono state sostituite, dal sistema mediatico-comunicativo della semplificazione e dell’immediatezza, con l’effetto di creare immagini distorte della realtà, anche di quella storica, instillando il concetto tanto suadente, quanto falso, del cittadino che “sa già tutto” e non ha bisogno della ricerca e della riflessione quale momento indispensabile per un giudizio.
L'ignoranza della storia, l'inutilità di reperire la ragione profonda delle cose sono teorizzate come nuovo stile esistenziale per ottenere un gratificante riscontro privato e, soprattutto, pubblico. Tutto questo non accade per caso o in conseguenza di un ineluttabile destino collettivo, ma per una sempre più diffusa e organizzata mancanza di principi etici e di senso critico.
Un deficit che sedimenta e cristallizza l’esistente, e inibisce la dialettica del cambiamento.
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Riprendendo Moro e la lezione storico-politica del decennio italiano che va dal 1968-1978, si può dire che la conoscenza è sempre una questione di metodo. Italo Calvino avvertiva che coloro che vogliono semplificare a tutti i costi ciò che, per sua natura, è complesso, in realtà preparano solo menzogne; diversamente, chi dà risposte precise a questioni complesse dimostra l'unico atteggiamento utile e onesto.
“Onesta” e “verità” sono concetti profondamente legati sul piano teorico e conseguenziali su quello pragmatico. Il diritto alla verità rappresenta un "luogo della conoscenza" in cui la personalità umana, che è archetipo della Costituzione Repubblicana, si manifesta nel modo più dinamico e, si badi bene, anche con il maggior bisogno di solidarietà culturale. La ristampa del libro di Marco Damilano offre, quindi, un’opportunità precisa, quella di riesaminare una parte decisiva del nostro passato (ma poi è davvero passato? oppure vi è una coazione a ripetere?), e di farlo in modo attento e rigoroso, acquisendo anticorpi culturali contro la perdita della memoria e il possibile verificarsi di derive autoritarie.
Il dialogo del prossimo 3 giugno vuol quindi significare la necessità delle prospettive differenti, quelle del giornalista e del magistrato, per esaminare fenomeni che, per la loro natura, hanno bisogno della cultura delle competenze nel ricomporre il puzzle della complessità della Storia.
Il filo di questo sforzo comune, che vuol essere l’espressione del pensare e dell’agire democratico nella comunità, lo si trova nel significato più autentico della parola di “politica”; e cioè, per dirla con Isaiah Berlin, nell’arte del vivere nella “polis”, un’attività della quale anche coloro che preferiscono la vita privata non possono fare a meno. Significa sforzarsi di mettere in equilibrio scrupoloso e complementare i risultati giudiziari e quelli dell’analisi giornalistica.
D’altra parte, è solo elevando la pretesa culturale dei cittadini che si può affinare la qualità della risposta delle Istituzioni.
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Viviamo un tempo in cui, rispetto al futuro inquieto che ci aspetta, “nulla sarà come prima”. Sull’espressione, sempre più abusata, grava il pericolo che essa possa divenire l’ennesimo stereotipo linguistico di una gattopardesca riproposizione dell’esistente.
Di certo, la grave crisi etica ed economica con la quale tutti ci confrontiamo dovrebbe – anche - portarci a cogliere il dato positivo che ci viene imposto dalla Storia, e cioè quello di ri-pensare gli scopi soggettivi e quelli societari attraverso i quali, come avvertiva Alessandro Duranti, qualsiasi società - capitalistica, feudale o egualitaria – evolve oppure perisce.
E’ quando le difficoltà sono più dure che bisogna essere razionali, capaci empatia con il passato che ci “precede”, ci identifica, solo a saperlo e volerlo riconoscere.
Spesso nel dibattito pubblico si fa riferimento - quasi a fornire la soluzione ultima di ogni discussione - alle scelte del popolo, alla sua tradizionale, intrinseca saggezza.
Ma questo dovrebbe essere un punto di partenza, e non di arrivo, di una riflessione.
Dovrebbe porre interrogativi più che essere, come quasi sempre accade, un’opzione per blandire il cittadino, facendogli credere di possedere una conoscenza che, invece, non ha, perché gli è stata accuratamente nascosta.
C’è da recuperare, a mio avviso, il significato e il valore della parola più pregnante dei Costituenti della Repubblica- e Moro lo è stato - e cioè quella di “compito”, etimologicamente inteso come azione che completa, colma i vuoti, in una faticosa ma incessante “rimozione degli ostacoli”.
Scriveva Elio Basso che “la democrazia, cioè la sovranità del popolo, sarà più o meno effettiva a seconda che il popolo sarà più o meno in grado di avere e di formulare una propria volontà libera e cosciente e di controllarne l'adempimento. Ciò che dipenderà dalle condizioni economiche sociali e culturali della popolazione”.
Preporsi un “compito”, al di là della sua realizzazione, all’insegna della “verità” sono i presupposti e le ragioni di ogni responsabile impegno.
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