ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Mio padre vive!
Intervista di Donatella Palumbo a Caterina Chinnici
Il 29 luglio 1983 a Palermo, in via Pipitone Federico, vennero assassinati il magistrato Rocco Chinnici, due carabinieri addetti al servizio di tutela - Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta - e Stefano Li Sacchi, il portiere dello stabile dove abitava il magistrato e dinanzi al quale era parcheggiata la Fiat 126 imbottita di esplosivo. Unico superstite Giovanni Paparcuri, autista del magistrato. Sono trascorsi 37 anni eppure il ricordo è ancora vivo, soprattutto nella mente e nel cuore della figlia Caterina Chinnici, che ha seguito l’esempio del padre diventando magistrato. Attraverso le parole di Caterina Chinnici il ricordo non assume una dimensione solo privata ma è testimonianza dell’impegno civile di un magistrato che ha compiuto il suo dovere fino alla fine senza cedere alla prepotenza mafiosa, contribuendo con il sacrificio del bene più prezioso - la sua vita - alla tenuta democratica dello Stato e dei diritti e delle libertà di tutti noi. Una vita “al servizio della giustizia, dello Stato e delle istituzioni”, come recita la motivazione con cui è stata assegnata al magistrato la Medaglia d’oro al valore civile. Una testimonianza per chi c’era e in quegli anni ha vissuto la tragicità degli eventi proseguendo tenacemente il proprio lavoro e per i giovani magistrati della mia generazione che, pur non avendo vissuto quel periodo, hanno come modello per la propria formazione colleghi come Rocco Chinnici, nel solco del cui esempio cercano di affrontare le difficoltà quotidiane della funzione con spirito di servizio, dedizione al lavoro e rigore morale.
1) Il 29 luglio 1983 Rocco Chinnici venne ucciso, unitamente a due uomini della scorta e al portiere dello stabile della sua abitazione, in un agguato mafioso. Un dolore intimo e personale per la morte di un genitore che assunse una dimensione pubblica per il ruolo svolto da suo padre. Che ricordo serba di quella terribile giornata e a cosa pensa ogni volta che ricorre questa data?
“Quel giorno non mi trovavo a Palermo. Ero a Caltanissetta, sulla strada da casa al tribunale. Come sempre mi accompagnò mio marito. Passammo prima dal suo studio, accanto al quale c’era la casa dei suoi genitori. Era già successo tutto ma ancora non sapevamo. Incrociai uno sguardo strano di mia suocera ma sapevo che suo marito era malato e lo ricollegai a questo. Pochi minuti dopo, però, telefonarono dalla questura di Caltanissetta e rispose mio marito. Improvvisamente cambiò espressione, si contrasse in volto e disse «No, lo zio Rocco no»: in quel momento capii. È così che ho saputo dell’attentato a mio padre. Partimmo per Palermo ma non ricordo nulla di quell’ora di strada, a parte un grande vuoto e la sensazione di sprofondare. Volevo andare subito da mio padre e mi accompagnarono all’obitorio, dove avevano già spostato i corpi delle vittime, e lì lo vidi per un attimo. Poi andai a casa dai miei fratelli, che qualche minuto prima dell’esplosione avevano bevuto il solito caffè preparato da nostro padre, l’ultimo. Li trovai impietriti in quello scenario di devastazione, anche loro sotto shock. Mia mamma fu avvisata da un cugino, una volante andò a prenderla a Trapani nella scuola dove lei era impegnata in commissione d’esami durante le sessioni di maturità. Quel giorno il dolore si è annidato dentro di me, non se n’è più andato. Lo stordimento iniziale, la rabbia, ma a poco a poco la volontà di proseguire nel nostro percorso di vita con dignità e coraggio. A papà infatti la rabbia non sarebbe piaciuta. Lui stesso, pur consapevole dei rischi ai quali si esponeva, aveva scelto di portare avanti fino in fondo il proprio impegno civile mantenendo sempre intatta la propria benevolenza. Il suo sacrificio non è stato vano: per il messaggio culturale che ha lasciato ai giovani, per come il suo lavoro ha contribuito a tutta l’antimafia moderna e agli importanti risultati che ne scaturiscono, per gli sviluppi che le sue intuizioni continuano ad avere adesso a livello europeo, anche attraverso il mio personale impegno al Parlamento Europeo. Questo è ciò che penso ogni anno in occasione del 29 luglio, perché in questo c’è il significato più alto della memoria: la continuità”.
2) La città di Palermo, dal 1979 al 1982, venne scossa da plurimi omicidi di mafia contro uomini delle forze dell’ordine, politici e magistrati: Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa. Erano gli anni in cui suo padre, Rocco Chinnici, assunse la direzione dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo. Ebbene, di fronte a questa lunga scia di sangue quale era lo stato d’animo di suo padre e come veniva vissuto in famiglia il suo lavoro e i rischi cui andava incontro?
“Papà amava molto il suo lavoro. Le difficoltà le metteva nel conto e non lo condizionavano. Si è sempre sforzato di tenerci al riparo dalle preoccupazioni e dalle tensioni che, sicuramente, con il passare del tempo si facevano strada sempre di più. Da metà anni Settanta, tuttavia, le limitazioni dovute a ragioni di sicurezza e le conseguenti rinunce diventarono progressive, e io ebbi la netta sensazione che fosse iniziata una nuova epoca dalla quale non si sarebbe più tornati indietro, sebbene lui ripetesse che era una situazione transitoria. Smise di andare in ufficio a piedi, venivano a prenderlo con l’auto blindata. Non poté più andare con mamma a fare una passeggiata, al cinema o al teatro. Non accompagnava più noi alle feste. Poi dal 1980 si intensificarono le telefonate minatorie, alcune anche in piena notte. Papà arrivava sempre prima di noi a prendere la cornetta del telefono, tranne un paio di volte in cui rispose mamma per errore, ma ormai a quel punto la paura era entrata in casa. Mamma voleva che lui lasciasse l’ufficio Istruzione e che presentasse istanza per andare alla procura generale di Torino ma non credo che papà abbia mai avuto realmente questa intenzione, anche se per tranquillizzare mamma si mostrava a volte possibilista. Sentiva di essere al suo posto e noi stessi ci rendemmo conto che non potevamo chiedergli di rinunciare al lavoro che stava portando avanti: per lui sarebbe stato come tirarsi indietro”.
3) Una delle intuizioni più importanti di suo padre quando dirigeva l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo fu la creazione di una struttura collaborativa tra magistrati dell’ufficio che negli anni successivi sarebbe diventato il “pool antimafia”, un gruppo di lavoro capace di creare sintonie professionali e anche amicizie tra magistrati e uomini della polizia giudiziaria, al fine di alleviare la solitudine e l’isolamento che spesso connotano il nostro lavoro. Quanto credeva suo padre nel lavoro di squadra, soprattutto con riferimento al contrasto dei reati di criminalità organizzata?
“Ci credeva moltissimo. E quella fu una delle innovazioni dirompenti nate dal suo lavoro. Basti pensare al fatto che oggi la cooperazione, sia giudiziaria che di polizia, è un pilastro delle strategie investigative per la lotta contro le organizzazioni criminali. Quell’idea non è solo all’origine del pool antimafia, ha ispirato anche la nascita delle direzioni distrettuali antimafia coordinate dalla direzione nazionale antimafia, e di riflesso anche la procura europea istituita di recente. Mio padre analizzava, approfondiva, e per questo aveva maturato una grande conoscenza del fenomeno mafioso. Aveva capito che alcuni fatti di sangue apparentemente indipendenti erano tasselli di uno stesso scenario, che c’erano connessioni tra mafia, imprenditoria e politica, che era necessario monitorare i movimenti di denaro sui conti correnti bancari. Si rese conto, cioè, che non era possibile combattere la mafia un reato per volta, e così decise di costituire un gruppo. Era indispensabile superare la frammentazione delle conoscenze e garantire la condivisione delle informazioni tra magistrati, così come la condivisione delle scelte successive. Un metodo che fece dell’ufficio Istruzione del tribunale di Palermo un modello di efficienza nella lotta alla mafia. Uno schema consolidato nel tempo venne così scardinato, ma non fu l’unico. Per esempio, papà iniziò a dare direttamente indicazioni alla polizia giudiziaria, coordinandone l’attività: per questo ricevette una lettera di richiamo, ma con il nuovo codice di procedura penale del 1989 quella prassi diventò legge e ancora oggi la polizia giudiziaria è alle dipendenze funzionali del pubblico ministero, ad ulteriore dimostrazione di quanto le intuizioni di Rocco Chinnici abbiano inciso sull’evoluzione dell’antimafia moderna”.
4) Rocco Chinnici aveva una visione moderna e innovativa delle tecniche investigative e diede, in particolare, grande impulso alle misure di prevenzione patrimoniali come strumento elettivo per indebolire l’organizzazione criminale mafiosa aggredendone direttamente il profitto illecitamente accumulato. Nel suo Ufficio lavorarono anche due grandi magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ricorda qualche episodio che possa far comprendere il livello dei loro rapporti professionali e personali?
“Mio padre li scelse uno per uno i giudici con cui formare quel gruppo di lavoro successivamente denominato pool antimafia. Paolo Borsellino lo affiancava già da qualche anno, Giovanni Falcone invece arrivò dopo. Papà lo convinse a trasferirsi all’ufficio Istruzione dalla sezione fallimentare del tribunale di Palermo. Voleva infatti avviare le prime indagini bancarie e pensò di sfruttare la capacità di leggere i bilanci societari e di ricostruire i movimenti di denaro che Falcone aveva maturato in ambito civilistico. Tre personalità diverse, appartenenti a correnti diverse della magistratura, ma tra loro c’erano coesione, complicità, stima e amicizia. Si frequentavano anche fuori dal lavoro, spesso con il coinvolgimento delle famiglie. Ricordo molti momenti trascorsi insieme ma quello che meglio esemplifica i loro rapporti personali e professionali è, ritengo, il momento in cui io, allora giovane uditore giudiziario in servizio proprio all’ufficio Istruzione, li vedevo appartarsi in un angolo del palazzo di giustizia per scambiarsi informazioni sottovoce. In quei conciliaboli c’è la rappresentazione di tutto quanto ho appena detto e, in più, della grande fiducia reciproca senza la quale quell’approccio d’èquipe non sarebbe stato possibile”.
5) Ogni anno, il 21 marzo, primo giorno di primavera, l’Associazione Libera celebra la Giornata della Memoria e dell’Impegno attraverso la lettura dell’elenco dei nomi di tutte le vittime di mafia, tra i quali figura anche suo padre. Nel corso di questa giornata, così come in altre occasioni, di fondamentale importanza risulta la partecipazione dei giovani, sempre più spesso impegnati in percorsi di legalità nel corso dell’anno scolastico. Per Rocco Chinnici quanto era importante coinvolgere in dibattiti ed incontri le istituzioni, la società civile e, in particolare, i giovani al fine di sensibilizzare le coscienze sui temi del contrasto alla criminalità organizzata e quanto credeva suo padre nelle nuove generazioni e nella loro capacità di riscatto?
“Papà dischiuse le porte degli uffici giudiziari. Metaforicamente, intendo. Nel senso che, superando e quasi forzando la propria innata riservatezza, parlava del suo lavoro per sensibilizzare la cittadinanza, per spiegare cos’era la mafia in un’epoca in cui spesso ne veniva negata l’esistenza, per mettere in guardia dai pericoli legati all’uso di droghe. Interveniva alle conferenze, ai dibattiti televisivi, e fu proprio in quegli anni, periodo ’79-‘80, che per esempio si iniziò a parlare di una nuova legislazione che consentisse di perseguire i reati di mafia in quanto tali. Con grande impegno papà si batteva già insieme a Gaetano Costa, procuratore capo di Palermo, affinché fosse previsto il reato di associazione di stampo mafioso e affinché i giudici potessero colpire la mafia nel vivo, cioè nella sua ricchezza conseguita illecitamente. Sostenne pubblicamente la necessità di approvare la legge Rognoni-La Torre con la quale poi, nel settembre 1982, fu effettivamente introdotta la nuova figura di reato, cioè l’associazione di tipo mafioso, e furono rese obbligatorie le misure patrimoniali del sequestro e della confisca dei beni illecitamente conseguiti dall’organizzazione mafiosa. Inoltre papà parlava spesso con i giovani. Era sua convinzione che dovesse essere combattuta l’acquiescenza a un certo sistema, e che questo andava fatto a livello sociale, riducendo il disagio delle famiglie, portando il lavoro e la cultura che, diceva sempre, vuol dire libertà. E siccome l’illegalità trova terreno fertile dove prosperano ignoranza e indigenza, lui volle scommettere soprattutto sui giovani. Perché credeva nei ragazzi. Diceva che se i giovani sono messi in condizione di studiare, la loro intelligenza può renderli cittadini consapevoli, in grado di esercitare i diritti e di fare le proprie scelte. La sorte e il futuro dei giovani erano stimoli fortissimi per lui, e non potrò mai dimenticare quanto era rimasto segnato dalla tragedia di una ragazza, inquilina del nostro palazzo, trovata morta per overdose. Decise allora che doveva fare di più, e iniziò ad andare sistematicamente nelle scuole per informare i ragazzi sui rischi che correvano. Nessun magistrato aveva mai fatto queste cose prima di lui”.
6) Lei è entrata in magistratura nel 1979, anno in cui furono uccisi i magistrati Emilio Alessandrini e Cesare Terranova. L’anno successivo, nel 1980, vennero assassinati anche i magistrati Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Mario Amato e Gaetano Costa. Per ogni giovane magistrato il periodo del tirocinio rappresenta un momento importante, vissuto con grande entusiasmo atteso che finalmente, dopo tanti anni di studio, si ha la possibilità di confrontarsi con la realtà giudiziaria, con gli affidatari e con gli altri colleghi in tirocinio per prepararsi adeguatamente ad assumere le funzioni nella prima sede di assegnazione, spesso uffici di frontiera caratterizzati da molteplici criticità. Cosa ha significato per lei, giovane magistrato, svolgere l’uditorato e lavorare nel primo ufficio di destinazione in quel periodo scosso da eventi così tragici?
“Era un periodo di tragici eventi, sì, e ovviamente anche di forti tensioni, ma non c’era il tempo di pensarci più di tanto perché all’ufficio Istruzione del tribunale di Palermo si lavorava incessantemente. Io e gli altri uditori di quell’epoca abbiamo avuto la grande fortuna di poter imparare il mestiere da alcuni autentici fuoriclasse della magistratura, peraltro in un clima reso molto familiare dalla loro carica umana che andava sempre a braccetto con una rigorosissima professionalità. Il mio è stato un uditorato bellissimo, perché come giudice affidatario mio padre scelse per me Paolo Borsellino, che di papà aveva lo stesso profilo umano, la stessa severità, la stessa capacità di essere instancabile. Lo conoscevo già perché frequentava anche casa nostra. Con me era paterno, mi rendeva partecipe del suo lavoro. Io studiavo i fascicoli e gli esponevo il mio punto di vista sui possibili provvedimenti. Un giorno Paolo mi portò con sé al carcere, dove doveva interrogare un imputato per omicidio. Di solito gli uditori prendevano contatto insieme, in gruppo, con questo tipo di realtà. Paolo volle che lo accompagnassi e per me già il solo varcare le porte di ferro del penitenziario fu traumatico, ma dopo fui ancora più turbata dal trovarmi faccia a faccia con un assassino. È davvero difficile per un giovane magistrato quel momento in cui necessariamente si entra nei particolari del fatto per capire come è stato compiuto il crimine. Ma ecco l’insegnamento che viene dall’esempio: mentre a me quasi tremavano le gambe, Paolo rimase lucido e distaccato, pose le domande in modo fermo ma trattando sempre quel detenuto come una persona. È stato un grande maestro per me”.
7) Qual è l’insegnamento più grande che ha ricevuto da suo padre e che ha praticato nella sua vita professionale?
“Il suo modo di essere magistrato mi ha fortemente ispirato. Era un giudice rigoroso nell’applicare la legge ma sempre umano nei confronti delle persone che era chiamato a giudicare. Un vero servitore dello Stato e della collettività. Il suo esempio ha avuto un ruolo determinante nella mia scelta di intraprendere la carriera di magistrato. E poi lui mi ha insegnato ad andare sempre oltre le difficoltà per portare avanti quello in cui credo. Pur conscio di cosa significasse in quegli anni essere magistrato, non ha mai cercato di dissuadermi e anzi ha sempre sostenuto questa mia passione. Ma questo insegnamento, il non farsi scoraggiare dalle difficoltà, me lo aveva sempre dato, fin da quando ero piccola. Era proprio questo, per esempio, il suo messaggio quando io, bambina tranquilla ma con il vezzo della velocità sulla bicicletta, cadevo rovinosamente procurandomi sbucciature a volte anche profonde: lui non mi sgridava, nessuna ramanzina, anzi mi medicava, mi rimetteva in sella e mi diceva «ora ricomincia a correre e cerca di farlo meglio». Coraggio e determinazione: questo l’’insegnamento più importante che ho ricevuto da mio padre e che ho praticato nella vita e nel lavoro”.
8) Dal 2015 Rocco Chinnici è onorato come Giusto nel Giardino dei Giusti di tutto il mondo di Milano, un memoriale per tutti coloro che si sono opposti ai genocidi e ai crimini contro l’umanità. Sul cippo in suo onore si legge “Magistrato integerrimo e di grande umanità, coraggioso promotore del primo pool antimafia del Tribunale di Palermo, ucciso dalle cosche nel 1983”. Secondo suo padre, quali erano le qualità professionali, umane ed etiche che dovevano essere incarnate da un magistrato e come lui le praticava?
“Né lui né i suoi colleghi impegnati in prima linea avrebbero potuto fare ciò che hanno fatto senza una solidissima base di valori che li sorreggeva nel loro eccezionale impegno. La giustizia, la legalità, il senso del dovere, la fedeltà allo Stato e alle istituzioni. Tutto questo si traduceva poi in una straordinaria dedizione al lavoro. Mio padre aveva proprio la religione del lavoro, riusciva a smaltire impressionanti quantità di lavoro. Una domanda molto simile a quella che lei mi pone adesso la fecero a lui un giorno durante un’intervista televisiva, e lui disse proprio così: che un magistrato deve innanzitutto lavorare”.
9) Un’ultima domanda: cosa direbbe oggi suo padre Rocco Chinnici ad un giovane che si appresta a muovere i primi passi in magistratura, soprattutto in contesti criminali difficili?
“Ai giovani magistrati che prendevano servizio all’ufficio Istruzione come uditori papà trasmetteva un grande entusiasmo. Me lo hanno testimoniato tanti colleghi che hanno iniziato la carriera proprio con lui. Parlava loro della responsabilità che si ha nello svolgere la professione di magistrato, a maggior ragione in un contesto territoriale difficile come quello di Palermo, e al tempo stesso li stimolava a lavorare con passione, anche contagiandoli con la sua che era smisurata. Sono sicura che anche oggi a un giovane magistrato Rocco Chinnici direbbe di lavorare tenendo sempre come riferimenti l’impegno, la passione e il senso di responsabilità”.
L’Adunanza Plenaria n. 12/2020 esclude i “ricorsi al buio” in materia di contratti pubblici, mentre il legislatore amplia le zone grigie della tutela.
di Maria Alessandra Sandulli
Sommario. 1. Premessa: la questione generale dell’onere di proposizione di cd “ricorsi al buio”. - 2. La decorrenza del termine di impugnazione degli atti di affidamento dei contratti pubblici: la questione rimessa all’Adunanza plenaria. - 3. Considerazioni conclusive in rapporto alle recenti tendenze legislative a ridurre le garanzie di legalità in materia di contratti pubblici.
1.Premessa: la questione generale dell’onere di proposizione di cd “ricorsi al buio”.
Investita da un’ordinanza della V Sezione[1], con la sentenza n. 12 del 2 luglio 2020 l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato è tornata ad occuparsi della decorrenza dei termini di impugnazione degli atti relativi alle procedure di affidamento dei contratti pubblici di appalto e concessione di lavori, servizi e forniture. L’ultima pronuncia in materia era stata resa nell’aprile 2018 (Ad. plen. n. 4) concernente i limiti all’onere di immediata impugnazione delle clausole della lex specialis.
Le questioni ora portate all’esame dell’organo di nomofilachia avevano invece ad oggetto l'individuazione del momento nel quale si realizza il requisito della “piena conoscenza legale” idoneo a far decorrere il breve termine decadenziale (30 giorni rispetto agli ordinari 60) per contestare i vizi dei diversi atti di gara (lex specialis, nomina della commissione, ammissione o esclusione dei concorrenti e delle offerte, aggiudicazione, ecc.), per i quali significativamente il codice dei contratti (tanto nella “prima” versione del 2006, quanto nell’attuale versione di cui al d.lgs. n. 50 del 2016, s.m.i.) ha imposto specifici obblighi di pubblicazione e/o di comunicazione.
Il tema investe più in generale la compatibilità con i principi di leale collaborazione tra poteri pubblici e amministrati e di effettività della tutela nei confronti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti equiparati di un sistema che imponga la proposizione di ricorsi c.d. “al buio” contro atti di cui si conosca, attraverso il dispositivo, l’effetto pregiudizievole, ma non sia noto il contenuto motivazionale e dei quali sia pertanto estremamente difficile, se non addirittura impossibile, individuare i possibili vizi (tanto da riuscire a formulare censure con adeguato grado di specificità) e/o gli elementi idonei ad apprezzarne l’entità.
Come spesso accade, il cd “rito appalti”, per l’importanza economica del settore dei contratti pubblici e per la rilevanza che la garanzia della relativa legalità assume anche in ambito eurounitario (è l’unica materia per la quale gli organi dell’Unione abbiano adottato direttive procedurali per assicurare l’effettivo rispetto di quelle sostanziali[2]) costituisce un importante banco di prova e assume un ruolo “pilota” per affrontare questioni più generali.
Il problema sopra esposto si pone infatti per tutti i provvedimenti amministrativi, per i quali, significativamente, l'art. 3 della legge 241 del 1990 stabilisce un precipuo onere di motivazione sui “presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione in relazione alle risultanze dell' istruttoria”, con l’ulteriore specificazione che “se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell'amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest'ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della [stessa legge] anche l'atto cui essa si richiama”. Lo stesso art. 3 aggiunge peraltro che “in ogni atto notificato al destinatario devono essere indicati il termine e l'autorità cui è possibile ricorrere”.
Purtroppo le riferite prescrizioni sono state spesso disattese e i soggetti lesi dagli atti amministrativi sono frequentemente costretti ad affrontare gli oneri economici e psicologici[3], il legislatore di impugnazioni meramente “precauzionali”, senza essere ancora effettivamente in grado di apprezzarne la fondatezza, con il rischio di constatare in corso di causa l’opportunità di rinunciare a un’azione con scarse possibilità di accoglimento o di doverla all’opposto integrare e rafforzare con la proposizione (evidentemente foriera di nuovi oneri) di cd “motivi aggiunti” [4].
Il codice del processo amministrativo non ha però specificamente affrontato l’argomento, limitandosi a disporre all’art. 41 che il ricorso deve essere notificato a pena di decadenza entro il termine di legge “decorrente dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui è scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge”.
Nulla, come si vede, è detto, di più specifico, sulla necessità della conoscenza della motivazione e degli eventuali atti presupposti, dando così spazio a posizioni giurisprudenziali differenziate: secondo un orientamento, minoritario, più garantista, il termine decorrerebbe solo dalla conoscenza della motivazione (Cons. St. Sez. V, 31 gennaio 2012, n. 467; Id. 16 settembre 2011, n. 5191; Id. 8 febbraio 2007, n. 522), mentre, secondo la tesi opposta, decisamente prevalente, il dies a quo dipenderebbe dalla mera conoscenza del carattere potenzialmente lesivo del provvedimento, a prescindere dalla conoscenza della relativa motivazione (ex multis, Cons. St., Sez. V, 28 ottobre 2019, n. 3784; 4 aprile 2019, n. 2190; 31 ottobre 2018, n. 6187; Sez. IV, 21 marzo 2016, n. 11356; 23 gennaio 2012, n. 281).
2.La decorrenza del termine di impugnazione degli atti di affidamento dei contratti pubblici: la questione rimessa all’Adunanza plenaria e la relativa soluzione.
Nella materia dei contratti pubblici, la tematica è stata invece affrontata funditus dalla richiamata Direttiva 2007/66, che, nella suddetta ottica di garanzia dell'effettività della tutela, afferma espressamente che il termine per ricorrere dovrà essere computato dalla notifica del provvedimento e delle ragioni che ne sono alla base ai soggetti interessati, in modo che questi ne possano percepire l'ingiustizia e la lesività (considerando 6 e 7 e artt. 1, 2-bis, 2-quater e 2-septies Direttive 89/665/CEE e 1992/13/CEE s.m.i.; Corte giust. UE, Sez. V, 8 maggio 2014, C-161/2013 e Sez. III, 28 gennaio 2010, C-406/08, meglio nota come sentenza Uniplex e, a seguire, Sez. V, 8 maggio 2014, in C-161/13, cit., punto 40; e, da ultimo, Sez. IV, 14 febbraio 2019, in C-54/18).
In ambito nazionale, il criterio era stato esplicitamente recepito, su sollecitazione della dottrina e del parere reso dal Consiglio di Stato sullo schema di decreto “correttivo”, dal d. lgs. 56 del 2017, soltanto in riferimento ai ricorsi super accelerati avverso le ammissioni e le esclusioni (tipologia specialissima opportunamente eliminata dalla legge “sblocca cantieri” del 2019)[5], ma, come già sottolineato in altre occasioni[6], anche in forza del primato del diritto dell'Unione, non può non trovare generalizzata applicazione a tutti gli atti di gara (inter alia, le aggiudicazioni).
A questi fini, la normativa processuale speciale dettata dagli artt. 19 e 120 c.p.a. deve essere, necessariamente, integrata con le disposizioni dello stesso codice dei contratti, in tema di trasparenza (art. 29, comma 1) e di “informazione dei candidati e degli offerenti” sullo svolgimento e sull'esito della procedura (art. 76), modificate dal sopracitato “correttivo” del 2017 e dal d.l. n. 32 del 2019, convertito nella l. n. 55 del 2019, e con quelle in tema di sospensione dei termini per la stipula del contratto nelle more della scadenza dei termini per l’impugnazione (il c d standstill period sostanziale di cui all’art. 32, comma 9)[7].
L’art. 120, comma 5, del codice processuale reca infatti specifiche disposizioni sulla rilevanza della comunicazione e della pubblicazione degli atti.
In particolare, come evidenziato dall’ordinanza di rimessione e dall’Adunanza plenaria, la disposizione fa però tuttora riferimento agli artt. 79 e 66 del ‘primo codice’ dei contratti (d.lgs. n. 163 del 2006) e il difetto di coordinamento ha creato non pochi problemi interpretativi, in considerazione della non perfetta corrispondenza tra l’art. 76 del codice contrattuale vigente e l’art. 79 di quello del 2006 (che prevedeva specifiche regole in tema di accesso, opportunamente utilizzate dalla giurisprudenza a garanzia di una maggiore effettività di tutela, irragionevolmente non riprese nel codice del 2016) e tra le rispettive disposizioni in tema di pubblicità e trasparenza.
Il Consiglio di Stato ha dovuto quindi compiere un’importante opera di ricostruzione sistematica, non mancando peraltro di segnalare al Governo la necessità di un sollecito intervento legislativo.
La sentenza ha in primo luogo rilevato che l’art. 120, comma 5 – ispirandosi al principio della effettività della tutela giurisdizionale delle imprese interessate – ha disposto che il termine per l’impugnazione comincia a decorrere da una ‘data oggettivamente riscontrabile’, da individuare:
- da un lato, sulla base degli ‘incombenti formali ex lege’ cui è tenuta l’Amministrazione aggiudicatrice (connessi alla disciplina sullo stand still, contenuta dapprima nell’art. 11 del ‘primo codice’ e poi nell’art. 32, comma 9, del ‘secondo codice’);
- dall’altro lato, sulla base del criterio della normale diligenza per la conoscenza degli atti, cui è tenuta l’impresa che intenda proporre il ricorso.
Il supremo Collegio ha quindi ricordato che, per la determinazione di tale data, il c.p.a. ha fissato tre regole:
a) per l’impugnazione degli atti ‘concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture’, incluse le aggiudicazioni, ha fatto riferimento alla data di ‘ricezione della comunicazione di cui all'articolo 79 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163’ (recante il titolo ‘informazioni circa i mancati inviti, le esclusioni e le aggiudicazioni’), attribuendo, dunque, rilievo decisivo al rispetto delle previsioni dell’art. 79;
b) per l’impugnazione dei bandi e degli avvisi ‘con cui si indice una gara, autonomamente lesivi’, si ha richiamato la data di ‘pubblicazione di cui all'articolo 66, comma 8’ del medesimo d.lgs. n. 163 del 2006, attribuendo, dunque, analogo rilievo a tale pubblicazione;
c) ‘in ogni altro caso’, ha disposto che va accertata la ‘conoscenza dell'atto’.
Per i casi previsti dalle lettere a) e b), l’art. 120 ha attribuito dunque rilievo decisivo al compimento delle ‘informazioni’ e delle ‘pubblicazioni’ che l’Amministrazione aggiudicatrice è tenuta ad effettuare.
Quanto alle prime, l’Adunanza plenaria ha ritenuto potersi fare riferimento all’art. 76 del nuovo codice contrattuale, che impone di “informare tempestivamente ciascun candidato e ciascun offerente delle decisioni adottate riguardo alla conclusione di un accordo quadro, all’aggiudicazione di un appalto o all’ammissione ad un sistema dinamico di acquisizione, ivi compresi i motivi dell' eventuale decisione di non concludere un accordo quadro o di non aggiudicare un appalto per il quale è stata indetta una gara o di riavviare la procedura o di non attuare un sistema dinamico di acquisizione” e di comunicare entro un termine massimo di 5 giorni, a) l’aggiudicazione al concorrente che segue in graduatoria e a tutti i candidati non definitivamente esclusi; b) l'esclusione ai relativi destinatari; c) la decisione di non aggiudicare un appalto o non concludere un accordo quadro a tutti i candidati; d) la data di avvenuta stipulazione del contratto ai soggetti di cui alla lettera a e comunicare, entro 15 giorni dalla sua eventuale richiesta scritta, ad ogni offerente escluso i motivi di rigetto della sua offerta, ad ogni candidato escluso i motivi di rigetto della sua domanda di partecipazione, ad ogni offerente che abbia presentato un’offerta ammessa in gara e valutata le caratteristiche e i vantaggi di quella selezionata e il nome dell'offerente cui è stato aggiudicato l'appalto o delle parti dell'accordo quadro e ad ogni offerente che abbia presentato un’offerta ammessa in gara e valutata lo svolgimento e l’andamento delle negoziazioni e del dialogo con gli offerenti. A quest’ultimo riguardo, la sentenza ha chiarito che, in assenza delle disposizioni speciali dettate dall’art. 79 del ‘primo codice’, trovano applicazione, con riferimento all’accesso, le disposizioni generali sull’accesso informale agli atti amministrativi, previste dall’art. 5 del Regolamento approvato con il d.P.R. n. 184 del 2006. Ne consegue che, “l’Amministrazione aggiudicatrice deve consentire all’impresa interessata di accedere agli atti, sicché - in presenza di eventuali suoi comportamenti dilatori (che non possono comportare suoi vantaggi processuali, per il principio della parità delle parti) - va ribadito quanto già affermato dalla giurisprudenza [prima soluzione] per la quale, qualora l’Amministrazione aggiudicatrice rifiuti l’accesso o impedisca con comportamenti dilatori l’immediata conoscenza degli atti di gara (e dei relativi allegati), il termine per l’impugnazione degli atti comincia a decorrere solo da quando l’interessato li abbia conosciuti”.
Quanto all’altra data “oggettivamente certa”, l’organo di nomofilachia della giustizia amministrativa l’ha, coerentemente, individuata nell’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016 s.m.i., che dispone al primo periodo che “tutti gli atti delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori relativi alla programmazione di lavori, opere, servizi e forniture nonché le procedure per l'affidamento di appalti pubblici di servizi, forniture, lavori e opere, di concorsi pubblici di progettazione di concorsi di idee e di concessioni (…), alla composizione della commissione giudicatrice e ai curricula dei suoi componenti, ove non considerati riservati ai sensi dell’articolo 53 ovvero secretati ai sensi dell’articolo 162, devono essere pubblicati e aggiornati sul profilo del committente nella sezione ‘Amministrazione trasparente’”, precisando, all'ultimo periodo che, “fatti salvi gli atti a cui si applica l'articolo 73, comma 5, i termini cui sono collegati gli effetti giuridici della pubblicazione decorrono dalla data di pubblicazione sul profilo del committente”. Ne consegue che “l’impresa interessata – che intenda proporre un ricorso - ha l’onere di consultare il ‘profilo del committente’, dovendosi desumere la conoscenza legale degli atti dalla data nella quale ha luogo la loro pubblicazione con i relativi allegati (data che deve costantemente risultare dal sito)”.
Prima di dare puntuale e formale risposta a tutti i quesiti sollevati dalla V Sezione, la sentenza ha poi richiamato la posizione assunta dall’Unione europea, ricordando come la Corte di Giustizia avesse evidenziato che:
- i termini imposti per proporre i ricorsi avverso gli atti delle procedure di affidamento cominciano a decorrere solo quando “il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della pretesa violazione” (Corte di Giustizia, Sez. IV, 14 febbraio 2019, in C-54/18, punto 21 e anche punti 32 e 45, che ha deciso una questione pregiudiziale riguardante il comma 2 bis dell’art. 120 del c.p.a., poi abrogato dalla legge n. 55 del 2019; Sez. V, 8 maggio 2014, in C-161/13, punto 37, che ha deciso una questione pregiudiziale riguardante proprio l’art. 79 del ‘primo codice’ e l’art. 120, comma 5, del c.p.a.);
- “una possibilità, come quella prevista dall’articolo 43 del decreto legislativo n. 104/2010, di sollevare «motivi aggiunti» nell’ambito di un ricorso iniziale proposto nei termini contro la decisione di aggiudicazione dell’appalto non costituisce sempre un’alternativa valida di tutela giurisdizionale effettiva. Infatti, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, gli offerenti sarebbero costretti a impugnare in abstracto la decisione di aggiudicazione dell’appalto, senza conoscere, in quel momento, i motivi che giustificano tale ricorso” (Corte di Giustizia, Sez. V, 8 maggio 2014, in C-161/13, cit., punto 40).
Dalla normativa (art. 2-quater della Direttiva 89/665 s.m.i.) e dalla giurisprudenza eurounitaria il Collegio ha dunque tratto conferma che “la sopra riportata normativa nazionale vada interpretata nel senso che il termine di impugnazione degli atti di una procedura di una gara d’appalto non può che decorrere da una data ancorata all’effettuazione delle specifiche formalità informative di competenza della Amministrazione aggiudicatrice, dovendosi comunque tenere conto anche di quando l’impresa avrebbe potuto avere conoscenza degli atti, con una condotta ispirata alla ordinaria diligenza”.
Da ultimo, la Plenaria ha affrontato la questione sul se il ‘principio della piena conoscenza o conoscibilità’ (per il quale in materia il ricorso è proponibile da quando si sia avuta conoscenza del contenuto concreto degli atti lesivi o da quando questi siano stati pubblicati sul ‘profilo del committente’) si applichi anche quando l’esigenza di proporre il ricorso emerga dopo aver conosciuto i contenuti dell’offerta dell’aggiudicatario o le sue giustificazioni rese in sede di verifica dell’anomalia dell’offerta.
In linea con la massima attenzione riservata alla tutela del diritto di difesa e della legalità, il Supremo Collegio risponde in modo affermativo, riconoscendo espressa rilevanza al “tempo necessario per accedere alla documentazione presentata dall’aggiudicataria, ai sensi dell’art. 76, comma 2, del ‘secondo codice’” (come osservato ai punti 19 e 27 della pronuncia), con la testuale, importante, precisazione che “poiché il termine di impugnazione comincia a decorrere dalla conoscenza del contenuto degli atti, anche in tal caso non è necessaria la previa proposizione di un ricorso ‘al buio’ [‘in abstracto’, nella terminologia della Corte di Giustizia, e di per sé destinato ad essere dichiarato inammissibile, per violazione della regola sulla specificazione dei motivi di ricorso, contenuta nell’art. 40, comma 1, lettera d), del c.p.a.], cui dovrebbe seguire la proposizione di motivi aggiunti”.
In conclusione, sulla base delle riferite considerazioni, la pronuncia ha affermato i seguenti principi di diritto:
“a) il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione decorre dalla pubblicazione generalizzata degli atti di gara, tra cui devono comprendersi anche i verbali di gara, ivi comprese le operazioni tutte e le valutazioni operate dalle commissioni di gara delle offerte presentate, in coerenza con la previsione contenuta nell’art. 29 del d.lgs. n. 50 del 2016;
b) le informazioni previste, d’ufficio o a richiesta, dall’art. 76 del d.lgs. n. 50 del 2016, nella parte in cui consentono di avere ulteriori elementi per apprezzare i vizi già individuati ovvero per accertarne altri, consentono la proposizione non solo dei motivi aggiunti, ma anche di un ricorso principale;
c) la proposizione dell’istanza di accesso agli atti di gara comporta la ‘dilazione temporale’ quando i motivi di ricorso conseguano alla conoscenza dei documenti che completano l’offerta dell’aggiudicatario ovvero delle giustificazioni rese nell’ambito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta;
d) la pubblicazione degli atti di gara, con i relativi eventuali allegati, ex art. 29 del decreto legislativo n. 50 del 2016, è idonea a far decorrere il termine di impugnazione;
e) sono idonee a far decorrere il termine per l’impugnazione dell’atto di aggiudicazione le forme di comunicazione e di pubblicità individuate nel bando di gara ed accettate dai partecipanti alla gara, purché gli atti siano comunicati o pubblicati unitamente ai relativi allegati”.
3. Considerazioni conclusive in rapporto alle recenti tendenze legislative a ridurre le garanzie di legalità in materia di contratti pubblici.
La sentenza merita il massimo apprezzamento, soprattutto per l’attenzione che mostra di porre alla garanzia della legalità e dell’effettività della tutela giurisdizionale nell’affidamento dei contratti pubblici, in controtendenza con le più recenti riforme legislative, che, da anni, progressivamente la erodono, come dimostra anche il recente decreto semplificazioni[8].
Come noto, da qualche anno (e soprattutto dal 2014), il legislatore ha cercato invero strumenti artificiali di “deflazione” del contenzioso amministrativo, particolarmente incisivi in subiecta materia, individuabili:
-nell’inaccettabile incremento del contributo unificato da versare per le controversie di maggior impatto economico[9] (per il contenzioso sui contratti pubblici e sugli atti delle Authorities il ricorso, tanto in via principale, quanto in via incidentale, è soggetto al versamento di un contributo unificato variabile da 2.000 a 6.000 euro, mentre per i ricorsi nelle materie soggette, per la loro rilevanza politica ed economica, a rito accelerato, è richiesto un contributo fisso di 1.800 euro. I predetti importi - “contenuti” negli altri giudizi in 650 euro - sono aumentati del 50% per le controversie in grado di appello e sono spesso raddoppiati o moltiplicati se l’amministrazione adotta nuovi atti contro i quali occorre rivolgere nuove censure: circostanza tutt’altro che infrequente nelle procedure di evidenza pubblica o a fronte della deprecabile prassi di “correggere” i provvedimenti impugnati in corso di causa, non scoraggiata da una esemplare condanna alle spese del giudizio fondatamente instaurato contro il provvedimento corretto; e rischiano di essere inutilmente versati o raddoppiati o moltiplicati quando il sistema ammette/pretende la presentazione del ricorso “al buio”);
-nell’obbligo di definire i ricorsi sull’affidamento dei contratti pubblici in tempi estremamente contratti e con sentenza redatta ordinariamente “in forma semplificata” (difficilmente compatibile con l’oggettiva complessità della materia) e la preferenza generalmente riconosciuta a questo strumento (difficilmente conciliabile con il ruolo conformativo dell’attività amministrativa che il sistema costituzionale ha voluto conferire al giudice amministrativo e con il ricordato ruolo “regolatorio” attribuitogli, sia pure impropriamente, dal legislatore);
- nell’imposizione di limiti dimensionali agli scritti difensivi e di apposite regole di redazione di questi ultimi (limiti che, se si combinano con l’introduzione del processo telematico obbligatorio e i tempi necessariamente circoscritti della discussione orale, rendono vieppiù oggettivamente difficile la dimostrazione della fondatezza delle censure e delle eccezioni formulate);
- nell’imposizione di ulteriori limiti al potere giurisdizionale di sospensione dei provvedimenti relativi alle procedure di affidamento dei contratti pubblici: l’art. 120, comma 8-ter c.p.a., per un verso, assoggetta il potere cautelare alle medesime regole e ai medesimi limiti di incisione sul contratto previsti, dagli artt. 121 e 122, per la decisione di merito e, per l’altro, (non ritenendo evidentemente sufficiente il mero, tradizionale, bilanciamento dei diversi interessi, già in qualche modo sbilanciato a favore di quello pubblico dall’art. 119, commi 3 e 5) impone al Collegio di valutare l’istanza cautelare tenendo conto delle pretese “esigenze imperative connesse ad un interesse generale all’esecuzione del contratto” (laddove l’unico interesse generale in subiecta materia è all’evidenza quello, sottolineato anche dalla direttiva 2007/66/CE, che le violazioni alle regole sostanziali non producano i loro effetti)[10];
- nell’imposizione di limiti ancora più incisivi al potere del giudice cautelare nei giudizi relativi alla progettazione e alla realizzazione delle c.d. “infrastrutture strategiche” (che deve tenere conto, “delle probabili conseguenze del provvedimento per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell'opera” (preminenza aprioristicamente stabilita dalla legge, dunque), e valutare l’[effettiva] “irreparabilità del pregiudizio per il ricorrente”, da comparare in ogni caso “con quello del soggetto aggiudicatore allacelere prosecuzione delle procedure” e, in termini ancora più gravi, nella previsione della non incidenza delle pronunce di annullamento e/o di sospensione assunte in tali giudizi per vizi diversi da quelli (più gravi) individuati dall’art. 121 sui contratti eventualmente già stipulati (art. 125 c.p.a.)[11].
E, da ultimo, a quanto è dato conoscere dalla bozza in circolazione, il dl semplificazioni, approvato dal Consiglio dei Ministri del 7 luglio scorso con la criticabile formula “salvo intese” (utilizzata sempre più frequentemente dai governi per indicare che la redazione definitiva del testo formalmente approvato è rinviata all’esito di successivi negoziati tra le forze politiche), nel ridurre le ipotesi di responsabilità erariale commissiva e di abuso d’ufficio dei funzionari pubblici (artt. 21 e 23), estenderebbe la portata del citato art. 125 e prevederebbe un’ipotesi specifica di responsabilità erariale e disciplinare a carico dei funzionari che, anche in pendenza di contenziosi, in assenza di espressa inibitoria legislativa o giurisdizionale, non procedono tempestivamente alla stipula e all’avvio dell’esecuzione dei contratti o, se il ritardo è imputabile all’operatore economico, l’esclusione di dritto di quest’ultimo dalla procedura o la risoluzione del contratto per suo inadempimento (artt. 1,2 e 4).
Ne consegue che gli affidamenti contra legem per i quali il soggetto leso non sia riuscito a superare i riferiti ostacoli frapposti all’accoglimento dell’istanza cautelare producono indisturbati i loro effetti, con pregiudizio irreparabile dei concorrenti (soprattutto le PMI) illegittimamente esclusi o mal valutati e degli utenti (esposti anche a rischi di sicurezza) e, soprattutto, della legalità. Si tratta di danni seri e gravi, che si aggiungono a quello del rischio del risarcimento gravante sulla stazione appaltante e, di risulta, sulla collettività[12], che il decreto avrebbe cercato di attenuare riconoscendo la possibilità delle stazioni appaltanti di stipulare (evidentemente a caro prezzo) appositi contratti di assicurazione (!).
Né desta minore preoccupazione la previsione, nello stesso decreto, che i giudizi de quibus debbano essere “di norma” definiti in sede cautelare con sentenza semplificata, anche in deroga ai presupposti stabiliti dall’art. 74, comma 1, c.p.a. e che, in ogni caso, il giudice dovrebbe rendere la sentenza entro 15 giorni dall’udienza di discussione e che, qualora la stesura della motivazione fosse particolarmente complessa, il giudice debba comunque pubblicarne entro tale termine il dispositivo, indicando anche le domande eventualmente accolte e le misure per darvi attuazione, e depositare in ogni caso la sentenza entro 30 giorni dall' udienza. Si rischia dunque di privilegiare la celerità su una decisione adeguatamente ponderata e consapevole[13].
C’è dunque soltanto da confidare nella reazione della giurisprudenza, anche attraverso eventuali rinvii alla Corte costituzionale e alla Corte di Giustizia; mentre, tornando alle questioni affrontate dalla sentenza in commento, c’è da auspicare che la garanzia di effettività della tutela segnata dal più stretto legame tra termine di impugnazione e obbligo di motivazione trovi un’applicazione più generalizzata. Si ricorda del resto che la Direttiva 2007/66, al considerando 36, fa espresso richiamo al principio di effettività della tutela sancito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (cd Carta di Nizza), che, evidentemente, non si limita ai contratti pubblici.
* * *
[1] Ord. 2 aprile 2020 n. 2215.
[2] Le note Direttive 1989/665 e 1992/13, modificate e integrate dalla Direttiva 2007/66 con il dichiarato obiettivo di imporre agli Stati membri l’adozione di strumenti di ricorso più efficaci contro la violazione delle nuove direttive sostanziali nn. 17 e 18 del 2004, e misure di tutela (inibitoria, cautelare, caducatoria e risarcitoria) più stringenti, al fine di evitarne l’elusione, anche attraverso la cd corsa alla stipula del contratto nelle more della proposizione di un eventuale ricorso sull’aggiudicazione o della decisione (almeno cautelare) sullo stesso.
Tradizionalmente, infatti, tale settore si caratterizza per la difficoltà di trovare un equo contemperamento tra l'esigenza, economica e funzionale, che le prestazioni richieste dalle pp.aa. (e dai soggetti a esse equiparati per l’affidamento delle relative commesse: organismi di diritto pubblico, titolari di concessioni pubbliche affidate senza gara e, in particolari settori, imprese pubbliche e titolari di diritti speciali o esclusivi) siano sollecitamente rese e quella, morale e giuridica, che il relativo affidamento sia improntato al massimo rispetto della legalità, a tutela delle regole di contabilità pubblica e di garanzia della concorrenza e degli altri interessi di volta in volta individuati dall'ordinamento (tra le quali oggi, in particolare, quelli ambientali e sociali).
[3] Se non addirittura giuridici, nei casi in cui, come accaduto proprio in riferimento ai contratti pubblici, il legislatore abbia considerato l’instaurazione di contenziosi come elemento negativo per il rating del proponente: v infra.
[4] Il tema, classico (E. Cannada Bartoli, Decorrenza dei termini e possibilità di conoscenza dei vizi, in Foro amm. 1961, 1081; A.M. SANDULLI, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, Napoli, Morano Editore, 1963, 242 ss., che, mettendo l’accento sul fatto che l’art. 36 non del Regolamento di procedura davanti al Consiglio di Stato non equiparava alla notificazione una “qualsiasi conoscenza” dell’atto da impugnare, ma una conoscenza “piena” e che, coerentemente l’art. 6 del suddetto Regolamento onerava l’interessato non solo ad impugnare i provvedimenti ritenuti lesivi nei termini, anche di indicare i “motivi su cui si fonda il ricorso, sottolineava che “il legislatore ha voluto che la decadenza per decorso del termine, dalla possibilità di proporre il ricorso, si verifichi solo in quanto, conoscendo l’atto in misura sufficiente per individuare anche i difetti incidenti nel campo della propria sferra giuridica, l’interessato abbia lasciato trascorrere inutilmente il termine fatale”), è troppo ampio per poterlo affrontare in questa sede: si rinvia, per tutti, agli scritti di G. Virga, La disciplina dei termini nel processo amministrativo, in Atti del convegno di studi organizzato dalla facoltà di giurisprudenza di Messina, 15-16 aprile 1988, Giuffré, Milano, 1989, 249; S. Baccarini, La comunicazione del provvedimento amministrativo tra prassi e nuove garanzie, in Dir. proc. amm., 1994, 1, 8; Id., motivazione ed effettività della tutela, in giustamm.it; M.A. Sandulli, Rilevanza e trasparenza dei motivi nel procedimento e nel processo, in AA.VV., Attidel Convegno di Brescia del 18-19 ottobre 1991, Roma, 1995; R. Politi, Decorrenza del termine per l'impugnazione del provvedimento in sede giurisdizionale e conoscenza della motivazione dell'atto: spunti di riflessione, in TAR, 1999, 2, 133; R. Damonte, Conoscenza del provvedimento amministrativo e termini di proposizione del ricorso al giudice amministrativo, in Riv. giur. edil., 2000, 1, 1135; A. Reggio d’Aci, La piena conoscenza del provvedimento amministrativo e la decorrenza del termine per la sua impugnazione, in Urb. e app., 2007, 11, 1367; L. Ferrara, Motivazione e impugnabilità degli atti amministrativi, in Foro amm.-TAR, 2008, 1193; S. De Paolis, B. Rinaldi, Piena conoscenza ed effettività della tutela: riflessioni e attualità del pensiero dei maestri, in Atti del convegno su L'impugnabilità degli atti amministrativi, Giornate di studio in onore di E. Cannada Bartoli, 13-14 giugno 2008, Siena, in giustamm.it; M.A. Sandulli I principi costituzionali e comunitari in materia di giurisdizione amministrativa, in federalismi.it, n. 18/2009; A. Marra, Il termine di decadenza nel processo amministrativo, Milano, Gi2012; nonché, più recentemente, M.A. Sandulli, Profili soggettivi e oggettivi della giustizia amministrativa: il confronto, in federalismi.it, n. 3/2017 nonché ai contributi generali sulla motivazione di F. Aperio Bella, La motivazione del provvedimento, in M.A. Sandulli (a cura di) Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2 ed., 2017, (aggiornamento 2020 in corso di stampa) e di F. Cardarelli, La motivazione del provvedimento, in M.A. Sandulli (a cura di) Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2 ed., 2017, 374 ss. e R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2017, 269 ss.
[5] In argomento, specificamente, A.G. Pietrosanti, Piena conoscenza, termine per impugnare ed effettività della tutela nel rito “super accelerato” ex art. 120 co. 2 bis c.p.a., in www.federalismi.it, 7/2017; S. Tranquilli, Prime riflessioni a margine di alcune recenti oscillazioni giurisprudenziali sull’individuazione del dies a quo per impugnare le ammissioni e le esclusioni dalle gare alla luce della disciplina del rito “super-speciale”, in www.federalismi.it, 5/2018.
[6] Per tutti, M.A. Sandulli, Nuovi limiti al diritto di difesa introdotti dal d.lgs. n. 50 del 2016 in contrasto con il diritto eurounitario e con la Costituzione, in lamministrativista.it, 2016; e Rito speciale in materia di contratti pubblici, Bussola in lamministrativista.it; M.A. Sandulli, S. Tranquilli, Art. 204, in Codice dei contratti pubblici - Commentario di dottrina e giurisprudenza, a cura di G. M. Esposito, UTET, 2017, 2365; M. Lipari, La tutela giurisdizionale e “preconteziosa” nel nuovo Codice dei contratti pubblici, in www.federalismi.it, 2016, n. 10, 39 ss.; R. De Nictolis, Il nuovo codice dei contratti pubblici, in Urb. e App., 2016, 5, 503 ss; G. Severini, Il nuovo contenzioso sui contratti pubblici, in www.giustizia-amministrativa.it, 2016.
[7] Per un approfondimento della complessa disciplina, nazionale ed eurounitaria, in materia di contratti pubblici e dei relativi principi e istituti, si rinvia all’ampio Trattato sui contratti pubblici (5 volumi) a cura di M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II ed., Milano, 2019. Per una visione sintetica, ma completa, del quadro normativo e giurisprudenziale aggiornato alla l. n. 55 del 14 giugno 2019, cfr. il Codice dei contratti pubblici annotato con normativa e giurisprudenza e linee guida ANAC, a cura di G.A. Giuffrè, P. Provenzano e S. Tranquilli, Napoli, 2019.
[8] Su cui cfr. l’accenno critico in M.A. Sandulli, Cognita causa, rielaborazione della Relazione al webinar del 30 giugno/1luglio 2020 su L’emergenza Covid e i suoi riflessi sul processo amministrativo. Principi processuali e tecniche di tutela tra passato e futuro, in giustiziainsieme, 6 luglio 2020. Il tema è stato ampiamente affrontato da M. Lipari, La proposta di modifica del rito appalti: complicazioni e decodificazioni senza utilità?, Relazione al medesimo webinar, in lamministrativista.it, 3 luglio 2020.
[9] Si rinvia, ancora, a M.A. Sandulli, Le nuove misure di deflazione del contenzioso amministrativo: prevenzione dell'abuso di processo o diniego di giustizia? in federalismi.it, n. 20/2012.
[10] Cfr. le considerazioni critiche di G. Severini, Tutela cautelare e standstill, in Trattato sui contratti pubblici, cit., cap. 125.
[11] A queste misure il Codice dei contratti pubblici del 2016 aveva aggiunto un rito super specialissimo (opportunamente abrogato dall’art. 1, comma 4, del d.l. n. 32 del 2019) che imponeva al concorrente l’onere di proporre immediata impugnazione, non soltanto della propria esclusione, ma anche della ammissione degli altri concorrenti, a prescindere dalla sussistenza di un reale interesse alla relativa contestazione, (concretizzabile soltanto all’esito della valutazione delle offerte) entro trenta giorni dalla pubblicazione sul sito del committente del mero elenco dei soggetti ammessi, ancorché privo delle informazioni necessarie a valutarne la legittimità: la misura, apparentemente diretta a definire ogni controversia prima della fase di valutazione delle offerte, si traduceva, se combinata all’alto costo del giudizio e alle conseguenze che la relativa instaurazione può determinare sul rating delle imprese, in una ulteriore, ingiusta, misura di “deflazione” dall’accesso alla giustizia. Per una panoramica generale sulla disciplina del processo in materia di affidamento dei contratti pubblici, cfr. R. De Nictolis, in Trattato sui contratti pubblici, cit., cap. 124.
[12] Sul tema ancora M.A. Sandulli, Cognita causa, cit. e, più specificamente, La nuova tutela giurisdizionale in tema di contratti pubblici (note a margine degli artt. 244-246 del Codice de Lise), Il processo amministrativo superaccelerato e i nuovi contratti ricorso-resistenti e Nuovi limiti alla tutela giurisdizionale in materia di contratti pubblici in federalismi.it, nn. 21/2006, 5/2009 e 15/2016; e F. Francario,Forme e tecniche di tutela alla prova dell’emergenza, relazione al webinar L’emergenza Covid e i suoi riflessi sul processo amministrativo, e gli interventi al webinar organizzato dall’AIPDA su Poteri del giudice amministrativo e efficienza della pubblica amministrazione in materia di appalti, coordinato da C. Barbati e introdotto da interventi di R. Cavallo Perin, M. Clarich, G. De Giorgi Cezzi, G. Morbidelli, F.G. Scoca, L. Torchia e G. Tropea sul dibattito apertosi sul tema tra G. Della Cananea, M. Dugato, A. Police e M. Renna E G. Corso, F. Francario, G. Greco, M.A. Sandulli e A. Travi, ascoltabili sul link in giustiziainsieme.it.
[13] Ci si consenta ancora il rinvio allo scritto Cognita causa e alle osservazioni sulla sentenza semplificata svolte in M.A. Sandulli, c Il tempo del processo come bene della vita, in federalismi.it, n. 18/2014.
La discussione scritta della causa nel processo ammistrativo*
di Carlo Emanuele Gallo
Sommario: 1. La trattazione scritta della causa nella disciplina processuale anti-covid - 2. L’incremento della trattazione scritta nel codice del processo amministrativo - 3. La trattazione scritta e l’oralità. – 4. I caratteri dell’oralità. – 5. L’oralità e il processo amministrativo. – 6. La trattazione scritta e la trattazione orale nel processo amministrativo: una ricostruzione aggiornata. – 7. Principi fondamentali e trattazione scritta.
1. La trattazione scritta della causa nella disciplina processuale anti-covid. – La disciplina del processo amministrativo contenuta nei decreti legge emanati a seguito dell’emergenza covid – 19, oltre ad avere prima soppresso e poi limitato o modificato la trattazione orale della causa, ha anche introdotto nuovi momenti di trattazione scritta: si è trattato, in particolare, della introduzione di due ipotesi di presentazione di brevi note scritte, con diversa scansione temporale, sempre a ridosso dell’udienza o della camera di consiglio, e perciò in sostituzione della trattazione orale stessa: a’ sensi dell’art. 84, c. 5 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, se nessuna parte ha chiesto la discussione orale, ciascuna può presentare brevi note sino a due giorni prima dell’udienza; a’ sensi dell’art. 4, c. 2 del d.l. n. 30 aprile 2020, n. 28, se è richiesta la discussione orale (i dl parlano sempre di udienza: già il cpa, all’art. 60, nella rubrica indica “udienza cautelare”, mentre l’art. 87 distingue) da una delle parti, l’altra, in alternativa alla partecipazione, può depositare note d’udienza fino alle ore 9 del giorno dell’udienza[1]. Quest’ultimo termine è stato modificato dalla legge di conversione 25 giugno 2020, n. 70, nelle ore 12 del giorno antecedente a quello dell’udienza.
Si tratta, in sostanza, delle note di udienza, istituto non sconosciuto, in passato, come si vedrà, al processo amministrativo e al giudizio avanti la Corte di Cassazione.
Sul punto, la disciplina introdotta dai decreti legge richiamati non è completa: la medesima, infatti, non indica quale dev’essere il contenuto delle note né la loro dimensione. Né è utile il riferimento a quanto parimenti disposto per il processo civile, ove si consideri che, in quel caso, a’sensi dell’art. 83, le note sono soltanto la sostituzione scritta della partecipazione del difensore all’udienza e debbono contenere le richieste e le istanze rivolte al giudice, e cioè quello che il difensore verbalizzerebbe nel verbale d’udienza.
Riflettendo, però, sulla collocazione delle note, è evidente che alle medesime va attribuito il significato non di nuovi scritti difensivi[2] ma, invece, di trascrizione di quanto altrimenti la parte avrebbe dedotto in udienza o in camera di consiglio[3].
Va, a questo proposito, perciò, effettuata una distinzione. Se le note sono depositate in vista dell’udienza, posto che il contraddittorio scritto disciplinato dal Codice del processo amministrativo è articolato, consistendo nelle memorie e nelle repliche, e posto che le repliche debbono contenere soltanto la risposta alle argomentazioni sviluppate da controparte nella memoria e non possono introdurre elementi nuovi, se ne deve trarre che le note sono semplicemente una estrema sintesi degli argomenti già dibattuti oppure una contestazione di quanto controparte abbia illustrato in modo non corretto nella replica.
Non sarebbe possibile introdurre questioni nuove in precedenza non dibattute.
Se viceversa le note sono depositate in vista della camera di consiglio, posto che per la camera di consiglio non è previsto il deposito di repliche non perché sia vietato ma perché è temporalmente impossibile, e posto che nella discussione in camera di consiglio viceversa le repliche orali sono normalmente il contenuto della trattazione, nelle note sarà possibile per il ricorrente replicare all’atto di costituzione delle controparti e per le controparti puntualizzare quanto già dedotto nella comparsa o quanto ulteriormente ritengono di introdurre in sede di discussione orale (in vista della camera di consiglio infatti non vi è nessuna previsione dalla quale possa emergere che non è possibile sollevare questioni nuove).
In entrambi i casi ovviamente si deve trattare di atti sintetici (anche se non possono essere riprese le indicazioni che taluno[4] ha formulato per il processo civile di limitazione ad una pagina proprio perché la natura e il contenuto delle note sono diversi nei due processi).
Meno agevole è la soluzione con riferimento al rapporto fra le note che possono essere depositate due giorni prima a’ sensi dell’art. 84 quinto comma del d.l. n. 18 del 2020 e le note che possono essere presentate sino alle ore 9 del giorno dell’udienza o della camera di consiglio a’ sensi dell’art. 4 del d.l. n. 28 del 2020 (ora alle ore 12 del giorno antecedente l’udienza). Le prime note sono previste nel caso in cui nessuno abbia chiesto l’udienza di discussione; con riferimento all’udienza di merito, e cioè all’udienza in senso proprio, la regola potrebbe accettarsi, poiché in quel caso la richiesta della discussione può essere formulata fino alla scadenza del termine per il deposito delle repliche cosicché dopo quella data tendenzialmente la discussione non può essere richiesta.
La regola si comprende molto meno per quanto concerne invece la fase cautelare, perché, in questo caso, il termine per la richiesta della trattazione orale, cinque giorni prima della camera di consiglio, viene a scadere antecedentemente alla scadenza del termine per la costituzione in giudizio delle controparti del ricorrente. Ne consegue che se si volesse applicare rigidamente la regola in forza della quale le note scritte possono essere depositate due giorni prima e le note d’udienza possono essere depositate il giorno stesso (o il giorno prima) soltanto nel caso in cui sia stata richiesta e disposta la discussione orale, il risultato sarebbe che inevitabilmente la parte più scrupolosa sarebbe indotta a richiedere comunque la discussione in sede cautelare per potere valutare, una volta depositato l’atto di costituzione delle controparti, se replicare o meno con le note scritte[5].
La richiesta della trattazione orale in camera di consiglio sarebbe perciò null’altro se non uno strumento per ottenere di potere depositare note scritte. Questo costituirebbe un evidente appesantimento privo di significato. Se ne deve dedurre, perciò, che per quanto concerne la tutela cautelare le note scritte sino alle ore 9 o alle ore 12 del giorno prima del giorno della trattazione devono essere comunque consentite[6]. Questa soluzione è quella che dal punto di vista della economicità è più praticabile.
Un’altra questione è stata sollevata questa volta con riferimento all’udienza e cioè se le note scritte d’udienza siano depositabili anche da chi non si sia costituito in giudizio e in ipotesi voglia partecipare alla discussione orale e non l’abbia richiesta entro i termini.
Chi non si è costituito tempestivamente in giudizio e non ha rispettato i termini dell’attività defensionale in vista dell’udienza non è abilitato a depositare nessuna trattazione scritta; questo soggetto potrebbe soltanto discutere oralmente ma, evidentemente, nella discussione orale si discute se possa sollevare eccezioni, proprio perché per le eccezioni è riservata la trattazione scritta (tanto che vi è stato chi ha ipotizzato in questo caso la necessità di un rinvio dell’udienza). Se le brevi note depositate due giorni prima sono la sostituzione della discussione, non può però rifiutarsi a colui che si costituisca tardivamente la possibilità di questo deposito e se le note d’udienza sono ugualmente sostitutive della discussione, non può nemmeno negarsi la possibilità di deposito delle note d’udienza. In fin dei conti, così facendo, il soggetto che si costituisce tardivamente non farebbe altro che utilizzare la facoltà defensionale che è consentita in generale dell’ordinamento e la sua controparte si trova soltanto esposta alla possibilità di una discussione orale della controparte non preceduta da trattazione scritta, cosa che di norma può verificarsi[7].
A questo punto però non essendovi la possibilità di replica scritta, è gioco forza che la trattazione debba essere differita[8], vuoi che si tratti di un’udienza vuoi che tratti di una camera di consiglio per consentire la replica del ricorrente e delle altre parti contrapposte. Il rinvio potrà essere anche breve, poiché l’unico termine da rispettare è appunto i due giorni prima dell’udienza di merito o il giorno prima per l’udienza cautelare. Nient’altro è previsto trattandosi di quanto potrebbe verificarsi in una pubblica udienza. Non può essere disposto un rinvio ad horas, perché nel caso in cui la discussione non sia richiesta il soggetto coinvolto nell’udienza non può collegarsi telematicamente né sarebbe tenuto a farlo. Poiché ora il termine è quello delle ore 12 del giorno antecedente, la necessità di rinvio è ridotta.
È più che evidente che una situazione di questo genere, assai complessa, giustifica l’atteggiamento più rigido e restrittivo assunto dal Presidente del Consiglio di Stato, che però non può risolvere i casi limite che si sono prospettati; la soluzione del problema sta in un comportamento responsabile e collaborativo di tutti i soggetti del processo, che limiti al massimo queste situazioni critiche, comportamento che peraltro è ragionevole aspettarsi si generalizzi, posto che ha avuto successo il protocollo d’intesa sottoscritto dal Consiglio di Stato, dall’Avvocatura Generale dello Stato, dal Consiglio Nazionale Forense, dall’Ordine degli Avvocati di Roma e dalle Associazioni degli Avvocati Amministrativisti: nelle udienze e camere di consiglio che si sono tenute nel mese di giugno avanti il Consiglio di Stato, come emerge da una lettura dei decreti dei singoli presidenti di sezione pubblicati sul sito ufficiale, la discussione è stata richiesta per un numero molto ridotto di controversie.
Ne discende che la gestione coordinata e consensualmente partecipata del processo è indispensabile: ma il processo è proprio il luogo nel quale i difensori delle parti e il giudice, tutti legati tra di loro dall’esigenza di rispettare il contraddittorio, cooperano, pur da posizioni differenti, affinché sia fatta giustizia[9].
L’osservazione ora svolta può rendere meno ardua e impegnativa la valutazione della normazione anti-covid: si è trattato di una normazione molto frequente, spesso contraddittoria, che ha dato luogo a un regime particolare per il processo amministrativo, che ha indotto a ricordare come molto spesso l’opzione zero, cioè la non introduzione di elementi di modificazione, possa essere il miglior antidoto rispetto alle emergenze[10] e ad evidenziare una differenza rispetto a quanto si è verificato per il processo civile.
In realtà, come emerge dalla rassegna cronologica degli interventi che taluno ha effettuato[11], per quanto concerne il processo amministrativo il legislatore ha tentato di inseguire l’evoluzione del contagio e quindi la percezione della sempre crescente gravità della epidemia, fino al momento in cui la medesima è parsa in qualche misura ridurre la sua pervasività. È stato perciò un inseguirsi della normativa dovuto proprio alla esigenza di essere tempestivi rispetto all’evoluzione della pandemia. D’altro canto, nel processo amministrativo la trattazione è sempre davanti a un giudice collegiale, e l’udienza di discussione o la camera di consiglio di discussione hanno un ruolo particolare, cosicché non vi era la possibilità di interventi marginali quali quelli introdotti per il processo civile, nel quale la trattazione avviene normalmente davanti a un giudice monocratico e i momenti di effettiva discussione sono rari.
Ciò non toglie che la normativa in più occasioni, e forse sempre, sia risultata oscura e perciò di incerta interpretazione, con conseguenze particolarmente pericolose per le parti e per i loro difensori laddove sono stati introdotti o già vi erano termini perentori[12]. L’antidoto a questa situazione è la non enfatizzazione della perentorietà dei termini oltre ragione ove le esigenze siano altrimenti soddisfatte (il termine dei cinque giorni per la richiesta della fissazione d’udienza, per esempio, non è un termine perentorio, perché è connesso soltanto a esigenze organizzative e può perciò essere superato), nella interpretazione ragionevole delle fattispecie che eviti di introdurre eccezioni a regole generali (quale quella della sospensione dei termini per tutti i ricorsi, indipendentemente dal contenuto della domanda proposta)[13] o decadenze non espressamente comminate e infine nel prudente esercizio del potere di riconoscere l’errore scusabile, e la conseguente rimessione in termini, anche oltre rispetto ai casi letteralmente stabili dalla normativa anti-covid.
D’altro canto, in questa situazione, i presupposti per la concessione dell’errore scusabile vi sono tutti[14]: la successione di norme diverse in un arco brevissimo di tempo, l’inesistenza di una disciplina consolidata, una situazione di urgenza e di difficoltà in precedenza mai verificatasi. Non è il caso di aggiungere alla pandemia e al turbamento che tutto questo ha arrecato nell’attività dei giudizi, dei giudici e degli avvocati anche delle preclusioni e delle decadenze inaspettate ed imprevedibili.
2. L’incremento della trattazione scritta nel codice del processo amministrativo. – La tendenza all’incremento della trattazione scritta era già presente nel codice del processo amministrativo, ove era configurata come un arricchimento della possibilità di contraddittorio tra le parti.
Il codice infatti ha introdotto, dopo la memoria, la possibilità di depositare repliche, così ovviando ad un contraddittorio claudicante, conseguente alla non perentorietà del termine per la costituzione in giudizio delle controparti del ricorrente, ed ha previsto l’obbligo per il collegio, che si avveda dell’esistenza di una questione rilevabile d’ufficio non discussa tra le parti e che potrebbe risolvere il giudizio dopo la conclusione dell’udienza, di assegnare un termine alle parti per una trattazione scritta sulla medesima.
Il processo amministrativo, con questi innovazioni, è diventato sicuramente più strutturato e la possibilità di discutere argomenti sempre più complessi in fatto e in diritto certamente è cresciuta.
In questo senso militano le riforme introdotte nel codice e in norme esterne ma connesse relative al contenuto del ricorso: dalla previsione che stabilisce che i motivi di ricorso debbano essere indicati distintamente, contenuta nel codice, alla previsione relativa alle dimensioni degli atti del ricorso e difensivi delle parti. Queste due innovazioni, lette in modo corretto, giovano alla formulazione degli atti e perciò al contraddittorio, perché un ricorso redatto in modo strutturalmente adeguato consente alla controparte e al giudice di comprenderlo esattamente e un ricorso contenuto in termini ragionevoli ugualmente consente alla controparte e al giudice di valutarlo nella sua interezza (del resto, proprio con riferimento alle dimensioni del ricorso l’Adunanza plenaria ha interpretato la normativa relativa nel senso che il rispetto delle dimensioni del ricorso comporta l’obbligo del giudice di esaminare tutte le censure contenute nello spazio dimensionale assegnato senza possibilità di assorbimento)[15].
La stessa formalizzazione della graduazione dei motivi di ricorso, richiesta dall’Adunanza plenaria[16], va nello stesso senso, nel senso cioè di rendere più rilevante la trattazione scritta anche per profili che nell’impostazione originaria del processo amministrativo non erano valorizzati.
Rimane non risolto il problema della rilevanza del termine per la costituzione in giudizio, che l’Adunanza plenaria[17] ha qualificato come non perentorio: in realtà, il termine dovrebbe essere qualificato come perentorio e dovrebbe anche essere riferito ad una trattazione contenutisticamente precisa, come è richiesto ormai nel processo civile, e non solo nel processo del lavoro. Così facendo, tutto lo sviluppo successivo del processo e il contraddittorio sarebbero valorizzati. Una scelta di questo genere comporta l’adeguamento dell’amministrazione alla tempistica della giustizia, ma l’amministrazione deve essere in grado di procedere celermente così come non solo l’ordinamento ma le esigenze della comunità nazionale richiedono.
3. La trattazione scritta e l’oralità. – Il problema che si pone è se l’ampliamento della trattazione scritta comporti una modificazione del processo amministrativo dal punto di vista dell’oralità.
Vi è una certa incertezza su quale sia la connotazione tipica del processo amministrativo.
Vi sono autori che sottolineano come il processo amministrativo sia un processo scritto: in questi termini V. CAIANIELLO[18], che afferma espressamente che il processo amministrativo è dominato dal principio della scrittura e che l’udienza pubblica può risolversi anche soltanto nella formalità della chiamata della causa[19].
Diversa è la posizione di Mario NIGRO, che ritiene che nel processo amministrativo viga il principio dell’oralità ma “in senso attenuato”, poiché l’udienza di discussione orale è centrale ma ha luogo dopo lo scambio di difese scritte tra le parti[20].
Anche altri autori estremamente importanti valorizzano il ruolo dell’udienza sia pure senza prendere posizione sulla qualificazione del processo amministrativo come un processo ispirato al principio di generalità o no. Così, A. M. SANDULLI[21] dedica un’ampia trattazione alla udienza di discussione, all’interno del paragrafo intitolato “La discussione orale”, nel quale esamina analiticamente l’andamento dell’udienza peraltro, come suo uso, senza esprimere giudizi; nello stesso senso, F. G. SCOCA[22] tratta ampiamente dell’udienza che, afferma, “consiste in un’attività di relazione tipica del giudice … che si concreta nell’incontrare in luogo e tempo predeterminato, le parti processuali”.
Non manca, però, chi alla discussione in udienza non dedica cenno alcuno, pur trattando degli articoli del codice del processo amministrativo che la regolano[23].
In realtà fra i vari autori richiamati non vi è contrasto, poiché da tutti emerge che nei fatti il ruolo dell’udienza esiste perché l’udienza è celebrata ma che nella medesima la trattazione è di norma estremamente sintetica[24]; in questo senso si è pronunciato ora il Presidente del Consiglio di Stato, che ha affermato che “il processo amministrativo è storicamente un processo scritto, basato su prove scritte e precostituite, come dimostra anche la ridotta percentuale delle cause in cui viene chiesta dalle parti la discussione orale”[25]. La tendenza sarà accentuata posto che l’art. 4 del d.l. n. 28 del 2020 prevede che le parti in alternativa alla discussione, possano depositare una “richiesta di passaggio in decisione” e che il difensore che depositi questa istanza è considerato presente a tutti gli effetti in udienza o in camera di consiglio. L’utilizzazione di questa modalità, per non sovraccaricare le udienze da remoto, è consigliata nel Protocollo d’intesa sottoscritto il 25 maggio 2020 tra il Presidente del Consiglio di Stato, l’Avvocatura dello Stato, il Consiglio Nazionale Forense e la Associazione Avvocati Amministrativisti.
Si tratta invero di una situazione assai risalente, posto che già E. GUCCIARDI[26], indicava che all’udienza il relatore espone i motivi “senza aggiungere alcun apprezzamento o giudizio proprio” e che “di regola per ciascuna parte può parlare brevemente un solo avvocato e non vi è possibilità di replica”.
Questo autore, peraltro, anticipando quanto verrà poi stabilito nella disciplina anti-covid richiamata all’inizio, dava per consolidata la possibilità di replica per iscritto, mediante brevi note di udienza, alle deduzioni avversarie presentate o nella memoria depositata alla scadenza del termine assegnato oppure per la prima volta nella discussione orale.
Può dirsi, a questo punto, che l’abitudine che si è diffusa nel processo amministrativo negli ultimi decenni è frutto della innovazione conseguente alla istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali, che hanno portato nel giudizio amministrativo non solo un numero ben più elevato di avvocati, ma anche professionisti con diverse abitudini all’udienza e magistrati che, forse per la maggior vicinanza territoriale rispetto alle parti e perciò maggiormente sensibili alla dimensione anche sociale dei conflitti, sono risultati più disponibili ad una trattazione allargata.
Questo tipo di atteggiamento, che ha connotato i primi trent’anni di esperienza dei T.A.R., è ormai alle spalle, poiché anche in questi Tribunali, come in Consiglio di Stato, l’esigenza di contenere in tempi ragionevoli la celebrazione dell’udienza a fronte di un contenzioso certamente cresciuto rispetto ai tempi di GUCCIARDI ha condotto ad un contingentamento della discussione.
Non può negarsi che questo contingentamento è anche una conseguenza della sempre più ampia trattazione scritta svolta nei giudizi, sia nel ricorso che nelle memorie, conseguente alla diffusione delle modalità elettroniche di scrittura e delle banche dati informatiche, che consentono una illustrazione più agevole degli argomenti e un richiamo molto più numeroso dei precedenti, che ha fatto sì che molto più spesso la discussione orale sia in realtà, inevitabilmente, una ripresa di argomenti già illustrati ampiamente per iscritto.
4. I caratteri dell’oralità. – Le considerazioni sopra svolte debbono essere a questo punto saggiate valutando quali sono le caratteristiche dell’oralità nel processo, tenendo conto del fatto che è opinione diffusa anche ora che l’oralità sia una connotazione positiva, che deve essere perciò non solo garantita ma addirittura incrementata (si tratta da questo punto di vista di un tipo di impostazione ormai risalente, dal momento che è stata sostenuta per le prime volte all’inizio del 1900, e che ha costituito addirittura, come è ben noto, l’oggetto della celebre prolusione di Giuseppe CHIOVENDA.
Ora, la connotazione dell’oralità[27] ha questi tratti caratteristici: la centralità dell’udienza, il che non significa che gli scritti non vi debbano essere e che sono soprattutto richiesti nella fase iniziale del giudizio, ma che la trattazione davanti al giudice è essenziale; l’immediatezza, e cioè un rapporto diretto tra le parti e il giudice, rapporto di carattere fisico e cioè in presenza; l’identità fisica del giudice durante tutto il giudizio; un rapporto diretto con le prove, da assumere nel processo; la concentrazione in un’unica udienza o in poche udienze ravvicinate di tutta la trattazione della causa e della sua decisione.
Se si considerano queste caratteristiche dell’oralità ne risulta evidente che l’aspetto della discussione orale dell’udienza è soltanto uno degli elementi caratterizzanti e forse nemmeno in sé il più importante, in quanto l’oralità è uno strumento per consentire al giudice di pervenire direttamente alla conoscenza della realtà di fatto e degli argomenti che le parti discutono ed alle parti di poter rappresentare al giudicante nello stesso modo diretto la loro posizione rispetto sia alla questione di fatto che alla questione di diritto.
L’oralità è cioè uno strumento per pervenire ad una decisione giusta, non è un valore in sé; valutando l’insieme dei tratti caratteristici dell’oralità che si sono ricordati, risulta che l’elemento più significativo è il contatto delle parti con il giudice non tanto per la discussione degli argomenti di diritto e cioè delle rispettive tesi, quanto per la rappresentazione della situazione di fatto e cioè per la prova della situazione di fatto che è alla base delle reciproche domande. In effetti la discussione degli argomenti giuridici ben può essere sviluppata per iscritto e la riflessione su questi argomenti ben può essere compiuta dal giudice in disparte dalle parti, nel segreto della camera di consiglio, sulla base della disamina degli scritti dalle parti medesime presentati. Ciò che invece è importante che avvenga nell’immediatezza dell’udienza, davanti al giudice persona fisica presente, in un rapporto con le parti, è l’accertamento del fatto, poiché l’accertamento del fatto più difficilmente può essere colto soltanto sulla base degli scritti in quanto vi sono profili che emergono soltanto da un approfondimento che deve essere compiuto di volta in volta, non essendovi elementi predeterminati, nel confronto tra le parti sotto la guida del giudice. Ogni situazione dal punto di vista del fatto è unica e nuova, mentre le questioni giuridiche sono molto spesso ripetitive.
Non per nulla vi sono stati autori[28] che proprio sulla funzione istruttoria dell’oralità hanno molto insistito.
Se l’attività istruttoria è centrale, poi, sono superate quelle preoccupazioni relative alle oralità che già in passato erano state avanzate circa la possibile incidenza sulle sorti del giudizio della capacità oratoria di uno dei legali delle parti: la capacità oratoria può essere massima ma se ciò che conta è l’accertamento del fatto questo può risultare anche sulla base dell’introduzione di elementi da parte di un difensore di pochissime parole e di scarsa incisività dialettica.
5. L’oralità e il processo amministrativo. – Così configurata, secondo la letteratura più autorevole, l’oralità nel processo, può dirsi che il processo amministrativo nell’impostazione originaria, quella antecedente ai Tribunali Amministrativi Regionali, era fondato sull’oralità. In quel processo, nella generalità dei casi, le questioni dibattute concernevano esclusivamente l’interpretazione del provvedimento e il suo raffronto con le regole giuridiche. L’attività istruttoria era sostanzialmente limitata all’acquisizione del provvedimento di modo che l’illustrazione del contenuto del provvedimento in sede di discussione orale era insieme istruzione e trattazione della causa. Se nell’udienza i difensori di fronte al giudice discutono il contenuto del provvedimento, in diritto e in fatto, lo criticano e lo raffrontano con le norme, l’oralità del processo si manifesta appieno perché tutti i profili di fatto e di diritto possono essere sviscerati.
Nel processo avanti il Consiglio di Stato, questa oralità era ancor più evidente negli anni ’20 del secolo scorso, allorché i motivi aggiunti al ricorso originario potevano essere addirittura dedotti oralmente all’udienza; l’esistenza di un’udienza più articolata, del resto, è dimostrata anche dal fatto che non vi era una disciplina delle memorie in prossimità dell’udienza, che, come è noto, è stata introdotta prima dai Presidenti di Sezione nel 1946 e poi dal Presidente del Consiglio di Stato con un proprio decreto nel 1953.
Dopodiché, però, sono noti i riferimenti a discussioni anche particolarmente sintetiche e per questo incisive (si ricordano gli interventi dell’Avv. SORRENTINO) e sono noti anche gli atteggiamenti più sbrigativi assunti da taluni presidenti particolarmente rapidi (si ricorda il Presidente A. BARRA CARACCIOLO).
Quando la situazione cambia, perché, non tanto per l’intervento dei Tribunali Amministrativi Regionali, quanto per la modificazione della disciplina legislativa (è sufficiente il richiamo alla disciplina in materia di contratti per la pubblica amministrazione) il rilievo del fatto aumenta ed il provvedimento non è più in grado di costituire l’unico punto di riferimento della contestazione, dal momento che vi è una serie di elementi di fatto accertati o non accertati nel procedimento che nel provvedimento possono non riflettersi, la centralità dell’udienza viene inevitabilmente meno. I difensori delle parti non sono in grado davanti al giudice di discutere nell’udienza sia l’istruzione che la trattazione della causa, perché l’istruzione della causa deve essere effettuata altrimenti, con l’acquisizione di elementi di fatto e con la loro valutazione dal punto di vista tecnico, che sono qualcosa di diverso dalla considerazione dal punto di vista giuridico.
Il processo amministrativo non è più un processo improntato all’oralità, ma si avvicina al processo in Cassazione nel quale certo che c’è la centralità dell’udienza di discussione (salvo il caso in cui, come ora avviene assai spesso, vi sia soltanto la camera di consiglio) ma la discussione è una discussione su elementi di puro diritto (anche se è noto nell’esperienza comune che vi sono moltissimi avvocati che anche avanti la Corte di Cassazione trattano ampiamente il fatto durante la discussione approfittando del garbo normalmente usato dai presidenti).
Ma l’oralità non è il processo avanti la Suprema Corte di Cassazione, l’oralità è il processo del lavoro avanti il giudice monocratico.
6. La trattazione scritta e la trattazione orale nel processo amministrativo: una ricostruzione aggiornata. – Alla luce di tutto quanto detto le regole sulla trattazione scritta hanno un effetto anche sull’oralità del processo amministrativo e possono essere utili per ricondurla nel suo ambito naturale. La trattazione scritta è la trattazione nella quale le parti sviluppano nel modo più ampio e adeguato possibile gli argomenti che sono in grado di trattare per iscritto e cioè sicuramente tutti gli argomenti giuridici e in parte anche gli argomenti di fatto laddove questi argomenti in fatto non siano contestati oppure laddove questi argomenti di fatto siano in qualche modo comprovati nelle rispettive produzioni, sulle quali perciò anche per iscritto ci si può diffondere al fine di sottolineare gli elementi più significativi. Se l’istruttoria procedimentale è stata effettuata in modo completo e corretto, la trattazione scritta sarà senz’altro sufficiente. Se le parti sono riuscite sia nella loro istruzione primaria, e cioè antecedente alla proposizione del ricorso o alla redazione della comparsa di costituzione in giudizio, a ricostruire esattamente tutta la situazione di fatto, tanto da rappresentarla nei loro atti, la trattazione scritta sarà sufficiente. La trattazione scritta sarà ugualmente sufficiente se nel corso del processo le parti, esercitando ciascuna in modo attento e responsabile le facoltà che sono conferite dalla disciplina processuale, hanno introdotto tutti gli elementi di prova necessari per la decisione.
Se è così, è ragionevole immaginare che la trattazione scritta sia adeguata e sufficiente: le note d’udienza, prima non previste ed ora introdotte con la disciplina anti-covid, sono perciò bastanti per superare una qualunque discussione orale.
Anzi, in questo caso, la trattazione scritta più facilmente può essere ritenuta dal relatore e dai componenti del collegio e quindi considerata nella successiva camera di consiglio dedicata alla decisione della controversia.
Ma se viceversa non è così, se cioè il fatto non è adeguatamente chiarito, se l’attività istruttoria dell’amministrazione non era completa o non sufficientemente imparziale, se gli elementi di prova non erano nella disponibilità del ricorrente e il medesimo non ha potuto perciò introdurli nel giudizio, se le istanze istruttorie non sono state valutate dal giudice amministrativo prima dell’udienza e le prove perciò non sono state disposte ed acquisite, la discussione è indispensabile.
La discussione è indispensabile non per chiarire gli elementi di diritto, è indispensabile per chiarire gli elementi di fatto e se si vuole anche per connotare gli elementi di fatto con riferimento all’ambiente nel quale l’amministrazione opera e il ricorrente si trova. Questi elementi non possono emergere in modo così preciso ed efficace nella trattazione scritta e invece possono essere rappresentati dialetticamente nella discussione orale. Ne discende che la discussione deve dar luogo ad un approfondimento istruttorio che il collegio, se non lo ritrova negli atti, e secondo la tesi sopra esposta negli atti non lo può trovare, deve disporre utilizzando i propri poteri istruttori.
Alla luce di quanto detto la disciplina processuale amministrativa non è adeguata, e non è adeguata innanzitutto perché prevede che l’escussione dei testimoni avvenga soltanto per iscritto che è il contrario dell’oralità, e perché prevede come possibile soltanto in casi non frequenti l’esperimento della consulenza tecnica d’ufficio, che è lo strumento con il quale il giudice acquisisce una realtà di fatto connotata tecnicamente (la consulenza tecnica d’ufficio più utile è la consulenza tecnica percipiente). Per rendere il processo amministrativo effettivamente un processo orale, tenuto conto che l’oralità è un valore riconosciuto, occorre perciò che il codice venga adeguato o venga interpretato in modo adeguato e che il giudice amministrativo disponga l’attività istruttoria che è utile per una decisione approfondita della causa.
A maggior ragione una decisione approfondita è indispensabile tenuto conto dei poteri che il codice attribuisce al giudice amministrativo, che giungono, anche dalla giurisdizione generale di legittimità, alla possibilità di sostituirsi all’amministrazione fin dalla fase del giudizio di cognizione. In una situazione di questo genere provvedere senza avere una piena conoscenza del fatto è un rischio elevatissimo sia per il ricorrente che per l’amministrazione, perché può comportare l’adozione di pronunzie giurisdizionali vincolanti per l’amministrazione che non sono adeguate alla realtà di fatto.
Il rischio che si è paventato può essere scongiurato soltanto in un dibattito tra le parti nel quale le medesime, stimolate eventualmente dal presidente del collegio, possano rappresentare le loro rispettive posizioni e fare emergere perciò quali sono i connotati significativi della realtà di fatto sulla base della quale il giudice deve provvedere.
Il giudice amministrativo deve, perciò, assumere un atteggiamento diverso rispetto all’udienza e all’esercizio dei poteri istruttori; un atteggiamento diverso devono assumerlo anche gli avvocati delle parti, che non possono pensare che l’udienza debba servire per la dimostrazione delle proprie qualità oratorie, o per soddisfare le esigenze dei clienti, pur non presenti (per i quali tutta la vita sia personale che dell’impresa o dell’ente che rappresentano deve essere oralmente illustrata al giudice) e che debbono perciò limitarsi a rappresentare al giudice amministrativo gli aspetti più significativi della controversia. Talvolta può anche verificarsi che si tratti di aspetti di diritto, allorché vi è una situazione nella quale la normativa di cui si discute è nuova oppure vi è un contrasto di giurisprudenza o vi è la volontà di ottenere la revisione di un orientamento che non si ritiene corretto, ma di norma così non succede.
È corretta perciò l’interpretazione fornita dal Consiglio di Stato nelle recenti ordinanze della VI Sezione[29] nelle quali si afferma che nel processo amministrativo l’udienza non ha la centralità indispensabile del processo penale, ma un rilievo tale da non poter essere del tutto eliminata[30].
L’oralità del processo amministrativo è perciò una sfida ancora oggi sia per il giudice che per gli avvocati. Parallelamente, la trattazione scritta, che costituisce il completamento e il contraltare rispetto alla trattazione orale, deve essere ugualmente articolata in modo sintetico e convincente.
7. Principi fondamentali e trattazione scritta. – I principi fondamentali che sono stati in più occasioni richiamati sono quelli del rispetto del contraddittorio che è il cardine di tutto il processo e che, come si è detto, lega le parti tra di loro e le parti e il giudice. Il principio del contraddittorio trova la sua espressione più rilevante nel momento finale del processo che è l’udienza, perché è in quel momento che le parti possono entrambe, se sono due, o tutte se sono più, rappresentare davanti al giudice in posizione di assoluta uguaglianza (la toga che l’avvocato indossa dimostra appunto l’uguaglianza tra le parti e il giudice) le proprie tesi. L’udienza è il momento nel quale gli argomenti che le parti hanno faticosamente illustrato nei loro atti difensivi, a seguito di riflessioni e ricerche, vengono rappresentate nella esposizione più limpida e ciascuno spera convincente. È evidente perciò che un momento di questo genere non può mai venire meno.
Nei rapporti fra le persone umane, il dato della fisicità è inevitabile e irrinunciabile, perché costituisce uno degli aspetti della persona, che non è puro spirito[31]. Proprio durante la pandemia ci si è resi conto del resto che la presenza, il contatto fisico, o anche soltanto la vicinanza sono indispensabili perché le relazioni umane possano svilupparsi al meglio. Il processo si fonda su relazioni umane e perciò l’udienza dev’essere prevista. Il principio fondamentale dell’udienza è un principio irrinunciabile[32].
L’udienza di per sé è un’udienza pubblica, perché il processo è una vicenda sociale, è la vicenda sociale più importante insieme alla consultazione elettorale, e deve potersi svolgere nella conoscibilità di tutti i consociati eccezion fatta per quegli aspetti rispetto ai quali la conoscibilità potrebbe costituire un condizionamento (l’espressione materiale del voto nella consultazione elettorale, la formazione della volontà del giudice nel processo).
Non sarebbe perciò legittimo un processo nel quale la trattazione orale in udienza fosse esclusa: e nel processo amministrativo, anche di appello, non è replicabile il rito attuale del giudizio in Cassazione.
Questo non significa però che sempre e comunque la trattazione orale debba esservi, perché è ben possibile che le parti ritengano la trattazione orale superflua o che l’ordinamento in certi casi a fronte di prevalenti esigenze possa introdurre delle deroghe o delle eccezioni: deroghe ed eccezioni sono ammesse, purché in modo ragionevole e sempre finalizzato al medesimo risultato che è il perseguimento della giustizia. Tra queste deroghe ed eccezioni vi può essere la trattazione soltanto scritta oppure la trattazione a distanza, in udienza telematica.
Del resto con la telematica la conoscibilità dell’attività del giudice è ben più reale di quanto non fosse con la presenza del pubblico all’udienza.
L’esperienza che la pandemia porta è quella della possibilità di definire le controversie con trattazione soltanto scritta con il consenso delle parti e con limitate ipotesi di trattazione telematica[33]. Come si è già detto, dall’esame dei decreti dei Presidenti delle Sezioni del Consiglio di Stato del mese di giugno emerge come nelle varie udienze e camere di consiglio i ricorsi per i quali è stata chiesta e disposta la trattazione scritta siano stati pochi, non oltre il 10% delle cause a ruolo. L’esito dei processi, quanto meno per il rito cautelare per il quale il dato è stato fornito[34], non è stato diverso da quello raggiunto con la discussione orale (la fase cautelare è sempre favorevole per l’amministrazione, posto che in sede cautelare soltanto il 30% delle sospensive chieste viene accordato).
Ne consegue che finita, al più presto, la fase dell’emergenza, qualcosa di quanto ora acquisito potrà essere mantenuto.
Il processo amministrativo come già si è detto in realtà si svolge quasi sempre soltanto sugli scritti e le udienze di discussione sono poche: l’affollarsi degli avvocati per le istanze preliminari, perciò, è assolutamente ingiustificato. Ne consegue che può essere mantenuta l’impostazione in forza della quale l’udienza di discussione orale dev’essere richiesta espressamente (come del resto si verifica per il processo tributario)[35] anche se le modalità di richiesta devono essere modificate quanto meno per la trattazione cautelare, nel senso di ammettere la richiesta fino al giorno antecedente la camera di consiglio.
Se gestito in modo corretto, e cioè in un’ottica di ragionevole collaborazione, il processo amministrativo così potrà essere più snello, meno dispendioso e di conseguenza più efficace al fine di conseguire la giustizia nell’amministrazione.
* * *
L'articolo rielabora e completa con note la relazione presentata alle Giornate di studio sulla giustizia amministrativa, webinar 30 giugno -1 luglio 2020 "L'emergenza Covid 19 e i suoi riflessi sul processo amministrativo. Principi processuali e tecniche di tutela tra passato e futuro".
[1] Così la disciplina è riassunta dal Presidente del Consiglio di Stato, Linee guida sull’applicazione dell’art. 4 del d.l. 28/2020 e sulla discussione da remoto, in data 25 maggio 2020, che ha ammesso, nel caso di deposito il giorno dell’udienza, che il presidente possa posticipare l’orario di trattazione o concedere un breve rinvio; negli stessi termini N. DURANTE, Il procedimento cautelare ai tempi dell’emergenza, in www.giustizia-amministrativa.it, 19 maggio 2020.
[2] F. VOLPE, Riflessioni dopo una prima lettura dell’art. 84, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di processo amministrativo, in www.LexItalia.it, 18 marzo 2020.
[3] F. FRANCARIO, L’emergenza coronavirus e la “cura” per la giustizia amministrativa. Le nuove disposizioni straordinarie per il processo amministrativo, in www.federalismi.it, 23 marzo 2020; G. GRASSO, Sull’opposizione alla discussione e allegazione documentale alternativa nel regime della oralità mediata eventuale, in www.giustizia-amministrativa.it.
[4] R. JONTA e F. CAROLEO, Trattazione scritta. Un’impalcatura, in www.giustiziainsieme.it, 1° aprile 2020, che propongono di contenere le note in una pagina.
[5] F. VOLPE, Ancora sulla disciplina emergenziale del processo amministrativo, in www.LexItalia.it, 1° maggio 2020.
[6] Così anche C. VOLPE, Il superamento del “processo cartolare coatto”. Legislazione della pandemia o pandemia della legislazione?, in www.giustizia-amministrativa.it, 12 luglio 2020.
[7] Così anche M. A. SANDULLI, Un brutto risveglio? L’oralità “condizionata” del processo amministrativo, l’Amministrativista, 1° maggio 2020; C. CACCIAVILLANI, Controcanto sulla disciplina emergenziale del processo amministrativo (con riferimento all’art. 4 del d.l. 30 aprile 2020, n. 28), in www.Giustamm.it, giugno 2020.
[8] Come già ammetteva Cons. Stato, Ad. plen, 25 febbraio 2013, n. 5, cit..
[9] Perciò utile, ma non decisivo, è il bilanciamento affidato al giudice, proposto da N. DURANTE, Il lockdown del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 28 aprile 2020; evidenzia la necessità di regole interne C. VOLPE, Il superamento del “processo cartolare coatto”, cit..
[10] Così M. LIPARI, L’art. 36, comma 3, del decreto legge n. 23/2020: la sospensione parziale dei termini processuali è giustificata? Verso una lettura ragionevole della norma, in www.federalismi.it, 29 aprile 2020.
[11] R. DE NICTOLIS, Il processo amministrativo ai tempi della pandemia, in www.federalismi.it, 15 aprile 2020; C. ZUCCHELLI, Sull’udienza telematica, in www.federalismi.it, 13 maggio 2020; C. VOLPE, Il superamento, cit..
[12] Come sottolinea F. FRANCARIO, Diritto dell’emergenza e giustizia nell’amministrazione. No a false semplificazioni e a false riforme, in www.federalismi.it, 15 aprile 2020.
[13] E perciò anche per i ricorsi cautelari, anche in appello, come evidenzia M. LIPARI, L’art. 36, cit..
[14] Come suggerisce M. LIPARI, L’art. 36, cit.
[15] Cons. Stato, Ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5, in Dir. proc. amm., 2016, p. 205 ss., con nota di L. R. PERFETTI – G. TROPEA, “Heart of darkness”: l’Adunanza plenaria tra ordine di esame e assorbimento dei motivi.
[16] Ancora Cons. Stato, Ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5.
[17] Cons. Stato, Ad. plen., 25 febbraio 2013, n. 5, con nota di G. URBANO, La costituzione tardiva delle parti intimate, in Dir. proc. amm., 2014, p. 185 ss..
[18] V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, Utet, 1994, pag. 413.
[19] Identica è l’opinione espressa nella precedente pubblicazione Lineamenti del processo amministrativo, Torino, Utet, 1976, pag. 241.
[20] M. NIGRO, Giustizia amministrativa, Bologna, Il Mulino, 1983, pag. 333; identica è la posizione nella prima edizione del 1976, pag. 291.
[21] M. A. SANDULLI, Il giudizio avanti al Consiglio di Stato, Napoli, Morano, 1963, pag. 367.
[22] F. G. SCOCA, Gli atti processuali, in Giustizia amministrativa, a cura di F. G. SCOCA, Torino, Giappichelli, 2011, pag. 256 ss.
[23] Così F. CARINGELLA – M. PROTTO, Codice del nuovo processo amministrativo, 2012, Roma, Dike, pag. 759; A. POLICE, La riunione, la discussione, la decisione dei ricorsi, in Il nuovo diritto processuale amministrativo, a cura di G. P. CIRILLO, Milano – Padova, Walter Kluwer – CEDAM, 2014, pag. 531.
[24] Come si è già segnalato commentando l’art. 73 del codice: C.E. GALLO, Udienza di discussione, in Il processo amministrativo, a cura di A. QUARANTA – V. LOPILATO, Giuffrè, Milano, 2011, pag. 581.
[25] F. PATRONI GRIFFI, Direttive del Presidente del Consiglio di Stato – Secondi chiarimenti su alcuni profili relativi all’attività giurisdizionale nel periodo di emergenza covid – 19, 20 marzo 2020, prot. 7400.
[26] E. GUICCIARDI, La giustizia amministrativa, Padova, 1942, pag. 200.
[27] Volendo fare riferimento alla trattazione riassuntiva ma molto elaborata di C. VOCINO, Oralità nel processo (dir. proc. civ.), Enc. dir., vol. XXX, Milano, Giuffrè, 1980, pag. 592 ss..
[28] Il più rilevante è M. CAPPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, Milano, Giuffrè, 1962, p. 189 ss..
[29] Cons. Stato, Sez. VI, 21 aprile 2020, n. 2358 e 2359.
[30] Pronunzie apprezzate da C. ZUCCHELLI, Sull’udienza telematica, cit., e da S. TARULLO, Contraddittorio orale e bilanciamento presidenziale. Prime osservazioni sull’art. 4 del D.L. n. 28 del 2020, in www.federalismi.it, 13 maggio 2020.
[31] Come sottolinea C. ZUCCHELLI, Sull’udienza telematica, cit..
[32] F. SAITTA, Da Palazzo Spada un ragionevole no al “contraddittorio cartolare coatto” in sede cautelare, in www.federalismi.it, 5 maggio 2020.
[33] Ritengono utile il processo telematico per il risparmio di tempo che consente F. SAITTA e S. TARULLO, negli scritti già citati.
[34] Da R. DE NICTOLIS, Il processo amministrativo ai tempi della pandemia, cit., 15 aprile 2020.
[35] Così anche M. A. SANDULLI, Un brutto risveglio? cit..
Ripensando allo Statuto, come modello di una Carta dei diritti che tuteli i nuovi lavori
intervista di Marcello Basilico a Vincenzo Di Cerbo
Il cinquantenario dello Statuto dei lavoratori è l’occasione per un bilancio non solo d’una stagione ormai superata, ma anche d’un modo di legiferare che oggi viene facile rimpiangere. In realtà nelle scelte di allora si annidano non solo luci, ma anche alcune ombre, che hanno inciso sul mondo del lavoro e delle relazioni industriali. D’altra parte del superamento di alcuni capisaldi dello Statuto, come quello dell’art. 18, non può darsi una lettura solo negativa, soprattutto se le nuove norme vengano calate opportunamente nel quadro costituzionale. Rimane un modello, quello d’una Carta dei diritti, di cui oggi si avverte una esigenza rinnovata, per assicurare le stesse garanzie di sicurezza e dignità ai lavoro svolti nel contesto tecnologico moderno.
Lo Statuto compie 50 anni. La prima domanda è scontata, ma inevitabile: ha ancora una sua attualità?
Si dice abitualmente che lo Statuto fu modellato a immagine del lavoratore della grande impresa. Non è un giudizio un po’ sbilanciato in un’ottica di centralità dell’art. 18, norma fondamentale, ma certamente inserita in un contesto assai più ampio?
La rigidità imputata allo Statuto è figlia anche del ricorso a norme imperative, vincolanti per la contrattazione individuale e collettiva. È tramontata l’epoca della norma imperativa a protezione della parte debole nel contratto di lavoro?
E. Di Cerbo: Preferisco rispondere unitariamente alle prime tre domande, in quanto presuppongono un ragionamento unitario.
Si tratta di domande sicuramente attualissime e la risposta ad esse impone al giurista del lavoro, oggi più che mai, a 50 anni dall’entrata in vigore dello Statuto, una riflessione ad ampio raggio che tenga conto, in particolare, della complessità e varietà dei principi affermati dallo Statuto e delle disposizioni normative dallo stesso previste. Se è vero, infatti, che i suddetti principi costituiscono generalmente irrinunciabili momenti di progresso nella civiltà giuridica del rapporto di lavoro, è anche vero che alcune disposizioni dello Statuto appaiono fortemente datate, e quindi oggi del tutto inadeguate, in quanto concepite in un particolare momento storico, caratterizzato da un assetto dell’apparato industriale, da modelli di organizzazione aziendale e da livelli tecnologici non più attuali.
È opinione comune, da me profondamente condivisa, che lo Statuto dei lavoratori abbia segnato una tappa fondamentale nella storia del diritto del lavoro italiano che, grazie ad esso, si è rinnovato profondamente ed è diventato più moderno e vicino ai modelli europei.
Tale importante risultato è stato raggiunto dal legislatore dello Statuto attraverso la promozione di un nuovo equilibrio tra le contrapposte posizioni delle parti del rapporto di lavoro, equilibrio, da un lato, basato sulla previsione di un articolato apparato normativo a tutela della “persona” del lavoratore, il che ha determinato, come conseguenza immediata, una apprezzabile limitazione dei tradizionali poteri autoritativi dell’imprenditore; dall’altro fondato sull’introduzione di norme finalizzate alla tutela e alla promozione dell’attività sindacale.
Mi pare utile sottolineare che l’evoluzione complessiva dell’equilibrio nel rapporto di lavoro introdotta dallo Statuto e la conseguente maggiore consapevolezza, da parte del prestatore di lavoro, dei suoi diritti e della sua dignità, ha riguardato tutto il mondo del lavoro subordinato, a prescindere dalla tipologia e dalle dimensioni del datore di lavoro; e ciò a dispetto del fatto che la finalità originaria del legislatore dello Statuto è stata dichiaratamente quella di riformare i rapporti di lavoro nella grande fabbrica. Finalità che si evince chiaramente dalla previsione di requisiti dimensionali (sussistenza di un numero minimo di dipendenti nell’ambito della stessa unità produttiva) quale presupposto per determinare l’ambito di applicazione della disciplina vincolistica in tema di licenziamento, come pure dell’azione sindacale organizzata all’interno dell’azienda.
All’interno dello Statuto coesistono due distinti plessi normativi: il primo è costituito da norme con finalità garantistica, destinate ad incidere sul rapporto individuale di lavoro; il secondo comprende norme di sostegno all’attività sindacale; plessi normativi che si pongono in funzione complementare l’uno con l’altro, essendo evidente che il rafforzamento del ruolo del sindacato all’interno dell'impresa contribuisce all’effettività dell’esercizio dei diritti individuali del prestatore di lavoro.
Ciò premesso, è possibile iniziare ad articolare una risposta alla domanda sulla attualità dello Statuto.
Con riferimento al rapporto individuale di lavoro, nell’ambito del quale la realizzazione del nuovo equilibrio fra i contrapposti interessi delle parti del rapporto, al quale ho in precedenza accennato, è stata ottenuta attraverso la previsione di norme vincolistiche ed inderogabili a favore del lavoratore subordinato, la mia risposta è sicuramente affermativa.
Considero cioè pienamente attuali quelle norme dello Statuto che assoggettano la libertà dell'iniziativa economica e le sue forme di esercizio al vincolo della compatibilità con i valori costituzionali della sicurezza, libertà e dignità umana.
Mi limiterò a citare le norme che mi sembrano più significative.
Penso in primo luogo all’art.1 che riconosce in favore dei lavoratori il diritto di manifestare liberamente, nei luoghi di lavoro, il proprio pensiero senza distinzioni di opinioni politiche, sindacali o di fede religiosa. Penso all’art. 8, logicamente connesso all’art. 1, che prevede il divieto di indagini sulle opinioni del lavoratore, divieto che riguarda non solo le indagini sulle opinioni politiche, religiose o sindacali, ma anche quelle su fatti non rilevanti al fine della valutazione della sua attitudine professionale. In sostanza con tale norma viene esplicitamente attribuito al prestatore di lavoro, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, il diritto alla riservatezza, qualificato come diritto fondamentale dalla Corte costituzionale con sentenza n. 38 dell’aprile 1973 e quindi pochissimi anni dopo l’entrata in vigore dello Statuto.
Altra materia che è stata regolata in maniera fortemente innovativa dallo Statuto dei lavoratori e che mantiene intatta, a mio avviso, la sua attualità è quella dei controlli concernenti malattie e infortuni del prestatore di lavoro (art. 5). La norma infatti limita il potere di controllo del datore di lavoro nei confronti del lavoratore assente per infermità o infortunio, controllo che in precedenza veniva effettuato dai medici di fabbrica, ed affida il relativo accertamento esclusivamente a soggetti pubblici a ciò specificamente deputati. Rimane infatti assolutamente valida ed attuale la ratio della norma, finalizzata a garantire l'imparzialità del controllo sullo stato di salute del prestatore di lavoro, attraverso l’affidamento dell’esclusiva di tale controllo a strutture del tutto autonome dal datore di lavoro, in posizione di terzietà rispetto ai contrapposti interessi delle parti del rapporto di lavoro e pertanto idonee a garantire correttezza ed imparzialità del loro operato. Soluzione questa che è stata oggetto di specifiche prescrizioni da parte dell'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) e che è stata pienamente acquisita alla moderna cultura giuslavoristica.
Su un piano nettamente distinto ma parallelo va posto l’art. 9 che, per la finalità perseguita (tutela della salute e dell’integrità fisica del lavoratore in azienda), conserva in pieno la sua attualità. La norma, che affida al potere contrattuale delle parti collettive il grado di effettività della tutela, richiederebbe tuttavia di essere ulteriormente perfezionata e integrata, atteso che i risultati fin qui ottenuti in tema di sicurezza sul posto di lavoro non possono considerarsi soddisfacenti. Basta verificare in proposito i dati, del tutto insoddisfacenti e sicuramente molto preoccupanti, relativi all’evoluzione statistica degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali.
L’art. 4 dello Statuto, in tema di controlli audiovisivi, costituisce un tipico esempio di norma sicuramente attuale, quanto alle finalità perseguite, ma altrettanto sicuramente obsoleta ed inadeguata rispetto allo sviluppo tecnologico e all’evoluzione dei modelli organizzativi aziendali. Come è noto la norma è finalizzata a proteggere il lavoratore da controlli invasivi da parte del datore di lavoro senza essere tuttavia di ostacolo allo svolgimento dell'attività aziendale; è peraltro del tutto evidente la necessità di adattare la disciplina ivi prevista, concepita in un’epoca nella quale perfino le fotocopiatrici avevano scarsa diffusione, ad una organizzazione aziendale ormai governata prevalentemente da tecnologie informatiche che implicano la immediata disponibilità dei dati concernenti la quantità e spesso la qualità del lavoro svolto dal singolo prestatore. Dati che potrebbero essere utilizzati in modo invasivo nei confronti del singolo lavoratore. La norma è stata già sostanzialmente riformulata dall’art. 23, comma 1, d.lgs. 14 settembre 2015 n. 151, emesso sulla base della legge delega 10 dicembre 2014 n. 183 (sul c.d. jobs act) ma, a mio avviso, nonostante la nuova formulazione, rimane ancora sostanzialmente irrisolto il problema di coniugare, nell’attuale contesto dell’evoluzione tecnologica, le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore. Il tema dei controlli del lavoratore in azienda si pone, del resto, in termini analoghi a quello della tutela della privacy del singolo nella società informatizzata, che costituisce sicuramente uno dei più delicati problemi giuridici della nostra epoca.
Una norma dello Statuto fortemente innovativa e che, quanto meno nelle sue regole fondamentali, deve considerarsi pienamente attuale è quella dell’art. 7 che disciplina l’esercizio, da parte del datore di lavoro, del potere disciplinare sottoponendolo al rispetto di passaggi procedurali finalizzati a garantire la posizione contrattuale del lavoratore.
A conclusioni diverse quanto all’attualità deve pervenirsi con riferimento alla disciplina delle mansioni (art. 13 che aveva introdotto una nuova formulazione dell’art. 2103 cod. civ.). Con tale norma il legislatore aveva posto limiti precisi all’esercizio dello ius variandi che, come è noto, costituisce uno dei poteri tipici del datore di lavoro. Lo ius variandi poteva essere esercitato solo nell’ambito delle mansioni professionalmente equivalenti, con diritto alla promozione definitiva in caso di assegnazione a mansioni superiori protrattasi oltre un determinato periodo e con previsione della nullità dei patti modificativi in peius delle mansioni. Si trattava di norma caratterizzata da un notevole grado di rigidità, e che ha costretto la giurisprudenza a sforzi interpretativi certamente non facili per mitigare almeno in parte gli effetti di tale rigidità. Basti pensare a quella giurisprudenza di legittimità che, con riferimento alla disposizione che sancisce la nullità dei patti modificativi in peius delle mansioni, ha stabilito che tale nullità non opera nelle ipotesi in cui il patto di demansionamento sia finalizzato a scongiurare un licenziamento, nel caso in cui il lavoratore, a causa di una sopravvenuta inabilità, non sia più abile a svolgere le mansioni in precedenza svolte. Nel corso degli anni sono progressivamente aumentate le difficoltà applicative della norma in relazione all’evoluzione dell’organizzazione del lavoro in azienda, difficoltà determinate, da un lato, dall’evoluzione tecnologica e, dall’altro, dall’esigenza di far fronte alle sempre più impegnative sfide della concorrenza imposte dalla globalizzazione. Nel 2015 la norma suddetta è stata (opportunamente) modificata in modo significativo (d.lgs. n. 81 del 2015) e resa così più coerente con i nuovi assetti organizzativi aziendali. In particolare, è stata resa più elastica la disciplina dello ius variandi consentendone l’esercizio non già nei ristretti limiti delle mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, bensì nell’ambito delle mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento. Sono state inoltre previste ipotesi di legittima assegnazione del lavoratore a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore.
Anche le disposizioni poste a tutela della libertà sindacale mantengono la loro piena attualità atteso che il diritto di associazione e di attività sindacale e il divieto di atti discriminatori, appartengono alla tradizione consolidata del diritto del lavoro italiano ed europeo.
In particolare, l’art. 14, nel riconoscere, da un lato, il diritto dei lavoratori di costituire associazioni sindacali e di aderirvi e, dall’altro, quello di svolgere attività sindacale, ribadisce una garanzia di rango costituzionale (art. 39, primo comma, Cost.) fatta propria anche dall’art. 12 della Carta europea dei diritti fondamentali, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000. Costituiscono irrinunciabili applicazioni della norma suddetta gli artt. 15 e 16 che pongono il divieto di atti e trattamenti discriminatori. In particolare, l’art. 15, che costituisce la prima e più ampia affermazione del principio di non discriminazione nel rapporto di lavoro, ha mostrato nel corso degli anni una forte capacità espansiva. Ed infatti nella sua originaria formulazione della norma il divieto di discriminazione era riferito ai motivi sindacali, ai quali erano assimilati i motivi religiosi e politici. Successivamente la norma si arricchita con l’aggiunta dei divieti di discriminazione per ragioni di sesso, razza e lingua (art. 13 legge n. 903 del 1977). Da ultimo l’art. 4, comma 1, d.lgs. n. 216 del 2003, di attuazione della direttiva 2000/78/CE, ha ulteriormente aggiunto, sempre nel secondo comma della disposizione, le ipotesi di discriminazione per handicap, età, orientamento sessuale e convinzioni personali.
Per quanto riguarda le altre disposizioni in materia sindacale e cioè quelle di cui al titolo III dello Statuto, finalizzate alla promozione dell'attività sindacale nell'impresa in modo da consentire una maggiore effettività dell’azione sindacale all’interno dell’organizzazione produttiva, vorrei focalizzare l’attenzione sull’evoluzione dell’art. 19 che prevede la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, individuate come i soggetti destinatari della disciplina incentivante. L’evoluzione della norma, con riferimento ai criteri di individuazione dei soggetti sindacali abilitati a fruire del trattamento privilegiato appare significativa di una sostanziale sopravvenuta inadeguatezza di tali criteri rispetto all’evolversi dei rapporti sindacali e della necessità dell’intervento del legislatore in questa delicatissima matetria.
Nella sua formulazione originaria la norma faceva riferimento alle associazioni sindacali dotate di un collegamento con sindacati esterni e, in particolare, con le “confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale”. In esito a referendum in data del 13 giugno 1995, scompare il sindacato maggiormente rappresentativo e la nuova formulazione dell’art. 19 attribuisce il potere di costituire rappresentanze aziendali alle sole associazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva di qualunque livello essi siano, dunque anche di livello aziendale. La Corte costituzionale con sentenza n. 231 del 2013, modificando il proprio precedente orientamento, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda. In sostanza, sul presupposto che il criterio della sottoscrizione del contratto collettivo, risultante dall’esito della consultazione referendaria, sia inidoneo rispetto alla sua primigenia funzione di selezionare i soggetti sindacali in ragione della loro rappresentatività, la pronuncia (additiva) della Corte ha introdotto il criterio della verifica della partecipazione del sindacato alle trattative.
Più in generale, per rispondere alla domanda sull’attualità dello Statuto con riferimento alle norme in tema di garanzia e sostegno dell’attività sindacale, osservo che, sotto un primo profilo, il principale merito di tali norme è stato quello di aver favorito in modo significativo la crescita della sindacalizzazione e delle rappresentanze sindacali specie nelle aziende medio-grandi, il riconoscimento del sindacato quale attore delle relazioni industriali, nonché lo sviluppo della contrattazione collettiva come strumento principale di governo di rapporti collettivi, tutti elementi appunto caratteristici degli ordinamenti sindacali dei paesi occidentali. In tale ottica ritengo che lo Statuto conservi intera la sua attualità a condizione che il sindacato sappia utilizzare al meglio, come ha fatto talvolta in passato, degli spazi di libertà e dei diritti riconosciuti all’attività sindacale.
Ritengo tuttavia doveroso rilevare che il legislatore dello Statuto ha evitato di prevedere ogni possibile forma di partecipazione del sindacato nell’impresa e questo ha condizionato e condiziona (negativamente, a mio avviso) l’assetto delle relazioni industriali nel nostro Paese, esasperandone, particolarmente in alcuni passaggi, la conflittualità. La mancata promozione della partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori alla gestione dell'impresa costituisce, a mio avviso un difetto di fondo nell’impostazione complessiva dello Statuto. Ciò ha determinato che la contrattazione collettiva ha avuto carattere essenzialmente rivendicativo e non si è interessata, almeno tendenzialmente, a verificare le compatibilità aziendali ovvero l’esistenza di eventuali obiettivi comuni fra le parti, quali ad esempio il miglioramento delle performance qualitativo/quantitative della produzione. Un modello di rapporti, quello promosso dallo Statuto, che si rivela sempre più inadeguato rispetto alle trasformazioni in atto nel tessuto economico sociale e nella composizione socioculturale del lavoro dipendente come del resto emerge chiaramente dal confronto con i risultati ottenuti attraverso formule partecipative sperimentate con successo in alcuni Paesi europei (mi riferisco, in particolare all’esperienza della Mitbestimmung in Germania).
L’art. 18 dello Statuto è stato sostituito adeguatamente? In un quadro di politiche attive obiettivamente inadeguate è mancato forse il compimento d’un disegno legislativo coerente.
Di Cerbo: Storicamente la disciplina delle conseguenze del licenziamento illegittimo prevista dall’art. 18 nella sua originaria formulazione è stata considerata la novità più rilevante e politicamente significativa dello Statuto dei lavoratori. Come è noto la norma ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento la stabilità reale del rapporto stesso in luogo della stabilità c.d. obbligatoria prevista dalla l. n. 604 del 1966; e quindi una stabilità effettiva che sostituisce il precedente regime risarcitorio. Stabilità reale che di fatto risulta peraltro limitata dalla pacifica (secondo consolidata giurisprudenza) incoercibilità dell’obbligo di reintegrazione.
La disciplina dell’art. 18 è stata completamente riformulata con la legge n. 92 del 2012 (c.d. legge Fornero) che ha fortemente limitato l’ambito di applicazione della tutela reintegratoria. In sostanza con la nuova disciplina si è passati da un unico regime di tutela reintegratoria a quattro regimi di tutela differenziata, dei quali due prevedono la tutela reale e due la tutela indennitaria con la predeterminazione di limiti minimi e massimi per la determinazione dell’indennità.
Successivamente il quadro normativo è mutato ulteriormente ad opera del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23 recante disposizioni in attuazione della legge di delega 10 dicembre 2014 n. 183 (c.d. Jobs Act), che ha modificato il regime di tutela dell’art. 18 pur senza intervenire direttamente e testualmente su tale disposizione. L’art. 1 d.lgs. n. 23 del 2015 riferisce la nuova disciplina del licenziamento illegittimo ai «lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto» (quindi si applica esclusivamente ai contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato stipulati dopo il 6 marzo 2015). In sostanza il d.lgs. n. 23 del 2015 conferma anche per i “nuovi” contratti (quelli a tutele crescenti), il reticolo delle tutele differenziate della l. n. 92 del 2012, ridisegnando i confini di applicazione delle tutele ivi previste in termini di maggiore flessibilità in uscita (e quindi di minor favore) per il lavoratore licenziato.
Deve sottolinearsi che, anche dopo le suddette riforme, è rimasto immutato il principio cardine della giustiziabilità delle ragioni del licenziamento essendo rimasta ferma la prescrizione secondo cui il licenziamento è possibile solo per giusta causa o per giustificato motivo; canone generalissimo che marginalizza la libera recedibilità a limitate ipotesi di natura eccezionale. Tale garanzia di carattere generale, che risale alla legge n. 604 del 1966 prima citata, è del resto coerente con l’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, nel testo consolidato con le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona il 13 dicembre 2007, ratificato con legge 2 agosto 2008 n. 130 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009.
Recentemente la Corte costituzionale (C. cost. n. 194 del 2018), con una decisione di notevole rilievo sistematico, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 prima citato, sia nel testo originario, sia nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge n. 87 del 2018 (c.d. decreto dignità, medio tempore intervenuto), convertito, con modificazioni, nella legge n. 96 del 2018, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, con ciò eliminando il meccanismo (previsto dalle due norme suddette) di determinazione automatica dell’indennità da licenziamento illegittimo sulla base di un unico criterio (quello dell’anzianità di servizio) e valorizzando uno spazio rilevante per il giudice nella determinazione dell’indennità sulla base di una gamma più articolata di elementi di valutazione. Inoltre con un comunicato stampa del 25 giugno 2020, la Corte Costituzionale ha preannunciato la pubblicazione di una sentenza con la quale dichiara incostituzionale l’art. 4 del d.lgs. n. 23/2015 sulla indennità risarcitoria legata ai vizi di motivazione del licenziamento, ex art. 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966, o ai vizi della procedura ex art. 7 della legge n. 300 del 1970, con riferimento all’inciso “di importo pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio“.
Tutto ciò premesso, la mia valutazione sulla riforma dell’art. 18 nel senso di ridurre l’ambito di applicazione della tutela reintegratoria è sostanzialmente positiva, fermo restando che occorre migliorare in modo sostanziale i meccanismi di tutela del lavoratore licenziato attraverso una più efficace politica di riqualificazione e di supporto al reperimento di un nuovo posto di lavoro. Ciò alla stregua di quanto avviene in altri Paesi europei dove la tutela del lavoratore più che essere affidata a meccanismi reintegratori, è garantita da un forte apparato pubblico di sostegno al lavoratore licenziato.
In particolare, a prescindere da ogni valutazione sulle ragioni di politica industriale e del lavoro poste alla base delle nuove discipline introdotte con le norme sopra citate, mi pare condivisibile l’esclusione, in esse prevista, della tutela reintegratoria nei casi di licenziamento viziato da violazioni procedurali. In tali casi infatti accadeva, sotto il vigore della disciplina precedente, che il lavoratore dovesse essere reintegrato nello stesso posto di lavoro precedentemente occupato a prescindere dalla fondatezza o meno dell’addebito disciplinare che gli veniva contestato.
Quanto all’efficacia disincentivante dei meccanismi sanzionatori di tipo indennitario, mi pare che la sentenza della Corte costituzionale da ultimo citata consenta al giudice di calibrare in modo adeguato l’indennità.
Resta peraltro ferma la necessità di razionalizzare i diversi regimi sanzionatori di tipo indennitario; basti rilevare, ad esempio, che in determinate ipotesi l’indennità spettante ai sensi dell’art. 18 Stat. lav. come modificato dalla legge Fornero è inferiore a quella liquidabile, in ipotesi analoghe, al lavoratore licenziato al quale si applichi la disciplina di cui al d.lgs. n. 23 del 2015.
Dell’art. 28 dello Statuto si valorizzano soprattutto destrutturazione e celerità del procedimento. Non crede che la sua attualità stia soprattutto nella ricerca dell’effettività della tutela e della decisione, oggi connotato ancora fondamentale anche grazie alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea?
E. Di Cerbo: La mia risposta è assolutamente positiva.
Con l’art. 28 dello Statuto il legislatore ha introdotto nel sistema delle relazioni industriali a livello di azienda uno strumento, dalle caratteristiche fortemente innovative, destinato a garantire l’effettività del principio della libertà sindacale e dei diritti previsti dallo Statuto dei lavoratori. La norma, che ha mantenuto sostanzialmente invariata nel corso del tempo la sua originaria formulazione, ha svolto un ruolo fondamentale nella tutela dell’azione sindacale a garanzia, ad esempio, della salute e della sicurezza in fabbrica, attraverso la rimozione di eventuali ostacoli frapposti dal datore di lavoro ai controlli esercitati dai lavoratori sull’ambiente di lavoro, come pure a tutela del principio di non discriminazione.
L’esperienza applicativa ha dimostrato che la tecnica di individuazione della fattispecie protetta, tipizzata solo dal punto di vista dei beni da tutelare (libertà, attività antisindacale e sciopero) e non dei comportamenti ha consentito alla giurisprudenza di reprimere non solo comportamenti contrari agli interessi del sindacato, ma anche atti lesivi dei diritti di singoli individui connessi all'esercizio delle libertà sindacali (cosiddetta plurioffensività della condotta). Ciò grazie anche alle peculiarità del procedimento che si caratterizza non solo per la legittimazione ad agire, attribuita ad un soggetto collettivo portatore dell’interesse sovraindividuale protetto, ma anche per la natura sommaria ed urgente del procedimento e per la particolare efficacia attribuita al provvedimento col quale il giudice ordina la cessazione della condotta antisindacale e la rimozione dei suoi effetti
Lo Statuto fu concepito come una carta dei diritti del lavoratore. Non crede che ancora oggi – e forse oggi non meno di allora – una Carta che raccolga la disciplina fondamentale delle tutele del lavoratore in modo organico serva a fornire un quadro uniforme e completo dei diritti usciti dalla stagione della flexsecurity? Ma uno Statuto oggi avrebbe prospettive di durata in uno scenario in cui ogni nuovo Governo interviene per imporre la propria visione del mercato del lavoro?
E. Di Cerbo: Condivido pienamente l’affermazione secondo cui lo Statuto fu concepito e, aggiungerei, costituisce ancor oggi una carta dei diritti dei lavoratori.
La risposta alle domande suddette richiede peraltro alcune considerazioni preliminari e una brevissima disamina dell’evoluzione più recente del diritto del lavoro, quale emerge dagli interventi legislativi che si sono susseguiti negli ultimi anni. Tale disamina mostra chiaramente che il legislatore non si è limitato a incidere sulla disciplina degli istituti lavoristici tradizionali, ma ha reso necessaria ed indifferibile una profonda rimeditazione di concetti fondamentali del diritto del lavoro quali, in particolare, quelli della subordinazione e dell’autonomia nell’ambito del rapporto di lavoro.
Con la legislazione più recente la nozione di subordinazione sembra sfumare – ovvero, secondo alcuni, dilatarsi – in relazione all’emergere di una moltitudine di forme di collaborazione fra prestatori di lavoro e imprese che non appaiono facilmente inquadrabili nella suddetta nozione pur concretandosi, almeno tendenzialmente, in prestazioni di opera continuativa e coordinata prevalentemente personale (e quindi nella definizione fornita dall’art. 409, n. 3, cod. proc. civ.).
In particolare, l’entrata in vigore del d.lgs. n. 81 del 2015 (in tema di disciplina dei contratti di lavoro e di revisione della normativa concernente le mansioni) e della legge n. 81 del 2017, che ha introdotto misure in tema di lavoro autonomo non imprenditoriale e misure “volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, impongono, a mio avviso, un mutamento di prospettiva nel diritto del lavoro che non può essere più limitato alla valutazione dell’efficacia delle tutele e alla capacità di contemperamento, da parte del legislatore, degli opposti interessi ma che, in una situazione di cambiamento epocale dei sistemi economici e produttivi, deve estendere la propria riflessione a tutte le forme di prestazione aventi a oggetto un facere a favore di altri.
Occorre in altre parole ripensare alla sfera di applicazione delle tutele e trovare una diversa ed equilibrata modulazione delle stesse in relazione alle singole manifestazioni che le nuove modalità del lavoro esprimono.
Tutto ciò in un quadro economico-sociale reso ancor più complesso dal continuo evolversi dell’organizzazione aziendale, imposto, in particolare, dalla globalizzazione e dalla connessa esigenza di far fronte alla concorrenza internazionale, e reso possibile dall’evoluzione tecnologica e, in particolare, dal proliferare delle c.d. piattaforme informatiche; basti pensare ai casi dei riders di Foodora (3) o degli autisti di taxi di Uber, casi che rappresentano solo la prima emersione delle suddette problematiche.
In questo contesto emerge in modo sempre più evidente la necessità di porre nuove regole di garanzia, analoghe a quelle che nel 1970 hanno ispirato il legislatore dello Statuto dei lavoratori, a tutela dei prestatori di lavoro che operano nell’ambito dei nuovi lavori. In sostanza una nuova carta dei diritti, peraltro non più concepita sul modello del rapporto di lavoro subordinato, come è accaduto nel caso dello Statuto dei lavoratori, ma che individui una soglia di garanzie minime ed irrinunciabili da attribuire a tutti i lavoratori impegnati nella variegata costellazione di nuove tipologie di lavori, non sempre inquadrabili nell’ambito del rapporto subordinato, rese possibili dallo sviluppo delle tecnologie informatiche e dai nuovi modelli organizzativi che il mondo della produzione e della distribuzione è riuscito o riuscirà in futuro a escogitare.
Si tratta di una sfida in primo luogo culturale, che richiede alla dottrina giuslavoristica un grande sforzo di elaborazione. In secondo luogo, occorre che il legislatore sappia operare una sintesi efficace ed innovativa, alla stregua di quanto riuscì a fare nel 1970.
La storia dei prossimi anni ci dirà se i suddetti auspici si avvereranno.
Ottemperanza di chiarimenti e appellabilità della decisione (nota a Cons. Stato, Sez. VI, 22 giugno 2020, n. 4004).
di Michele Ricciardo Calderaro
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. La questione di diritto. – 3. L’appellabilità della sentenza di ottemperanza del giudice amministrativo: il difficile percorso evolutivo della giurisprudenza. - 4. La possibilità di impugnazione della sentenza di ottemperanza che fornisce chiarimenti sull’esecuzione del decisum del giudice amministrativo: la (corretta) soluzione adottata dal Consiglio di Stato. – 5. Osservazioni critiche.
La questione giunta all’esame del Consiglio di Stato, con la sentenza che si annota, è di particolare complessità, già nelle sue articolazioni fattuali, e deve essere pertanto ricostruita con attenzione.
Il caso trova la sua origine in una questione di natura edilizia, con dei chiari risvolti però per quanto concerne l’esercizio di un’attività commerciale, dato che il primo grado di giudizio, tenutosi presso il T.A.R. Puglia, Bari, concerneva il silenzio serbato dall’Amministrazione comunale sull’istanza che i ricorrenti avevano precedentemente presentato al fine di ottenere la declaratoria di inefficacia e/o decadenza della comunicazione di inizio lavori di una Società che gestiva un supermercato in un locale attiguo e confinante con un locale simile per tipologia dei ricorrenti, in ordine ai lavori di abbattimento del muro perimetrale del condominio (di separazione tra i due locali) eseguiti senza previa autorizzazione dell’assemblea condominiale.
Il T.A.R Puglia, adito a’ sensi dell’art. 117, cod. proc. amm., accoglieva il ricorso avverso il silenzio e conseguentemente dichiarava l’obbligo dell’Amministrazione di adottare tutte le determinazioni necessarie in ordine all’istanza presentata dai ricorrenti in un termine perentorio di 30 giorni dalla notificazione o comunicazione della sentenza, nominando contestualmente, avvalendosi del potere concesso dal co. 3 della medesima disposizione, un commissario ad acta, che provvedesse in luogo dell’Amministrazione comunale qualora questa fosse rimasta inadempiente nel termine a lei assegnato.
La sentenza del T.A.R. Puglia, Bari, n. 754/2019, passava in giudicato in quanto l’appello proposto dalla Società titolare del supermercato veniva dichiarato irricevibile dalla V Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza 13 novembre 2019, n. 7775.
Decorso infruttuosamente il termine assegnato all’Amministrazione comunale per adeguarsi alla statuizione del giudice amministrativo, l’Amministrazione individuata per svolgere le funzioni di commissario ad acta, ovvero la Prefettura, delegava un proprio funzionario a delineare le misure necessarie per ottemperare alla pronunzia del T.A.R. Puglia.
Il commissario ad acta, a seguito di apposita istruttoria, dichiarava inefficace e decaduta, in seguito a sentenza, la comunicazione di inizio lavori asseverata della Società titolare del supermercato, ordinandole contestualmente di “reintegrare i ricorrenti nel compossesso del muro divisorio di cui è, mediante la sua ricostruzione con le caratteristiche preesistenti al momento dell’abbattimento”, non disponendo però nulla in ordine all’eventuale annullamento dell’autorizzazione rilasciata in favore dell’impresa per lo svolgimento dell’attività commerciale.
Alla determinazione del commissario ad acta non veniva data alcuna esecuzione, in quanto i ricorrenti di primo grado non venivano reintegrati nel compossesso del muro divisorio e contestualmente l’attività commerciale della Società continuava ad essere esercitata nei locali abusivamente trasformati, anche perché sul punto non era intervenuta alcun tipo di disposizione da parte dei provvedimenti commissariali.
Così, a seguito di istanza dei ricorrenti, il commissario ad acta, avvalendosi della facoltà concessa dall’art. 112, co. 5, cod. proc. amm., si rivolgeva al T.A.R. Puglia, Bari, al fine di ottenere tutti i chiarimenti necessari in ordine ad eventuali specifici provvedimenti di sospensione da adottare nei confronti dell’esercizio dell’attività commerciale da parte della Società titolare del supermercato.
Il T.A.R., con sentenza 10 aprile 2020, n. 479, ha risposto alla richiesta di chiarimenti, disponendo, sulla base della consolidata giurisprudenza anche del Consiglio di Stato che ravvisa un rapporto di presupposizione giuridica tra il titolo edilizio ed il provvedimento di autorizzazione commerciale[1], che il commissario ad acta provveda senza indugio a comunicare la propria determinazione di inefficacia della scia all’apposito ufficio comunale, per le determinazioni di competenza di quest’ultimo in ordine all’inevitabile e conseguenziale decadenza dell’autorizzazione commerciale rilasciata, in favore della Società titolare del supermercato, essendo i locali oramai rimasti privi di titolo abilitativo, presupposto indispensabile per lo svolgimento dell’attività commerciale.
Proprio dalla sentenza di ottemperanza, adottata dal T.A.R. Puglia per fornire i chiarimenti richiesti dal commissario ad acta, sorge la questione di diritto controversa che occorre esaminare.
2. La questione di diritto.
La Società titolare del supermercato, non condividendo le statuizioni contenute nella sentenza del giudice dell’ottemperanza, interpone appello al Consiglio di Stato per una serie di ragioni di diritto, attinenti in particolari alla mancata corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, in quanto il T.A.R. Puglia non avrebbe considerato separatamente i locali di cui dispone la Società, alcuni dei quali non inficiati da irregolarità edilizia, con la conseguenza che evidentemente la statuizione di decadenza in toto dell’autorizzazione commerciale non troverebbe ragion d’essere.
Le ragioni di censura avanzate avverso la sentenza del T.A.R. sono molteplici, ma non saranno oggetto di approfondimento in questa sede, perché ciò che deve essere esaminato riguarda un aspetto particolare, ovvero l’appellabilità della sentenza di ottemperanza per i chiarimenti richiesti dal commissario ad acta.
Difatti, sia alcuni degli originari ricorrenti che l’Amministrazione comunale, costituendosi in giudizio dinnanzi al Consiglio di Stato, hanno eccepito l’inammissibilità dell’appello proposto avverso la sentenza di ottemperanza pronunciata ai sensi dell’art. 112, comma 5, cod. proc. amm., a seguito della richiesta di chiarimenti sull’esecuzione di un precedente giudicato, trattandosi di mero incidente di esecuzione sfociato in statuizioni di natura ordinatoria e non decisoria, come tali non impugnabili.
Ed è proprio su questo punto che la sentenza del Consiglio di Stato, qui annotata, si sofferma primariamente, sia perché in ogni caso si tratta di una questione di rito da risolvere prima di definire il merito sia perché è un punto controverso, che coinvolge aspetti importanti del rapporto processuale nel sistema di giustizia amministrativa e che merita perciò un chiarimento.
Il Consiglio di Stato ha respinto l’eccezione di inammissibilità, anzitutto, in quanto i precedenti giurisprudenziali invocati dai ricorrenti in primo grado a suffragio dell’eccezione si riferiscono a casi, nei quali la sentenza resa su richieste di chiarimenti ex art. 112, co. 5, cod. proc. amm. atteneva a mere questioni di natura ordinatoria e quindi si risolveva in un mero incidente di esecuzione volto a chiarire le modalità materiali di esecuzione della sentenza cognitoria ottemperanda.
Nel caso di specie, invece, l’appellata sentenza di ottemperanza non si è limitata a impartire disposizioni ordinatorie di esecuzione materiale della sentenza cognitoria, ma ha per la prima volta affrontato ex professo la tematica della ripercussione della dichiarazione di inefficacia e decadenza del titolo edilizio sull’autorizzazione commerciale, affermando la sussistenza di “una correlazione nettissima tra concessione edilizia e autorizzazione commerciale”, peraltro già prevista espressamente dall’art. 20, Legge della Regione Puglia n. 24 del 2015.
Ne consegue, secondo il Consiglio di Stato, che il T.A.R. Puglia, in piena aderenza alla funzione assolta dal giudizio di ottemperanza, che involge la necessità di un’interpretazione della sentenza ottemperanda al fine di individuare il comportamento doveroso dell’Amministrazione in sede di esecuzione della sentenza, e che, secondo la tesi tradizionale, si configura come giudizio misto di cognizione ed esecuzione che dà luogo a un giudicato a formazione progressiva[2] – con la sentenza di ottemperanza ha deciso su un tratto di interesse non espressamente affrontato dalla sentenza ottemperanda e quindi su aspetti cognitori non esaminati nel giudizio definito con la sentenza resa sul silenzio inadempimento serbato dall’Amministrazione comunale.
La statuizione del Consiglio di Stato sul punto è meritevole di attenzione, perché affronta in maniera netta e decisa la natura del giudizio di ottemperanza nel processo amministrativo, in particolare della c.d. ottemperanza di chiarimenti, e deve essere esaminata a partire dagli orientamenti giurisprudenziali che sul punto si sono formati.
3. L’appellabilità della sentenza di ottemperanza del giudice amministrativo: il difficile percorso evolutivo della giurisprudenza.
Come è noto, il giudizio di ottemperanza è lo strumento mediante il quale nel processo amministrativo si esercita l’azione di esecuzione, che, a’ sensi dell’art. 112 del Codice, può essere oggi esercitata, seppur con modalità differenti quanto ai poteri del giudice amministrativo, sia nei confronti delle sentenze passate in giudicato che nei confronti delle sentenze immediatamente esecutive quali sono quelle dei Tribunali Amministrativi Regionali[3].
Il giudizio di ottemperanza è previsto nel nostro ordinamento sin dalla legge Crispi del 1889, ed in particolare dall’art. 4, n. 4 di quella legge 31 marzo 1889, n. 5992[4], che, istituendo la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, ha disciplinato il potere del giudice amministrativo di decidere, pronunziando anche in merito, dei ricorsi diretti ad ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi al giudicato dei tribunali che avessero riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico[5].
Questa tipologia di giudizio nasce, perciò, come necessario completamento della tutela giudiziale dei diritti che il giudice ordinario non era in grado di assicurare se non parzialmente[6].
I poteri del giudice amministrativo dal 1889 ad oggi sono sostanzialmente mutati e sono stati evidentemente ampliati e così anche il giudizio di ottemperanza ha subito un’evoluzione sino ad avere ad oggetto prima, con la legge istitutiva dei T.A.R. del 1971, anche il giudicato dei giudici amministrativi[7] ed infine, mediante l’innovazione apportata dalla legge 21 luglio 2000, n. 205, le sentenze esecutive del giudice amministrativo non ancora passate in giudicato[8].
Il giudice amministrativo, in accoglimento del ricorso presentato, ordina l’ottemperanza, prescrivendo le relative modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento o la sua emanazione in sostituzione dell’Amministrazione che avrebbe dovuto adottarlo.
Il Codice prevede, inoltre, sulla base del combinato disposto degli articoli 112, co. 5 e 114, co. 7, che il giudizio possa essere attivato altresì per fornire chiarimenti sulle modalità di ottemperanza, anche laddove la richiesta pervenga dallo stesso commissario ad acta.
Nel caso di specie su cui si è pronunziata la sentenza del Consiglio di Stato che si annota, la questione è sorta proprio dall’applicazione di queste norme.
Difatti, a seguito dell’accoglimento di un ricorso avverso il silenzio serbato dall’Amministrazione ex art. 117 del Codice, il commissario ad acta[9] nominato con quella sentenza ha azionato il rimedio dell’ottemperanza per chiedere al T.A.R. Puglia quale fosse l’ambito del giudicato e quali fossero, pertanto, i provvedimenti da adottare per dar seguito al decisum contenuto nella prima sentenza.
Il T.A.R. Puglia ha dettato le prescrizioni necessarie nella sentenza di ottemperanza, che è stata però appellata a’ sensi dell’art. 100 dinnanzi al Consiglio di Stato.
In questa sede è stata sollevata una questione giuridica precipua sulla stessa ammissibilità del ricorso in appello: la sentenza di ottemperanza pronunciata ai sensi dell’art. 112, comma 5, cod. proc. amm., a seguito della richiesta di chiarimenti sull’esecuzione di un precedente giudicato non sarebbe impugnabile, trattandosi di un mero incidente di esecuzione sfociato in statuizioni di natura ordinatoria e non decisoria, come tali non impugnabili.
Questo specifico aspetto può essere esaminato solamente dopo aver chiarito quali siano i limiti generali dell’appellabilità della sentenza di ottemperanza pronunziata dal giudice amministrativo di primo grado.
La questione è stata ampiamente dibattuta e l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, sin dalla sentenza n. 23 del 1978, ha cercato di risolvere la problematica, tentando anzitutto di delineare quale sia la natura del giudizio di ottemperanza.
L’Adunanza Plenaria, difatti, con questa pronunzia, ha ritenuto inammissibile l’appello avverso le sentenze di ottemperanza dei T.A.R., in quanto la speciale natura del procedimento di ottemperanza, il carattere peculiare e pregnante delle relative statuizioni e la sua funzione esaustiva della vicenda processuale fornirebbero una valida spiegazione logica del perché il legislatore non abbia ritenuto il doppio grado di giudizio rispondente alle caratteristiche e alla funzione proprie di tale procedimento in relazione alla esigenza che il giudizio – già eventualmente sviluppatosi in più gradi – pervenga finalmente a conclusione in tempi rapidi ed in forme concentrate, cosi come richiede sia l'interesse alla tempestività dell'azione amministrativa sia l'interesse del privato alla realizzazione della posizione di vantaggio che gli deriva dalla sentenza da eseguire[10].
Il Consiglio di Stato, in questa prima statuizione, pareva pertanto molto risoluto, date le caratteristiche del giudizio in questione, nell’escludere qualsivoglia tipologia di impugnazione delle sentenze di ottemperanza, salvi solamente i casi eccezionali di pronunzie abnormi o comunque esorbitanti dall’ambito di applicazione del giudizio di ottemperanza[11].
Questo primo orientamento, così restrittivo, è andato incontro, già precedentemente all’entrata in vigore del Codice, ad una modifica ampliativa, da parte della stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato, nel senso di delimitare specificamente le ipotesi nelle quali l’appello avverso le sentenze di ottemperanza dei T.A.R. deve ritenersi ammissibile.
Così, tenendo conto della natura del giudizio di ottemperanza[12] e dell’effetto devolutivo del giudizio di appello[13], si è affermato il principio secondo cui l'appello proposto avverso la sentenza di ottemperanza del tribunale amministrativo regionale è ammissibile solo quando questa non si limiti a disporre mere misure applicative, ma risolva questioni giuridiche in rito e in merito, "pronunciandosi sulla regolarità del rito instaurato, sulle condizioni oggettive e soggettive dell'azione e sulla fondatezza della pretesa azionata”[14].
In altri termini, l’appello non è possibile ove la sentenza che si impugna ha provveduto solamente a dettare prescrizioni operative e/o materiali per ottemperare a quanto deciso nella sentenza di cognizione.
Successivamente all’entrata in vigore del Codice, il Consiglio di Stato, in considerazione del fatto che, in applicazione dell'art. 125 della Costituzione, il Codice del processo amministrativo prevede l'appellabilità di ogni sentenza di primo grado, altresì ove resa in sede di ottemperanza, ha chiarito che deve considerarsi pacifico l’assunto relativo all’impugnabilità delle sentenze emesse in sede di ottemperanza, allorquando il gravame non investa mere questioni esecutive, ma anche quello concernente l'effetto devolutivo pieno che deve riconoscersi ove, in sede di appello, debbano risolversi questioni giuridiche in rito e in merito, in relazione alla regolarità del rito instaurato, alle condizioni soggettive ed oggettive dell'azione ed alla fondatezza della pretesa azionata[15].
Se le statuizioni rese nel giudizio di ottemperanza, dunque, non hanno effetti meramente esecutivi e carattere sostanzialmente ordinatorio, queste sono appellabili, così come peraltro avevano già statuito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 1986.
Queste, difatti, avevano affermato che il giudizio d'ottemperanza davanti al tribunale amministrativo regionale, all’epoca disciplinato dall'art. 37 della l. 6 dicembre 1971, n. 1034 ed oggi dall’art. 112 del Codice, pur presentando modalità processuali di tipo sommario, ed essendo rivolto ad una sostituzione di detto tribunale all'autorità amministrativa inadempiente in ordine all'esecuzione di un precedente giudicato, ha natura giurisdizionale, con la conseguenza che le pronunce che lo concludono sono soggette, senza eccezioni o limitazioni, al principio dell'appellabilità davanti al Consiglio di Stato, non potendo invece essere direttamente impugnate con ricorso per Cassazione[16].
Oggigiorno, pur in presenza di una disposizione del Codice, l’art. 114, co. 8, che sembrerebbe ammettere in via generale l’impugnabilità di tutti i provvedimenti giurisdizionali adottati dal giudice dell’ottemperanza, si deve ritenere, sulla base dell’evoluzione giurisprudenziale sinora descritta, che siano appellabili le sentenze contenenti statuizioni cosiddette aberranti, ovvero dotate di un contenuto del tutto estraneo all'ambito ed alla funzione propri del giudizio di ottemperanza, nonché le sentenze contenenti statuizioni cosiddette esorbitanti, che cioè travalichino i confini dell'esecuzione per affrontare direttamente questioni di cognizione[17].
Affermata con chiarezza l’appellabilità di queste sentenze rese in sede di ottemperanza, occorre adesso soffermarsi sulla problematica relativa all’impugnabilità nei casi in cui la sentenza di ottemperanza sia stata resa per fornire chiarimenti al commissario ad acta.
4. La possibilità di impugnazione della sentenza di ottemperanza che fornisce chiarimenti sull’esecuzione del decisum del giudice amministrativo: la (corretta) soluzione adottata dal Consiglio di Stato.
Partendo dalla riconosciuta natura mista[18], di cognizione e di esecuzione, del giudizio di ottemperanza[19] e dalla funzione della sentenza conclusiva di questo giudizio di interpretazione della pronunzia ottemperanda al fine di individuare il comportamento che l’Amministrazione deve assumere in sede di esecuzione di quanto stabilito dal giudice amministrativo[20], vi è la necessità di chiarire quali siano i limiti entro i quali si può ritenere appellabile la sentenza di ottemperanza che sia intervenuta per fornire chiarimenti in merito all’esecuzione del giudicato.
La sentenza del Consiglio di Stato che si annota, difatti, interviene in un percorso giurisprudenziale complesso ove le posizioni non sono sempre state così definite.
La natura della c.d. ottemperanza di chiarimenti è al centro di un dibattito interno allo stesso Consiglio di Stato, che al riguardo ha elaborato due differenti tesi, una che propende a riconoscerle il rilievo di mero incidente di esecuzione e l’altra che, invece, sembra attribuirle il carattere di accertamento autonomo dell’esatto contenuto della sentenza da eseguire.
Secondo un primo orientamento, la c.d. ottemperanza di chiarimenti, ex art. 112, co. 5, Cod. proc. amm., costituisce un mero incidente sulle modalità di esecuzione del giudicato[21] - utilizzabile quando vi sia una situazione di incertezza da dirimere che impedisce la sollecita esecuzione del titolo esecutivo - e non un'azione o una domanda in senso tecnico, con la conseguenza che non può trasformarsi in un'azione di accertamento della legittimità o liceità della futura azione amministrativa, né in un'impugnazione mascherata, che porti di fatto a stravolgere il contenuto della pronuncia, la quale non può più venire riformata né integrata dal giudice dell'ottemperanza ove la pretesa avanzata sia de planoricavabile dal tenore testuale della sentenza da eseguire.
I quesiti interpretativi da sottoporre al giudice dell'ottemperanza devono attenere alle modalità dell'ottemperanza e devono avere i requisiti della concretezza e della rilevanza, non potendosi sottoporre al giudice questioni astratte di interpretazione del giudicato, ma solo questioni specifiche che siano effettivamente insorte durante la fase di esecuzione dello stesso[22]. Ne discende che lo strumento in esame non può trasformarsi in un pretesto per investire il giudice dell'esecuzione, in assenza dei presupposti suindicati, di questioni che devono trovare la loro corretta risoluzione nella sede dell'esecuzione del decisum, nell'ambito del rapporto tra parti e amministrazione, salvo che successivamente si contesti l'aderenza al giudicato dei provvedimenti così assunti[23].
La conseguenza di questa tesi è che, trattandosi di un mero incidente di esecuzione, non è ammissibile alcun tipo di impugnativa nei confronti della relativa sentenza[24].
Di diverso orientamento è invece la tesi che, valorizzando la possibilità che il ricorso per chiarimenti ex art. 112, comma 5 preceda la instaurazione del giudizio di ottemperanza vero e proprio - ha attribuito a questo ricorso la specifica natura di azione autonoma volta all'accertamento dell'esatto contenuto della sentenza (o del provvedimento ad essa equiparato) proponibile, per giunta, esclusivamente dalla Amministrazione tenuta ad adempiere posto che la parte vittoriosa non avrebbe altro interesse che quello alla ottemperanza[25].
Ciò in quanto il ricorso, previsto dall'art. 112, co. 5, cod. proc. amm., per ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza ad una sentenza del giudice amministrativo, ha natura giuridica diversa dall'azione di ottemperanza propriamente detta, non potendo essere qualificato né quale semplice strumento di attuazione del comando giudiziale (ex art. 112, co. 2), né come mera azione esecutiva in senso stretto (ex art. 112, co. 3)[26].
Dinnanzi a questa contrapposizione di orientamenti, in radicale contrasto già relativamente alla natura della c.d. ottemperanza di chiarimenti, il Consiglio di Stato nel 2018 ha cercato di porre chiarezza, proponendo un’ipotesi ricostruttiva univoca anche per quanto concerne la possibilità di impugnazione, nel solco di quanto era già stato fatto con riferimento all’appellabilità generale della sentenza di ottemperanza.
Il Consiglio di Stato, anzitutto, ha escluso che la richiesta di chiarimenti introduca un’azione autonoma, distinta da quella per l’ottemperanza vera e propria, così come peraltro già chiarito dall’Adunanza Plenaria[27].
Questo in considerazione della ratio delle norme che prevedono la possibilità di richiedere i chiarimenti in sede esecutiva: rendere piena ed effettiva la tutela giurisdizionale, esigenza vieppiù avvertita quando si deve finalmente attribuire in concreto il bene della vita riconosciuto dal giudicato.
I chiarimenti, di per sé, attengono, difatti, all’individuazione delle modalità esecutive dell’ottemperanza.
Ciò posto, ferma restando la regola generale della impugnabilità di tutte le decisioni rese dal giudice di primo grado in sede di ottemperanza secondo il percorso evolutivo della giurisprudenza cui si è precedentemente fatto cenno, per comprendere se una sentenza di ottemperanza resa su una richiesta di chiarimenti è appellabile è necessario valutare il contenuto concreto delle statuizioni in essa contenute[28].
Se le statuizioni hanno effetti meramente esecutivi e la pronunzia si caratterizza per un’indole segnatamente non decisoria e tanto meno definitiva, questa non potrà considerarsi appellabile, secondo i principi processuali generali che affermano la non impugnabilità, salvo che non sia diversamente disposto dalla legge, dei provvedimenti non decisori e comunque non definitivi quali sono i provvedimenti esecutivi[29].
La sentenza del giugno 2020 che si annota si pone correttamente nel solco di quest’ultima pronunzia.
Dato che la sentenza di ottemperanza del T.A.R. Puglia resa per i chiarimenti richiesti dal commissario ad acta ha affrontato questioni non meramente esecutive, non si è limitata ad impartire istruzioni operative allo stesso, ma ha affrontato per la prima volta, con un contenuto cognitorio e decisorio, un profilo fondamentale per l’esecuzione della sentenza che era stata pronunziata sul silenzio serbato dall’Amministrazione, ovvero il rapporto giuridico esistente tra titolo edilizio ed autorizzazione commerciale, non si può ritenere che questa si concretizzi in un mero incidente di esecuzione e che quindi non sia appellabile.
La sentenza di ottemperanza del T.A.R. Puglia ha un contenuto decisorio su aspetti di cognizione che non erano stati esaminati dalla sentenza ottemperanda e correttamente la si deve ritenere suscettibile di appello.
L’arresto, peraltro reso nella forma della sentenza breve[30] ex art. 60 del Codice, del Consiglio di Stato deve essere perciò condiviso perché, data la natura mista del giudizio di ottemperanza[31], occorre individuare correttamente il contenuto della sua pronunzia conclusiva per determinare o meno la possibilità di impugnazione, anche allorché si tratti di pronunzia resa su una richiesta di chiarimenti da parte del commissario ad acta.
Ciò è necessario affinché venga garantita anche in questo caso l’effettività della tutela[32] nel processo amministrativo[33].
5. Osservazioni critiche.
La sentenza di ottemperanza su cui è intervenuto il Consiglio di Stato presenta dei caratteri di certa peculiarità, che occorre tenere in debita considerazione allorché vi siano dei dubbi sull’appellabilità della c.d. ottemperanza di chiarimenti.
Nei paragrafi precedenti si è ricostruita la vicenda processuale e si è ricordato come il T.A.R. Puglia sia intervenuto in ottemperanza a seguito della richiesta di chiarimenti del commissario ad acta nel momento in cui il giudicato si era formato sul silenzio-inadempimento[34] che era stato serbato dall’Amministrazione.
L’Amministrazione non ha dato esecuzione al giudicato del giudice amministrativo ed il commissario ad actanominato già nel giudizio avverso il silenzio ex art. 117, co. 3 del Codice[35] ha stimolato il giudice, mediante il rimedio dell’ottemperanza, affinché dettasse le determinazioni necessarie per una corretta esecuzione di quanto statuito in fase di cognizione[36].
La particolarità deve essere ravvisata all’interno proprio di questo contesto.
La sentenza resa sul silenzio dal T.A.R. Puglia non affrontava tutti i profili cognitori della vicenda sottoposta al suo esame[37], limitandosi ad ordinare all’Amministrazione di adottare tutti i provvedimenti necessari affinché trovasse riscontro l’istanza precedentemente presentata dai ricorrenti, su cui si era formato il silenzio-inadempimento, in merito alla declaratoria di inefficacia o di decadenza della comunicazione di inizio lavori della Società titolare del supermercato.
Il T.A.R. non esaminava tutti i profili concernenti il rapporto di presupposizione giuridica esistente tra il titolo edilizio e l’autorizzazione commerciale, per cui illegittimo il primo viene meno la seconda, e così, previa propulsione del commissario ad acta, la sentenza di ottemperanza nel fornire i chiarimenti richiesti ha affrontato profili cognitori che sino ad allora non erano stati definiti.
La sentenza di ottemperanza del T.A.R. Puglia non può, pertanto, definirsi meramente esecutiva, in quanto non detta solamente prescrizioni materiali per l’esecuzione del giudicato, proprio perché uno dei profili cognitori fondamentali per la definizione del medesimo, cioè la definizione del rapporto tra titolo edilizio ed autorizzazione commerciale, è stato affrontato solamente in sede di ottemperanza.
Così, allorché l’ottemperanza di chiarimenti completa la cognizione come in questo caso, con un giudicato che si forma in modo progressivo, non può certamente affermarsi che la stessa sia meramente un’azione esecutiva.
Contribuendo alla definizione della parte decisoria della statuizione del giudice amministrativo, la sentenza adottata non è un provvedimento segnatamente esecutivo.
Correttamente, quindi, il Consiglio di Stato ha ritenuto la sentenza di ottemperanza appellabile.
Ciò per due ordini di ragioni, che tra loro sono assolutamente interdipendenti: la prima è che il giudicato si era formato sul silenzio inadempimento dell’Amministrazione, accertando l’illegittimità dello stesso senza giungere però all’attribuzione del bene della vita cui aspirava il ricorrente; la seconda è che, proprio in considerazione di quest’aspetto[38], la sentenza di ottemperanza non si è preoccupata soltanto di delineare le modalità operative del contenuto stabilito in fase di cognizione ma ha dovuto integrarlo, esaminando anche aspetti di cognizione che il giudizio non aveva affrontato affinché l’esecuzione del giudicato fosse tale da garantire piena tutela alla pretesa sostanziale che i ricorrenti avevano dedotto nel rito avverso il silenzio.
Allorquando la sentenza di ottemperanza, resa anche per la richiesta di chiarimenti da parte del commissario ad acta, presenta queste caratteristiche, non può che essere suscettibile di appello dinnanzi al Consiglio di Stato.
Rimangono aperti i problemi dei limiti oggettivi del giudicato che può formarsi su una sentenza resa sul silenzio, ma è questione che non può essere affrontata ed esaurita nell’ambito delle presenti note[39].
[1] Come ricordato, ad esempio, da Cons. Stato, Sez. V, 17 luglio 2014, n. 3793, in www.giustizia-amministrativa.it, nel rilascio dell'autorizzazione commerciale occorre tenere presente i presupposti aspetti di conformità urbanistico-edilizia dei locali in cui l'attività commerciale si va a svolgere, con la naturale conseguenza che il diniego di esercizio di attività di commercio deve ritenersi legittimo ove fondato su rappresentate e accertate ragioni di abusività e/o non regolarità delle opere edilizie in questione con le prescrizioni urbanistiche; da ultimo, si rinvia anche a Cons. Stato, Sez. IV, 24 maggio 2019, n. 3419, in www.giustizia-amministrativa.it, che ha affermato la sussistenza del rapporto di presupposizione giuridica tra il rilascio del titolo edilizio e quello per l’esercizio di un’attività commerciale, rapporto di presupposizione che comporta l’automatica caducazione dell’altro di cui il primo costituisce presupposto.
[2] La letteratura sul giudicato amministrativo è diffusa; anzitutto il riferimento corre alla fondamentale voce di F. Benvenuti, Giudicato (dir. amm.), in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1969, Vol. XVIII, 893 ss.; si rinvia poi, ex multis, a F. Satta, Brevi note sul giudicato amministrativo, in Dir. proc. amm., 2007, 302 ss.; A. Travi, Il giudicato amministrativo, in Dir. proc. amm., 2006, 919 ss.; C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, Cedam, 2005, 1 ss.; P.M. Vipiana, Contributo allo studio del giudicato amministrativo, Milano, Giuffrè, 1990, 1 ss.; M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, Cedam, 1989, 145, che ricorda come il giudicato cada non solo sull’atto, ma sulla fattispecie del potere; da ultimo, si rinvia ai recenti contributi di S. Vaccari, Il giudicato nel nuovo diritto processuale amministrativo, Torino, Giappichelli, 2017, 1 ss.; S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, Milano, Giuffrè, 2016, 1 ss.; sugli effetti della sentenza di annullamento del giudice amministrativo e sul giudicato a formazione progressiva si rinvia a C.E. Gallo, I poteri del giudice amministrativo in ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento, in Dir. proc. amm., 2012 280 ss.; nonché a M. Andreis, L’attività successiva alla sentenza di annullamento tra acquiescenza e principio di assorbimento, in Dir. proc. amm., 2003, 1201 ss.; da ultimo a S. Valaguzza, L’illusione ottica del giudicato a formazione progressiva, in Dir. proc. amm., 2018, 296 ss.
[3] Per un’ampia trattazione in merito occorre far riferimento a C.E. Gallo, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2018, 287 ss.; F. Francario, Sentenze di rito e giudizio di ottemperanza, in Dir. proc. amm., 2007, 52 ss.; A. Travi, Il giudizio di ottemperanza ed il termine per l’esecuzione del giudicato, in Giorn. dir. amm., 1995, 976 ss.; L. Mazzarolli, Il giudizio di ottemperanza oggi: risultati concreti, in Dir. proc. amm., 1990, 226 ss.; R. Villata, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in Dir. proc. amm., 1989, 369 ss.
[4] Per una ricostruzione storica si rinvia a G. Crepaldi, Le pretese risarcitorie nel giudizio di ottemperanza: resistenze e sviluppi, in Resp. civ. e prev., 2012, 717 ss.
[5] Sulla conformazione originaria del giudizio di ottemperanza, quale mezzo di esecuzione delle sentenze del giudice civile, si rinvia allo studio di M.S. Giannini, Contenuto e limiti del giudizio di ottemperanza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, 442 ss.; nonché ad E. Guicciardi, L'obbligo dell'autorità amministrativa di conformarsi al giudicato dei tribunali, in Arch. dir. pubbl., 1938, 250 ss.
[6] Sul punto si rinvia a N. Saitta, Sistema di giustizia amministrativa, Napoli, Esi, 2015, 442 ss.
[7] L'opera di estensione del giudizio di ottemperanza alle sentenze del giudice amministrativo è stata definita di “filiazione” da M. Nigro, Il giudicato amministrativo ed il processo di ottemperanza, in Il giudizio di ottemperanza (Atti del XXVII Congresso di studi di scienza dell'amministrazione, Varenna-Villa Monastero, 17-19 settembre 1981), Milano, Giuffrè, 1983, 64 ss.; sul punto si rinvia, altresì, a R. Villata, L’esecuzione delle decisioni del Consiglio di Stato, Milano, Giuffrè, 1971, 1 ss.
[8] Per l’evoluzione del giudizio di ottemperanza, anche se ancora riferito alla disciplina ante Codice del processo, si rinvia a L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione, Milano, Giuffrè, 2003, 1 ss.; nonché a L. Verrienti, Giudizio di ottemperanza, in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1991, Vol. VII, 257 ss.
[9] Per un inquadramento generale di questa figura si rinvia a V. Caputi Jambrenghi, Commissario ad acta, in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 2002, Aggiornamento, VI, 284 ss.; G. Orsoni, Il commissario ad acta, Padova, Cedam, 2001, 1 ss.; A. Cioffi, Sul regime degli atti del commissario ad acta nominato dal giudice dell'ottemperanza, in I Tar, 2001, II, 1 ss.; nello specifico per la nomina del commissario nel rito avverso il silenzio dell’Amministrazione, nel regime antecedente all’art. 117 del Codice, si rinvia a G. Mari, Il commissario ad acta nel rito sul silenzio quale organo straordinario dell’Amministrazione, in Foro amm. TAR, 2003, 750 ss.
[10] Cons. Stato, Ad. Plen., 14 luglio 1978, n. 23, in Foro it., 1978, III, 449 ss.
[11] Per un commento critico a questa sentenza si rinvia a F.G. Scoca, Sentenze di ottemperanza e loro appellabilità, in Foro it., 1979, III, 4 ss.
[12] Per un approfondimento si rinvia a C.E. Gallo, Il contraddittorio nel giudizio di ottemperanza: un problema aperto, in Foro amm. CdS, 2009, 1264, che ha affrontato il problema della natura del giudizio di ottemperanza con particolare riferimento all’esercizio del diritto di difesa.
[13] Per un’ampia disamina dell’effetto devolutivo dell’appello si rinvia a C.E. Gallo, Appello nel processo amministrativo, in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1987, Vol. I, 315 ss.; R. Villata, Considerazioni sull'effetto devolutivo dell'appello nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1985, 131 ss.; N. Bassi, L'effetto devolutivo dell'appello nel processo amministrativo (dalla parte del ricorrente), in Dir. proc. amm., 1985, 342 ss.
[14] In questo senso Cons. Stato, Sez. V, 8 luglio 2002, n. 3789, in Foro amm. CdS, 2002, 1716 ss.
[15] Così Cons. Stato, Sez. V, 6 dicembre 2018, n. 6907, in Foro amm., 2018, 2155 ss.; Cons. Stato, Sez. VI, 15 febbraio 2012, n. 759, in Foro amm. CdS, 2012, 401 ss.
[16] Cass. civ., Sez. Un., 24 novembre 1986, n. 6895, in Giust. civ., 1987, I, 310 ss.
[17] Sul punto si rinvia a S. Tarullo, Ottemperanza (giudizio di), in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, VII appendice, 2017, 559 ss.
[18] Secondo F. Figorilli, La difficile mediazione della Plenaria fra effettività della tutela e riedizione del potere nel nuovo giudizio di ottemperanza, nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2, in Urb. e app., 2013, 952 ss., il Codice sembra “ridefinire il giudizio per l'esecuzione del giudicato come una sorta di contenitore in grado di offrire una serie di strumenti, tra loro profondamente diversi, a disposizione della parte che vuole conseguire l'utilitas consacrata dalla pronuncia divenuta cosa giudicata. Ed invero, all'interno dello schema proposto dall'art. 112, comma 2, c.p.a., è possibile rintracciare una pluralità di azioni che possono ben contenere tutte le sfumature in passato prospettate dalla giurisprudenza sulla natura dell'istituto”.
[19] Come chiarito da C.E. Gallo, Ottemperanza (giudizio di), in Encicl. giur., Milano, Giuffrè, 2008, Annali, II, 818 ss., “il giudizio di ottemperanza può consistere vuoi nell'attuazione di statuizioni puntuali contenute nel giudicato, rispetto alle quali occorre una semplice attività materiale o giuridica esattamente delineata nel giudicato stesso; vuoi nella individuazione, al termine di un'autonoma fase di cognizione in cui il giudice è chiamato a definire un assetto di interessi, di quale sia il portato del giudicato, con una pronunzia che può avere un contenuto caducatorio, e perciò costitutivo, oppure conformativo, e perciò condannatorio”. Sulla possibilità che il giudizio di ottemperanza serva anche a completare l’accertamento giudiziale, che avrebbe dovuto aver il suo esito nella fase di cognizione, si rinvia alle opinioni di E. Cannada Bartoli, Processo amministrativo (considerazioni introduttive), in Noviss. Dig. It., Torino, Utet, 1966, 1077 ss.; Id., Specialità del giudizio di ottemperanza, in Giur. it., 1999, 2414 ss.; M. Nigro, Il giudicato amministrativo ed il processo di ottemperanza, in Riv. trim. proc. civ., 1981, 1157 ss.; G. Corso, Processo amministrativo di cognizione e tutela esecutiva, Milano, Giuffrè, 1989, 1 ss.; A. Pajno, Il giudizio di ottemperanza come giudizio di esecuzione, in Foro amm., 1987, 1648 ss.; da ultimo, F. Manganaro, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, in Dir. proc. amm., 2018, 534 ss.
[20] Come evidenziato da P.M. Vipiana, L’ottemperanza al giudicato amministrativo fra l’attività del commissario ad acta e quella dell’amministrazione “commissariata”, in Urb. e app., 2015, 1049 ss., la fase dell’ottemperanza è fondamentale nel processo amministrativo, in quanto “serve ad assicurare l’effettività del dictum del giudice, nell’ambito dell’equilibrato assetto tra giudicato e riedizione del potere amministrativo”.
[21] Così Cons. Stato, Sez. IV, 17 settembre 2014, n. 4722, in Foro amm., 2014, 2337 ss.
[22] In questo senso Cons. Stato, Sez. IV, 30 novembre 2015, n. 5409, in Foro amm., 2015, 2774 ss.
[23] Così, ad esempio, Cons. Stato, Sez. V, 6 settembre 2017, n. 4232, in Foro amm., 2017, 1829 ss.
[24] Secondo quanto ritenuto da Cons. Stato, Sez. VI, 15 dicembre 2014, n. 6151, in Urb. e app., 2015, 482 ss.
[25] In questi termini Cons. Stato, Sez. IV, 17 dicembre 2012, n. 6468, in Foro amm. CdS, 2012, 3228 ss.
[26] Così Cons. Stato, Sez. V, 7 settembre 2015, n. 4141, in Foro amm., 2015, 2262 ss.
[27] Cons. Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2, in Foro it., 2014, III, 712 ss., con nota di A. Travi, che riconduce il ricorso previsto dall'art. 112, co. 5, Cod. proc. amm. al novero delle azioni di ottemperanza.
[28] Cons. Stato, Sez. IV, 9 aprile 2018, n. 2141, in Foro it., 2018, 6, III, 302 ss.
[29] Ribadita di recente, ad esempio, da Cass. civ., Sez. Un., 1˚ febbraio 2017, n. 2610, in Guida dir., 2017, 10, 32 ss.
[30] Sulla sentenza in forma semplificata o c.d. breve si può rinviare a R. De Nictolis, Le sentenze del giudice amministrativo in forma semplificata. Tra mito e realtà, in www.giustizia-amministrativa.it, 2017, 1 ss.; A. Police, Le decisioni in forma semplificata (cosiddetto giudizio immediato), in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Cedam, Padova, 2014, 541 ss.; A. Clini, La forma semplificata della sentenza nel giusto processo amministrativo, Padova, Cedam, 2009, 1 ss.; M. Sinisi, La disciplina della decisione in forma semplificata, la garanzia del contraddittorio e il giusto processo. Profili di dubbia legittimità, in Foro amm. TAR, 2008, 413 ss.
[31] L’affermazione è oramai consolidata in letteratura: si rinvia, ad esempio, a C. Calabrò, Giudizio amministrativo per l'ottemperanza ai giudicati, in Enc. giur., Aggiornamento, Roma, 2002, Vol. XV, 3; V. Caianiello, Esecuzione delle sentenze nei confronti della pubblica amministrazione, in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1999, Aggiornamento, III, 614; M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, Il Mulino, 1983, 387; A.M. Sandulli, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato, Napoli, Morano, 1963, 169.
[32] F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2016, 1025 ss., osserva correttamente come, “nel sistema tradizionale, dunque, il giudizio di ottemperanza non nasce per garantire l'esecuzione forzata di sentenze di condanna, ma come strumento volto a garantire l'effettività della tutela costitutiva di annullamento erogata in fase di accertamento dal giudice amministrativo”; in tema si v. anche G. Mari, Giudice amministrativa ed effettività della tutela: l’evoluzione del rapporto tra cognizione e ottemperanza, Esi, Napoli, 2013, 1 ss. In linea generale, secondo I. Pagni, La giurisdizione tra effettività ed efficienza, in G.D. Comporti (a cura di), La giustizia amministrativa come servizio (tra effettività ed efficienza), Firenze, Firenze University Press, 2016, 85, il concetto di effettività deve valorizzare il principio chiovendiano, “in virtù del quale il processo deve dare al titolare di una situazione soggettiva tutto quello e proprio quello che il diritto sostanziale riconosce”; l’affermazione del principio è di G. Chiovenda, Della azione nascente dal contratto preliminare, in Saggi di diritto processuale civile, Milano, Giuffrè, 1930, Vol. I, 101 ss.; Id., Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, Editoriale Scientifica, 1923, ora in Principi di diritto processuale civile, Napoli, Editoriale Scientifica, 1965, 81, secondo cui "il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch'egli ha diritto di conseguire".
[33] C.E. Gallo, Servizio e funzione nella giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2020, 73 ss., nell’affermare che la giustizia amministrativa non può essere qualificata come servizio pubblico ma come funzione, ricorda che il sindacato prestato dal plesso giurisdizionale T.A.R. – Consiglio di Stato deve essere pieno e completo sull’attività dell’amministrazione: in questo senso occorre leggere l’effettività della tutela nell’ambito del processo amministrativo; in merito si rinvia altresì alle osservazioni di M.A. Sandulli, Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 ss.
[34] Sull’istituto del silenzio dell’Amministrazione si rinvia, in generale, agli studi classici di F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, Giuffrè, 1971, 1 ss.; S. Cassese, Inerzia e silenzio della pubblica amministrazione, in Foro amm., 1963, 30 ss.; nonché, più di recente, a V. Parisio, Il silenzio della pubblica amministrazione tra prospettive attizie e fattuali, alla luce delle novità introdotte dalla L. 11 febbraio 2005 n. 15 e dalla legge 14 maggio 2005 n. 80, in Foro amm. TAR, 2006, 2798 ss.
[35] Sulle caratteristiche del rito in questione si può rinviare ad A. Scognamiglio, Rito speciale per l’accertamento del silenzio e possibili contenuti della sentenza di condanna, in Dir. proc. amm., 2017, 450 ss.
[36] S. Caggegi, L’esecuzione della pronuncia silenziosa, in www.giustiziainsieme.it, 2020, evidenzia la particolarità della nomina del commissario ad acta nel rito avverso il silenzio-inadempimento dell’Amministrazione: in questo caso si potrebbe parlare di “un’ottemperanza “anomala” o “speciale”, dove la specialità risiede nella circostanza per la quale si prescinde dal passaggio in giudicato della sentenza”.
[37] M. Ramajoli, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, in Dir. proc. amm., 2014, 709 ss., evidenzia, correttamente, come l'effetto conformativo della sentenza avverso il silenzio è pressoché nullo, limitandosi alla mera necessità di provvedere; l'attività richiesta al commissario risulta invece di tipo sostitutivo pieno, in un ambito di piena discrezionalità, non collegata alla decisione giudiziale se non per quanto attiene all'accertamento dell'obbligo di provvedere; della stessa opinione, anche se riferita alla disciplina antecedente al codice, è A. Travi, Giudizio sul silenzio e nuovo processo amministrativo, in Foro it., 2002, III, 233 ss.; nonché v. ancora E. Cannada Bartoli, Ricorso avverso il silenzio-rifiuto e mutamento della domanda, in Foro amm., 1993, 310 ss.; in tema si rinvia anche alle osservazioni di E. Sticchi Damiani, Il giudice del silenzio come giudice del provvedimento virtuale, in Dir. proc. amm., 2010, 1 ss.
[38] E. Picozza, Il processo amministrativo, Milano, Giuffrè, 2009, 1 ss., osserva, con riferimento al rito avverso il silenzio, che, qualora l’Amministrazione non provveda il giudizio di cognizione si estende “con una fase (non un giudizio autonomo) di esecuzione”; v. altresì F.G. Scoca,Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce del suo nuovo trattamento processuale, in Dir. proc. amm., 2002, 239 ss.; nonché, in generale, G.B. Garrone, Silenzio della pubblica amministrazione (ricorso giurisdizionale amministrativo), in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1999, Vol. XIV, 191 ss.
[39] Sotto questo profilo ci si limita a rinviare a S. Caggegi, L’esecuzione della pronuncia silenziosa, cit.
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