ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Revoca di finanziamenti pubblici per la realizzazione di progetti di accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo:
la giurisdizione è del giudice amministrativo (nota a Cons. Stato, Sez. III, 28 maggio 2020, n. 3375)
di Marco Calabrò
Sommario: 1. La vicenda. – 2. L’organizzazione del sistema di accoglienza della popolazione immigrata in Italia. – 3. La tesi (respinta) dell’inquadramento del modello di finanziamento dei progetti di accoglienza in una dinamica di tipo contrattuale. – 4. La duplice ratio del riconoscimento della giurisdizione del giudice amministrativo: la riconducibilità della fattispecie nell’ambito degli accordi ex art. 15, l. n. 241/1990 e la natura discrezionale del potere esercitato.
1. La vicenda. Nel 2016 un’amministrazione comunale – dopo aver positivamente portato a compimento un progetto triennale di accoglienza nell’ambito del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) – otteneva un nuovo finanziamento da parte del Ministero dell’Interno per un ulteriore triennio (2017/2019). Le modalità di accesso da parte degli enti locali ai finanziamenti del Fondo nazionale per le politiche ed i servizi dell’asilo, disciplinate nel Decreto del Ministero dell’Interno del 10 agosto 2016 e nelle relative Linee Guida, individuano, tra l’altro, alcuni requisiti organizzativi e funzionali che i progetti presentati devono soddisfare e la cui permanenza deve essere garantita per l’intero periodo di realizzazione delle attività proposte, pena la revoca del finanziamento stesso.
Ebbene, mentre nel corso del triennio precedente (2014/2016) il Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno non aveva rilevato alcuna specifica criticità relativamente alle azioni di accoglienza poste in essere dal Comune in questione, a seguito del secondo finanziamento l’attività di monitoraggio aveva invece fatto emergere diverse (presunte) inosservanze. In particolare, i rilievi effettuati all’esito di numerose ispezioni riguardavano: l’individuazione di strutture di accoglienza inadeguate, il mancato rispetto di alcune prescrizioni relative ai requisiti dei soggetti beneficiari, il mancato svolgimento di procedure di evidenza pubblica per l’individuazione degli enti attuatori del progetto, la non integrale attivazione dei servizi previsti, nonché alcune incongruenze nel reperimento degli appartamenti presso i quali alloggiare la popolazione immigrata e nella determinazione dei relativi canoni di locazione.
Tutte le criticità rilevate venivano puntualmente riscontrate dall’amministrazione comunale, contestandone la fondatezza. Ciò nonostante, il Ministero – ritenendo evidentemente non esaustive le osservazioni presentate dall’ente locale – emanava un provvedimento con il quale disponeva la revoca parziale del finanziamento originariamente riconosciuto.
Il Consiglio di Stato – aderendo alle conclusioni cui era già giunto il T.A.R. Reggio Calabria in primo grado, e dopo aver dichiarato la sussistenza della propria giurisdizione – ha rilevato la sussistenza di comportamenti contraddittori da parte del Ministero, nonché di alcuni vizi procedurali tali da comportare la violazione del principio di leale collaborazione tra amministrazioni e, pertanto, ha confermato l’annullamento del provvedimento di revoca impugnato. Le riflessioni che seguono avranno specificamente ad oggetto il primo dei motivi di appello presentati dal Ministero, ovvero il presunto difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
2. L’organizzazione del sistema di accoglienza della popolazione immigrata in Italia. Prima di esaminare le ragioni che hanno condotto il Consiglio di Stato a dichiarare la giurisdizione del giudice amministrativo, appare utile soffermarsi sui caratteri del sistema di accoglienza della popolazione immigrata operante nel nostro Paese. Esso è fondato sostanzialmente su un duplice livello di intervento. Il primo di questi, configurante la c.d. prima accoglienza, è rappresentato dagli hotspot[1] e dai centri di prima accoglienza, luoghi nei quali si svolgono attività di primo soccorso e di identificazione. All’interno dei suddetti centri – gestiti direttamente dal Ministero dell’Interno – si dà avvio anche alle pratiche amministrative per la domanda di protezione internazionale o, al contrario, in mancanza dei presupposti di legge, si procede al trasferimento presso un Centro di Permanenza e Rimpatrio (CPR).
In altri termini, è previsto che l’immigrato, entro 48 ore dal suo arrivo (almeno in linea teorica)[2], venga indirizzato presso un centro di seconda accoglienza, al fine di avviare l’istruttoria finalizzata alla verifica della sussistenza o meno dei presupposti per ottenere protezione internazionale, o presso un CPR, in attesa di essere rimpatriato. In questa seconda ipotesi, lo straniero irregolare si viene a trovare in una condizione di “detenzione amministrativa” (della durata massima di 180 giorni), che poco si discosta da un vero e proprio carcere[3] e che ha fatto registrare negli ultimi anni numerosi episodi di violazione di diritti fondamentali[4]. Tuttavia, con il c.d. decreto Minniti, d.l. n. 13 del 17 febbraio 2017 (convertito con legge 13 aprile 2017, n. 46), sono state introdotte alcune modifiche, di carattere organizzativo e procedimentale, volte a riconoscere anche nei confronti dell’immigrato irregolare quella dimensione di dignità della persona che non può che prescindere dallo status – regolare o irregolare – della stessa[5].
Per quanto maggiormente rileva in questa sede, i migranti richiedenti protezione internazionale – una volta identificati negli hotspot e nei centri di prima accoglienza – vengono accolti nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), ovvero, solo in assenza di posti sufficienti, nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). Il sistema SPRAR, a cui afferisce il progetto di accoglienza oggetto della pronuncia in commento, è stato introdotto con l’art. 32, co.1-sexies della l. n. 189/2002 e configura un modello di intervento che coinvolge contemporaneamente più livelli di amministrazione (Ministero, ANCI, Enti locali), ciascuno con una propria specifica funzione, a carattere programmatorio, gestionale o attuativo. I soggetti che partecipano in forma stabile sono il Ministero dell’Interno e l’ANCI (a cui è affidata con convenzione la struttura di coordinamento del sistema), mentre il coinvolgimento degli enti locali – individuati quali veri attori della realizzazione degli interventi di accoglienza e integrazione – si fonda sulla loro adesione volontaria: in altri termini, partecipano alla rete SPRAR unicamente quelle amministrazioni locali che scelgono di mettere a disposizione aree e risorse per l’accoglienza di nuovi migranti[6]. L’idea ispiratrice è quella di non limitarsi a fornire una mera accoglienza allo straniero, bensì di facilitarne nel contempo l’integrazione nella comunità ricevente, attraverso: a) l’attribuzione temporanea di alloggi diffusi sul territorio (meno impattanti dei centri di accoglienza collettiva); b) l’offerta di servizi di mediazione linguistica e culturale, orientamento e accompagnamento al lavoro per un periodo di 6 mesi, prorogabile al massimo di altri 6, in modo tale da far si che – dopo al più un anno – il migrante abbia tutti gli strumenti per potersi inserire autonomamente nella comunità[7].
Negli anni si sono registrate numerose esperienze di successo di progetti SPRAR, specialmente in comuni economicamente depressi, con forte deficit demografico, che hanno iniziato a “rinascere” proprio grazie alla presenza di un numero sostenibile di migranti, non ghettizzati, bensì fin da subito integrati nelle dinamiche sociali e civili dell’ente locale[8]. Tuttavia, il sistema ha complessivamente evidenziato non poche criticità, rappresentate principalmente dalla scarsa adesione allo stesso da parte delle amministrazioni locali: a fine 2018 la rete SPRAR, pur rappresentando in linea teorica il modello di accoglienza ordinario, copriva solo il 20% dei migranti, mentre l’80% fruiva di quella che era stata immaginata dal legislatore come un’ipotesi eccezionale, ovvero i Centri di Accoglienza Straordinaria[9]. L’esiguo numero di adesioni spontanee alla rete SPRAR ha indotto il legislatore ad intervenire: non, però, individuando strumenti in grado di incentivare i comuni a presentare progetti di accoglienza diffusa, quanto piuttosto riducendo la portata applicativa di tale modello di intervento. Nello specifico, il c.d. decreto sicurezza (d.l. n. 113/2018) ha sostituito la rete SPRAR con il Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori non accompagnati (SIPROIMI), incidendo sul profilo soggettivo dei beneficiari del modello di accoglienza integrata e diffusa[10]: quest’ultimo è oggi destinato unicamente a coloro che sono già riconosciuti titolari di protezione, escludendo invece coloro che sono ancora in attesa di ricevere risposta alla loro istanza[11]. I richiedenti asilo, pertanto, sono oggi regolarmente destinati ai centri di seconda accoglienza originariamente individuati come eccezionali, ovvero nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), profondamente distanti dal modello SPRAR: da un lato, essi sono gestiti dalle Prefetture e non dagli enti locali (in un’ottica securitaria); dall’altro lato, essi hanno come obiettivo primario, anziché l’integrazione dei migranti, la loro mera “gestione” temporanea. Con la paradossale conseguenza che – sebbene una parte dei soggetti ivi ospitati sia destinata ad ottenere il permesso di soggiorno – nessuno di loro beneficerà di processi di integrazione, se non all’esito (positivo) della loro istanza[12].
Ciò premesso, al fine di inquadrare correttamente le conclusioni cui è giunto il Consiglio di Stato nella pronuncia in commento, occorre sottolineare che il sistema di accoglienza ex SPRAR/SIPROIMI – sebbene abbia visto ridursi il proprio ambito di applicazione[13] – si conferma un modello di intervento espressione di una multilevel governance, imposto, del resto, dalla complessità stessa del fenomeno[14]. In particolare, al Ministero dell’Interno è affidato il ruolo di coordinare tale tipologia di intervento con gli ulteriori modelli di accoglienza operanti in Italia, nonché di monitorare la gestione economica dei progetti finanziati; il Servizio Centrale di informazione, promozione, consulenza, monitoraggio e supporto tecnico, affidato con convenzione all’ANCI, svolge il compito di coordinare e supportare sul piano tecnico/operativo le amministrazioni locali nella realizzazione dei progetti territoriali; gli enti locali, in ultimo, gestiscono in via diretta – avvalendosi di enti del terzo settore – le attività di accoglienza e di integrazione della popolazione immigrata.
3. La tesi (respinta) dell’inquadramento del modello di finanziamento dei progetti di accoglienza in una dinamica di tipo contrattuale. Una volta delineati i caratteri essenziali del sistema di c.d. seconda accoglienza, è possibile esaminare più specificamente il modello di finanziamento dei relativi progetti che gli enti locali sono chiamati a realizzare.
Ai sensi dell’art. 32, 1-sexies della l. n. 189/2002, il Ministro dell’interno provvede al sostegno finanziario dei servizi di accoglienza diffusa afferenti alla rete SPRAR, attraverso l’emanazione di un decreto contenente le modalità di presentazione delle domande di contributo, i criteri per la verifica della corretta gestione dello stesso e le modalità per la sua eventuale revoca. Il successivo art. 32, 1-septies istituisce, a tali fini, un apposito Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. Gli enti locali interessati, in forma singola o associata, presentano le istanze per accedere al contributo – allegando il progetto di accoglienza ed il relativo piano finanziario – istanze che sono valutate da una commissione ministeriale e, ove ritenute ammissibili, inserite in apposite graduatorie, per poi essere finanziate progressivamente in base alla disponibilità del Fondo.
In tale contesto assume notevole rilevanza il d.m. 10 agosto 2016, con il quale si è provveduto, tra l’altro, a disciplinare l’accesso degli enti locali ai finanziamenti di cui al suddetto Fondo ministeriale[15]. Gli elementi maggiormente significativi ivi previsti sono rappresentati: dal superamento del sistema dei bandi periodici, essendo stabilito che le domande di contributo possono essere presentate in qualsiasi momento; dalla deroga alla originaria soglia massima di finanziamento ministeriale dell’80% del valore del progetto (fortemente disincentivante), il che ha consentito di giungere all’attuale assetto in base al quale il Ministero dell’Interno eroga il 95% delle risorse economiche necessarie per la realizzazione delle misure di accoglienza[16]. In ultimo, per quanto maggiormente rileva in questa sede, occorre precisare che ai sensi dell’art. 27 dell’allegato al d.m. 10 agosto 2016, all’atto dell’assegnazione del contributo viene attribuito un punteggio di 20 punti a ciascun progetto, suscettibile di subire decurtazioni in ipotesi di inosservanze degli obblighi connessi all’erogazione dei servizi di accoglienza, decurtazioni che possono condurre anche alla revoca, parziale o totale, del contributo.
Stante il modello di finanziamento descritto, nella vicenda in esame la difesa del Ministero dell’Interno ha sostenuto di poter qualificare la revoca parziale del finanziamento ministeriale in termini di atto negoziale, rientrante in una dinamica di tipo contrattuale. In tale ottica è stata richiamata quella giurisprudenza consolidata che – in relazione a fattispecie concernenti l’erogazione di sovvenzioni o contributi pubblici nei confronti di operatori economici – afferma la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario “in ordine alle controversie originate dalla revoca di un contributo statale, sia, in generale, quando il finanziamento è riconosciuto direttamente dalla legge ed alla pubblica amministrazione è demandato il solo compito di verificare l'effettiva esistenza dei presupposti per la sua concessione, senza alcuno spazio discrezionale in ordine all'an, al quid ed al quomodo dell’erogazione, sia, in particolare, quando la revoca discenda dall'accertamento di un inadempimento (da parte del fruitore) delle condizioni stabilite in sede di erogazione o comunque dalla legge stessa”[17].
Secondo la prospettazione del Ministero, nella fattispecie oggetto della sentenza in commento la giurisdizione del giudice ordinario discenderebbe dalla circostanza che la revoca adottata dal Ministero dell’Interno sarebbe stata disposta non nell’esercizio di un potere discrezionale di autotutela, bensì sulla base della oggettiva rilevazione di taluni inadempimenti di specifici obblighi individuati in sede di erogazione del contributo. Si tratterebbe, in altri termini, di un atto che – ancorché formalmente qualificato provvedimento di “revoca” – configurerebbe in realtà un atto avente natura paritetica, con la conseguenza che la posizione giuridica del privato che risulta lesa avrebbe la natura di diritto soggettivo.
4. La duplice ratio del riconoscimento della giurisdizione del giudice amministrativo: la riconducibilità della fattispecie nell’ambito degli accordi ex art. 15, l. n. 241/1990 e la natura discrezionale del potere esercitato. Sulla base di un duplice percorso argomentativo, il Consiglio di Stato ha ritenuto di non poter aderire a quanto prospettato dalla difesa Ministeriale, concludendo per la sussistenza della propria giurisdizione in ordine alla fattispecie de qua. In particolare, i giudici di Palazzo Spada inquadrano il rapporto tra ente erogatore del finanziamento (Ministero) ed ente beneficiario del contributo (ente locale) nell’ambito di un più ampio contesto di esercizio coordinato di funzioni, che comprende anche l’ANCI. A supporto della ricostruzione offerta, la pronuncia in commento ricorda che il sistema di accoglienza e integrazione dei richiedenti protezione internazionale rinviene la sua origine in un atto di tipo convenzionale, ovvero in un protocollo di intesa siglato nel 2001 tra il Ministero dell’Interno, l’ANCI e l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (UNHCR) per la realizzazione del PNA (Programma Nazionale Asilo), protocollo che già prevedeva il coinvolgimento degli enti locali, secondo un modello di condivisione di responsabilità tra questi ultimi ed il Ministero dell’Interno.
In tale ottica, invero, potrebbe richiamarsi anche il d.lgs. n. 142/2015 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonchè della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale), il cui art. 8 rileva la necessità che il sistema di accoglienza sia fondato sulla leale collaborazione tra i diversi livelli di governo, sin dal momento della programmazione, prevedendo a tal fine Tavoli di coordinamento sia a livello nazionale che regionale (art. 16). In particolare, a livello nazionale, il Tavolo è chiamato ad individuare le linee di indirizzo del sistema di accoglienza, nonché i criteri di ripartizione regionale dei posti, d’intesa con la Conferenza unificata Stato-Regioni-Enti locali. I Tavoli regionali si occupano, invece, di individuare i criteri di ripartizione dei posti all’interno di ciascuna Regione nell’ambito del Sistema SPRAR.
Il “momento” del finanziamento governativo, pertanto, rappresenta semplicemente il tassello di un più ampio sistema di governance multilivello[18], che presuppone a monte un percorso di concertazione interistituzionale a carattere programmatorio, ed a valle la concreta realizzazione degli interventi da parte degli enti locali. A questi ultimi, come detto, è affidato il compito di progettare e porre in essere (coadiuvati da organizzazioni del terzo settore) le azioni di accoglienza diffusa ed i servizi di integrazione. Per un corretto inquadramento della funzione esercitata dalle amministrazioni locali giova richiamare il Manuale operativo per l’attivazione e la gestione di servizi di accoglienza integrata in favore di richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria[19], ove si chiarisce che “lo SPRAR – per sua stessa natura, a partire dalla titolarità degli enti locali – è e deve essere percepito come parte integrante del welfare locale […] non è altro rispetto al welfare, […] deve poter essere considerato come valore aggiunto sul territorio, capace di apportare cambiamenti e rafforzare la rete dei servizi, di cui possa avvalersi tutta la comunità dei cittadini, autoctoni o migranti che siano”.
L’intervento degli enti locali viene pertanto a configurarsi, nel contempo, come espressione di funzioni proprie (welfare locale) e come ultima fase (attuativa) di un articolato (ma unitario) esercizio di funzioni coordinate, tutte finalizzate al perseguimento di un fine comune. Nell’ambito di tale complesso sistema di intervento, in altri termini, gli enti locali non si pongono affatto come meri beneficiari di contributi finanziari governativi al pari di operatori economici ai quali è occasionalmente affidato l’esercizio di un’attività di interesse pubblico. Il rapporto tra enti locali e Ministero non può ridursi a mero rapporto di tipo sinallagmatico, configurando, piuttosto, una relazione di tipo convenzionale attraverso cui due o più pubbliche amministrazioni, mediante azioni coordinate ispirate al principio di leale collaborazione, perseguono obiettivi di interesse comune. Anche il ruolo di controllo esercitato dal Ministero (art. 20 d.l. n. 113/2018 e artt. 25 e 27 dell’allegato al d.m. 10 agosto 2016), idoneo a sfociare – nel caso – nella emanazione di provvedimenti di revoca quale quello oggetto di impugnazione, viene a configurarsi quale espressione di un rapporto di tipo convenzionale, le cui esigenze di efficienza ed efficacia impongono che, come in un cerchio, l’azione abbia inizio (finanziamento) e fine (verifica della qualità dei servizi di accoglienza offerti) in capo al medesimo soggetto istituzionale.
Si viene a configurare, in altri termini, un accordo riconducibile alla fattispecie disciplinata in termini generali dall’art. 15 della l.n. 241/1990, ai sensi del quale “Le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di comune interesse”[20]. Sul punto, del resto, la giurisprudenza è chiara nell’affermare che i protocolli di intesa quali quello de quo, rappresentano uno dei moduli convenzionali, sussumibili nel genus dell’accordo ex art. 15 cit., atti a disciplinare l’esercizio coordinato di funzioni nell’ambito di un sistema di multilevel governance[21].
Una volta ricondotto l’atto di revoca impugnato nell’ambito dell’accordo tra pubbliche amministrazioni, ne discende conseguentemente la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, sub specie di giurisdizione esclusiva ex art. 133, co. 1, lett. a) n. 2 del d.lgs. n. 104/2010 (Codice del processo amministrativo). Si tratta, come noto, di una peculiare fattispecie di giurisdizione esclusiva, in quanto non propriamente collegata ad una “materia”, bensì ad una modalità di esercizio del potere (l’accordo), con la conseguenza che – a prescindere dagli interessi pubblici perseguiti – è riservata alla giurisdizione del g.a. qualsiasi controversia che abbia origine dalla formazione, conclusione o esecuzione di un accordo fra pubbliche amministrazioni[22]. Nel caso di specie, appare evidente come il provvedimento con il quale il Ministero dell’Interno ha revocato parzialmente il contributo originariamente concesso all’ente locale rappresenti un atto di esecuzione del protocollo di intesa tra Stato e enti locali sul quale si fonda l’intero sistema di protezione dei richiedenti asilo in Italia[23]. Ad avvalorare la correttezza di tale ricostruzione può richiamarsi, infine, una recente pronuncia del T.A.R. Toscana, avente ad oggetto una fattispecie analoga, nella quale si afferma la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in ipotesi di impugnazione di un provvedimento di revoca di un contributo pubblico concesso dalla Regione ad un Comune nell’ambito di un patto territoriale (ulteriore schema convenzionale riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 15, l. n. 241/1990) in sede esecutiva del rapporto di contribuzione[24].
Trattandosi di giurisdizione esclusiva del g.a., non assume evidentemente alcuna rilevanza il profilo circa la natura giuridica (diritto soggettivo o interesse legittimo) della situazione giuridica soggettiva di cui si chiede tutela[25]. Ciò nonostante, il Consiglio di Stato afferma condivisibilmente che – se anche dovesse applicarsi alla fattispecie de qua il generale criterio di riparto del petitum sostanziale – la giurisdizione sarebbe comunque da attribuire al giudice amministrativo. All’ente locale beneficiario del finanziamento, infatti, non è possibile riconoscere la titolarità di un diritto soggettivo all’ottenimento ed alla conservazione del contributo finanziario, tale da radicare la giurisdizione del giudice ordinario. Come dimostrato dalla ricostruzione della vicenda, il provvedimento di revoca in questione non è scaturito dalla semplice verifica oggettiva di specifici inadempimenti da parte dell’ente locale (espressione di un potere vincolato), bensì da un complesso procedimento di monitoraggio nell’ambito del quale gli uffici ispettivi del Governo sono stati chiamati ad effettuare valutazioni a carattere discrezionale tese a determinare se i rilievi emersi nel corso dei controlli potessero o meno comportare la decurtazione del punteggio originariamente riconosciuto al progetto di accoglienza. Il Ministero dell’Interno, in altri termini – secondo la logica del contrarius actus – ha riesercitato il medesimo potere autoritativo discrezionale di cui si era valso in sede di valutazione del progetto e di attribuzione del punteggio, il che comporta, da un lato, che la posizione giuridica soggettiva da riconoscere in capo all’ente locale è di interesse legittimo, e dall’altro lato, che la giurisdizione (quand’anche non si volesse ritenere sussistente la giurisdizione esclusiva del g.a.) spetta al giudice amministrativo.
La stessa giurisprudenza della Cassazione richiamata dal Ministero al fine di supportare la tesi della sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario, del resto, ha chiarito che la regola dell’attribuzione delle fattispecie di revoca di contributi pubblici alla giurisdizione del g.o. subisce delle specifiche deroghe, nei casi in cui la mancata erogazione (o il ritiro/revoca di essa) consegua all’esercizio di poteri di carattere autoritativo, espressione di autotutela della pubblica amministrazione, sia per vizi di legittimità, sia per contrasto, originario o sopravvenuto, con l’interesse pubblico[26]. Come ribadito anche da recentissima giurisprudenza[27], allorquando la revoca di un provvedimento non consegua all’esercizio di un potere vincolato, essa incontra precisi limiti di carattere motivazionale e procedurale, connessi al necessario rispetto dei principi di correttezza, ragionevolezza, e proporzionalità dell’azione amministrativa, in una prospettiva di valorizzazione della stabilità degli effetti dei provvedimenti amministrativi[28].
[1] C. Leone, La disciplina degli hotspot nel nuovo art. 10-ter del d.lgs. n. 286/98: un’occasione mancata, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2/2017, 1 ss. Ad oggi risultano operativi cinque hotspot presso Lampedusa, Taranto, Pozzallo, Messina e Trapani (cfr. la Relazione al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale per l’anno 2019, in www.garantenazionaleprivatiliberta.it).
[2] Nella realtà, purtroppo, la permanenza nei centri di prima accoglienza può durare settimane, anche per le difficoltà che spesso si incontrano nell’attività di identificazione, nonché nella individuazione di una idonea destinazione presso un centro di seconda accoglienza. Cfr. G.G. Nucera, La disciplina del trattenimento dei migranti in Italia e la sua conformità agli obblighi internazionali di tutela dei diritti umani, in Ordine internazionale e diritti umani, Supplemento al n. 1/2020, 52 ss.
[3] G. Colavecchio, L’impatto del Decreto sicurezza sugli istituti di trattenimento dei migranti e dei richiedenti asilo alla luce del Diritto internazionale e dell’Unione europea, in Ordine internazionale e diritti umani, Supplemento al n. 1/2020, 89 ss.; M. Calabrò, C. Frettoloso, R. Franchino, A. Violano, Legal, technological and environmental aspects of refugee camps, in Migration and the built environment in the Mediterranean and the middle east, Ariccia, 2016, 311 ss.
[4] S. Mirate, Gestione dei flussi migratori e responsabilità statali: riflessioni problematiche tra normative interne, prassi amministrative e giurisprudenza CEDU, in Resp. civ. e previdenza, 2017, 43 ss. In ordine a tale profilo, è nota la pronuncia della Grande Camera della Corte EDU sul caso Khlaifia e altri c. Italia (15 dicembre 2016), nella quale la CEDU ha condannato l’Italia per violazione di alcuni diritti fondamentali nella gestione dei centri di prima accoglienza, in ragione dell’assenza di una chiara regolamentazione delle modalità di trattenimento degli immigrati, nonchè della mancanza di adeguate forme di comunicazione circa i loro diritti, le ragioni e la durata della loro detenzione (cfr. M. Savino, L’"amministrativizzazione" della libertà personale e del "due process" dei migranti: il caso Khlaifia, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2015, 50 ss.). Diverse pronunce della Corte Costituzionale hanno, inoltre, avuto modo di pronunciarsi sul tema della tutela dei diritti fondamentali dei migranti, a prescindere dal loro status (cfr. Corte Cost., n. 2/2013; Corte Cost., n. 306/2008).
[5] L’art. 19, l.n. 46/2017, dispone che nella individuazione di nuovi CPR debba tenersi conto «della necessità di realizzare strutture di capienza limitata idonee a garantire condizioni di trattenimento che assicurino l'assoluto rispetto della dignità della persona». La medesima norma richiama anche il diritto di visita, nonché i poteri di verifica e di accesso del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.
[6] P. Bonetti, Le nuove norme italiane sul diritto di asilo: trattenimento, identificazione e accoglienza dei richiedenti asilo, in Studium iuris, 2016, 708 ss.
[7] F. Manganaro, Politiche e strutture di accoglienza delle persone migranti, in www.federalismi.it, 21/2019, 24.
[8] D. Ferretti, Il welfare locale alla prova delle migrazioni. Un’analisi dei progetti Sprar nelle città medie italiane, in Autonomie locali e servizi sociali, 2017, 95 ss. Per una rassegna delle esperienze più significative si rinvia alla pagina web https://www.sprar.it/buone-prassi.
[9] L’Atlante SPRAR 2017, presentato a novembre 2018, fotografava un sistema di accoglienza per i migranti che contava complessivamente 165.773 posti, dei quali 129.904 erano nei Cas e solo 35.881 nei centri appartenenti alla rete SPRAR (https://www.siproimi.it/wp-content/uploads/2018/11/Atlante-Sprar-2017_Light.pdf).
[10] C. Sbailò, Immigrazione: il fallimentare approccio europeo e i limiti della risposta neo-sovranista, in www.federalismi.it, 3/2019.
[11] A ciò si aggiunga che si è contestualmente abolita la c.d. “protezione umanitaria”, il che comporta che coloro che sono titolari di tale protezione “residuale” in Italia (ad oggi più di 10.000 persone) sono destinati ad essere espulsi sia dalla rete SPRAR che dai CAS alla scadenza del periodo loro concesso. Per un commento critico a tale modifica normativa si rinvia a S. Agosta, Dalla certezza del diritto all’incertezza dei diritti (costituzionali) degli stranieri vulnerabili: il rischio della singolare nemesi delle Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale ed immigrazione, Ordine internazionale e diritti umani, Supplemento al n. 1/2020, 24 ss.
[12] “La scelta normativa risponde evidentemente all’idea che garantire percorsi di integrazione “in via preventiva” a tutti i richiedenti asilo, prima di conoscere quali di essi abbiano effettivamente diritto a ricevere protezione internazionale, sarebbe contrario ai principi di economicità e ragionevolezza. Tale posizione, tuttavia, non tiene in debito conto i “costi indiretti” derivanti dalla mancata offerta ab initio di servizi di integrazione nei confronti di coloro che, all’esito dell’iter procedimentale, otterranno il permesso di soggiorno e – pur trovandosi sul territorio italiano da diversi mesi – non avranno beneficiato sino ad allora di alcuna politica inclusiva, con evidenti conseguenze su tempi e efficacia della loro integrazione” (M. Calabrò, La possibile rimodulazione del ruolo degli enti locali nella gestione dei flussi migratori, in Ordine internazionale e diritti umani, Supplemento al n. 1/2020, 121).
[13] Secondo quanto emerge dall’analisi degli ultimi dati pubblicati (febbraio 2020), attualmente si registrano 688 enti locali titolari di progetto, per un numero complessivo di 808 progetti, destinati ad accogliere complessivamente 31.264 immigrati (cfr. https://www.siproimi.it/i-numeri-dello-sprar).
[14] M. Savino, Le libertà degli altri. La regolazione amministrativa dei flussi migratori, Milano, 2012.
[15] S. Penasa, L’accoglienza dei richiedenti asilo: sistema unico o mondi paralleli?, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2017, 14-23.
[16] Da quanto appena osservato, sia detto per inciso, emerge tra l’altro come il citato fenomeno della modesta adesione da parte degli enti locali alla rete SPRAR non possa trovare una giustificazione di tipo finanziario in quanto, come visto, quasi l’intera operazione grava sul bilancio statale. “La suddetta criticità di sistema può spiegarsi, piuttosto, con il timore degli amministratori locali di “inimicarsi” i propri elettori aderendo spontaneamente ad un programma destinato a condurre nuovi migranti sul territorio” (M. Calabrò, La possibile rimodulazione del ruolo degli enti locali nella gestione dei flussi migratori, cit., 122).
[17] Cass. civ., Sez. Un., 9 agosto 2018, n.20683. In termini cfr. Cass. civ., Sez. Un., 5 novembre 2019, n. 28332; Cass. civ., Sez. Un., 20 luglio 2011, n. 15867; T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 31 marzo 2020, n. 224; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 3 febbraio 2020, n. 1397; Cons. Stato, Sez. V, 21 ottobre 2019, n. 7136.
[18] F. Campomori, La governance multilivello delle politiche di accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati in Italia, in Istituzioni del federalismo, I, 2019, 5 ss.
[19] Pubblicato dal Ministero dell’interno nell’agosto del 2018 e reperibile al seguente link: https://www.siproimi.it/wp-content/uploads/2018/08/SPRAR-Manuale-Operativo-2018-08.pdf.
[20] R. Ferrara, Gli accordi fra le amministrazioni pubbliche, in M.A. Sandulli, Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 779 ss.; G.D. Comporti, Il coordinamento infrastrutturale, Milano, 1996.
[21] Cons. Stato, Sez. II, 14 novembre 2019, n. 7825; Cass. civ., Sez. Un., 31 luglio 2017, n. 18985; Cons. Stato, Sez. III, 24 giugno 2014, n. 3194; Cons. Stato, Sez. VI, 2 settembre 2013, n. 4345; Cass. civ., Sez. Un., ord. 13 luglio 2006, n. 15893.
[22] Cass. civ., Sez. Un., ord. 12 aprile 2019, n. 10377; Cass. civ., Sez. Un., 24 gennaio 2019, n. 2082; Cass. civ., Sez. Un., 23 marzo 2009 n. 6960. In dottrina, F.A. Giordanengo, La giurisdizione esclusiva sugli accordi ex art. 15 L. n. 241/1990, in Urbanistica e appalti, 2015, 933 ss.; M. Ramajoli, Gli accordi tra amministrazioni e privati, ovvero della costruzione di una disciplina tipizzata, in Dir. amm., 4/2019, 674 e ss., ove si legge che “il legislatore fin da subito ha inteso introdurre un'ipotesi di giurisdizione esclusiva per tutte le controversie in materia non solo di formazione e di conclusione, ma anche di esecuzione del rapporto, in cui dovrebbe essere meno marcato l'esercizio di un potere discrezionale della pubblica amministrazione”.
[23] In senso analogo cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 2 febbraio 2011, n. 741; Cons. Stato, Sez. V, 18 aprile 2012, n. 2244; T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. IV, 17 aprile 2012, n. 1023.
[24] T.A.R. Toscana, Sez. I, 26 febbraio 2020, n. 256.
[25] Cass. civ., Sez. Un., 31 luglio 2017, n. 18985; Cons. Stato, Sez. VI, 12 marzo 2012, n. 1405.
[26] Cass. civ., Sez. Un., 8 giugno 2016, n. 11710.
[27] Cons. Giust. Amm. reg. Sicilia, Sez. I, 26 maggio 2020, n. 325.
[28] Da ultima si sofferma sui presupposti necessari per procedere alla revoca di benefici pubblici erogati M.A. Sandulli, nel suo La “trappola” dell’art. 264 “decreto Rilancio” per le autodichiarazioni. Le sanzioni nascoste, in questa Rivista, 2020. L’Autrice, occupandosi nello specifico della revoca prevista in caso di benefici ottenuti in base ad una dichiarazione non veritiera, dimostra come ciò che il testo normativo qualifica in termini di “revoca” rappresenti in realtà una vera e propria misura a carattere sanzionatorio, priva, tuttavia, della “soggezione ai principi di stretta legalità, proporzionalità e rilevanza dell’elemento soggettivo tipici di queste ultime”, 7.
SALUS REI PUBLICAE SUPREMA LEX ESTO
di Licia Giannone e Marina Albisinni
Sommario: 1. Premessa - 2. Le misure adottate per fronteggiare l’emergenza sanitaria - 3. L’esigenza di bilanciamento tra i valori costituzionali - 4. Il problema dello strumento normativo - 5. Conclusioni.
1. Premessa
L’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia da Covid19 – come noto – ormai da molte settimane, ha invaso le vite dei cittadini di diversi paesi del mondo, costringendoli a cambiare radicalmente le proprie abitudini di vita, e allo stesso tempo, abituandoli a vivere in un tempo sospeso.
L’amplissima diffusione del virus, contrassegnata dall’elevato numero di contagi e decessi, ha comportato l’adozione per la maggior parte degli Stati di misure restrittive dei diritti individuali, ritenute necessarie al fine di garantire il contenimento del rischio epidemiologico.
In assenza di cure valide e specifiche, il mondo scientifico ha ritenuto che fosse indispensabile ridurre il più possibile i contatti sociali tra i cittadini, in considerazione dell’elevato rischio di essere portatori positivi asintomatici, ovvero portatori di lievi sintomi, senza esserne consapevoli.
Il repentino sviluppo dell’emergenza sanitaria sul territorio nazionale ha inevitabilmente messo a dura prova l’ordinamento giuridico italiano, in quanto Stato liberal-democratico; non concedendo il tempo di poter costituire un sistema normativo idoneo a disciplinarla.
In tal senso sono emerse talune criticità con riguardo all’assetto delle fonti del diritto; per cui – a parere di alcuni autori – tanto la “costituzione dei poteri” quanto la “costituzione dei diritti” avrebbero mostrato le proprie debolezze[1].
Ad oggi, con la diminuzione del numero dei contagi e il progressivo svuotamento dei reparti Covid19, appositamente creati in tutte le regioni – alcuni dei quali sono stati già chiusi – al fine di garantire la ripresa economica del Paese, si è provveduto alla graduale riapertura delle diverse attività commerciali, e da ultimo, all’eliminazione del divieto di spostamento tra le regioni. Ciò ha consentito agli italiani, nelle ultime settimane, di potersi riappropriare delle strade, delle piazze e degli spazi verdi.
Pian piano si cerca quindi di riconquistare una cauta “normalità”, tenendo ben presenti gli immensi sforzi che tutta la Nazione ha compiuto; in particolare la categoria dei medici, degli infermieri e di tutti coloro che hanno prestato assistenza con abnegazione e professionalità durante la fase centrale dell’emergenza sanitaria.
Nei cuori degli italiani, all’indomani delle riaperture, rimarranno fermamente impresse le immagini dei numerosi carri armati dell’esercito che conducono le salme dei defunti fuori dalla città di Bergamo, verso altri cimiteri limitrofi, a causa dell’impossibilità di provvedere alla cremazione in loco per tutti.
Nella speranza di esserci lasciati alle spalle questa triste parentesi emergenziale, si guarda con fiducia alla ormai giunta stagione estiva; pur continuando a far appello al senso di responsabilità individuale, nel rispetto di se stessi e degli altri.
2. Le misure adottate per fronteggiare l’emergenza sanitaria
Volgendo lo sguardo alle misure adottate dal Governo, nel corso della Fase 1, per far fronte all’emergenza sanitaria e contenere il rischio di contagio, si annoverano – come noto – i numerosi interventi volti alla compressione delle libertà civili e sospensione dei diritti fondamentali, in funzione della tutela del diritto alla salute individuale e collettiva (art. 32 Cost.).
Ne sono esempio, la predisposizione delle c.d. “zone rosse” dapprima in taluni comuni della Lombardia e del Veneto, poi estese a tutto il territorio nazionale, che rappresentavano una limitazione della libertà di circolazione e soggiorno (art. 16 Cost.). Allo stesso modo, le disposizioni volte ad imporre la quarantena obbligatoria per coloro che risultino positivi al Coronavirus, ovvero siano stati a contatto con persone infette, quale compressione della libertà personale (art. 13 Cost.).
Il divieto di assembramenti, di riunioni ed eventi pubblici - nei diversi ambiti, quali ad esempio, quello culturale, scolastico, ludico – sportivo – pone un limite alla libertà di riunione e il diritto di associazione, rispettivamente previsti dagli artt. 17 e 18 Cost.
L’affievolimento di talune libertà e diritti costituzionalmente garantiti, è avvenuto con molta frequenza, attraverso una produzione normativa multilivello, che segue la linea della decretazione d’urgenza; in tal senso, sono stati adottati plurimi provvedimenti di rango primario, quali: il d.l. 23 febbraio 2020 n. 6, il d.l. 17 marzo 2020 n. 18, il d.l. 25 marzo 2020 n. 19, il d.l. 30 aprile 2020 n. 28, il d.l. 10 maggio 2020 n. 30, il d.l. 16 maggio 2020 n. 33 e il d.l. 19 maggio 2020 n.34, insieme ad altrettanti numerosi provvedimenti di rango secondario, quali i DPCM.
Tra i diversi studiosi del diritto costituzionale e amministrativo è andato via via sviluppandosi un vivace dibattito dettato da perplessità concernenti la legittimità costituzionale delle misure di contenimento finora introdotte – rivolte per lo più nei confronti della generalità dei cittadini – nonché in relazione agli strumenti attraverso cui le stesse sono state disposte; in particolare è apparsa certamente inedita la concentrazione dei poteri in capo al Presidente del Consiglio dei Ministri, cui è affidata l’adozione dei principali provvedimenti di regolazione dell’emergenza, i DPCM, preferiti rispetto alla legge parlamentare.
3. L’esigenza di bilanciamento tra i valori costituzionali
Il sacrificio di molte libertà costituzionali nell’ottica di tutela del diritto alla salute, ha riportato all’attenzione il dibattito relativo al rapporto intercorrente tra contrapposti valori costituzionali e la conseguente necessità di provvedere al bilanciamento tra gli stessi[2].
In particolare, le misure adottate dal Governo nei mesi scorsi, hanno posto in evidenza la risalente tematica relativa all’esistenza o meno di una gerarchia tra valori costituzionali che consenta l’individuazione dell’interesse prevalente, e quindi il raggiungimento del punto di equilibrio[3].
A tal riguardo, la dottrina negli anni ‘70 riteneva sussistente un ordine gerarchico statico tra i diritti costituzionalmente protetti, al cui vertice si collocavano i diritti c.d. inviolabili[4].
La successiva giurisprudenza costituzionale, intervenendo sul caso Ilva di Taranto[5] – in merito alla necessaria esigenza di bilanciamento tra il diritto alla salute e il diritto al lavoro – ha sottolineato l’esistenza di un rapporto di integrazione reciproca tra i diritti, tale per cui non sarebbe possibile individuare un diritto che abbia prevalenza assoluta sugli altri.
Invero, i giudici delle leggi, sottolineando l’inesistenza di diritti assoluti nell’ambito dei valori costituzionali, ossia di una gerarchia predeterminata, ammettono una tutela c.d. dinamica che consenta il contemperamento tra interessi contrapposti. L’individuazione del punto di equilibrio sarebbe quindi rimessa in primis al legislatore e in seguito al giudice, non potendo lo stesso essere determinato preventivamente[6].
Tale orientamento ha trovato altresì conferma nella successiva sentenza sul caso Ilva, n. 58 del 2018, secondo cui “il bilanciamento deve, perciò, rispondere a criteri di proporzionalità e ragionevolezza, in modo tale da non consentire, né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuni di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati”.[7]
La disamina relativa al bilanciamento operato dalla Corte nella vicenda dell’Ilva di Taranto, definito dalla dottrina come “bilanciamento ineguale[8]”, si inserisce nella tutt’oggi controversa discussione circa l’esistenza o meno di una gerarchia tra principi costituzionali.
Taluni autori sostengono che il bilanciamento tra interessi contrapposti rappresenti essenzialmente un problema di politica costituzionale[9], talaltri invece affermano la necessità che si individui all’interno della Carta Costituzionale un ordine gerarchico tra i diversi valori, che ponga al vertice la tutela dei diritti inviolabili; consentendo in tal modo al legislatore di potersi orientare[10].
Nel panorama internazionale, è invalso il riconoscimento di una gerarchia di valori, al cui vertice si colloca il diritto alla dignità umana, insuscettibile di bilanciamento con differenti diritti[11].
La giurisprudenza costituzionale, in diverse pronunce, ha chiaramente affermato che esistono dei valori c.d. primari – tra cui il diritto alla salute e quello alla vita – che in nessun modo posso subire modifiche al loro contenuto intrinseco, ossia nella loro essenza; riconoscendo in tal senso l’importanza e la prevalenza degli stessi[12].
Volendo quindi calare le osservazioni sin qui svolte nel contesto dell’emergenza sanitaria da Covid19, ne emerge che il necessario bilanciamento tra i differenti valori costituzionali in contrapposizione non possa e non debba considerarsi di carattere libero[13] – quindi del tutto rimesso alle scelte del legislatore.
Come affermato da diversi autori, il parametro dettato dall’art. 32 della Costituzione evidenzia la tutela della salute non solo come diritto fondamentale del singolo, bensì quale interesse della collettività[14] (facendo riferimento, sul punto, alla giurisprudenza costituzionale in merito a trattamenti sanitari non assistiti dal consenso del paziente[15]).
La dottrina ha altresì posto l’attenzione sul bilanciamento intercorrente tra gli artt. 2 e 3, comma 2, della Costituzione, in punto di disuguaglianza sociale.
In particolare, taluni autori[16], hanno evidenziato come i plurimi provvedimenti adottati per fronteggiare l’emergenza sanitaria si ispirino all’esigenza di tutela dell’eguaglianza sostanziale. Difatti l’epidemia si è diffusa in modo paritario tra tutta la popolazione, pur colpendo con maggior virulenza alcune categorie sociali, come gli anziani e gli immunodepressi.
Partendo da una condizione diseguale, emerge come le misure adottate per prevenire il rischio epidemiologico siano finalizzate al riequilibrio delle iniziali condizioni[17].
In tale contesto, come noto, ha un ruolo determinante il servizio sanitario nazionale, che a differenza di altri paesi del mondo, è pubblico; la tutela dello stesso soddisfa il valore dell’eguaglianza sostanziale.
La necessità di ridurre i contatti sociali, così come è stata prevista, da parte di taluni è apparsa in collisione con la previsione contenuta all’art. 2 della Costituzione, in riferimento alle formazioni sociali nelle quali il cittadino svolge la sua personalità; ciò richiama all’attenzione la disposta sospensione della frequenza scolastica e universitaria (pur garantita dalla c.d. didattica a distanza), ovvero del diritto di riunione, di associazione, quali valori costituzionalmente tutelati[18].
Pertanto, altresì la riduzione dei contatti sociali necessitava di essere bilanciata, nell’ottica della tutela della salute, quale interesse della collettività.
A tal proposito, si richiama un recente intervento del Consiglio di Stato[19] sul rapporto intercorrente tra il diritto alla salute e le ragioni economico finanziarie. In particolare, i ricorrenti lamentavano la violazione delle disposizioni previste dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, nonché la violazione dell’art. 38 della Costituzione e dell’art. 1 della L. 104/1992.
Sicché il Consiglio di Stato, affermando che il nucleo essenziale del diritto alla salute debba essere salvaguardato, esclude l’operatività del principio di equilibrio di bilancio in materia sanitaria, allorquando la disabilità riguardi esigenze terapeutiche ritenute indifferibili. In tal senso, ponendo l’accento sull’essenzialità della tutela del diritto alla salute e alla dignità delle persone disabili, si è aggiunto un ulteriore tassello all’orientamento giurisprudenziale volto a riconoscere l’inalienabilità di tali valori, a fronte degli interessi economico – finanziari[20].
Ciascuna limitazione, seppur in tutela della salute, necessita altresì di essere temporanea.
Il caos normativo dettato dalla complessità delle vicende umane e sociali che necessitano di essere regolamentate, comporta talvolta una sempre maggiore difficoltà nell’individuazione del punto di equilibrio, in danno all’esigenza di certezza del diritto[21].
Questa esperienza emergenziale potrebbe dimostrarsi quale utile occasione per riconsiderare la gerarchia dei valori, ponendo al vertice della stessa i diritti che concernono la persona umana, quali il diritto alla salute e il diritto alla vita. Non sfruttare questa possibilità per dettare un nuovo assetto nella regolazione delle disposizioni costituzionali dei diritti, vorrebbe dire consentire la svalutazione degli stessi.
In un ordinamento definito dalla dottrina come sempre più liquido[22], è necessario che nella gerarchia costituzionale si riconosca il ruolo predominante dei valori c.d. primari, e che non si permetta la loro concreta relativizzazione[23], per dar prevalenza ad altri valori costituzionalmente garantiti, in relazione allo specifico contesto sociale in cui si trovino ad operare.
È allo stesso modo doveroso sottolineare come il bilanciamento non equivalga alla sintesi dei valori contrapposti[24]. Associando la funzione del bilanciamento all’immagine della bilancia[25], quale simbolo della giustizia, si auspica nel raggiungimento di un punto di equilibrio non ineguale, bensì equo, preciso, proporzionale e dunque ispirato al principio di legalità.
4. Il problema dello strumento normativo
Si pone in un rapporto di stretta consequenzialità rispetto alla possibilità di limitare alcuni diritti fondamentali in costanza di un conflitto con altri, il problema dello strumento normativo tramite il quale possa avvenire la “cessione del passo” di uno o più di tali diritti per tutelarne efficacemente un altro.
Proprio su questo punto si sono incentrate le maggiori critiche alle scelte dell’Esecutivo.
Con la dichiarazione dello stato di emergenza, avvenuta con delibera del Consiglio dei Ministri il 31 gennaio 2020, ha preso avvio l’adozione dei plurimi decreti – legge, che hanno particolarmente inciso sulle libertà costituzionalmente garantite.
Taluni autori[26] hanno posto in luce delle criticità concernenti l’assetto costituzionale, e la conseguente necessità di provvedere ad una riforma, volta a conformarlo ai tempi moderni.
In particolare, il punto centrale si rinverrebbe nell’assunto per cui la nostra Costituzione del 1948, a differenza delle carte costituzionali di molti paesi europei, non contemplerebbe lo “stato di emergenza”.
Interrogandosi sulle ragioni di tale assenza, ne è emersa la ratio, inquadrabile in un preciso intento dei padri costituenti, che avrebbero deciso di non includere nella carta costituzionale un diritto speciale per lo stato di emergenza, al fine di scongiurare il pericolo che attraverso la dichiarazione dello stesso, si potesse procurare un vulnus per l’ordinamento costituzionale democratico, con la conseguente limitazione dei diritti e delle libertà fondamentali.
A tal proposito, è stato altresì posto in evidenza come lo “stato di guerra”, disciplinato dall’art. 78 Cost., non possa sopperire all’assenza della specifica previsione dello “stato di emergenza”; ciò in quanto la disciplina concernente lo stato di guerra presenta un carattere speciale che non ne consente l’applicazione analogica alle ipotesi emergenziali.
Sicché, lo stato di emergenza, pur non essendo oggetto di una precisa disposizione costituzionale, appare disciplinato dalla legge ordinaria; il riferimento è rivolto alla legge n. 225 del 1992, istitutiva del Servizio Nazionale di Protezione civile, la quale è stata successivamente riformata con il Codice della Protezione Civile, introdotto dal d. lgs. n. 1 del 2018.
Pertanto, la dottrina ha affermato come nonostante l’assenza di una disposizione costituzionale che disciplini lo “stato di emergenza”, la Costituzione ugualmente disponga di strumenti idonei a far fronte a tale emergenza sanitaria.
In primo luogo si annovera il decreto – legge, previsto dall’art. 77 Cost., che consente al Governo, in condizioni di necessità e d’urgenza, di adottare dei provvedimenti provvisori con forza di legge, presentandoli nel medesimo giorno alle Camere per provvedere alla conversione. In passato, più volte, la Corte Costituzionale ha evidenziato la pratica distorta dettata dal frequente utilizzo dei decreti – legge per disciplinare diverse situazioni, altresì prive dei caratteri di necessità ed urgenza.
In tale contesto emergenziale, difatti, le più incisive misure di contenimento del contagio che hanno determinato la compressione delle libertà personali sono state apportate attraverso l’uso di strumenti normativi di rango secondario, come i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) che si sono susseguiti dall’inizio dell’emergenza sino ad oggi.
Tuttavia, da più parti è stato evidenziato che, a fronte della limitazione delle libertà dei cittadini attraverso lo strumento del DPCM in ossequio alla finalità di garantire la salute contenendo il contagio da Covid-19, non siano state sostanzialmente osservate le garanzie costituzionali a tutela dei diritti di libertà.
Sotto questo punto di vista, viene maggiormente in considerazione il problema della riserva di legge.
Il principio di riserva di legge contemplato dalle norme costituzionali che riconoscono e tutelano i diritti fondamentali dei cittadini implica che qualsiasi limitazione di detti diritti di libertà possa avvenire nei “soli casi e modi previsti dalla legge” (parlandosi in questo caso di riserva di legge assoluta, che non ammette una fonte secondaria ad intervenire nella compressione); la Costituzione può anche prevedere direttamente i casi in cui può avvenire una siffatta limitazione (come nel caso della previsione delle limitazioni alla libertà di circolazione per motivi di sanità e sicurezza ex art. 16 Cost.), parlandosi in tali casi di riserva di legge rinforzata.
Ora, è ormai noto che i DPCM apportano, in concreto, i divieti che di fatto vanno a comprimere diritti di libertà costituzionalmente tutelati.
Ci si è chiesti se, ancorché dotate di una base legale, possano considerarsi legittime le previsioni limitative dei diritti dei cittadini adottate in maniera puntuale e specifica da fonti di rango secondario, o se ciò violi la riserva di legge prevista in Costituzione.
Per ragionare sulla risposta, è necessario dividere il piano che potremmo definire “formale” da quello, per così dire, “sostanziale” (non che le garanzie costituzionali, sia chiaro, possano conoscere una discrasia tra piano formale e piano sostanziale nella tutela dei diritti fondamentali, ma questa distinzione riguardo gli interventi e gli effetti può essere apprezzata al solo fine di comprendere l’esigenza di scindere tra forma delle limitazioni e contenuto sostanziale del quadro normativo entro cui si inseriscono).
Dal punto di vista della forma, i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, in quanto atti amministrativi, costituiscono fonte secondaria: essi si inseriscono tra gli atti governativi disciplinati dalla legge n. 400 del 23 agosto 1988, e, in quanto tali, non sono ammessi a derogare alla legge ordinaria e, a fortiori, alle norme costituzionali, né a disciplinare materie coperte da riserva di legge; per questa ragione alcuni ritengono che limitare sensibilmente numerosi dei diritti costituzionalmente garantiti (quali la libertà di circolazione e soggiorno, di riunione e associazione, di professione del culto religioso, di iniziativa economica privata, fino alla stessa libertà personale) attraverso una fonte secondaria quale il DPCM, anche se dotato di “copertura” legale, non sia stato del tutto, o affatto, rispettoso dei dettami costituzionali.
E avendo riguardo al piano meramente “formale” della questione, non sbaglierebbero quelle voci, anche autorevolissime, che sottolineano che, seppur dotati di copertura costituita da legge primaria, lo strumento del DPCM non sarebbe comunque idoneo ad affievolire talune libertà costituzionalmente garantite, in quanto ciò equivarrebbe in un aggiramento della riserva di legge prevista dalla Costituzione in materia di limitazione delle libertà.
Sempre su un piano formale, tuttavia, pare potersi fare una duplice considerazione.
Innanzitutto, il decreto-legge è pacificamente ascrivibile tra le fonti primarie (è un atto con forza di legge), ed è altresì pacifico che quando la Carta fondamentale riservi una materia alla legge includa, accanto alla legge c.d. “formale” (approvata dal Parlamento secondo il procedimento previsto dagli art. 70 ss. Cost.), si riferisca anche alla legge in senso “sostanziale”, ovvero contenuta in atti avente forza di legge, quali decreti-legge e decreti legislativi (ex artt. 76 e 77 Cost.).
Il decreto-legge n. 19/2020 disciplina specificamente le ipotesi di limitazione di determinate libertà: infatti, l’art. 1, comma 2 di detto atto legislativo elenca abbastanza specificamente, in 29 punti (lettere a) – hh), tutte le tipologie di misure che, secondo il disposto del successivo articolo 2, possono essere adottate con uno o più decreti del Presidente del Consiglio al fine di contenere e contrastare il rischio sanitario, e “secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso”.
I numerosissimi decreti che si sono susseguiti in questo periodo di estrema emergenza sono tutti adottati in attuazione di decreto-legge (dapprima del d.l. n. 6 del 23 febbraio, convertito in legge n. 13 del 5 marzo 2020, e successivamente del n. 19 del 25 marzo 2020, che ha sostituito il primo).
Tra l’altro, inizialmente si era evidenziata una patente illegittimità dei DPCM adottati in attuazione del d.l. 6/2020, il quale disciplinava le ipotesi di adozione di specifiche misure di contenimento (tra le quali quelle limitative delle libertà costituzionalmente garantite) prevedendone la delimitazione a zone circoscritte, utilizzato invece come base per estendere le misure a tutto il territorio nazionale (a partire dal DPCM del 9 marzo 2020).
Inoltre, taluni avevano denunciato l’illegittimità di detto decreto nella parte in cui prevedeva una sorta di “norma in bianco” che autorizzava l’Esecutivo ad adottare “ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica”, conferendo di fatto un potere senza la previsione di alcun limite al suo esercizio, se non quello del rispetto dei criteri di proporzionalità e adeguatezza.
Tali vizi di forma risultano sanati dal decreto-legge 19/2020, emanato il 25 marzo, salutato col plauso di molti nella parte in cui “regolarizza” l’ambito di applicazione delle misure, prevedendo che esse possano interessare sia specifiche parti del territorio nazionale, sia la totalità di esso, e che ha puntualmente elencato, all’art. 1, tutte le tipologie di misure che possono essere adottate a fini di contenimento del contagio epidemiologico, che devono essere di volta in volta disposte tramite DPCM secondo il già citato art. 2.
Occorre concentrarsi su tale ultimo atto normativo per affrontare la questione, avendo riguardo al piano sostanziale della stessa.
Infatti, i DPCM non apportano autonomamente misure limitative di libertà costituzionalmente garantite, nel senso che non le decidono indipendentemente dallo strumento normativo di rango primario che funge da loro base: le tipologie di misure limitative contenute in tali atti secondari sono comunque “attinte” dall’elenco contenuto nel decreto-legge.
Così, il DPCM è diventato lo strumento per adattare alle situazioni che via via si sono presentate, al passo con l’evolversi dell’emergenza sanitaria, le prescrizioni necessarie (in quanto adeguate e proporzionate) ai fini di contenere l’avanzata del virus e del contagio, ma pur sempre nel quadro delle tipologie di interventi elencati e predisposti dai decreti-legge.
Di conseguenza, non pare sostenibile che le compressioni ai sacrosanti diritti fondamentali dei cittadini siano sfuggite ad una disciplina legislativa, nonché al controllo ed all’approvazione parlamentare (seppur successivi, da espletarsi in sede di conversione in legge) e al vaglio di conformità costituzionale attribuito al Presidente della Repubblica, deputato alla loro emanazione secondo l’art. 87 della Costituzione.
Inoltre, sempre avendo riguardo al “piano sostanziale”, tenuto conto delle esigenze specifiche del caso cui si ricollega l’utilizzo di tale strumento normativo, si può richiamare la caratterizzazione dei DPCM quali atti amministrativi: con essi, spesso (come per numerosissime tipologie di atti amministrativi) si è chiamati a disciplinare e regolamentare situazioni che involgono determinate valutazioni di carattere strettamente tecnico. In una situazione come quella che il nostro Paese sta attraversando, in cui vi sono in gioco decisioni da ponderare sulla base di dati scientifici e statistici altamente complessi, che monitorano l’andamento del contagio, le vie di diffusione del virus e l’efficacia delle misure di contenimento adottabili, la scelta tra le misure più adeguate e proporzionate da applicare in base all’evolversi della situazione epidemiologica non può non fare i conti con tali valutazioni (che la Presidenza del Consiglio ha ritenuto dover affidare ad un Comitato tecnico-scientifico costituito da esperti).
A fronte di tali scelte, che dato l’incalzante ed imprevedibile evolversi degli eventi richiedono una certa celerità nella traduzione in regole e nell’adozione, lo strumento del DPCM è apparso come il più flessibile da un lato per garantire tale celerità, e dall’altro per compendiare l’apporto, oltre che dell’organo politico costituito dai Ministri di volta in volta interessati, sotto la responsabilità del capo dell’Esecutivo, anche della “task force” di esperti designata per valutare l’impatto e gli effetti delle misure rispetto alla corsa del virus.
5. Conclusioni
Pertanto, dalla disamina del testo costituzionale, emerge l’assunto per cui vi sono strumenti costituzionali idonei a far fronte all’emergenza sanitaria; tuttavia gli stessi necessitano di essere esercitati nel rispetto dei principi costituzionali di necessità, proporzionalità, temporaneità, chiarezza e soprattutto leale collaborazione[27].
Alla fine di questa riflessione condotta sugli aspetti “giuridici” delle misure adottate per fronteggiare l’emergenza da Covid-19 che hanno costituito punto di maggior dibattito, occorre tirare le somme circa l’insegnamento di questa situazione eccezionale.
Ad oggi, è possibile osservare come tali misure abbiano raggiunto il loro scopo, ovvero far calare il trend del contagio e far rientrare l’emergenza sanitaria: di pari passo con il calo della curva del contagio, nel rispetto dei principi di proporzionalità e adeguatezza al fine di contenimento del rischio epidemiologico così come enunciato nei decreti-legge, sono decadute la maggior parte delle limitazioni dei diritti che sono state “sofferte” dalla popolazione nei mesi passati.
E ciò a riprova del fatto che, sostanzialmente, tutti i provvedimenti che nel corso di questi mesi così difficili per la nostra comunità hanno introdotto misure molto stringenti rispetto alle libertà costituzionali, hanno risposto ad un fine concreto, enunciato dagli strumenti normativi di rango primario, e una volta raggiunto il loro scopo, con il venire meno della gravità della situazione epidemiologica e dunque della necessità del loro mantenimento in vigore, sono state caducate, determinando la riespansione delle nostre preziosissime libertà costituzionali.
In base a tali circostanze, non pare potersi dire che durante l’emergenza sia stato posta in essere un’inosservanza, se non addirittura un “calpestamento”, della Costituzione.
Il dibattito sulla legittimità costituzionale o meno di tali provvedimenti può essere sicuramente utile pro futuro, perché possa prevedersi una disciplina puntuale di casi di tal genere, pur sperando di non averne mai più bisogno, come richiesto da più voci.
Sotto altro aspetto, esso pare utile a evitare, in futuro, che situazioni emergenziali, anche meno gravi della presente, possano divenire una scappatoia dalle stringenti previsioni per limitare i diritti fondamentali: occorre, al di fuori di ipotesi assolutamente e drammaticamente anomale come quella attuale, avere sempre come baluardo la tutela e la salvaguardia dei diritti fondamentali dei singoli, che hanno come corollario l’incomprimibilità e il rispetto di stringenti limiti e previsioni puntuali circa la possibilità di momentanea compressione di essi.
Limiti che, in questo caso, appaiono comunque rispettati, nonostante l’incisività delle misure: infatti, all’esito di tale riflessione, pare potersi concludere che siano stati utilizzati tutti gli strumenti che l’ordinamento mette a disposizione per far fronte a questo non meglio specificato stato di emergenza, ma che è sicuramente integrato da una pandemia che ha colpito in maniera così imprevedibile e crudele la nostra Nazione.
[1] Così M. OLIVETTI, Le misure di contenimento del Coronavirus, fra Stato e Regioni, in Il Quotidiano Giuridico, pag.1.
[2] Sul punto, il bilanciamento viene equiparato all’attività “armoniosa, precisa e oggettiva”, nell’ottica della realizzazione di una c.d. “relazione di peso”, così E. VIVALDI, “Il caso Ilva: la “tensione” tra poteri dello Stato ed il bilanciamento dei principi costituzionali, intervenuto al Convegno “Il caso Ilva: nel dilemma tra protezione dell’ambiente, tutela della salute e salvaguardia del lavoro, il diritto ci offre soluzioni?”, 15 marzo 2013, Istituto Dirpolis della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, in federalismi.it, n.15/2013, pag. 18 e ss.
[3] Così, A. G. DATO, Il bilanciamento tra principi costituzionali e la nuova dialettica tra interessi alla luce della riforma Madia. Riflessioni in margine al “caso Ilva”, in federalismi.it, n. 12/2019, pag. 16 e ss.
[4] Ibidem
[5] Corte Cost., 9 aprile 2013, n. 85, in www.cortecostituzionale.it.
[6] Così, A. G. DATO, op. cit.,pag. 17 e ss.
[7] Corte Cost., 7 febbraio 2018 n. 58, in www.cortecostituzionale.it.
[8] Sul punto, si evidenzia come il bilanciamento operato nel caso Ilva di Taranto, secondo una parte della dottrina, non avrebbe seguito i precedenti orientamenti della giurisprudenza costituzionale; altra parte della dottrina invece individua taluni precedenti in cui si sarebbe giunti alla medesima soluzione, così A.G. DATO, op. cit., pag. 17.
[9] Sul punto, E. VIVALDI, op. cit., pag. 20
[10] Ibidem.
[11] Sul punto si richiama la Corte costituzionale tedesca, che pone al vertice dell’ordine oggettivo di valori, il diritto alla dignità umana e allo stesso modo, la dottrina americana che riconosce la c.d. “preferred position”. Così, A.G. DATO, op. cit., pag. 19.
[12] Sul punto, A. G. DATO, op. cit., pag. 19.
[13] Così A. G. DATO, op. cit., pag. 20.
[14] In tal senso, G. BATTARINO, Decreto legge “Covid 19”, sistemi di risposta all’emergenza, equilibrio costituzionale, in questionegiustizia.it. L’autore evidenzia come la norma costituzionale di cui all’art. 32, tuteli la salute non solo come diritto del singolo, bensì come interesse collettivo; in tal modo troverebbero giustificazione le misure restrittive imposte dal Governo.
[15] Corte Cost., sentenza n. 268 del 22 novembre 2017, in giurcost.org; e sentenza n. 5 del 22 novembre 2017, in www.cortecostituzionale.it.
[16] Così, G. BATTARINO, Decreto legge “Covid19”, op. cit.
[17] Ibidem, L’autore punta l’attenzione sul confronto intercorrente tra l’art. 2 e 3, comma 2, della Costituzione, sottolineando come le misure adottate rilevino al fine di tutelare l’eguaglianza sostanziale ed in particolare, consentano il riequilibrio di una iniziale condizione di disuguaglianza.
[18] Così, G. BATTARINO, Decreto legge “Covid19”, op. cit.
[19] Cons. St., sentenza n. 1 del 2 gennaio 2020, in neldiritto.it.
[20] In tale orientamento, si inquadra altresì Cass., sez. IV, 2 marzo 2011, n. 8254 in ambito di responsabilità medica. In particolare, i giudici di legittimità evidenziano l’assoluta prevalenza del diritto alla salute del paziente, senza condizionamenti dettati da esigenze di diversa natura. Invero, si pone in evidenza come “Il sistema sanitario, nella sua complessiva organizzazione, è chiamato a garantire il rispetto dei richiamati principi, di guisa che a nessuno è consentito anteporre la logica economica alla logica della tutela della salute”. Così, E. MIDOLO, Nota a Corte di Cassazione, Sez. IV Pen., sentenza 2 marzo 2011, in materia di responsabilità medica, in ildirittoamministrativo.it.
[21] Così, A. G. DATO, op. cit., pag. 20 e 21.
[22] Così, A.G. DATO, Il bilanciamento tra principi costituzionali e la nuova dialettica tra interessi alla luce della riforma Madia, op. cit., pag. 23.
[23] Ibidem.
[24] Il confronto tra sintesi e bilanciamento degli interessi contrapposti è stato analizzato con riguardo al caso Ilva di Taranto, sul punto, E. VIVALDI, Il caso Ilva, op. cit., pag. 29.
[25] Ibidem.
[26] Sul punto, in particolare, L. M. TONELLI, Diritti fondamentali, Emergenza e Costituzione ai tempi del Covid – 19. Alcune brevi riflessioni e prospettive di (necessaria) riforma della Costituzione, in Judicum, il processo civile in Italia e in Europa, pag. 1 e ss.
[27] L’appello alla leale collaborazione si rinviene in particolare nella Relazione della Presidente Marta Cartabia, op. cit., pag.26, in particolare si evidenzia la necessità che “l’azione e le energie di tutta la comunità nazionale convergano verso un unico condiviso obiettivo”.
Araldica e nomodinamica: Recensione a Gli ordini cavallereschi “non nazionali” nella legge 3 marzo 1951 n. 178 -ed, Jouvence Historica, Roma, 2020- di Maurizio Reina de Jancour
di Angelo Costanzo
Sommario: 1. L’Ordine al Merito della Repubblica e altri Ordini - 2. Il libro di Maurizio Reina de Jancour - 3. Il mutevole valore dei valori nella società acefala.
1. L’Ordine al Merito della Repubblica e altri Ordini
Anche quest’anno, in occasione della Festa della Repubblica, il Capo dello Stato ha nominato nuovi cavalieri della Repubblica.
In realtà, caduta (da tempo) la monarchia, disconosciuti i titoli nobiliari (XIV disposizione transitoria e finale della Costituzione), non è venuto meno il desiderio di un riconoscimento sociale formalizzato anche nella Repubblica.
Soprattutto nel dopoguerra, molti cittadini mostrarono interesse per i titoli onorifici fino a acquistarli da principi e sovrani spodestati (a volte veri, a volte falsi). Questo convinse il legislatore che anche lo Stato repubblicano doveva conferire riconoscimenti onorifici a coloro che meritavano di essere ricompensati per le “benemerenze acquistate verso la Nazione nel campo delle scienze, delle lettere, delle arti, dell'economia e nel disimpegno di pubbliche cariche e di attività svolte ai fini sociali, filantropici ed umanitari, nonché per lunghi e segnalati servizi nelle carriere civili e militari».
Lo dispose con l’art. 1 della legge 3 marzo 1951 n. 178 che ha istituito l'Ordine "Al Merito della Repubblica Italiana". Il Capo dell'Ordine è il Presidente della Repubblica che nomina su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, i suoi appartenenti divisi in cinque classi: Cavalieri di Gran Croce, Grandi Ufficiali, Commendatori, Ufficiali e Cavalieri. Per altissime benemerenze può essere eccezionalmente conferita ai Cavalieri di Gran Croce la decorazione di Gran Cordone. Invece, perde l’onorificenza l'insignito che se ne renda indegno.
L’art. 488, comma 2, cod. pen. punisce l’usurpazione di titoli e onori e l'art. 8 della legge del 1951 stabilisce che "salvo quanto è disposto dall'art. 7, è vietato il conferimento di onorificenze, decorazioni e distinzioni cavalleresche, con qualsiasi forma e denominazione, da parte di enti, associazioni o privati: il conferimento, non consentito di onorificenze, decorazioni e distinzioni cavalleresche, include non solo l'atto unilaterale di assegnazione del titolo ma anche la cerimonia di investitura quale modalità con cui il conferimento si attua (Cass. pen. Sez. 3, n. 9737 del 16/06/1999, Mariano, Rv. 214615).
2. Il libro di Maurizio Reina de Jancour
La legge n. 178 del 1951 attua un precetto costituzionale (art. 87 ultimo comma Cost.) potenzialmente derogatorio del principio di uguaglianza, sicché il legislatore nel dettare le norme ha voluto attribuire alle onorificenze conferite dalla Repubblica Italiana, fondata sul lavoro, un significato eminentemente morale e, per questa ragione, ha ridotto al massimo la possibilità di utilizzarne altre subordinando l'uso di quelle "non nazionali" a un'autorizzazione.
In questo quadro, il libro di Maurizio Reina de Jancour Gli ordini cavallereschi “non nazionali” nella legge 3 marzo 1951 n. 178 illustra la genesi e l’evoluzione del concetto di “ordini cavallereschi non nazionali” espresso nella legge n. 178 del 1951 e – utilizzando, con un accurato lavoro di ricerca, anche molto documenti inediti – l’incremento degli ordini cavallereschi “indipendenti”.
Lo studio esamina doviziosamente: la situazione anteriore al 2 giugno 1946 e il diritto dinastico, le vicende della legge speciale, il ruolo del Presidente della Repubblica, gli interventi del Consiglio di Stato, le posizioni del giudice Aldo Pezzana, l’operato delle Commissioni istituite presso il Ministero degli Affari Esteri.
Il lavoro apre anche alcuni spiragli interessanti (sociologicamente) sull’ambiente dei “nobili militanti” e sul loro rapporto con il “sentire collettivo della Nazione” (p.377).
Reina de Jancour (già autore di: Plebei e altri animali. Il razzismo segreto della nobiltà cattolica contemporanea, 2017) osserva che ancora oggi il Ministero degli Affari Esteri autorizza il porto delle insegne di alcuni Ordini cavallereschi “dinastici” conferite dai discendenti di famiglie ex regnanti italiane in base a una nozione di “sovranità affievolita” che egli ritiene, a conclusione di puntuali argomentazioni, priva di riscontro nel diritto internazione e nel diritto delle altre Nazioni europee (p. 345 ss.).
La tesi dell’Autore - sviluppata richiamando la dottrina e la giurisprudenza (ampiamente citata nel volume) degli anni successivi alla legge del 1951 - è che si è affermato un “orientamento interpretativo eversivo del monopolio statale delle onorificenze voluto dal legislatore” (pp.374 ss.).
A questo proposito viene opportunamente richiamata l’opinione di Arturo Carlo Jemolo: “un sovrano spodestato non dà onorificenze se non in quanto affermi di continuare a essere il Re legittimo ed il suo intento di riprendere il potere; e lo Stato che lo ha deposto non può considerare che come un atto di ribellione quello di chi accetti tali onerificenze”.
3. Il mutevole valore dei valori nella società acefala
Libertà, ricchezza, uguaglianza, sicurezza, piacere, obbedienza sono valori individuali e sociali. La valutazione della loro importanza è fondata su premesse eterogenee ma diventa necessaria quando accade di dovere stabilire una gerarchia fra i valori veicolati dai dati normativi.
Gli studi sulle motivazioni sociali individuano i prototipi dei sistemi di valori[1]. Alcuni valori focalizzano la dimensione sociale (quella considerata dalle onorificenze al merito della Repubblica): le tendenze all’universalismo (comprensione, tolleranza, rispetto e protezione del benessere di tutte le persone e della natura) inclinano verso la autotrascendenza e la benevolenza (mantenimento e miglioramento del benessere delle persone direttamente conosciute). Altri valori focalizzano la dimensione personale: sicurezza e conformismo, successo, potere, autoaffermazione, edonismo, individualismo. Poiché i valori non possono mutare radicalmente da una generazione all’altra, è ragionevole supporre che quando, per le condizioni contestuali, un valore non può essere adeguatamente attuato, se ne cerchi il soddisfacimento con forme complementari o surrogate. Se i valori che focalizzano la dimensione sociale devono scontare il declino dell’universalismo, allora è prevedibile un rafforzamento di forme scarsamente istituzionalizzate di benevolenza. Se i valori che focalizzano la dimensione personale non trovano sbocco nella possibilità di una sua effettiva soddisfazione, allora è prevedibile che della stessa si coltivino immagini del tutto estrinseche.
A quali specifiche esigenze psicologiche (ma non possono escludersi anche interessi pratici) si colleghi la ricerca di riconoscimenti formali scollegati da reali tradizioni familiari (che possono spiegare il desiderio di ricostruire una continuità storica) o da effettivi meriti personali non è semplice dire.
In ogni caso, non stupisce che, in alcune subculture, fra le molteplici che compongono la variegata società italiana, dell’onore - che (occorre pur dirlo) appare al momento un valore recessivo - si cerchino implausibili surrogati (il fenomeno, infatti, non riguarda solo i titoli nobiliari e ognuno può trovarne esemplificazioni variegate e, a volte, inattese).
Di tutto questo certamente non beneficia l’araldica, disciplina (non priva di pregi estetici) che, quando analizza e interpreta gli stemmi, fornisce concreti strumenti per ricostruire le vicende dei loro possessori e così contribuisce alle ricerche storiche: alla sigillografia, alla numismatica, alla genealogia, alla bibliografia, favorendo la datazione o la provenienza geografica di reperti, l’attribuzione di beni e la individuazione dei committenti di opere d’arte.
[1] S.H.Schwartz-W.Bilsky,Toward a universal psychological structure of human values, in: Journal of Personality and Social Psychology, 1987, 53, 550-562; S.H. Schwartz, Universals in the content and structure of values: Theory and empirical tests in 20 countries, in M.Zanna (ed.), Advances in experimental social psychology vol.25,1-65. NewYork, Academic Press. 1992; S.H.Schwartz, Are there universal aspects in the content and structure of values, in: Journal of Social Issues, 1994. 50, 19-45. C.Capanna- M.Vecchione-S.H.Schwartz, La misura dei valori: un contributo alla validazione del Portrait Values Questionnaire su un campione italiano. In: “Bollettino di Psicologia Applicata”, 2005.
Quale sistema elettorale per quale csm
di Edmondo Bruti Liberati
Sommario: 1.Chi governa la magistratura? - 2. I sistemi elettorali del Csm - 2.1 Rispettare la volontà degli elettori - 2.2. Ridurre la distanza eletti/ elettori - 2.3. I “pregi” dei sistemi maggioritari - 2.4. La rappresentanza di genere - 2.5. La proposta “Silvestri” - 3. Ritrovare l’orgoglio del confronto tra le posizioni ideali.
1. Chi governa la magistratura?
Nel clima segnato dallo sconcerto per quanto emerso dalla indagine di Perugia il dibattito sul Csm ha finito per concentrarsi su due questioni, sistema elettorale e nomina degli incarichi direttivi. Questioni certo rilevanti sulle quali, nel dibattito pubblico e nelle liste di discussione dei magistrati, la fantasia si è scatenata nel proporre i più diversi “toccasana”, non pochi dei quali francamente stravaganti.
Una rassegna stampa sugli interventi degli ultimi giorni da parte di professori, avvocati e magistrati in pensione ci offre di tutto e di più.
La funzione disciplinare del Csm “ seppur produca un procedimento di natura giurisdizionale, viene ricondotta ad una ordinaria attività ammnistrativa e come tale può essere soggetta ad una legge ordinaria. Trattandosi dunque di una comune legge che affida la funzione disciplinare ad una sezione interna del Csm, una uguale legge ordinaria può modificarne la sua originaria struttura, correggendo la qualità dei suoi componenti attingendo a soggetti estranei al Csm stesso e non per forza appartenenti all’ordine giudiziario, ma nel ruolo dei professori universitari, avvocati e ufficiali delle forze dell’ordine” (in “Libero” 13 giugno 2020 p.9).
Ancora sulla funzione disciplinare. “Una soluzione ci sarebbe, ma la politica appare paralizzata. Se al Csm venisse lasciata la sola funzione disciplinare e il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi fosse affidato ad un organo diverso, non ci sarebbe più la corsa a farsi eleggere. Il compito di nominare procuratori capi, aggiunti e presidenti di sezione potrebbe essere assegnato a un collegio di giudici costituzionali, integrati con il primo presidente della Cassazione e con il procuratore generale, insomma figure avanti nella carriera e perciò meno sensibili alle pressioni esterne” ( in “Il Foglio. Inserto.” 3 giugno 2020).
Sul sistema elettorale “ una buona soluzione potrebbe essere la previsione di un collegio elettorale per ogni distretto di Corte di Appello, con ‘primarie’ prima della vera e propria elezione (imprescindibile per l’art.104 della Costituzione). Primarie da effettuarsi in ciascun collegio con la partecipazione, oltre che dei magistrati ordinari, di quelli onorari, di tutto il personale amministrativo e di adeguate rappresentanze dell’avvocatura e dell’università. Lo strapotere delle correnti potrebbe così trovare un freno consistente” ( in “Corriere della Sera”, 13 giugno 2020 p.36).
Vi è poi la proposta del sorteggio in varie declinazioni, (In “Libero” 11 giugno 2020). senza neppure la consapevolezza istituzionale dell’on. Almirante, che nel 1971 riteneva necessaria una legge costituzionale. Che le scelte della politica talora possano contrastare con i principi costituzionali non sorprende ed è per questo che sono state create le Corti Costituzionali. Ma è cosa diversa vedere uomini di legge (giuristi, avvocati, magistrati ed ex magistrati) ingegnarsi a trovare il modo per eludere il chiaro dettato della Costituzione. Sul metodo del sorteggio illuminanti sono le analisi e le osservazioni di Nadia Urbinati e Luciano Vandelli (La democrazia del sorteggio, Einaudi, Torino 2020. Il punto di partenza: “il sorteggio tocca non solo il tema della selezione dei governanti, ma anche quello dei modi i cui questi governano, assumono scelte e decisioni di governo”( p. 6). E il punto di arrivo: “natura de-responsabilizzante del sorteggio”( p.19); “ Chi è sorteggiato ha l’opportunità di esercitare un peso importante[…] ed è un’opportunità che - statisticamente -non gli capiterà mai più. Del resto non deve rendere conto a nessuno: non è stato eletto dalla comunità […], non ha alcuna responsabilità, né obbligo nei confronti dei membri di questa. Naturalmente, diamo per presupposto che tutti i magistrati operino esclusivamente nell’interesse della giustizia, ma se ce ne fosse qualcuno non ispirato unicamente da valori di questo tipo, in queste condizioni, potrebbe risultargli davvero arduo non cedere alla tentazione di far valere propri personali rapporti, interessi, amicizie, avversioni, convincimenti…”(p.164. Rispetto al testo originale ho sostituito magistrati a “professori universitari” e giustizia a “scienza e didattica”).
Alle stravaganze si aggiunge lo stretto collegamento all’attualità, dimenticando che l’ordinamento giudiziario è materia che esige una visione se non di lungo periodo, almeno non troppo miope. Non a caso se il nostro sistema costituzionale in materia esige la riserva di legge, in altri ordinamenti si richiede la “legge organica”, di livello più alto della legge ordinaria.
L’”amministrazione della giurisdizione”, secondo l’efficace formula del compianto Alessandro Pizzorusso, le cui riflessioni sarebbe bene tenere a mente, o il “governo della magistratura”, altra formula oggi in uso, implicano un soggetto istituzionale di riferimento.
In Italia (e in molta parte d’Europa), nel modello tradizionale in vigore negli ultimi due secoli nei sistemi democratici, il “governo della magistratura” è stato sostanzialmente affidato al Governo, attraverso il Ministro della Giustizia. In Francia, fino a pochi anni addietro, la nomina dei Procuratori generali era di competenza esclusiva del Consiglio dei Ministri.
La storia ci mostra quanto questo modello abbia reso problematica l’effettività di quel principio di indipendenza del potere giudiziario pure formalmente proclamato. In Italia il regime fascista, nel momento in cui struttura l’assetto totalitario, ritiene necessario legiferare sul sistema penale (con i codici penale e di procedura penale), sui poteri di polizia (con il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) e sul sistema carcerario (con il regolamento penitenziario). Il fascismo non ritiene urgente legiferare in materia di “governo della magistratura” e vi provvederà solo nel 1942 quando il regime è ormai in declino.
La Costituzione democratica ha operato una “rivoluzione” con la istituzione del Consiglio superiore della magistratura e il riparto di attribuzioni rispetto al Ministro della Giustizia. Il modello italiano di Csm “forte” è stato punto di riferimento per i paesi mediterranei che hanno riconquistato la democrazia, come la Spagna e il Portogallo, e altrettanto lo è stato successivamente per i paesi dell’Europa centrale e dell’est dopo la caduta del muro di Berlino.
Il Csm italiano nel giugno 2004 si è fatto promotore, insieme a tredici stati membri dell’Unione europea, della fondazione, a Roma, della Rete europea dei consigli di giustizia (ENCJ European Network of Councils for the Judiciary e un componente laico del Csm italiano, Luigi Berlinguer, ne è stato il primo presidente. Ad oggi ENCJ conta le istituzioni di ventidue stati membri e quindici osservatori. In un recente studio si rileva che «il Consiglio superiore della magistratura italiano registra oggi sul piano internazionale, e soprattutto all’interno dei network giudiziari, un grado di legittimità ed autorevolezza tale da essere considerato come uno standard di qualità della giustizia»[1].
Ed infatti, nonostante le recenti vicende che hanno investito il Csm siano ben note anche fuori d’Italia, il 10 giugno scorso è stato eletto Presidente dell’ENCJ il prof. Filippo Donati, membro laico dell’attuale Csm.
Ed ancora. L’irrigidimento autoritario che, in diversa misura, ha caratterizzato alcuni paesi, da Polonia a Ungheria a Turchia, ha immediatamente provocato un ridislocamento dei poteri di governo della magistratura da organi del tipo Consiglio Superiore o Consiglio di Giustizia al Ministro della Giustizia e al Governo, direttamente o per il tramite di nuovi organismi strettamente controllati dall’esecutivo.
A chi, di fronte alla crisi che ha investito il Csm, ne ha sbrigativamente proposto la soppressione, si deve ricordare che l’alternativa è il controllo dell’esecutivo sulla magistratura; sono possibili escamotage e camuffamenti, come Ungheria, Polonia e Turchia ci mostrano, ma l’esito è quello.
Se si parte da queste premesse, l’analisi delle proposte di riforma deve muovere da alcuni punti fermi:
a) in una democrazia matura non è auspicabile il controllo del Governo sulla magistratura;
b) le tensioni e le polemiche sul Csm non sono altro che il riflesso delle tensioni e dei problemi che investono il ruolo della magistratura nella società;
c) il sistema elettorale dei togati è stato finora oggetto di un riformismo frenetico: «segno, indubbiamente, della costante volontà politica di incidere – oltre che sugli equilibri della componente politica e di quella giudiziaria – sulla definizione stessa dell’identità della magistratura. Non a caso, il periodico riemergere del tema della riforma elettorale è sempre stato strettamente legato al più ampio progetto di riforma degli equilibri generali dell’ordinamento giudiziario»[2].
Partendo da questi punti fermi si può tentare di proporre alcune osservazioni sul sistema elettorale del Csm.
2. I sistemi elettorali del Csm
Il sistema elettorale del Csm è stato nel corso degli anni, il terreno sul quale il sistema politico, dietro la bandiera del contrasto al “correntismo”, ha perseguito in realtà l’obbiettivo di recuperare momenti di influenza sull'organo di governo autonomo.
“Il Csm ha svolto un ruolo assolutamente centrale e decisivo per la realizzazione del modello italiano di ordinamento giudiziario e per la formazione di una magistratura autonoma e indipendente, specie dalla politica. Per questo negli anni abbiamo assistito a ripetuti attacchi verso il Csm da parte del potere politico, fino a realizzare una chiara contrapposizione ed una situazione di patologico conflitto. Per fortuna finora i diversi tentativi di depotenziare il Csm non sono riusciti nel loro intento a tutto vantaggio della tutela dei diritti dei cittadini[3]”.
L’associazionismo dei magistrati in Italia ha una lunga e complessa storia, che si intreccia con la storia del Csm. Due poli convivono da sempre nell’Anm: rivendicazione di indipendenza che pone l'associazione in consonanza con i settori più avvertiti della cultura giuridico-istituzionale, ma insieme pesanti tributi ad una ideologia corporativa che tendono a tagliar fuori la magistratura dal vivo del dibattito nella società.
L’esistenza di diverse correnti, con i mutamenti che si sono succeduti nel tempo, e la dialettica tra di esse costituiscono un segno della vitalità dell’associazionismo giudiziario. In questo ormai mezzo secolo in cui l’associazionismo si è espresso nella organizzazione delle correnti la dialettica interna è stata significativa; vi sono state scissioni, fusioni, formazione di nuove correnti e anche raggruppamenti fortemente minoritari hanno avuto rappresentanza sia nel Comitato direttivo dell’Anm, sia nel Csm, quando il sistema elettorale lo ha consentito.
Ma quando il legislatore del 1967 introduce un sistema maggioritario, pretendendo di ignorare la realtà delle correnti organizzate di magistrati che partecipano alle elezioni, il risultato di gravi distorsioni è ineluttabile. Rimane in vigore una norma (art. 14, 3º comma, d.p.r. 16 agosto 1958 n. 916) che stabilisce:“E’ vietata l'esposizione e la diffusione, sotto qualsiasi forma, di altre liste di leggibili (n.d.r.: diverse cioè da quelle previste nei precedenti artt. 6 e 10, che si riducevano al mero elenco dei magistrati di tribunale e di appello in servizio nei rispettivi collegi elettorali) o comunque l'indicazione di persone o di gruppi di persone determinate per le quali può essere espresso il voto”.
Questa prescrizione, pressoché ignorata dai commentatori, è stata costantemente violata, come è indicato anche dalla netta concentrazione del voto su pochissimi candidati, quelli cioè sostenuti da qualche gruppo organizzato e, nella sostanza, apparentati in liste. Ed infatti tutti coloro che in quel periodo analizzano e studiano le vicende elettorali del Csm danno per scontata la esistenza dei gruppi associativi e la partecipazione di essi alla competizione elettorale.
Le elezioni del Csm nel 1972 si svolgono ancora con il vecchio sistema ed il principio maggioritario questa volta scatta appieno: il gruppo di Magistratura Indipendente, grazie ad un efficace sistema di alleanze e di concentrazione dei voti, riesce addirittura ad assicurare al suo schieramento tutti i seggi con circa il 40% dei voti. Questo risultato viene definito «una illustrazione da manuale delle conseguenze paradossali cui può portare un sistema elettorale[4]».
I sistemi elettorali sono materia tecnicamente complicata e per di più difficilmente chi ha il potere di decidere sfugge alla tentazione, mentre ostenta il fine di “rispettare la volontà dell’elettore”, di cercare di indirizzarne l’esito nella direzione ritenuta più conveniente. Gli esempi sono infiniti, dalla oscillazione tra maggioritario e proporzionale, alle soglie di sbarramento, ai premi di maggioranza.
Tra le manipolazioni più ardite è il gerrymandering, nei sistemi maggioritari uninominali. Poiché in tali sistemi per vincere in un collegio è sufficiente superare il 50% dei consensi, per redistribuire i voti eccedenti nei collegi vicini il governatore del Massachusetts Elbridge Gerry (1744-1814) ridisegnò in modo tortuoso i collegi con la tecnica che da allora è indicata con il termine di gerrymandering, dalla fusione del nome del governatore e salamander, salamandra.
Anche al sistema elettorale del Csm può applicarsi il monito di Alexander Hamilton: “Se gli uomini fossero angeli, non sarebbe necessario un governo. Se i governanti fossero angeli, non sarebbe necessario alcun controllo né interno né esterno sul governo. Ma in un quadro in cui uomini governano uomini sorge un grande problema: in primo luogo lo Stato deve controllare i governati, ma in secondo luogo occorre obbligare il governo a porre in essere forme di controllo di sé stesso. La dipendenza dal popolo del governo è senza dubbio il primo tipo di controllo, ma l’esperienza ha insegnato al genere umano che sono necessarie alcune precauzioni ausiliarie[5]”.
Gli uomini non sono angeli, i magistrati sono uomini e dunque non essendo angeli è bene che il sistema elettorale non li esponga ad eccessive tentazioni, come avvenne nel 1967 con il sistema maggioritario o nel 2002 con l’attuale sistema che ha prodotto i risultati ben noti, all’opposto di quello che il malaccorto legislatore si proponeva.
Le “precauzioni ausiliarie” devono tener conto della specificità dell’elettorato e dell’organo di cui si eleggono i componenti.
I magistrati in servizio al 13 giugno 2020 sono 9.738, un piccolo paese, supera non di molto il numero di abitanti di San Gimignano. I componenti da eleggere al Csm sono oggi 16, in passato, e in futuro forse, 20.
2.1. Rispettare la volontà degli elettori
La suddivisione in collegi uninominali si traduce in un numero piccolissimo, in cui eventuali fattori distorsivi non sono bilanciati ed attenuati dai grandi numeri. Nei sistemi politici maggioritari è capitato che la maggioranza dei voti espressi a livello nazionale dagli elettori non si traduca in maggioranza dei seggi, ma l’evento non è frequente e la distanza tra i due dati non è rilevante. Nel piccolo paese, suddiviso in piccoli collegi le distorsioni possono essere rilevantissime come accadde nel 1972. La legittimazione di un organo in cui la totalità o quasi dei componenti sia espressa da una minoranza degli elettori è soggetta a forti tensioni, ancora una volta come puntualmente accadde per il Csm 1972-1976, al punto da indurre il Parlamento a mutare radicalmente, a larghissima maggioranza, il sistema che aveva consentito quel risultato.
2.2. Ridurre la distanza eletti/elettori
A seconda del numero, 16 o 20 dei componenti da eleggere in collegi uninominali, ciascun collegio è formato tra 500 e 600 elettori, un quartiere di un piccolo paese, ma le realtà sono molto diverse. A Milano città 537 magistrati lavorano nello stesso palazzo di giustizia. Nella intera regione Umbria i magistrati sono 135. A Milano il mitico “magistrato della porta accanto” lavora ogni giorno nei diversi piani al civico 20123 Via Freguglia 1. In altri collegi il vicino della porta a fianco lavora a decine, talora a più di un centinaio di chilometri.
Il maggioritario uninominale “1 collegio= 1 eletto” non assicura, nella maggioranza delle situazioni, la vicinanza eletto/elettore. Questo è peraltro un valore ove l’eletto legittimamente sia portatore delle istanze del territorio, ciò che avviene per le amministrazioni locali e anche per il Parlamento, con il temperamento previsto dall’art. 67 Cost.” Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.
Non lo è per il Csm che deve svolgere il suo compito avendo di mira l’organizzazione della giustizia a livello nazionale e rifuggendo anzi dalle pressioni ed istanze localistiche. Ad assicurare il canale informativo e di proposta delle realtà territoriali sono previsti ed operano i Consigli Giudiziari presso ciascuna Corte di Appello. Pensiamo ai due momenti in cui il Csm “governa” la distribuzione dei magistrati sul territorio nazionale e nelle diverse funzioni: i trasferimenti ordinari orizzontali e l’assegnazione della prima sede ai neo-magistrati. Le esigenze dei territori devono essere rappresentate e gestite dal consigliere espresso da quel territorio, con il sacrificio dei territori che non abbiano nessun eletto? O piuttosto i singoli consiglieri debbono orientarsi secondo equilibrio e razionalità complessiva, lasciando ai Consigli Giudiziari il compito di rappresentare le esigenze locali?
Nella realtà il “vicino della porta accanto” è piuttosto il collega che opera nella stesso settore di specializzazione, in altri uffici e in altri distretti, ma con il quale si è venuti in contatto nei seminari, nei convegni e nello scambio quotidiano di opinioni, che internet rende possibile superando ogni distanza fisica.
Il “vicino della porta accanto” è piuttosto, horresco referens, il collega del quale condivido le opinioni sul sistema di giustizia e sulle riforme necessarie, al quale magari mi accomuna l’adesione ad una gruppo che opera nell’associazionismo giudiziario. Quelle che chiamiamo “correnti”, ma si può usare una denominazione diversa, sono libere, trasparenti associazioni di magistrati, che si formano sulla base di una concezione del sistema di giustizia e delle riforme da proporre.
Con il collegio unico nazionale posso scegliermi il “vicino della porta accanto”. Il sistema proporzionale per liste concorrenti rispetta la mia volontà di elettore di contribuire alla elezione dei “colleghi della porta accanto” con i quali condivido le idee sulla giustizia, anche se la “porta accanto” è fisicamente molto distante. Il candidato che abbia molti “colleghi della porta accanto” declinata in questo modo, ha chances di essere eletto anche se opera in una realtà territoriale in cui il suo gruppo di riferimento raccolga un consenso limitato. Ciò che avvenne nelle elezioni del 1981 La rigidità del meccanismo delle liste concorrenti, può essere attenuata: il cosiddetto panachage, pur non privo di controindicazioni, consente di esprimere una preferenza ulteriore per candidato di altra lista.
Per altro verso anche un gruppo fortemente minoritario può ottenere almeno un seggio come accadde nelle elezioni del 1986. Le dirigenze dei gruppi formano la lista del gruppo secondo le regole interne, ma l’elettore, che possa esprimere un numero limitato di preferenze ha un’ampia possibilità di scelta; nel formare una lista di 16 o 20 candidati nessun apparato potrebbe praticare scelte di esclusione.
2.3. I “pregi” dei sistemi maggioritari
Oggi di fronte alla frammentazione del sistema politico anche i sistemi maggioritari stentano a perseguire quelli che sono ritenuti i loro “pregi”: una maggioranza stabile che assicuri la governabilità, conoscere chi governerà appena finito lo spoglio. Non sono più isolate le voci a favore del ritorno a sistemi proporzionali. Per di più se i “pregi” fondamentali del maggioritario sono proprio quelli che per il Csm si devono comunque evitare, occorrerebbe essere molto cauti nel “giocare” con varie combinazioni incentrate sul maggioritario.
La logica del ballottaggio è quella di consentire all’elettore il cui candidato preferito al primo turno sia escluso dalla partecipazione al secondo turno, di orientarsi per il candidato meno sgradito tra quelli rimasti in campo. Ciò si è verificato in Francia in particolare nelle due ultime elezioni presidenziali dove il ballottaggio non ha visto in lizza come in passato il candidato della destra e quello della sinistra. I partiti della sinistra, del centro e della destra moderata per il secondo turno ha invitato a votare il candidato che aveva più chances di contrastare la candidata dell’estrema destra. Un intervallo tra i due turni, di norma una o due settimane, è insito nella logica del sistema, per consentire all’elettore di valutare dove orientare il suo secondo voto. Ridurre l’intervallo drasticamente è contro la logica del sistema e rende solo più difficile una scelta meditata degli elettori, i quali potranno seguire le indicazioni del candidato (e del partito) cui avevano dato il primo voto, o potranno discostarsene.
Il maggioritario binominale sul modello del sistema “cileno”, rimane ovviamente un maggioritario: non solo offre pochissime chances a candidati “indipendenti” o a gruppi fortemente minoritari, ma tende a favorire la polarizzazione in due blocchi e apre la strada ad accordi tra le dirigenze dei due gruppi più forti, con desistenza o altro, volti alla eliminazione di candidati outsiders o comunque espressi dal terzo o quarto gruppo che concorra all’elezione. Con il maggioritario uninominale è possibile che è un gruppo si assicuri tutti i seggi. Con il maggioritario binominale è probabile che si determini una polarizzazione su due schieramenti, evento non meno deprecabile del primo.
2.4. La rappresentanza di genere
Oggi il corpo elettorale della magistratura è composto per il 54% da donne e per il 46% da uomini. Negli ultimi anni la discriminazione di genere si è fortemente attenuata, anche se ai due incarichi di vertici della magistratura. Presidente e Procuratore generale della Cassazione finora non sono mai arrivate donne.
Sono arrivate invece, e ormai in diverse sedi piccole e grandi, agli incarichi direttivi giudicanti e requirenti di primo grado e di appello. Nel mondo di oggi, superata da tempo la concezione della Cassazione come vertice gerarchico, il presidente del Tribunale di Milano o il Procuratore della Repubblica di Napoli hanno la possibilità di incidere, in positivo o in negativo, sul sistema di giustizia o per dirla in modo più brutale, “contano” di più degli incarichi di vertice della Cassazione.
È però un fatto la perdurante sottorappresentazione delle donne tra i componenti del Csm: si giustifica quindi tentare, attraverso una “azione positiva” nel sistema elettorale, di indurre un riequilibrio. Ma ancora una volta operando su piccoli numeri i meccanismi correttivi possono produrre distorsioni così rilevanti della volontà degli elettori da porre problemi di rappresentatività e anche di compatibilità costituzionale. Questi rischi sono evidenti sia nel sistema maggioritario uninominale che in quello binominale. La finalità del riequilibrio può essere invece perseguita agevolmente, e senza distorsioni eccessive, in un sistema proporzionale in collegio unico nazionale.
2.5. La proposta “Silvestri”
Sin dal 1997 il prof. Gaetano Silvestri, forte dell’esperienza vissuta come componente laico del Csm, ha proposto di adottare per il Csm, il sistema con il quale è stato eletto il Senato della Repubblica dal 1958 al 1992. Vi è ritornato di recente con ulteriori approfondimenti, frutto anche della successiva esperienza alla presidenza della Scuola superiore della Magistratura (Notte e nebbia sulla magistratura italiana. C’è una via d’uscita dalla morsa delle degenerazioni correntizie e dalle moralizzazioni pelose?, in Questione Giustizia 12 giugno 2020). A questi scritti faccio rinvio limitandomi ad esprimere l’opinione che questo sistema, a differenza del maggioritario uninominale e di quello binominale, pone in essere molte di quelle “precauzioni ausiliarie” che il particolare sistema elettorale del Csm esige. Ha per di più il vantaggio che si tratta di un sistema già sperimentato nelle elezione politiche, consentendo di valutare sulla base della esperienza pratica l’adattamento al sistema particolare del Csm.
3.Ritrovare l’orgoglio del confronto tra le posizioni ideali
Lo scopo di queste “noterelle” non è quello di proporre il sistema elettorale ideale per il Csm, ma più modestamente:
- richiamare all’attenzione gli insegnamenti che si devono trarre dalle vicende passate dell’applicazione dei vari sistemi elettorali per evitare di ripeterne gli errori;
- evitare di “giocare” con la miriade di sistemi elettorali possibili senza tener conto che si devono applicare ad un corpo elettorale ristrettissimo, paragonabile a quello di un piccolo paese;
- evitare di mitizzare il contatto ravvicinato elettore/eletto, tenendo conto che “la porta accanto” dovrebbe essere l’intero territorio nazionale;
- considerare primo obbiettivo da perseguire la garanzia che il Csm sia il più possibile rappresentativo del pluralismo ideale e professionale della magistratura e dunque tuteli le tendenze minoritarie;
- rammentare che nonostante le degenerazioni questo pluralismo è insieme un valore positivo e una realtà che nessuna alchimia elettorale può eliminare. Ovunque vi è una elezione libera si confrontano diverse opinioni e si formano aggregazioni, nuove o preesistenti. Avviene anche nel Conclave per eleggere il Papa; lì il risultato finale è guidato dall’alto dal Padreterno. Per il Csm deve valere solo il libero confronto delle diverse opzioni evitando l’errore di proporre sistemi che lasciano mano libera alle manovre di piccoli “padreterni” nella raccolta del consenso;
- evidenziare il paradosso: i “pregi” che si attribuiscono ai sistemi maggioritari nelle elezioni politiche o amministrative sono esattamente ciò che per il Csm si deve cercare di evitare; taluno propone sistemi maggioritari per poi cercare di attenuarne il più possibile le caratteristiche essenziali.
I componenti del Csm eletti dalle “correnti” possono pervertire il confronto delle posizioni ideali per indulgere, come purtroppo è accaduto, a logiche clientelari e a pratiche di scambi. I notabili eletti dai colleghi della porta accanto, anche se continuano a far riferimento ad un gruppo associativo, tendono a rispondere al loro elettorato e per assicurare gli interessi del proprio collegio devono entrare in pratiche di scambio con gli eletti di altri collegi.
A sistemi che hanno insiti i rischi del notabilato, delle visioni localistiche e delle pratiche di scambio, si contrappongono sistemi che operando per la rappresentanza del pluralismo di posizioni culturali e professionali, hanno in sé gli antidoti per quelle derive. La valutazione di professionalità e la scelta dei dirigenti aprono ineluttabilmente ampi di discrezionalità.
Si tratta allora di operare per valorizzare quegli antidoti, preservando la logica del “modello Csm” della Costituzione. Non dobbiamo dimenticare che è stato il Csm delle correnti che ha supportato la magistratura nell’affrontare le terribili prove dello stragismo, del terrorismo e della criminalità mafiosa, per non dire nel respingere l’infiltrazione piduista.
Questo modello di Csm negli anni più recenti ha consentito, con qualche successo, di affrontare in modi nuovi la efficienza del sistema giustizia, valorizzando le buone pratiche e misurandosi con l’informatizzazione.
“La scelta costituzionale della elezione della parte del CSM riservata ai magistrati consente di dar spazio al pluralismo culturale e professionale che percorre la magistratura: ora certo, come è avvenuto anche in altri settori della vita sociale, con minor vigore (e radicalismo), ma pur tuttavia ancora utilmente. Il luogo della sintesi operativa è il CSM, il cui lavoro non può essere sterilizzato richiamando formule vuote, o almeno insufficienti, come quella di un astratto ‘merito’ che si pretende ‘oggettivo’ “
Questa puntuale osservazione di Vladimiro Zagrebelsky (La resa dei conti e la reazione della magistratura in “Giustizia Insieme” 15 giugno 2020 https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/1161-la-resa-dei-conti-e-la-reazione-della-magistratura-di-vladimiro-zagrebelsky) è il punto di riferimento non eludibile per valutare ogni proposta di riforma del sistema elettorale del Csm.
Il recupero di credibilità della giustizia, il “voltare pagina” richiesto dal Presidente Mattarella il 21 giugno 2019, non passa per le alchimie dei sistemi elettorali, ma è nelle mani dei magistrati se saranno capaci di ritrovare l’orgoglio del confronto tra posizioni ideali nell’associazionismo giudiziario, rivitalizzandone una storia non priva di momenti elevati, e nel Csm, valorizzando tutte le potenzialità del modello voluto dalla Costituzione.
[1] D.Piana, A. Vauchez, Il Consiglio Superiore della Magistratura, Il Mulino, Bologna 2012 ,p. 277.
[2] Ivi, p. 90
[3] R. Romboli, Quale legge elettorale per quale Csm: i principi costituzionali, la loro attuazione e le proposte di riforma, in “Questione giustizia ” 25 maggio 2020, p.25
[4] Presentazione (non firmata) in “Politica del Diritto”, anno III, 1972, 288.
[5] Federalist n.51 in Alexander Hamilton, James Madison, John Jay, Il Federalista, traduzione italiana a cura di M. D’Addio e G. Negri, Bologna, Il Mulino, 1997, p.458
Il carcere: come non si è governata l’emergenza infezione
di Francesco Maisto
“La più grave epidemia del mondo contemporaneo è la superficialità” (Raimon Panikkar)
Sommario: 1. Sulla soglia della rupe Tarpea. 2. “Sentinella, quanto resta della notte?” (Isaia 21,11). 3. Disorientamento spazio- temporale. 4. Le emozioni umane dentro e fuori dal carcere. 5. Il diritto alla salute. 6. Azioni ed omissioni nel tempo e nello spazio. 7. Policentrismo istituzionale. 8. “Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi molto prima che accada.
1. Sulla soglia della rupe Tarpea
Non è ancora tempo di un bilancio definitivo nell’attribuzione di dolo o colpa al Governo, ed in particolare all’Amministrazione penitenziaria, per gli errori e/o le omissioni nella gestione della prevenzione del contagio nelle carceri. Mi limito, quindi, allo stato, ad individuarne la causa innanzitutto nella superficialità. Può, infatti, ascriversi a superficialità tanto la mancata e ritardata comprensione della gravità della diffusione del contagio - principalmente nelle carceri della Lombardia, del Piemonte e del Veneto -, quanto la lontananza e la distanza tra i Ministeri e le direzioni delle carceri, quanto la qualità burocratica della comunicazione tra i vertici del D.A.P. ed i Provveditorati locali dell’Amministrazione penitenziaria, quanto una visione carcerocentrica della politica penale tutta incentrata sul mantra della certezza della pena.
E quindi, per il momento, opto per la prospettiva cosmica ed universale, non direttamente colpevolista, di Papa Francesco, compiutamente espressa nell’Enciclica Laudato si’, ed in particolare, con l’insegnamento che “ Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora. Niente di questo mondo ci risulta indifferente”.[1]
L’unico che ci ha offerto con la Via Crucis di questo Venerdì santo la narrazione attuale del carcere.
Per quanto non sia ancora tempo di “processi”, però, due fenomeni sembrano macroscopici:
“Dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso”, dice giustamente Robert Williams nel film L’attimo fuggente.
Più che le teorizzazioni di carattere sanitario o giuridico sulla pandemia nel sistema carcerario italiano, credo che abbiano valore le testimonianze delle persone detenute.
Alcune e significative le ho trovate in Carte Bollate[2].
“L’emergenza Covid-19 ha fatto esplodere tutte le contraddizioni lungamente ignorate del sistema carcere, aggravando una situazione già estremamente difficile, caratterizzata, in primo luogo, dal sovraffollamento e dalla radicata convinzione che punire significhi recludere e non utilizzare, quando è possibile, misure alternative.
Nelle carceri si è riuscito a contenere il contagio, che ha avuto percentuali nettamente inferiori rispetto all’esterno, anche perché si è accelerata la detenzione domiciliare di una minima parte di coloro che avevano i requisiti per richiederla. Dal 23 febbraio i cancelli di Bollate si erano chiusi per i volontari. Di lì a poco si sarebbero interrotti anche i colloqui tra i detenuti e i loro familiari. Non avevamo più nessun contatto con il carcere, ma già ai primi di marzo l’ansia era a mille: da San Vittore, Modena, Opera e dagli istituti di mezza Italia arriva la notizia delle rivolte che stanno dilagando, reparti incendiati, detenuti sui tetti di San Vittore.”
Bepi si sente in un brutto film di fantascienza: “Che storia impensabile che stiamo vivendo. La realtà supera sempre la fantasia. Nemmeno nei film più apocalittici si era arrivati a pensare a un virus tanto selettivo e letale. Il disagio di ritrovarsi tutti come profughi, senza il nulla più assoluto, trasferiti in ogni luogo e in ogni dove.”
“Soprattutto vorrei, dopo quello che ho personalmente vissuto, che fosse chiaro che lo Stato insieme a chi applica le leggi può e avrebbe potuto far fronte all’emergenza con più cautela”.
“L’inaspettato, brusco e non compreso blocco dei colloqui con i propri congiunti non è stato un pretesto, ma un urlo di disperazione, anche perché si è sommato ad altri disagi conosciuti come il sovraffollamento.”
“E alla fine scopri che il topo potresti essere tu.”
E’ anche significativa qualcuna delle tante segnalazioni pervenute all’Ufficio del Garante delle persone limitate della libertà personale del Comune di Milano ed inserite nella Relazione inviata il 17 marzo al Procuratore della Repubblica di Milano ed al Garante Nazionale. Segnalazioni e richieste pressanti ed accorate dei parenti che non avevano più notizie dei loro congiunti.
Ha scritto un familiare di un detenuto del secondo reparto della Casa di Reclusione di Milano-Opera: “Mi ha appena chiamato mio marito e mi ha detto che lui non è stato picchiato ma sono stati picchiati tutti i detenuti del reparto dove c’è stato casino nel padiglione di fronte a lui, che è vero che lì sono entrati gli antisommossa che hanno spento le luci e li hanno picchiati tutti quanti, ma non mi ha saputo dire altro ma è vero che alcuni detenuti sono finiti al pronto soccorso”.
“Ho appena sentito un familiare che non riesce nemmeno a parlare, è stata chiamata dalla cognata che le ha detto che i suoi nipoti sono stati picchiati a Opera e che certi ragazzi avevano addirittura gli occhi di fuori dalle botte che hanno preso”.
Altro familiare di un detenuto del primo reparto ha segnalato: “Mi ha appena chiamato, mi ha raccontato tutto, che lo hanno picchiato in tre e lo hanno spaccato, che ha le mani rotte, che hanno picchiato tutti perché nella confusione non hanno guardato chi c’era e chi non c’era, hanno spento le luci e hanno picchiato tutti. Lo hanno tenuto a terra coi piedi e lo hanno picchiato con i manganelli. Per riportarlo nella cella lo hanno dovuto trascinare perché non stava in piedi e per due giorni non è riuscito ad alzarsi perché si sentiva svenire. Dopo, quando hanno capito che non c’entrava gli hanno chiesto scusa. Ha detto di portare da mangiare perché sono tutti alla fame”.
Ed ancora, un familiare di un detenuto del primo reparto: “Ha detto che sono in una situazione di m... Passano solo acqua e sigarette. Hanno tolto i fornelli. Oggi doveva arrivare la spesa ma non è arrivata. Oggi sono andati all’aria un’ora, meno male. Gli ho detto ‘finalmente hai chiamato, è una settimana che non dormo’ e lui mi fa ‘tu non dormi? Io ancora oggi dove guardo trovo lividi nuovi’. Mi ha detto che c’è un ragazzo che ha i segni delle manganellate sulla schiena e li ha fatti vedere al direttore che gli ha risposto ‘quelle manganellate che tu hai sulla schiena io le ho nel cuore per tutto quello che vi è successo”.
“Le parole possono attenuare e smorzare, nascondere la dimensione reale delle cose, ma non possono cancellarla”[3].
E dunque: sovraffollamento, mancanza di dispositivi individuali di protezione, diverse forme di paura - dall’apatia al terrore - per la propria vita e per quella dei figli e delle famiglie fuori dal carcere, la paura come per una “bomba infettiva”, interruzione dei colloqui tra i detenuti e i loro familiari, cancelli chiusi per i volontari, notizie delle rivolte, trasferimenti in ogni luogo e in ogni dove alla ricerca degli spazi sostitutivi di quelli danneggiati, segnalazioni per detenuti picchiati.
Anche questo avveniva nel contesto tragico in cui molti cosidetti liberi cittadini si sentivano come sulla soglia della rupe Tarpea.
2. “Sentinella, quanto resta della notte?” (Isaia 21,11)
“Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?” La sentinella risponde: “Viene il mattino... se volete, pregate... convertitevi!”. Questo è il versetto della Bibbia, con valenze teologiche e politiche, che Giuseppe Dossetti, fermo propugnatore degli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione - ancora oggi, il proprium della Carta italiana e l’architrave su cui poggia l’edificio costituzionale - amava richiamare in ogni occasione di pericolo per la stessa.
Pericoli che si sono appalesati ogniqualvolta è stato emanato un Decreto legge, un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, una Direttiva di Commissari straordinari, un’Ordinanza regionale, una Circolare che, all’insegna dell’art.32 della nostra Costituzione, hanno rischiato di mettere a dura prova i diritti inalienabili.
La sentinella che richiama Isaia è consapevole che la notte è notte, tuttavia non rimpiange il giorno passato; è protesa in un durevole atteggiamento vigile, e, senza illudersi in un immediato passaggio dalle tenebre alla luce, riesce a cogliere le prime luci dell’alba.
Nelle settimane di sospensione della nostra quotidianità a causa delle misure del contenimento del Coronavirus, in cui sono divenuti quasi palpabili concetti altrimenti solo filosofici come lo “stato di eccezione” (da tenere ben distinto dallo stato di emergenza), credo che molti si siano posta la domanda di Isaia nell’oracolo sull’Idumea. Molti, ma, credo, pochi o nessuno ai vertici dell’Amministrazione carceraria.
Quanto resta della notte? Quanto… perché l’eccezione abbia termine, e si possano riguadagnare i gesti della quotidianità, riabitare gli spazi aperti, salutare chi se n’è andato in solitudine?
Shomrîm è un participio che designa genericamente i “vigilanti”, coloro che vegliano e vigilano. Un termine che, quindi, ben si adatta all’immagine della ronda ed anche a chi ha il dovere di vigilare e custodire le vite dei detenuti.
“Noi tutti abbiamo un compito supremo nell’esistenza: custodire delle vite con la nostra vita. Guai a noi se non scopriamo chi dobbiamo custodire, guai se li custodiremo male”[4].
Il testo biblico, come tutte le grandi narrazioni dell’umanità, non dà risposte consolatorie, ma convoca l’uomo ad una responsabilità attiva.
Quindi opportunamente Grazia Zuffa ha sottolineato come “norme straordinarie, che incidono sulle libertà personali in nome di un’emergenza con la E maiuscola, come quella della salute, chiamano “naturalmente” all’eccesso nell’esercizio di autorità: che si manifesta «in alto», a livello dei macropoteri (ad esempio nel ricorso ripetuto e improprio ai Dcpm ), fino ad arrivare «in basso», ai «micropoteri» che presiedono all’applicazione delle norme: portati a indulgere a quel piacere in più che nasce da quel potere in più sui cittadini/e. Molto si è scritto a difesa delle norme di confinamento in casa e di divieto di varie attività, in quanto non anticostituzionali. Bene, a patto però di sottolineare la loro assoluta «eccezionalità». Tenerla a mente, da parte di ognuno/a di noi, tenerla viva nel dibattito pubblico anche da parte di chi quelle norme ha emanato, è l’unico argine a difesa delle nostre “normali” libertà, per il dopo coronavirus”[5].
Ferma ed autorevole è stata la posizione di Pulitanò[6] nella distinzione tra “stato di eccezione” e “stato di emergenza” e nei rilievi critici rispetto alla posizione radicale di Agamben riassunta nel titolo significativo L’invenzione di un’epidemia[7], che, peraltro sembra discostarsi dalle sue classiche e fondamentali precedenti coordinate generali[8].
Perché:” La libertà è il diritto dell’anima di respirare”, secondo il testamento di Stefano Rodotà[9].
Il discorso sui diritti è tanto delicato e denso di conseguenze che non può e non deve essere contaminato da quello organizzativo o da quello sulle finalità dell’istituzione. Nel conflitto fra libertà e restrizione dell’esercizio del diritto alla salute, la regola della Costituzione è l’autodeterminazione; ma quando, in periodi di emergenza dichiarata istituzionalmente ed a tempo determinato, diventa pressante la tutela della salute come interesse della comunità (come ad esempio, di fronte a comportamenti irresponsabili collettivi come la movida), bisogna anche accompagnare la responsabilizzazione della comunità stessa.
E dunque, posto che il tema dei diritti e delle sole limitazioni legittime e legali nel quadro costituzionale è prioritario ed influenza ogni altro aspetto della vita, non appare nemmeno lontanamente analoga la logica della guerra. Il vero pericolo sembra, invece, la riemersione di ogni logica istituzionalizzante che, sotto le mentite spoglie della protezione, funzioni, nei fatti, come controllo sui comportamenti, sicchè il diritto ad essere protetti si trasforma in dovere di sottoporsi al controllo. In questo contesto saranno i più fragili a farne le spese.
3. Disorientamento spazio- temporale
“Per il detenuto lo spazio si restringe e il tempo si dilata. Il tempo e lo spazio sono dissociati per il semplice fatto che vengono sottratti alla persona che li articola fra loro… Nessuno riesce a mantenere le distanze… I riferimenti dello spazio e del tempo si dissolvono…”[10]
Ai tempi del covid è dato scoprire, in più, che una tipica patologia delle persone ristrette può emergere anche negli amministratori: il disorientamento nello spazio e nel tempo come indicatore di condizione patologica[11].
La perdita del senso dell'orientamento spazio-temporale, quasi un disturbo caratterizzato dall'incapacità di collocarsi adeguatamente entro le condizioni di tempo e luogo, nonché rispetto alla propria persona e all'ambito in cui ci si trova. Molti amministratori apparivano quindi smarriti, confusi.
Ben altro che l’inflazione della distanza. “La creazione di lontananza, dunque, riguarda il tempo quanto lo spazio. Come lo spazio, anche il tempo ha più direzioni. E il distanziamento nel tempo riguarda il passato ma anche il futuro…”[12].
Sul tempo in carcere si trovano indicazioni multidisciplinari[13].
Lo spazio è la percezione del senso esterno, il tempo quella del senso interno. Quando lo spazio è vissuto diventa un luogo, deve però essere abitabile per ritrovare se stesso e ripensare a quel che si è stato e a quello che si può diventare. Ed invece così non è stato perché le misure messe in campo hanno trascurato ogni principio di razionalità.
Doveva poi essere noto che, in tempi come quello attuale, la razionalità deve essere in grado di trovare velocemente soluzioni adeguate per la progettazione, anche provvisoria, di forme dell’abitare che corrispondano ai bisogni mutevoli in corso di pandemia. Quindi: strutture mobili e transitorie, caratterizzate dalla trasformabilità, versatilità, ampliabilità e flessibilità.
Da qui la necessità di realizzare, con quella urgenza che non è stata subito messa a fuoco, zone o luoghi di isolamento sanitario, di quarantene e per le procedure di triage.
Si tratta dei principi basilari dell’existenziminimum, del movimento razionalista, riletti nell’ottica del “fruibile mutevole”[14].
Un filosofo ha scritto che “in questo preciso momento il mondo – tutto il pianeta – non è governato dalla classe politica né da giunte militari, ma dai medici”[15].
Certo, la gestione dell’emergenza ha avuto bisogno di risorse di scienza e di tecnica. La scienza ha cercato di capire che cosa stava succedendo, e si è impegnata nella costruzione di risposte tecnicamente possibili nell’emergenza. È entrata e sta sulla scena come impresa conoscitiva ed operativa consapevole delle sue potenzialità e dei suoi limiti.
Si è affermato anche nelle carceri il dominio delle competenze sanitarie infettivologiche e della politica a tutti i livelli senza alcuna interdisciplinarietà con gli architetti e gli esperti delle scienze dell’uomo: il mondo degli psichiatri e degli psicologi.
E’ stata sconfessata la tesi foucoltiana secondo cui “Per effetto di questo nuovo ritegno, tutto un esercito di tecnici ha dato il cambio al boia, anatomista immediato della sofferenza: sorveglianti, medici, cappellani, psichiatri, psicologi, educatori. Con la loro sola presenza presso il condannato, essi cantano alla giustizia le lodi di cui ha bisogno: le garantiscono che il corpo e il dolore non sono gli oggetti finali della sua azione punitiva”[16].
4. Le emozioni umane dentro e fuori dal carcere
Identificare e dare un nome al nostro clima emotivo è un compito difficile, ma necessario, soprattutto in epoca di pandemia. Quando ci si trova a fronteggiare un nemico oscuro ed invisibile addirittura può sembrare inutile qualsiasi forma di autodifesa.
Resta ancora emblematica la frase di Frankhlin D. Roossevelt nel discorso di insediamento del 1933: “l’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa”. Erano però, quelli, tempi in cui le scienze dell’uomo non avevano ancora scoperto e scandagliato i tanti tipi di paura diversa: dal timore alla preoccupazione, all’angoscia, al terrore[17]. E sarebbe di estremo interesse scientifico e terapeutico analizzare il tipo di paura che emerge nei detenuti, ed ancora più specificamente quella emersa in corso di epidemia, soprattutto con l’interruzione brusca di ogni informazione sulle caratteristiche del virus ed in mancanza di comunicazioni con le famiglie, i funzionari dell’area pedagogica ed i volontari penitenziari.
Certamente, per quanto nelle carceri siano attivi taluni mezzi di comunicazione, se per le persone libere diventa sempre più difficile restare all’oscuro ogni volta che compare una nuova epidemia (AIDS, aviaria, ebola), per le persone ristrette questa difficoltà, invece, si moltiplica.
La paura come timore è la madre di pettegolezzi e disinformazione che trova nelle carceri il bacino di coltura ideale, e tuttavia, credo si riesca ad attenuare se non a dominare, con una informazione capillare e specialistica.
Ma già la paura come preoccupazione o addirittura angoscia, già inquadrata come un vero e proprio disturbo, si stabilizza e diventa una ulteriore malattia del detenuto.
A livello più alto è la paura come panico, “lo sprofondamento in una fredda, vischiosa, impotenza” e la speranza che la malattia non si avvicini troppo.
A questo livello il panico nelle carceri può colpire senza far distinzioni tra “carature criminali”.
Infine la paura estrema, il terrore come una agitazione che sale dentro per essere a corto di tempo, diventa il “panico del portone che si sta chiudendo” togliendo occasioni di vita rifugiandosi dentro il castello come nel Medioevo. In questo contesto non si tratta di portoni metaforici, ma di quello tragicamente reale: “il doppio portone”.
E qui penso alla paura di gruppi di detenuti rivoltosi di essere stati rinchiusi nei Reparti previa saldatura dei cancelli interni. Questo è il torschlusspanik.
Soprattutto nel primo periodo di emergenza, caratterizzato dall’interruzione dei colloqui e dall’estrema solitudine personale, questi vari tipi di paura si sono apparsi moltiplicati in misura esponenziale per la preoccupazione della salute dei familiari liberi.
Non è mancato peraltro, l’impegno etico e sociale di tanti operatori penitenziari e di tanti volontari che, più che rappresentare adempimenti di compiti di servizio o doveri in genere, hanno manifestato autentica generosità. Penso qui, tra le tante azioni di solidarietà, alle collette a favore delle donne detenute trasferite improvvisamente nella Casa di Reclusione di Bollate dopo la rivolta nel carcere di Modena, per metterle in condizione di telefonare ai parenti.
5. Il diritto alla salute
Ipocrisie e distorsioni hanno caratterizzato la polemica sul diritto alla salute dei detenuti,facendo emergere posizioni ideologiche e politiche difformi dal dettato costituzionale, in nome della prevalenza della indefettibilità della pretesa punitiva dello Stato e delle finalità di prevenzione generale del carcere.
Vero è, invece, che la salute è diritto “fondamentale”, l'unico ad essere definito tale nella Costituzione (art. 32 Cost.), un diritto non comprimibile e non derogabile (come si afferma nell’art 15 della Carta Europea), e soprattutto, un diritto che non può essere oggetto di bilanciamenti con altri valori, come più volte ha ricordato la Corte EDU[18].
Da questo ancoraggio normativo ineludibile discende la consapevolezza di questo valore assoluto, che va affermato e tutelato nei confronti di tutti, senza alcuna eccezione, incluse le persone detenute, ancorchè “mafiose”.
Come ben ha evidenziato Emilio Santoro, preliminare ad ogni discorso sul diritto alla salute è quello sull’informazione. “Questa scelta ‘nord coreana’ rende soprattutto difficile capire quali sono le misure adottate per contrastare il COVID-19 in carcere, per tutelare la salute dei detenuti, del personale di polizia penitenziaria ma, direi, dell’intera collettività, e non consente di capire se tali misure siano sufficienti o se, invece, occorre migliorarle”[19].
Oggi però, anche in forza dell’art.8 della Convenzione Europea si configura, anche per i detenuti, come per i liberi, il diritto alla prevenzione. L’emergenza coronavirus ci consente di fare un passo avanti e di vedere che dobbiamo includere in maniera definitiva la prevenzione tra i contenuti del diritto alla salute dei detenuti.
Occorre allora ricordare che, nel passato prossimo, in occasione del fenomeno di contagio virale da HIV nelle carceri, la Corte Costituzionale, al fine della tutela del diritto alla salute, con la Sentenza N. 438 del 18 ottobre 1995, dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 146, primo comma, numero 3, del codice penale.
La Corte allora rimarcò: “il valore della salute nel particolare consorzio carcerario come bene da porre a raffronto con gli altri coinvolti, un bene, per di più, la cui tutela assumeva peculiare risalto in considerazione della ‘eccezionalita’ che il fenomeno dell'AIDS presentava in sede penitenziaria. Concetti, questi, che sono stati poi ribaditi nella sentenza n. 308 del 1994, ove si osservò . Dunque, un regime profondamente derogatorio, il quale trova la propria ragion d'essere soltanto se riferito ad un quadro di eccezionalità che, per esser tale, deve necessariamente correlarsi ad una situazione di emergenza che qualunque società civile è portata ad apprezzare come fenomeno per sua natura contingente e, quindi, temporaneo”.
Precisò poi (con un argomento che ben si attaglia all’attuale pandemia ed alla scarsità di dispositivi protettivi) che “la scarsità di adeguati presidi' terapeutici e di supporto, la totale assenza di strumenti preventivi e la peculiare condizione soggettiva di chi è portatore di una malattia indubbiamente gravissima, per di più circondata da non pochi pregiudizi che fortemente ostacolano il reinserimento sociale, hanno così finito per rappresentare un coacervo di problematiche che la norma censurata ha integralmente trasferito sulla intera collettività. Se, quindi, la salute collettiva nel particolare contesto carcerario - che costituisce, come si e' detto, il dichiarato obiettivo perseguito dalla norma - rappresenta un bene sicuramente da preservare, giacche' il diritto alla salute di ciascun individuo implica il relativo bilanciamento "con il dovere di tutelare il diritto dei terzi che vengono in necessario contatto con la persona per attivita' che comportino un serio rischio, non volontariamente assunto, di contagio" (v. sentenza n. 218 del 1994), devesi al tempo stesso affermare che in tanto può ritenersi ragionevole "l'allontanamento" dal carcere dei malati di AIDS, in quanto la relativa permanenza negli istituti cagioni in concreto un pregiudizio per la salute degli altri detenuti, posto che, altrimenti, risulterebbero senza giustificazione compromessi altri beni riconosciuti come primari dalla Carta fondamentale”[20].
Oltre la riaffermazione dei principi costituzionali cogenti appare significativo che sia ancora vivo il dibattito sulle cause non variabili di incidenza ambientale sul diritto alla salute in carcere.
E’ recente l’ordinanza N. 14260, sez. 1, CC - 21/02/2020, R.G.N. 37128/2019 della Corte di Cassazione che, pur trattando direttamente la questione dello spazio disponibile per ciascun detenuto, la inquadra nella cornice del diritto alla salute.
Argomenta la Corte: “Tra gli indicatori che rivelano una condizione di detenzione non conforme all'art. 3 della CEDU, vi è il sovraffollamento carcerario e, dunque, la necessità di definire lo spazio minimo disponibile, indicato dalla Corte EDU in tre metri quadrati per ciascun detenuto nella cella di assegnazione, e di individuare i criteri per determinarlo in concreto.
Nella sentenza in esame la Corte ha ricordato, innanzitutto, i principi generali già elaborati nella precedente sentenza pilota (10 gennaio 2012, Ananyev and Others v. Russia, cit., § 148) in materia di sovraffollamento carcerario e ha ritenuto che la violazione dell'articolo 3 della Convenzione, a causa dell'insufficienza di spazio personale a disposizione dei detenuti, può sussistere in assenza di una delle seguenti condizioni: disponibilità di posto letto individuale; fruibilità di almeno tre metri quadrati di superficie pro capite; possibilità di spostarsi liberamente fra gli arredi della cella.
L'assenza di una di tali condizioni genera una "forte presunzione" di detenzione non conforme al divieto di trattamento degradante.
Particolare rilievo assume l'esiguità dello spazio e non poche sono le decisioni della Corte EDU che hanno riconosciuto la violazione del divieto posto dall'art. 3 della CEDU, laddove lo spazio disponibile per ciascun detenuto in una cella collettiva fosse risultato inferiore a tre metri quadrati (Corte EDU: 22/10/2009, Orchowski c. Polonia, § 122; 10/01/2012, Ananyev and Others, cit., § 145; 10/03/2015, Varga and Others c. Ungheria, § 75).
La Corte europea si occupa anche del caso -prossimo a quello limite- del detenuto il quale disponga, nella cella, di uno spazio personale compreso fra i tre e i quattro metri quadrati, precisando che esso può integrare la violazione dell'articolo 3 della CEDU se la mancanza di spazio si accompagna ad altre condizioni degradanti di detenzione, quali: la mancanza di accesso al cortile, all'aria e alla luce naturale, la cattiva aereazione, una temperatura insufficiente o troppo elevata nei locali, un'assenza di riservatezza nelle toilette, cattive condizioni sanitarie e igieniche. idonee a mitigare lo scarso spazio disponibile di cui il singolo detenuto disponga nella cella di assegnazione, riepilogabili in quelle già sopra richiamate: durata di permanenza all'interno della cella, grado di libertà di circolazione del ristretto e offerta di attività all'esterno di essa, condizioni complessive dell'istituto e assenza di altri aspetti 'negativi del trattamento in rapporto a condizioni igieniche e servizi forniti in generale.”.
6. Azioni ed omissioni nel tempo e nello spazio
Oggi il fact checking evidenzia una diffusione contenuta dell'epidemia in carcere, ma è necessario indagarne i motivi. E bisogna passare in rassegna le azioni, le omissioni, i provvedimenti ufficiali ed i silenzi ingiustificati.
Sapevamo fin dall’inizio che la velocità del contagio è in funzione diretta della rapidità e della intensità delle misure di distanziamento e lockdown: più le misure sono rapide ed intense meno il virus si diffonde rapidamente[21]. Invece la velocità di diffusione del contagio non è stata accompagnata, se non preceduta da misure altrettanto veloci.
Le date sono fondamentali per valutare le azioni e le omissioni, altrimenti si rischia di perdersi nel ginepraio dei ventisei Provvedimenti governativi, emessi in tre mesi, andando anche alla ricerca della norma ad hoc per il mondo penitenziario, inserita nei decreti con valenza generale per tutta la cittadinanza. Otto di questi hanno riguardato la Giustizia ed il diritto penitenziario.
Il 30 gennaio del 2020 l’OMS dichiarava l’epidemia Covid 19 emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale ed il giorno seguente veniva emesso il Decreto che proclamava lo stato di emergenza nazionale per sei mesi. Ma, una attenta lettura della cronologia dei provvedimenti ne indica la lentezza e l’eterogeneità[22], in particolare con riguardo al D.A.P., al quale necessariamente devono far riferimento gli organi periferici che, peraltro, in alcuni territori, con lodevole eccezione, si sono attivati di propria iniziativa.
Esemplare, in tal senso, la Casa Circondariale di Milano in quanto l’OMS ha assunto l’esperienza condotta nel “covidario” di San Vittore come benchmark per la realizzazione delle sue linee guida per la prevenzione e controllo dell’infezione da COVID-19 nelle carceri a livello globale[23].
Significativa l’annotazione del Provveditore della Lombardia: “L’episodio che più di tutti ci ha convinto di questo è stato in occasione del trasferimento di quattordici detenuti COVID positivi da Lecco al ‘covidario’ di Milano. Una traduzione effettuata con la diretta partecipazione di un gruppo di medici, tra i quali gli esperti di Medici senza Frontiere, svoltasi e terminata senza rischi particolari e la massima attenzione da parte di tutto il personale coinvolto… Appena i detenuti sono scesi dal pullman a Milano e condotti attraverso un percorso a loro dedicato in modo da evitare, anche solo per caso, di incrociare altre persone, nel cortile di accesso, ove rimaneva parcheggiato il pullman, un ispettore vi faceva salire un detenuto lavorante per fare una prima sanificazione terminata la quale lo stesso veniva fatto rientrare nella propria sezione di appartenenza”[24].
Solo con il D.L. 2 marzo 2020, n. 9 all’art.10, comma 14 si disponeva che: “Negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni ubicati nelle regioni in cui si trovano i comuni di cui all'allegato 1 al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° marzo 2020, a decorrere dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto sino alla data del 31 marzo 2020 i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati a norma degli articoli 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354, 37 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, e 19 del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, sono svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l'amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica, che puo' essere autorizzata oltre i limiti di cui all'articolo 39, comma 2, del predetto decreto del Presidente della Repubblica n. 230 del 2000 e all'articolo 19, comma 1, del predetto decreto legislativo n. 121 del 2018. Negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni ubicati in regioni diverse da quelle indicate nel primo periodo, si applicano le medesime disposizioni quando ai colloqui partecipano persone residenti o che esercitano la propria attivita' lavorativa, produttiva o funzione nei comuni di cui all'allegato 1 al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° marzo 2020.”
Provvedimento presentato e vissuto come provvisorio dai detenuti ai quali è stata applicata dopo pochi giorni ancora una disposizione inattesa e vissuta come stabile.
Infatti con il DL 8 marzo 2020, n. 11 (Misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria), all’art.2, comma 8, si disponeva che : “Negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni, a decorrere dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto e sino alla data del 22 marzo 2020, i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati a norma degli articoli 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354, 37 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, e 19 del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, sono svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica, che può essere autorizzata oltre i limiti di cui all’articolo 39, comma 2, del predetto decreto del Presidente della Repubblica n. 230 del 2000 e all’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo n. 121 del 2018. Il Direttore dell’istituto, in ragione delle evidenze rappresentate dalla autorità sanitaria, può prorogare il regime di cui al periodo precedente per periodi successivi non superiori a 15 giorni, comunque non oltre il termine massimo del 31 maggio 2020”. Ed al Comma 9:” Tenuto conto delle evidenze rappresentate dall’autorità sanitaria, la magistratura di sorveglianza può sospendere, nel periodo compreso tra la data di entrata in vigore del presente decreto ed il 31 maggio 2020, la concessione dei permessi premio di cui all’articolo 30-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, del regime di semilibertà ai sensi dell’articolo 48 della medesima legge e del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121.”
L’8 marzo è il giorno fatidico di innesco di una serie di proteste e di rivolte. Infatti, sempre l’8 marzo 2020, con DPCM, all’art. 2 (Misure per il contrasto e il contenimento sull'intero territorio) veniva disposto che: “I casi sintomatici dei nuovi ingressi sono posti in condizione di isolamento dagli altri detenuti, raccomandando di valutare la possibilita' di misure alternative di detenzione domiciliare. I colloqui visivi si svolgono in modalita' telefonica o video, anche in deroga alla durata attualmente prevista dalle disposizioni vigenti. In casi eccezionali puo' essere autorizzato il colloquio personale, a condizione che si garantisca in modo assoluto una distanza pari a due metri. Si raccomanda di limitare i permessi e la liberta' vigilata o di modificare i relativi regimi in modo da evitare l'uscita e il rientro dalle carceri, valutando la possibilita' di misure alternative di detenzione domiciliare”.
E dunque, per atto amministrativo, ci si accorgeva di altro, e quindi, limitazioni e suggerimenti:
Non si trattava solo di poter applicare misure con rapidità, ma anche di misure deflattive tali da fare nelle carceri lo spazio necessario per la tutela del diritto alla salute.
Il 15 marzo l’OMS emanava le Linee Guida per la prevenzione e il controllo del Covid-19 nelle prigioni e negli altri luoghi di detenzione, volte appunto a fornire elementi utili per impostare strategie di prevenzione e controllo.
Al punto 2 delle Premesse segnalava che: “Le persone private della libertà, come le persone in prigione, sono probabilmente più vulnerabili a varie malattie e condizioni. Il fatto stesso di essere privati della libertà implica, generalmente, che le persone nelle carceri e in altri luoghi di detenzione vivano in stretta vicinanza l'una con l'altra, il che potrebbe comportare un aumento del rischio di trasmissione da persona a persona e di goccioline di agenti patogeni come COVID-come le persone private della propria libertà, come quelle in carcere ed altri luoghi di detenzione, siano più vulnerabili al contagio da COVID-19 rispetto alla popolazione libera, proprio a causa delle condizioni di confinamento in cui vivono insieme ad altri per lunghi periodi di tempo”.
L’OMS aggiungeva come: “l’esperienza mostra che le prigioni e i contesti simili, dove le persone sono costrette a vivere le une strette alle altre agiscono come una fonte di amplificazione del contagio, sia dentro che fuori da quei luoghi, tanto che la salute della prigione deve necessariamente considerarsi come un fatto di sanità pubblica. A questo scopo individua importanti azioni di contenimento, che passano evidentemente innanzitutto attraverso una capillare fornitura di presidi preventivi e che in tanto sono efficaci, in quanto possa garantirsi adeguata distanza tra le persone detenute”.
Come ben aveva suggerito e richiesto il CONAMS ( Coordinamento Nazionale dei Magistrati di Sorveglianza) col Comunicato del 15 Marzo 2020 in cui indicava “la necessità dell’adozione urgente di misure serie e celeri di prevenzione e di contenimento della diffusione virale negli Istituti penitenziari, nella consapevolezza della maggiore velocità del contagio negli universi concentrazionari, della mancanza strutturale degli spazi necessari all’isolamento sanitario e alla cura ospedaliera delle persone contagiate e dei rischi di diffusione del contagio penitenziario sull’intero sistema nazionale e sulla salute collettiva dei cittadini. Nella prospettiva - di esclusiva competenza delle Autorità politiche - di un piano ragionato, ordinato e non indiscriminato di scarcerazioni che almeno riporti il sistema penitenziario entro la sua capacità regolamentare, con strumenti ordinari e straordinari sia nel campo delle misure cautelari sia in quello delle misure alternative alla detenzione”.
Nello stesso giorno e con gli stessi contenuti le Presidenti dei Tribunali di Sorveglianza di Milano e Brescia azionavano il cd. Potere di Prospettazione ex art.69, l.354/1975 (istituto probabilmente ignoto ai vertici ministeriali) al Ministro della Giustizia, segnalando preliminarmente la “gravissima situazione degli istituti penitenziari della Lombardia a seguito dell’emergenza derivante dalla diffusione del contagio da COVID-19 sin dal 21.2.2020, ha creato presso l’intera popolazione, con specifico riferimento alle strutture… Gli istituti penitenziari versano in situazione di gravissimo collasso. I gravissimi episodi di rivolta, sinora assolutamente contenuti, potrebbero crescere senza possibilità di contenimento. I pericoli di contagio sono tuttavia costantemente presenti e attualmente stanno producendo i loro tragici frutti, a causa della diffusione del morbo e dei dati che sono rassegnati quotidianamente anche alla Sua attenzione Gli agenti della Polizia Penitenziaria sono allo spasimo, sfiniti da turni senza riposo ed esposti al rischio di contagio, provvedimenti che consentano immediatamente di alleggerire le presenze del carcere provvedimenti normativi di immediata applicazione e che non richiedano il vaglio della Magistratura di Sorveglianza che già ora, per le condizioni dei propri uffici, non sarebbe in grado di potervi provvedere, quali:
- una previsione di una normativa di immediata applicabilità che disponga la sottoposizione a una detenzione domiciliare speciale per coloro che hanno pena anche residua inferiore ai 4 anni e con accompagnamento della Polizia Penitenziaria al domicilio per la contestuale verifica dell’idoneità del domicilio stesso. Si precisa che, come è noto alla S.V., la percentuale di detenuti con pene brevi e medio-brevi è elevatissima e potrebbe costituire la base per un intervento immediato e significativo, mirato come deve essere;
- valutare l’inserimento del presupposto dell’emergenza coronavirus come elemento valutativo per tutti gli istituti normativi riguardanti la concessione di benefici penitenziari.”
Il 17 marzo il Garante dei diritti delle persone private della liberà personale del Comune di Milano, per dovere d’ufficio ex art. 35 L. n.354/1975 ed in adempimento del Regolamento Comunale di Milano - che all’art. 3, lett. d) recita: “rispetto a possibili segnalazioni, che giungano, anche in via informale, alla sua attenzione e riguardino violazioni di diritti, garanzie e prerogative delle persone private della libertà personale, il Garante si rivolge alle autorità competenti per avere eventuali ulteriori informazioni; segnala il mancato o inadeguato rispetto di tali diritti e conduce un’opera di assidua informazione e di costante comunicazione alle autorità stesse relativamente alle condizioni dei luoghi di reclusione” – comunicava al Procuratore della Repubblica di Milano ed al Garante Nazionale le segnalazioni dei familiari di alcuni detenuti nella Casa di reclusione di Milano Opera circa reati e violazioni di diritti asseritamente avvenuti in quell’Istituto di pena nel pomeriggio del 9 marzo 2020 e nei giorni successivi.
In quelle circostanze, insieme allo staff dell’Ufficio del Garante di Milano scoprivamo compiti inediti e fondamentali per questo profilo di Garanzia, come una cerniera, una mediazione per fornire informazioni alle famiglie sulle condizioni di salute dei ristretti.
Con Comunicato ad hoc[25] manifestavo “preoccupazione per le notizie relative alle proteste nella casa Circondariale di Milano che rischiano di ritardare o talvolta annullare le sinergie per la prevenzione del coronavirus per la cittadinanza, per gli operatori penitenziari e gli stessi detenuti. Ho ricevuto, attraverso diverse vie di comunicazione, informazioni su presunti maltrattamenti nella Casa di Reclusione di Milano Opera nel pomeriggio del 9 scorso, rispetto ai quali ho richiesto l’attenzione della Procura della Repubblica di Milano perché ne accerti la veridicità e la consistenza di quanto in esse riportato, nonché al locale Magistrato di Sorveglianza che ha effettuato due ispezioni”. Condividevo la “prospettazione delle Presidenti dei Tribunali di Sorveglianza di Milano e di Brescia al Ministro della Giustizia ed auspicavo i “ necessari provvedimenti normativi deflattivi di immediata applicazione e tali da non richiedere il vaglio della Magistratura di Sorveglianza che già ora, per le condizioni dei propri uffici, non sarebbe in grado di poterli applicare in tempi ragionevoli ed adeguati alla diffusione del virus, quali: - la previsione di una normativa di immediata applicabilità che disponga la sottoposizione a una detenzione domiciliare speciale per coloro che devono ancora espiare una pena, anche residua, inferiore ai 4 anni, e con accompagnamento della Polizia Penitenziaria al domicilio per la contestuale verifica dell’idoneità del domicilio stesso…Per quanto poi riguarda i procedimenti ordinari concernenti i detenuti, si suggerisce di inserire il presupposto dell’emergenza coronavirus come elemento valutativo per tutte le misure alternative alla detenzione.”
Ed invece, la montagna partoriva il topolino. Ogni auspicio e suggerimento veniva disatteso[26].
Con il famigerato DL 17 marzo 2020, n. 18, criticato ampiamente dalla dottrina[27] per le minime potenzialità deflattive, si disciplinava con l’art. 123 una inedita detenzione domiciliare.
“Nel contesto dell’emergenza pandemia l’approccio securitario è leggibile nel rilievo attribuito al problema del braccialetto elettronico, ai fini della concessione d’una misura alternativa al carcere. Esigenze di controllo di persone solo presuntivamente pericolose sono valutate prevalenti rispetto alle esigenze di sicurezza dal rischio sanitario che ha messo in crisi le libertà di tutti”[28].
Da qui in poi, gridate reazioni da settori del mondo politico e mediatico venivano rivolte al Ministro ed infuriava la polemica contro le scarcerazioni facili, contro il cd. condono mascherato e l’accondiscendenza dei giudici, in particolare quelli di sorveglianza, a favore dei mafiosi.
Severo, ma fondato il giudizio di Michele Passione[29] : “Ancora una volta, in materia penitenziaria, la politica chiude gli occhi, per cinismo, per insipienza, questa volta assumendosi la responsabilità di non scegliere per ciò che serve al Paese (non solo ai detenuti, che peraltro non son figli di un Dio minore), ma per quel che si ritiene sia utile (continui ad esserlo, pro futuro) ad un consenso elettorale da spendere quando verrà il momento. Scelte che, deve qui segnalarsi, non possono essere ascritte soltanto al Ministro della Giustizia (la cui siderale distanza dai problemi del carcere è nota) o al Presidente del Consiglio, giacché lo strumento utilizzato, questa volta, non consiste nel “consueto” Dpcm, ma si sostanzia in un decreto legge.”
E dunque, un decreto di limitata efficacia che mentre, all’apparenza, sembra semplifichi il procedimento per agevolare la concessione della misura alternativa, pone, invece, una quantità di preclusioni, come se la salute andasse meritata. Incomprensibile appare il richiamo ai “gravi motivi ostativi alla concessione della misura”, di cui al comma 2, ed altrettanto grave è la preclusione per la semplice pendenza di un procedimento disciplinare, in quanto rappresenta un influente precedente normativo, foriero di intrecci perversi con le finalità del procedimento di sorveglianza[30].
Sulla diminuzione dei detenuti dunque, ha influito in modo modesto la misura prevista dagli artt. 123 e 124 del DL. 17.3.2020 n. 18.
Infatti, secondo il Bollettino del Garante Nazionale [31] erano allora circa 700 i prolungamenti delle licenze dei semiliberi e 2.700 le concessioni delle detenzioni domiciliari di cui solo alcune in forza della cd. semplificazione, prevista dall’art. 123 del decreto (quelle con il braccialetto elettronico erano circa 650), ma molte invece disposte in base alla “vecchia” legge 26.11.2010 n. 199.
In quel contesto e nella previsione di scenari foschi il Garante Nazionale fece un Appello ed assunse l’impegno, poi divenuto costante e prezioso, di emettere un Bollettino quotidiano prima sullo stato delle carceri e poi su ogni genere di restrizione della libertà personale. Scrisse il 21 marzo 2020 «Le misure restrittive adottate per contenere il dilagare dell’epidemia pongono, tra le altre, anche una grande difficoltà ai detenuti perché non potranno ricevere le visite dei propri congiunti…Mi rivolgo proprio a voi detenuti per dirvi che capisco la vostra contrarietà, ma vi assicuro che si stanno ampliando tutte le possibilità di comunicazione con i vostri cari, anche dotando gli istituti di telefoni cellulari disponibili, oltre che di mezzi per la comunicazione video. Tutti noi garanti, nazionale e locali, controlleremo che queste possibilità siano effettive. E siamo disponibili a spiegare negli Istituti che questa situazione è una necessità per difendere la salute di tutti: la vostra, quella dei vostri cari e di chi in carcere lavora e anche di tutti noi»[32].
Scenari foschi che rendevano necessaria la costituzione del Comitato verità e giustizia per i morti nelle carceri. “Tredici detenuti morti. Un numero inusitato, per giunta incerto, laddove alcuni quotidiani indicano quattordici. Numeri, neppure la dignità dei nomi, per la quale si sta adoperando il Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà. Un’opacità mediatica e politica incomprensibile e ingiustificabile, anche tenuto nel debito conto l’emergenza sanitaria in corso con le gravi e impellenti problematiche che pone a tutti. Un numero impressionante, pur nell’eccezionalità delle circostanze in cui quelle morti si sono verificate”[33].
Nuovo smalto e rinnovata autorevolezza nella difesa della legalità delle condizioni di vita nelle carceri ha dimostrato l'associazione Antigone[34], che nel XVI rapporto sulle condizioni di detenzione (titolo: "Il carcere al tempo del coronavirus"), pubblicato il 22 maggio, e presentato alla presenza del nuovo Capo del D.A.P., Petralia, ha posto l'accento sul fatto che la pandemia Covid-19 ha colto gli istituti di detenzione italiani già in una condizione di sovraffollamento. Tant'è che dal 7 al 9 marzo è scoppiata la rivolta nelle carceri. In un solo weekend sono stati distrutti e devastati, oltre 70 istituti penitenziari, a cui se ne sono aggiunti 30 con manifestazioni pacifiche.
Sempre attenti alla valutazione delle statistiche penitenziarie, i redattori del Rapporto hanno precisato che all'inizio della pandemia erano rinchiuse nelle carceri italiane 10.229 persone in più rispetto alla capienza regolamentare.
In due mesi e mezzo è sceso il tasso di affollamento: dal 130,4% al 112,2%. Le persone detenute sono 8.551 in meno rispetto a fine febbraio.
Sta di fatto che in Italia i detenuti sono passati, nel periodo intercorrente tra il 29 febbraio al 30 maggio, da 61.230 a 53.904, rispetto ad una capienza cd.“regolamentare” fissata in 50.472 posti[35].
I numeri - rilevati (e rivelati) soltanto dal Garante Nazionale e non dal Dipartimento (che dovrebbe pur rispondere delle sue scelte di opacità) - indicano circa duecento contagiati.
Anche Antigone, come era prevedibile, conviene che da noi il programma di riduzione del sovraffollamento “si è limitato all'arma scarica e poco flessibile del 123”.
Orbene, quando l'epidemia è iniziata erano presenti nelle carceri italiane 61.230 detenuti, mentre attualmente si contano circa 52.000 presenze. Una riduzione chiaramente insufficiente se si deve necessariamente tener conto che le zone per l’isolamento di tutti i potenziali malati, l'isolamento dei sintomatici non tamponati e quello dei positivi, per non dire di una qualche misura di distanziamento, impongono la necessità di spazi comportanti una riduzione ulteriore di almeno 7000 persone [36].
Lo svelamento dei trucchi della disinformazione[37] lo dobbiamo alla penna acuta di Stefano Anastasia[38] che ha precisato come i boss scarcerati dal 41bis per motivi di salute siano stati solo 3, e non i 376, che, peraltro, erano già assegnati al variopinto circuito dell’alta sicurezza, previa sclassificazione, e di cui ben 196 in attesa di giudizio (ovvero, “secondo quel vecchio arnese della Costituzione ancora legalmente innocenti”), e tutti per gravi motivi di salute.
Solo 155 sono stati invece i provvedimenti di scarcerazione per motivi di salute adottati dai magistrati di sorveglianza. Quindi, se, come taluno ha proditoriamente sostenuto, si fosse realizzata una nuova trattativa tra Stato e mafia, avrebbero concorso, almeno come esterni, ben 200 Magistrati della Repubblica. Insomma, tecnicamente sarebbe stato un colpo di Stato!
La marginalità sociale, la carcerizzazione dei soggetti bisognosi di cura in strutture esterne per le condizioni di salute mentale, le condizioni dei senza dimora, dei tossicodipendenti, ristretti per pene medio brevi, secondo i dati del Garante nazionale, si quantifica in circa settemila persone con una pena o un residuo pena inferiore a un anno, e oltre quattordicimila con una pena o un residuo pena inferiore a due anni, che è il limite previsto dalla L.199/2010 per la concessione della detenzione domiciliare.
7. Policentrismo istituzionale
Il policentrismo istituzionale e la vigenza di un ordinamento che non ammette lacune o scelte di misure alternative alla detenzione secondo la volontà del Governo in un determinato periodo di tempo, ha evitato la tragedia.
“Un provvedimento giurisdizionale, se rispettoso delle norme e dei principi costituzionali, non può mai costituire un insuccesso dello Stato di diritto o, peggio, una resa dello Stato alle organizzazioni criminali. Rappresenta, al contrario, la riaffermazione del primato dei valori proclamati dalla Costituzione a cui ogni giudice, nell’esercizio delle sue funzioni, deve costantemente richiamarsi”[39].
Ed invero, la Magistratura inquirente, giudicante e di sorveglianza ha applicato ogni genere di norma vigente, così rendendo viventi diritto e giustizia secondo il dettato costituzionale.
Questo atteggiamento è stato favorito sicuramente dall’importante Circolare del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, inviata a tutti i Procuratori Generali del Paese. Il documento ha significativamente ad oggetto: «pubblico ministero e riduzione della presenza carceraria durante l’emergenza del coronavirus». “ È di grandissima importanza e testimonia un elevato livello di civiltà giuridica, che il Procuratore generale si preoccupi di inviare, ai soggetti che devono promuovere l’azione penale, richiedere le misure cautelari (circa il 30% dei detenuti sono in custodia cautelare) ed emettere i titoli di esecuzione delle pene, una nota incentrata sul diritto “fondamentalissimo” alla salute, ricordando che esso appartiene a tutte le persone, comprese quelle che sono sospettate o che sono state condannate in via definitiva per aver commesso un reato.”[40]
Scrive il Procuratore Generale: “Oggi il rischio epidemico concreto e attuale, che non lascia il tempo per sviluppare accertamenti personalizzati, può in molti casi rappresentare l’oggettivizzazione’ della situazione di inapplicabilità della custodia in carcere a tutela della salute pubblica, in base ai medesimi criteri dettati per la popolazione al fine di contrastare la diffusione del virus”[41].
Nella stessa direzione va il Parere del Consiglio Superiore della Magistratura sul DL. N: 18/2020, detto “Cura Italia”, che «auspica soluzioni volte a ridurre il sovraffollamento delle carceri, ivi compresi interventi volti a differire per la durata dell’emergenza, l’ingresso in carcere di condannati a pene brevi per reati non gravi»[42].
E’ da inquadrare in questo contesto di rappresentazione del pluralismo istituzionale, pur trattandosi di documenti emanati da Funzionari del D.A.P. (probabilmente sfuggiti al Capo ), la famosa Circolare del 21 marzo della Direzione Generale detenuti e trattamento del D.A.P. di “segnalazione alla Autorità giudiziaria”, per le “eventuali” determinazioni di competenza, dei ristretti affetti da una serie di patologie indicate dal Centre for Desease Control and Prevention CDC 24/7 Saving lives, Protecting people” e dal direttore della U.O.C. Medicina protetta – Malattie infettive del Presidio ospedaliero Belcolle di Viterbo. Detta Circolare è stata perfino oggetto di valutazione della Commissione Antimafia, come se una semplice circolare avesse potuto influenzare la distorsione del principio della esclusiva soggezione del Giudice alla Legge ex art.101, 2 comma della Costituzione[43].
Il precedente di detto documento si rinviene nella Circolare, in termini, inviata dall’allora capo del D.A.P., in tempi di contagio di AIDS nelle carceri, e che non fece alcuno scalpore in quanto finalizzata a semplici segnalazioni da parte dei Direttori delle carceri alla Magistratura sulle condizioni di salute dei detenuti, peraltro necessarie anche al fine di eventuali attribuzioni di responsabilità penale e civile all’Amministrazione penitenziaria medesima.
Ben fondata la Circolare, in quanto il giorno prima, il 20 marzo, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) aveva inviato all’attenzione di “tutte le autorità responsabili delle persone private della libertà nell’area del Consiglio d’Europa” una Raccomandazione sui “Principi relativi al trattamento delle persone private della libertà personale nell’ambito della pandemia di coronavirus COVID-19”.
Si raccomandava alle autorità degli Stati membri del Consiglio d'Europa (CoE) di compiere “tutti gli sforzi possibili affinché si ricorra ampiamente alle misure alternative alla detenzione e alla custodia cautelare tramite la libertà vigilata, la liberazione anticipata o altre misure alternative”.
Tanto, al fine di adottare degli strumenti di prevenzione (quali il distanziamento sociale) che in una situazione di sovraffollamento non è possibile mettere in pratica.
La Raccomandazione è stata inviata anche dal Sottocomitato delle Nazioni Unite per la prevenzione della tortura (Spt) che aggiunge la necessità di identificare le persone detenute più vulnerabili al Covid e di adottare accorgimenti volti a prevenire il contagio rispettando pienamente i loro diritti fondamentali (come ad esempio il diritto di trascorrere parte del tempo all'aperto o assicurare la distribuzione gratuita di effetti di igiene personale).
Ricapitolando: all’epoca dell’insorgere della polemica contro le cd. scarcerazioni facili, anche dei mafiosi, era stata disposta la detenzione domiciliare a termine, per pochi mesi, in collegamento con il differimento della pena per gravi motivi di salute - quindi per incompatibilità con lo status detentivo in carcere - solo per 3 ristretti, sottoposti al regime di rigore ex art.41 bis O.P., mentre gli altri 376, definiti mafiosi ex vulgo, erano, sì, inquadrati - secondo la variopinta classificazione penitenziaria - nei vari circuiti di alta sicurezza, ma in base a titoli di reato diversi, già esclusi dal 41 bis dallo stesso Ministro, e quindi valutati di pericolosità attenuata. Tra questi ben 196 erano ancora imputati e 180 - compresi i 50 ai quali era stata concessa la detenzione domiciliare collegata al differimento della pena -, ancorchè condannati in via definitiva, erano ammessi a vari tipi di misure alternative alla detenzione.
Sempre ex vulgo, confondendo il numero delle persone scarcerate col numero decrescente delle presenze nelle carceri, si indica un totale di circa 7000 scarcerati. Ma il punto rilevante non è l’esattezza del numero, quanto invece, l’ascrivibilità della diminuzione alla riduzione degli ingressi per arresti di vario tipo. Sempre acuta è stata la lettura dei dati da parte del Garante Nazionale che più volte ha rappresentato l’inversione delle proporzioni tra ingressi e uscite: ad esempio, nel mese di gennaio, a fronte di 130 ingressi si sono verificate 70 uscite al giorno, con un conseguente aumento di presenze giornaliere di 60 detenuti; al contrario, dal mese di marzo gli ingressi giornalieri sono stati 55 a fronte di 110 uscite.
Si spiega così, correttamente, che la metà circa della diminuzione è attribuibile ai mancati ingressi.
Vero è che il volano è stato spinto dall’impegno costante e faticoso della Magistratura di Sorveglianza che, avendo il polso quotidiano dello stato della salute dei ristretti nelle carceri e conoscendo la scarsa qualità dei servizi sanitari, ha meglio e più celermente potuto applicare le misure alternative in presenza delle condizioni ex lege.
La detenzione domiciliare per motivi di salute è stata applicata quando ogni altra strada non era più percorribile, a pena di annullare il diritto alla cura che avrebbe travolto la dignità della persona, che la Costituzione tutela.
Il merito deve essere riconosciuto ai tanti giudici di sorveglianza e di cognizione che si sono fatti "un problema" di istituti dove la prevenzione della malattia (del resto, la tutela del diritto alla salute comporta attenzione alla prevenzione, per i liberi come per i detenuti) non era semplicemente possibile: non era possibile isolamento, non era possibile distanziamento. E non era possibile cura, dal momento che la gran parte degli istituti era ormai sguarnito del personale sanitario e quello presente non aveva mascherine, guanti, farmaci.
E’ utile ricordare anche al Ministro di Giustizia (in una epoca in cui la Grazia è stata cancellata con qualche vanto non encomiabile) che gli strumenti disponibili nell’armamentario del nostro ordinamento sono ancora, ma non solo, gli art. 146 e 147 del codice penale e che non è un merito sottolineare che sono state applicate norme non approvate da questo Governo, perché si tratta di norme vigenti fin dall’epoca fascista.
Ed invero:” gli art. 146 (rinvio obbligatorio) e 147 (rinvio facoltativo) cod. pen. rappresentano una fondamentale valvola attraverso la quale, di fronte a condizioni di salute, per quanto qui interessa, di particolare gravità, il principio generale secondo cui le pene comminate debbono essere eseguite trova un suo limite proprio nella tutela del diritto fondamentale, di valenza costituzionale, della salute…
Nell’art. 146 comma 1 n. 3 sono contemplate condizioni di salute che risultano incompatibili con lo stato di detenzione o perché la persona si trovi in uno stadio della malattia tale da non rispondere più alle cure oppure in specifiche ipotesi di grave deficienza immunitaria o di AIDS conclamato. La S.C. ha a tal proposito rilevato che l’istituto in questione è posto “a tutela dei beni primari della persona, quali il diritto alla salute, il diritto alla vita, il divieto di sottoposizione a trattamenti contrari al senso di umanità”, a prescindere dal dato concernente la pericolosità sociale della persona (cfr. Cass. 28 novembre 2017, n. 990) [44]”.
Ha esattamente evidenziato Della Bella annotando i provvedimenti pubblicati che “sono tutti caratterizzati dal fatto che l’epidemia in atto costituisce un parametro espressamente preso in considerazione ai fini della decisione”[45].
Conviene solo forse esplicitare che si tratta di provvedimenti evitabili in un diverso contesto logistico e sanitario ed in altro contesto temporale che avrebbe consentito di valutare l’incompatibilità in un sistema penitenziario diversificato e non omologato ed appiattito come in questi mesi.
Ed invero, le ordinanze più argomentate sul pericolo di vita tale da non poter assicurare adeguate cure in carcere, ancorandosi a consolidata e nota giurisprudenza di legittimità, con riferimento agli artt. 3, 32, e 27 della Cost., all’art.3 CEDU, all’art.1 O.P., all’art.24 delle Mandela Rules, hanno scrutinato i singoli casi secondo una griglia: gravità della patologia in atto diversa dal covid- inattuabilità dell’art.11 O.P.- rischio di progressione di malattia potenzialmente letale.
Illuminanti le argomentazioni della Manca, anche sulle ordinanze di rigetto e sui rimedi esperibili avanti la Corte EDU[46].
Il Governo dunque ha scaricato il fenomeno sulla magistratura.
Anche al fine di evitare tragedie e polemiche sembra utile la proposta di Della Bella di “introdurre nell’ordinamento strumenti ‘straordinari’ che consentano di garantire, in situazioni di emergenza, una rapida fuoriuscita dei detenuti dagli istituti penitenziari, quando l’esecuzione intramuraria possa determinare un grave pregiudizio per la salute e la vita delle persone. Una riflessione, questa, imposta, da un lato, dalla necessità di assicurare che l’esecuzione della pena si svolga nel rispetto di principi inderogabili di tutela della salute e di umanità della pena, dall’altro, dalla sussistenza di obblighi positivi in capo allo Stato – discendenti tanto dalla Costituzione, quanto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo – che impongono l’adozione di misure volte a proteggere la vita delle persone affidate alla sua custodia, come appunto i soggetti detenuti negli istituti penitenziari.”
Non mi sembra esagerato affermare che sono stati mesi di sospensione dell’art.27 Cost. e che si sono create bolle di incostituzionalità che hanno sfregiato “il volto costituzionale della pena”[47].
8. “Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi molto prima che accada”.
Rainer Maria Rilke, nelle Lettere a un giovane poeta (Lettera del 12 agosto 1904) scriveva:” Lei ha avuto molte e grandi tristezze che sono ormai trascorse. E Lei dice che anche questo trascorrere Le è stato difficile e penoso. Ma, La prego, rifletta se queste tristezze non siano piuttosto trascorse attraverso di Lei: non è forse cambiato molto in Lei? Lei stesso non è cambiato in qualche parte del Suo essere mentre era triste? Pericolose e cattive sono solo quelle tristezze che si devono sopportare tra la gente per poterle vincere; come malattie che vengono trattate superficialmente e in modo ridicolo, esse tornano e irrompono dopo una breve pausa con ancor più terrore, si accumulano nell’interiorità e sono vita, vita non vissuta, disdegnata…Del resto, si deve essere molto cauti coi nomi: spesso è il nome di un delitto ciò in cui si spezza una vita, non l’azione anonima e personale stessa, che forse è una precisa necessità di questa vita e che potrebbe essere accettata senza fatica. Non sappiamo dire chi sia venuto, forse non lo sapremo mai, ma molti sono i segni che ne parlano, che dicono che è in questo modo che il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi molto prima che accada.”
Come ci si è a lungo ingannati circa il movimento del sole, così ancora ci si inganna sul movimento di ciò che verrà. Cambiano tutte le lontananze, tutte le misure; e da questi cambiamenti molti si ritrovano improvvisamente davanti a sé”.
L’importanza data al futuro rivela la vitalità di una persona, di una famiglia, di una comunità. La statura di una comunità è direttamente proporzionale all’importanza che il futuro e i progetti hanno in quella comunità.
E’ chiaro ormai a tutti che il mondo di ieri non tornerà e che quando usciremo da questa emergenza sarà necessario ripensare in profondità il ruolo dello Stato, il tessuto economico sociale, il sistema istituzionale, le relazioni internazionali.
C’è bisogno di pensare al dopo, ai possibili percorsi di ritorno alla normalità, e alla futura normalità. È il momento di ragionare su tutto ciò che riguarda il con-vivere; su ciò che vorremmo e anche su ciò che non vorremmo ritornasse uguale.
“Dicebamus heri...”, la frase ed il programma che il teologo fra Luis de León pronunciò nel riprendere le lezioni all'Università di Salamanca, dopo cinque anni passati nelle carceri dell'Inquisizione, non è più riproponibile e non può significare “dove ci eravamo lasciati” perché in tanti non abbiamo lasciato. Comunque, deve essere ostacolata come progetto per il futuro.
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[1] Niente di questo mondo ci risulta indifferente, Associazione Laudato si’, Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale, a cura di Daniela Padoan, Milano, 2020.
[2] Carte Bollate (maggio-giugno numero 3/20), periodico della Casa di Reclusione di Milano Bollate.
[3] E. Borgna, L’aggressività…, in Riv. Sper. di Freniatraia,n.3/2006.
[4] E. Canetti, Massa e potere, Milano, 1960.
[5] G. Zuffa, Covid e libertà, il potere e il piacere, Il Manifesto, 29.4.2020.
[6] D. Pulitanò, Lezioni dell’emergenza e riflessioni sul dopo. Su diritto e giustizia penale, Sistema penale, maggio 2020.
[7]G. Agamben, L’invenzione di un’epidemia, in Quodlibet, 26 febbraio.
[8]G. Agamben, Una domanda, in Quodlibet 14 aprile 2020, si inserisce in una serie di interventi anteriori e successivi, di critica radicale; G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Milano 1995. p. 188.
[9]S. Rodotà, Il grande deserto dei diritti, 3.3.2013. Triskel 182.
[10]D. Gonin, Il corpo incarcerato, Torino, 1994, pagg.76 ss.
[11]ex plurimis, F. Giberti-R. Rossi, Manuale di psichiatria, Padova. 1983; G. Ponti, Compendio di Criminologia, Milano,1990; U. Fornari, Psicopatologia e psichiatria forense. Torino, 1989.
[12]L. Zoja, La morte del prossimo, Torino, 2009.
[13] G. Ferraro, "L'assassino dei sogni. dialogo fra un filosofo e un ergastolano", Stampa Alternativa, Roma, 2008 anche in "L'innocenza della verità" e "Filosofia in carcere", Filema, Napoli,2008.
[14] Ex plurimis, L. Spagnoli, Storia dell’urbanistica moderna, vol. 2, Bologna 2008.
[15]R. Casati, Quei dilemmi morali che toccano ai medici, in Il Sole 24 ore, 19 aprile 2020, p. IX.
[16] M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, 1976, pag. 13.
[17]Tiffanny Watt Smith, Atlante delle emozioni umane, Torino, 2017
[18]Sul diritto alla salute in tempo di covid cfr. B.Saraceno, Lezioni per il dopo: salute, comunità, democrazia, Communitas Quaderni, maggio 2020.
[19]E. Santoro, Diritto alla salute e prevenzione in carcere: problemi teorici e pratici di gestione del coronavirus negli Istituti di pena, Legislazione Penale, 4 maggio 2020.
[20]Sul diritto alla salute in carcere v. B. Magliona, C. Sarzotti, La prigione malata, letture in tema di AIDS, carcere e salute, Torino, 1996.
[21]SAP, leader nel settore dei software, ha messo a punto due indici: il Tasso di espansione del Contagio che esprime la espansione della popolazione contagiata e lo Speed Index che esprime la velocità del contagio. Secondo la letteratura scientifica, in Cina l’86% delle persone con infezione non documentata e non palese sono sfuggite ad ogni accertamento prima della data del 23 gennaio quando la sono state messe in atto le prime misure di restrizione. Per questo gruppo di persone il tasso di trasmissione era elevatissimo, ossia ogni persona ne infettava molte. Questo significa che la sommatoria della asintomaticità dei soggetti piú la mancanza di misure di isolamento rappresenta una vera e propria “bomba infettiva” (fonte: Li e colleghi, SCIENCE, maggio 2020). Il 44% dei casi di Covid è originato da soggetti asintomatici: per questo è fondamentale effettuare un accurato tracciamento delle persone incontrate nei giorni precedenti da ogni soggetto con malattia accertata (fonte: Science News, aprile 2020). Secondo un position paper congiunto dei ricercatori delle università di Bologna e di Bari, la presenza di “carriers” ossia trasportatori è una variabile la cui presenza facilità la rapidità di diffussione del virus. Si è mostrata una correlazione secondo la quale nella pianura Padana ove la presenza di particolato atmosferico è la piú alta d’Italia la diffusione del virus è stata piú rapida ed “efficiente” che in altre regioni. Secondo la piattaforma Worldmeters della John Hopkins University (USA) la rapidità di diffusione del virus è stata simile in Germania e USA mentre è stata piú rapida in Italia, seguita dalla Spagna. La velocità di diffusione sembra essere funzione della rapidità delle messa in atto di misure di lockdown (fonte: World Economic Forum, Marzo 2020). Curiosità storico scientifica: la rivista di matematica e fisica Physical Review Letters ha pubblicato nel maggio del 2020 i risultato di un modello matematico che ha calcolato che se la Peste Nera avanzava a 1,5 Km al giorno, Covid si diffonde a una velocità di centinaia di km al giorno (fonte: Moore e Rogers, Physical Review Letters,maggio 2020).
[22] - 22/2:
- 23/2 : DL 6/2020 – misure urgenti per evitare la diffusione del contagio ; DPCM – disposizioni attuative del DL 6/202; PRAP Lombardia– raccomandazioni organizzative per la prevenzione del contagio;CR Bollate – comunicazione urgente prevenzione contagi.
- 24/2:PRAP Lombardia Estratto prime misure – Istituzione unità di crisi al PRAP e triage fuori dagli edifici; Mascherine per i visitatori; colloqui singoli e sospensione permessi premio; Ordine di servizio San Vittore – Disposizioni per la gestione dell’emergenza all’interno dell’istituto;
- 25/: DPCM – Ulteriori disposizioni attuative del DL 6/202; Circolare D.A.P. – Ulteriori indicazioni, forniture dei presidi sanitari e indicazioni del ministero della salute.
- 26/2:Circolare D.A.P. - Indicazioni specifiche per la prevenzione del contagio da corona virus - regioni Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Emilia Romagna, Marche, Toscana e Sicilia.
2/3: DL. n.9. 4/3:DPCM – Misure di contrasto su tutto il territorio nazionale.
- 8/:Decreto Legge 11/2020 - colloqui possibili solo tramite mezzi informatici a anche in deroga a art.39; DPCM – disposizioni attuative del DL 23/02/2020 (art.2).
- 10/3:Circolare D.A.P. – Agevolare le istanze della polizia penitenziaria per quel che riguarda le assenze.
- 11/:Circolare D.A.P. – Ringraziamento per la gestione delle rivolte e raccomandazione a fare il possibile perché non si ripetano;DPCM – Disposizione del lockdow.
- 12/3:Circolare D.A.P. detenuti alta sicurezza – Concessi i colloqui informatici, mantenuto quello visivo con vetro solo per 41 bis;Circolare D.A.P. colloqui a distanza per altri detenuti;Circolare DGMC – comportamento da tenere in caso di casi sospetti.
- 13/3:Circolare D.A.P. – Specifiche relative alle carceri rispetto al DPCM dell’11/3.
- 17/3:DL 18/2020 (art. 123-124) – Detenzione domiciliare e licenze premio.
- 20/3:Circolare D.A.P. – Seguito della circolare del 13/;Circolare D.A.P. sull’utilizzo dei telefoni cellulari per i colloqu.
- 21/3:Circolare D.A.P. – colloqui dei detenuti con i propri familiari.
- 6/:Delibera cassa ammende – fondi per l’alloggio di chi avrebbe i requisiti ma non ha un domicilio idoneo alla detenzione domiciliar.
- 22/4:Circolare D.A.P. – Coordinamento con le AS.
- 26/4:DPCM - Misure urgenti per i nuovi ingress.
- 27/4:Circolare D.A.P. – segnalazione all’autorità giudiziaria.
- 30/4:Decreto Legge 28/2020 – detenzione domiciliare e permessi.
- 4/:Circolare D.A.P. – Circolare esplicativa del DPCM del 26/04/2020.
- 10/:DL 29/2020 – Gestione dei colloqui nella fase .
12/5:Circolare D.A.P. - Gestione dei colloqui nella fase 2;Circolare PRAP - Gestione dei colloqui nella fase 2; Regione Lombardia – Indicazioni operative per la fase .
15/5:Ordine di servizio carcere di Opera - Gestione dei colloqui nella fase .
- 17/5: DPCM Art. 1 c.1 – Disposizioni attuative DL 19/2020.
- 18/5:Ordine di servizio Carcere di San Vittore - Gestione dei colloqui nella fase 2;DPCM Art.1 c.1 – Modifiche al DPCM 17/5/2020.
- 19/5: Ordine di servizio Bollate e Beccaria - Gestione dei colloqui nella fase 2.
[23] W.H.O., Experience of health professionals, police staff and prisoners in Italy informs WHO COVID-19 guidelines for prisons, News 5/2020.
[24]P. Buffa, Carcere e pandemia tra la ricerca delle responsabilità e l’urgente necessità di apprendere, in corso di pubblicazione.
[25] Cfr. documentazione tutta in www.comune.milano.it
[26] F. Vianello, Il carcere insostenibile, Il Mulino, 12.3.2020.
[27] per tutti, G.L. Gatta, Carcere e coronavirus: che fare?, in www.sistemapenale.it, 12 marzo 2020.
[28] Pulitanò, ibidem; L. Cesaris, Il d.l. n. 29 del 2020: un inutile e farraginoso meccanismo di controllo, Giurisprudenza penale, maggio, 2020.
[29]M. Passione, Cura Italia” e carcere: prime osservazioni sulle (poche) risposte all’emergenza, in Questione giustizia, marzo, 2020
[30]F. Gianfilippi, Le disposizioni emergenziali del DL 17 marzo 2020 n. 18 per contenere il rischio di diffusione dell’epidemia di COVID19 nel contesto penitenziario,https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/929-dl-17-marzo-2020-n-18-rischio-di-diffusione-dell-epidemia-di-covid19-nel-contesto-penitenziario.
[31] Tutti in, www.garantenazionaleprivatilibertà.it
[33] il testo dell'appello con tutte le adesioni e, in basso, i link alle 10 newsletter uscite sinora con diversi materiali (https://www.dirittiglobali.it/coronavirus-morti-carceri-appello/).
V. anche S.Segio, https://ilmanifesto.it/carceri-un-comitato-per-la-verita-e-la-giustizia/
[34] www.antigone.it
[35] Dati ufficiali pubblicati su www.giustizia.it
[36] Miravalle M., “Le iniziative dell’amministrazione penitenziaria”, in Antigone, Il carcere al tempo del coronavirus – XVI Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, 2020, p. 110.
[37] N. Dalla Chiesa, I boss tornano a casa: fermiamo l’impunità e i “giudici di badanza”, in Il fatto quotidiano, 27 aprile 2020; L. Milella,, Cdm: via libera al decreto di Bonafede contro le scarcerazioni facili dei boss, in La Repubblica, edizione on-line, 29 aprile 2020.
[38] S. Anastasia, Il riformista, 7 maggio 2020.
[39]P. Canevelli, La magistratura di sorveglianza tra umanità della pena e contrasto alla criminalità organizzata: le soluzioni contenute nel D.L. 30 aprile 2020, n. 28 , in Giustizia insieme.
[40]E. Santoro cit.
[41]https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2020/04/Nota_PG_carceri.pdf
[42]https://csmapp.csm.it/documents/21768/92150/parere+dl+18+del+2020+cura+italia+26+marzo+2020/51a8d452-8a1e-b3ef-f27a-2f56408dc772
[43]Il testo della circolare può essere letto in ristretti.it
[44] F. Gianfilippi, Emergenza sanitaria e differimento pena nelle forme della detenzione domiciliare: il fardello della M. di sorveglianza. Note a Trib. Sorv. Milano, 31.3.20. https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1000-note-a-trib-sorv-milano-31-3-2020-l-emergenza-sanitaria-e-il-differimento-della-pena-nelle-forme-della-detenzione-domiciliare-il-fardello-della-magistratura-di-sorveglianza
[45] https://www.sistemapenale.it/it/scheda/rassegna-provvedimenti-sorveglianza-emergenza-covid-della-bella;
[46] V. Manca, Umanità della pena, diritto alla salute ed esigenze di sicurezza sociale: l’ordinamento penitenziario a prova di (contro)riforma, Giurisprudenza penale, maggio, 2020.
L’espressione è di Andrea Pugiotto, cfr. Il volto costituzionale della pena (e i suoi sfregi), in Dir. pen. cont., 10 giugno 2014.
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